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Occhio all’Olanda

Ne sentiremo parlare. E’ un momento politico da studiare, seguire, analizzare. Ci siamo presi questo impegno, del resto. Intanto ne scrive Mario Pianta:

Nessuno in Italia ha mai sentito nominare Emile Roemer. È oggi il politico più popolare d’Olanda, capo del Partito socialista (di sinistra) che secondo i sondaggi potrebbe diventare il primo partito del paese nelle elezioni del 12 settembre prossimo. Secondo i sondaggi di Maurice de Hond, i socialisti potrebbero passare da 15 a 34 seggi, i liberali del primo ministro Mark Rutte scenderebbero a 32, la destra sarebbe in calo. Per governare, serve una maggioranza di 76 seggi; i socialisti potrebbero allearsi con il più moderato partito laburista e con la GreenLeft; i liberali hanno un alleato storico nei democristiani, ma tutti questi partiti sono a terra nei sondaggi. Una parte importante dell’elettorato laburista e verde è deciso a scegliere i socialisti, ma i sondaggi suggeriscono che potrebbero raccogliere voti anche a destra. Il perché di questo possibile successo? La politica anti-austerità proposta dai socialisti, con una ferma opposizione ai 13 miliardi di euro di tagli al bilancio imposti dal governo per portare il deficit sotto il 3% del Pil, come chiesto dal “Fiscal compact” deciso dall’Unione europea.

Al ritorno dalle vacanze potremmo avere una nuova lezione sul valore della democrazia e sulla forza elettorale che può avere un’alternativa alla crisi e alle politiche neoliberiste. Non verrebbe più, come nel giugno scorso, dal paese più in difficoltà d’Europa, la Grecia, dove la sinistra radicale di Syriza, guidata dal giovane Alexis Tsipras, è arrivata a un passo dalla maggioranza. Questa volta verrebbe da uno dei pilastri dell’ortodossia neoliberista, l’Olanda, il più fedele alleato di Berlino, il paese che per primo era andato alle elezioni dopo lo scoppio della crisi e – incredibilmente – aveva scelto la destra, il liberismo di Mark Rutte e l’alleanza con la destra xenofoba e populista, il Partito della libertà di Geert Wilders, proprio quando il crollo della finanza e la recessione del 2009 mostravano a tutti i disastri del liberismo. Oggi in Olanda tutto sembra cambiare. Il voto a sinistra, il possibile consolidamento di un blocco sociale post-liberista vengono dalla semplice necessità di difendere i propri interessi. Ben diverso dalla spinta al cambiamento esplosa ad Atene, nata dalla disperazione per la tragedia greca. A rompere con il passato sarebbero i cittadini di un paese appena scalfito dalla crisi, con un basso debito pubblico (ma con un altissimo debito privato), che ha lungamente praticato politiche liberiste di ogni tipo (mercato del lavoro flessibile, part time diffusissimo, finanziarizzazione dell’economia), ma che continua ad affidarsi al welfare state.

Diritto alla solidarietà

In tutti i campi. Ne parlavamo ieri e leggere il pezzo di Eugenio Occorsio ce lo conferma:

ROMA — «La parola d’ordine è solidarietà. Bisogna dare ai Paesi più indebitati, Italia, Spagna, Grecia, la possibilità di rinegoziare, allungare, rimodulare, i debiti. Ovviamente senza interrompere il corso delle riforme, ma senza forzature. Non c’è altra strada. Altro che fiscal compact. Con il rigore non si va avanti». James Galbraith, 60 anni, docente all’Università del Texas, ha un ruolo di primo piano fra gli economisti liberal americani così come lo aveva il padre, John Kenneth Galbraith, esegeta della crisi del ’29, organizzatore del piano Marshall, consigliere di Kennedy.
Anche Galbraith junior conosce l’Europa e ne interpreta i machiavellismi con arguzia: «Non sarei rassicurato dalle affermazioni di Draghi. Quando un banchiere centrale sente il bisogno di fare annunci così decisi, lo fa perché la situazione è drammatica».
Perché si è arrivati fin qui?
«Per incapacità o cattiva volontà, temo tutte e due. La chiave è in Germania. Ci sono forti gruppi interni, politici e finanziari, che l’euro l’hanno maldigerito e non perdono occasione per ostacolarlo. E poi ce ne sono altri, è il vero guaio, molto potenti, ai quali va benissimo una situazione di incertezza come questa. Pensate agli esportatori tedeschi. O alle banche: quando gli capiterà un altro periodo di tassi così bassi e nel contempo così alti in Paesi “fratelli”, con le possibilità di arricchirsi che ciò comporta? C’è pure, sotteso a tutto questo, un malinteso orgoglio tedesco per essere arrivati al vertice, aver riassorbito la Ddr, aver conquistato la leadership. Senza troppa voglia di dividerne i frutti».

I tecnici e i puttanieri

Una volta c’era Silvio (e c’è ancora). Lo spread volava alto. Berlusconi era (e lo è ancora) la sintesi dell’Italia che inizia sulle stragi del ’92 e della politica a uso e consumo personale. E tra l’altro era un gran puttaniere. Eppure difendeva le famiglie. Preferibilmente quelle che rientravano nello schema dei suoi grandi elettori. Però Silvio andava rimosso mica per una gestione politica antitetica e lobbystica, no, andava rimosso per lo spread. Dicevano. Ci avevano fatto anche un prima pagina chiara, sul punto:


Fate presto. Diceva.

E poi ci hanno detto dei tecnici. Che conoscevano i mercati. Che ci avrebbero salvato. Si sono messi tutti in fila a sostenerli. Tutti tranne qualcuno. Pd, Pdl, Udc insieme. L’importante era che Silvio non fosse più Silvio (e intanto lo è ancora).

Oggi dicono che non governeranno insieme. Anzi, che non è pensabile che il PD si allei con l’UDC (bravo Pippo, a proposito, e grazie alle voci di Albinea). Anche se oggi il PD, in fondo, al governo è proprio con l’UDC, e anche il PDL (e Silvio c’è ancora). Un’alchimia di sigle e partitismi.

Ma non è importante pensare alle sigle, ci dicono, è tutto sotto il grande ombrello della “responsabilità”. Va bene.

E oggi lo spread è a 520.

Ma i titoloni non ci sono più. Perché il viceministro Ciaccia dice che sono i mercati che non ci capiscono. Che è colpa loro. Come l’altra volta ma finalmente senza Berlusconi (che c’è ancora) e di stare tranquilli. Capito?

Se l’economista si vergogna

Di avere lavorato per il Fondo Monetario Internazionale. E nella sua lettera di dimissioni scrive:

Dopo vent’anni di servizio, mi vergogno di aver avuto qualsiasi rapporto con il Fondo. Questo non solo per l’incompetenza che è stata parzialmente raccontata dal rapporto dell’OIA sulla crisi globale e dal rapporto del TSR sul monitoraggio prima della crisi dell’euro. Ancora di più, mi vergogno perché le difficoltà sostanziali in queste crisi, come in altre, sono state individuate ben in anticipo, ma qui sono state nascoste.

Siamo ancora sicuri che le proteste in Spagna, le critiche al sistema finanziario europeo e le analisi del fallimento del sistema liberista siano solo i vaneggiamenti di pochi? Perché quando la Spagna varcherà i confini forse ci sentiremo così patetici ad avere perso il tempo nel discutere di (o con) Casini e altre bazzecole senza marcare il punto sull’economia e sul lavoro. Forse.

Il paradiso ai piedi delle donne

Il libro è di Francesca Caferri. E vale la pena leggerlo per capire che forse tutto quello che crediamo vero non lo è.

«Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti e le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento.

Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del Ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano il piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi.

Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare.

Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne.

Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadja e Aisha, le amatissime moglie del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità.

Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di “Femmes du Maroc”, il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco. 

Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a fianco con Nawal al-Sa’dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo: per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento. 

È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti.

Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: “E la sua risposta fu: ‘Tua madre è viva?’. ‘Sì’ disse il giovane. ‘E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.’”. La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa».

Qui un’intervista all’autrice.

Italia – Germania

Cesare Alemanni su una partita e, più in generale su un Paese che ha perso la fantasia (uno di quei pezzi che leggi e pensi che ha la forma di quello che pensavi e non avevi ancora scritto):

Paginate e paginate d’inchiostro per riempire confronti così dozzinali e primitivi che paiono usciti da un volantino del Ventennio (se non fosse che all’epoca, si era “in buoni rapporti” diciamo) e che denotano una percezione piuttosto provinciale e sommaria, mettiamola così,  non solo del processo d’integrazione europea che è già abbastanza in crisi senza campanilismi di ritorno ma anche e soprattutto della sostanza dell’evento che, davvero, non ha nulla a che fare con una battaglia campale tra il modello della grande industria e della piccola media impresa o tra gli italici vizi e le teutoniche virtù. È una partita di calcio giocata da un campione ristretto, in tacchetti e pantaloncini, di individui delle due nazioni. Niente di più e, ovviamente, niente di meno. E direi che in ogni caso è già abbastanza per godersela così senza andare alla ricerca di altri generi di rivincita e riscatto.

Estendere oltre la narrazione, sconfinando nel campo della Crisi politico/economica europea o in quello di ataviche divergenze culturali, è una tentazione che torna comoda per riempire i giornali ma credo sia un gesto molto pigro e soltanto generatore di confusione, esattamente il tipo di gesto per cui, qua e là per il mondo, ci guardano con un angolo del labbro leggermente alzato. Anche perché, volendo essere meno pigri, restando nel campo dell’attualità sportiva, le trame narrative non mancano di certo. A partire dai precedenti storici fino ad arrivare al presente che offre una delle selezioni azzurre meno tradizionaliste di sempre e una delle nazionali tedesche più estrose degli ultimi trent’anni.

Del resto però, la mancanza di fantasia, è uno dei grandi problemi del dibattito (sportivo e non solo) nostrano e così ogni volta che noi e i tedeschi ci si incontra su un prato verde si tirano fuori dal congelatore i vecchi stilemi su Birkenstock e mandolini. Una pratica a cui, va detto, non si sottraggono nemmeno i tabloid della controparte. Ma, appunto, ho detto tabloid.

Se la sinistra riparte da Atene

Gad Lerner su Repubblica, oggi, per una sfida che SEL non può perdere:

CO­STRET­TA a for­ni­re il suo ap­pog­gio de­ter­mi­nan­te a un go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le”, cioè au­spi­ca­to dai ver­ti­ci del­l’e­co­no­mia mon­dia­le, la si­ni­stra ri­for­mi­sta in Gre­cia ap­pa­re or­mai pros­si­ma al­la can­cel­la­zio­ne.
Eco­sì, di fron­te al­la tec­ni­ca fi­nan­zia­ria che fa­go­ci­ta la si­ni­stra “re­spon­sa­bi­le”, a noi vie­ne da chie­der­ci: po­treb­be suc­ce­de­re an­che in Ita­lia? Trop­pi in­te­res­sa­ti so­spi­ri di sol­lie­vo han­no of­fu­sca­to l’e­si­to del vo­to gre­co. Sup­pon­go ne ab­bia ti­ra­to uno in­con­fes­sa­bi­le pu­re Ale­xis Tsi­pras, il lea­der del­la si­ni­stra ra­di­ca­le Sy­ri­za che ha qua­si rad­dop­pia­to i suoi vo­ti re­stan­do pe­rò al­l’op­po­si­zio­ne, co­me le è più con­ge­nia­le. Me­glio per Tsi­pras che go­ver­ni una coa­li­zio­ne gui­da­ta dal­la de­stra che pri­ma truc­cò i con­ti pub­bli­ci e poi ha as­se­con­da­to le ri­cet­te di­sa­stro­se im­po­ste dal­l’e­ste­ro a una po­po­la­zio­ne che in mag­gio­ran­za (con­tan­do gli aste­nu­ti) le ri­fiu­ta. Una po­la­riz­za­zio­ne che ha ri­dot­to al­l’ir­ri­le­van­za il Pa­sok, cioè il par­ti­to del so­cia­li­smo eu­ro­peo. Li­qui­dan­do co­me vel­lei­ta­ria l’a­spi­ra­zio­ne a una ri­for­ma de­mo­cra­ti­ca del­l’ar­chi­tet­tu­ra del­l’U­nio­ne, fon­da­ta sul­la sal­va­guar­dia dei di­rit­ti e de­gli in­te­res­si dei ce­ti po­po­la­ri.
Il dub­bio si è af­fac­cia­to ie­ri sul­la pri­ma pa­gi­na del­l’U­ni­tà: “Gioi­re per­ché vin­ce la de­stra?”. Ma for­se è trop­po tar­di: i cit­ta­di­ni ate­nie­si che fan­no la fi­la al­le men­se dei po­ve­ri e de­vo­no ri­nun­cia­re al­l’ac­qui­sto di far­ma­ci per i lo­ro fi­gli, non han­no ri­ce­vu­to nei me­si scor­si nes­su­na vi­si­ta di Hol­lan­de, Ga­briel, Ber­sa­ni, Pé­rez Ru­bal­ca­ba. So­spin­ti da un ec­ces­so di pru­den­za, i lea­der del­la si­ni­stra eu­ro­pea han­no pre­fe­ri­to la la­ti­tan­za, evi­tan­do di por­re la que­stio­ne gre­ca fra le prio­ri­tà di una po­li­ti­ca ri­for­mi­sta uni­ta­ria. Qua­si che la ban­ca­rot­ta di cui i gre­ci so­no vit­ti­me, ma, cer­to, an­che cor­re­spon­sa­bi­li, fos­se una di­sgra­zia pe­ri­fe­ri­ca da igno­ra­re in as­sen­za di so­lu­zio­ni rea­li­sti­che; e dun­que non ri­ma­nes­se che tra­smet­te­re la più mio­pe del­le ras­si­cu­ra­zio­ni: noi non cor­ria­mo il ri­schio di fi­ni­re co­me lo­ro. Ve­ro è che Ber­sa­ni ha di­chia­ra­to di ver­go­gnar­si per co­me l’Eu­ro­pa trat­ta la Gre­cia; ma quel sen­ti­men­to non si è an­co­ra tra­dot­to in mo­bi­li­ta­zio­ne po­li­ti­ca.
Non va di­men­ti­ca­to che pri­ma di ca­pi­to­la­re di fron­te al dik­tat emer­gen­zia­le del go­ver­no tec­ni­co di Pa­pa­de­mos, nel no­vem­bre 2011 il pre­mier so­cia­li­sta Geor­ge Pa­pan­dreou ave­va com­piu­to un estre­mo ten­ta­ti­vo: la con­vo­ca­zio­ne di un re­fe­ren­dum che suf­fra­gas­se at­tra­ver­so il re­spon­so del­la so­vra­ni­tà po­po­la­re la scel­ta di re­sta­re nel­l’eu­ro­zo­na, di­spo­sti a pa­gar­ne il prez­zo do­lo­ro­so. Quel­la pro­ce­du­ra de­mo­cra­ti­ca, che ave­va buo­ne chan­ces di ri­scuo­te­re il con­sen­so del­la cit­ta­di­nan­za, fu bloc­ca­ta nel vol­ge­re di po­che ore dal­la rea­zio­ne in­di­spet­ti­ta del­l’e­sta­blish­ment fi­nan­zia­rio e dei più au­to­re­vo­li sta­ti­sti eu­ro­pei. Con­fer­man­do la più spia­ce­vo­le del­le im­pres­sio­ni: l’in­com­pa­ti­bi­li­tà fra le re­go­le do­mi­nan­ti del­l’e­co­no­mia e le re­go­le, ad es­sa sot­to­mes­se, del­la de­mo­cra­zia. I teo­ri­ci del­l’e­stre­ma si­ni­stra (ma an­che del­la de­stra po­pu­li­sta) eb­be­ro co­sì mo­do di de­nun­cia­re che, sia pu­re con il gio­go del de­bi­to al po­sto de­gli eser­ci­ti, stia­mo vi­ven­do una nuo­va epo­ca co­lo­nia­le. Cioè che ab­bia­mo già su­bi­to la li­qui­da­zio­ne an­ti­ci­pa­ta del­l’u­nio­ne po­li­ti­ca con­fe­de­ra­le dei po­po­li eu­ro­pei. Quel ve­to, im­po­sto nel­la più to­ta­le la­ti­tan­za del­la si­ni­stra ri­for­mi­sta eu­ro­pea, se­gnò l’i­ni­zio del­la fi­ne del Pa­sok e spia­nò la stra­da al suc­ces­so di Sy­ri­za: una coa­li­zio­ne di for­ze del­la si­ni­stra ra­di­ca­le fa­vo­re­vo­le a in­fran­ge­re le nor­ma­ti­ve co­mu­ni­ta­rie; le cui com­po­nen­ti nei pros­si­mi gior­ni si scio­glie­ran­no per da­re vi­ta a un ine­di­to par­ti­to-mo­vi­men­to sot­to l’a­bi­le gui­da di Ale­xis Tsi­pras.
In ap­pa­ren­za un ta­le sce­na­rio ri­sul­ta dif­fi­cil­men­te re­pli­ca­bi­le in Ita­lia. Qui il di­sfa­ci­men­to del­la de­stra ber­lu­sco­nia­na e le­ghi­sta sem­bra fa­vo­ri­re una su­pre­ma­zia elet­to­ra­le del Par­ti­to De­mo­cra­ti­co e, al­la sua si­ni­stra, Ni­chi Ven­do­la non pa­re in­ten­zio­na­to per il mo­men­to a rom­pe­re l’u­ni­tà del cen­tro­si­ni­stra. Ta­le qua­dro pe­rò è re­so as­sai sdruc­cio­le­vo­le dal­l’ex­ploit del Mo­vi­men­to 5 Stel­le e dal­le ten­ta­zio­ni po­pu­li­ste no eu­ro che al­li­gna­no tra­sver­sa­li, ali­men­ta­te dal­la cri­si. Se in Gre­cia è An­to­nis Sa­ma­ràs di Nea De­mo­kra­tia a pren­de­re da de­stra le re­di­ni del go­ver­no con il Pa­sok e Si­ni­stra De­mo­cra­ti­ca in po­si­zio­ne su­bal­ter­na, il pro­ba­bi­le ter­re­mo­to elet­to­ra­le ita­lia­no po­treb­be de­ter­mi­na­re ri­sul­ta­ti ta­li da co­strin­ge­re an­che il no­stro Pae­se a ri­pro­por­re un al­tro go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le” co­me scel­ta ob­bli­ga­ta. “Au­spi­ca­ta” dal­l’al­to. Co­me te­sti­mo­nia an­che la ri­for­ma del mer­ca­to del la­vo­ro che la si­ni­stra par­la­men­ta­re si ac­cin­ge a vo­ta­re con­tro­vo­glia — qua­si fos­se im­pos­si­bi­le pro­muo­ve­re un nuo­vo eu­ro­pei­smo d’im­pron­ta so­cia­le — i ri­for­mi­sti co­stret­ti a muo­ver­si sot­to det­ta­tu­ra tec­ni­ca non rie­sco­no da tem­po a rom­pe­re uno sche­ma che li pe­na­liz­za. Ma la po­li­ti­ca ob­bli­ga­ta a de­ro­ga­re dal­le pro­prie am­bi­zio­ni, sa­cri­fi­can­do i va­lo­ri in cui cre­de e i le­ga­mi so­cia­li che la vi­vi­fi­ca­no, fi­ni­sce per sof­fo­ca­re. L’e­sem­pio del so­cia­li­smo gre­co in­ca­pa­ce di rea­gi­re al­la sof­fe­ren­za del suo po­po­lo è lì a di­mo­strar­ce­lo. Co­sì, nel me­dio pe­rio­do, an­che nel no­stro Pae­se si ri­pro­por­reb­be­ro le spac­ca­tu­re in­ter­ne del­la si­ni­stra, a sca­pi­to del­le for­ze ri­for­mi­ste.
I lea­der del­la si­ni­stra te­de­sca, fran­ce­se, spa­gno­la e ita­lia­na che han­no di­ser­ta­to di fron­te al­la tra­ge­dia gre­ca, in­con­tra­no ogni gior­no nuo­vi osta­co­li sul­la via di una po­li­ti­ca dav­ve­ro eu­ro­pei­sta. Lo te­sti­mo­nia il re­cen­te con­gres­so del­la Spd che ha de­ci­so di pro­ce­de­re su­bi­to, d’in­te­sa con la Mer­kel, al­la ra­ti­fi­ca del Fi­scal Com­pact nel Par­la­men­to di Ber­li­no: un trat­ta­to che co­sì com’è esclu­de pos­si­bi­li­tà di de­ro­ghe per i Pae­si in­de­bi­ta­ti; né più né me­no “stu­pi­do” co­me già lo fu­ro­no i pa­ra­me­tri di Maa­stri­cht vio­la­ti tran­quil­la­men­te dai più for­ti ma im­po­sti ai de­bo­li in no­me di una con­ve­nien­za spac­cia­ta per vir­tù. Del re­sto, per pau­ra di per­de­re con­sen­si, i so­cial­de­mo­cra­ti­ci te­de­schi con­fer­ma­no an­co­ra og­gi il lo­ro ri­fiu­to de­gli eu­ro­bond. Co­me in tem­po di guer­ra, gli in­te­res­si pa­triot­ti­ci l’han­no vin­ta sul­l’in­ter­na­zio­na­li­smo pro­le­ta­rio.
Chi di fron­te al­l’in­co­gni­ta di un’e­co­no­mia al col­las­so vuo­le ali­men­ta­re di nuo­va lin­fa gli idea­li del­l’u­ni­tà eu­ro­pea e del­la giu­sti­zia so­cia­le, non può igno­ra­re più a lun­go l’a­go­nia del­la Gre­cia. O la si­ni­stra ri­co­min­cia da Ate­ne ca­pi­ta­le, o ri­schia di per­der­si.

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Cosa non deve fare il centrosinistra (subito) per vincere le elezioni

Da un editoriale di Lorenzo Zamponi e Claudio Riccio:

Meglio stare fermi e aspettare che passi la nottata, tanto la destra è allo sfascio e il centrosinistra non può perdere.

Non ci stupisce il cinismo di questo ragionamento, che passa con leggerezza sopra le vite dei tanti italiani che subiscono gli effetti concreti delle manovre di Monti, a quello siamo abituati. Ci stupisce la sua incredibile miopia.
Si tratta della stessa miopia che caratterizzò i mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008, quando Walter Veltroni e i suoi accoliti credettero che fosse possibile, picconando a destra la già precaria e impopolare architettura del governo Prodi, riconquistare un consenso e andare al governo. Ciò che Veltroni non vedeva allora e che oggi sembrano non vedere i vari Bersani, Di Pietro e Vendola, è che non si può vincere a sinistra su un terreno di destra. Che l’autonomia del politico è un mito, che non esiste un momento elettorale asettico e isolato dal contesto in cui si situa, che, soprattutto a sinistra, esiste un nesso inscindibile tra potere politico e rapporti di forza sociali.

E non si vede davvero come il dibattito politico di questi mesi possa preparare uno sbocco elettorale in qualche maniera progressista. Il governo Monti, assolutamente privo di opposizione, in parlamento come nella società, sta mettendo in pratica una politica apertamente conservatrice, e nei dirigenti della sinistra si fa strada l’idea che, tutto sommato, non sia così male: il governo tecnico si fa carico delle “riforme impopolari che l’Europa ci chiede”, e così, tra un anno, un nuovo governo può andare da Angela Merkel, mettere sul piatto i sacrifici fatti dal popolo italiano, e pretendere in cambio margini di manovra un po’ più ampi.

Ma si tratta di puro wishful thinking, privo di qualsiasi razionalità. Perché mai le élite economiche che in 6 mesi di governo Monti hanno già portato a casa gran parte di ciò che Berlusconi aveva promesso loro 20 anni fa, cioè riforma delle pensioni, parziale liberalizzazione dei licenziamenti, facilitazioni e incentivi all’utilizzo di contratti precari, apertura alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, riduzione del pubblico impiego, ennesimo blocco del turn over all’università ecc., dovrebbero poi accontentarsi, e non trovare un nuovo campione a cui affidare le sorti del paese, a meno che chiaramente il presunto “centrosinistra” non sia disposto ad adottare l’agenda Monti? E perché mai Bce, Fmi e governo tedesco dovrebbero concedere a Bersani ciò che non hanno voluto concedere a Berlusconi e che oggi, vedi vertice europeo della settimana scorsa, non concedono neanche al fidato Monti? Ma, soprattutto: perché mai i cittadini italiani dovrebbero votare per chi promette di fare domani il contrario di ciò che vota in parlamento oggi, che è a sua volta il contrario di ciò che prometteva ieri? Quale sarebbe la proposta politica di un eventuale centrosinistra agli italiani? Sarebbe il portato delle mobilitazioni anti-austerity degli ultimi 4 anni, con la difesa dell’università pubblica, l’acqua come bene comune, la battaglia contro la precarietà e contro il modello Marchionne, oppure sarebbe l’agenda di Monti?

Perché (come si chiedeva ieri Alberto Burgio su Il Manifesto):

Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi? 
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt’al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l’oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento. 

Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l’ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent’anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l’attuale situazione? 

In particolare la sinistra – in tutte le sue diramazioni – di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all’origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent’anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali. 

E su questa partita si devono sciogliere i nodi con (pezzi) del Partito Democratico. Che ci piaccia o no. E che si possa dire o no per il quieto vivere che ci si consiglia tra i corridoi.

 

L’insolvenza mascherata della Grecia

Lo chiamano salvataggio, ma l’insolvenza mascherata proposta ai privati attraverso la rinuncia al 70 per cento del valore di crediti e interessi e l’intervento del fondo salva stati, porterà la Grecia, nella migliore delle ipotesi, ad avere un rapporto debito/pil al 120 per cento nel 2020. Nella peggiore delle ipotesi al 160 per cento. Per giustificare il commissariamento di un paese da parte della Troika ci vorrebbe un vero salvataggio.
Dall’emergenza freddo dei giorni scorsi dobbiamo imparare che occorre avere previsioni meteo più precise e che bisogna diversificare le fonti di energia, oggi troppo concentrate sul gas, incentivando le rinnovabili.
Monti si dice invidioso della riforma del lavoro spagnola. Ma possiamo fare meglio della Spagna aggredendo davvero il dualismo del mercato del lavoro: nuovi spunti dal confronto in corso sul sito Nada es gratis. Non va bene ridurre i costi dei licenziamenti durante una recessione.
Con i bassi prezzi di borsa, alcuni gruppi di controllo -come la famiglia Benetton- lanciano Opa per il delisting, cioè per togliere la società dal mercato. A loro conviene. Per gli azionisti di minoranza, invece, prima di aderire è bene valutare le prospettive dell’impresa e ricordare le scottature prese in passato. Nei mercati finanziari la speculazione si batte con una maggiore informazione, non con la Tobin tax, com’era nelle intenzioni del suo ideatore. La tassa sulle transazioni di titoli, infatti, non attenua la pressione speculativa, aumenta la volatilità e, se applicata soltanto in alcuni mercati, li penalizza pesantemente.
L’analisi e i commenti sul sito la voce.info. E ne vale la pena.

Un incendio chiamato Europa

La prima questione è quella democratica. Chi comanda in Europa?  La seconda questione riguarda l’efficacia delle scelte fin qui adottate. La terza questione riguarda l’atteggiamento delle forze politiche e dell’opinione pubblica di casa nostra. Su queste tre questioni si gioca la foto di Vasto e soprattutto il copione dei prossimi anni. E anche se le risposte sono complesse e cariche di responsabilità le domande sono chiare e esigibili. Perché come scrive Gennaro Migliore tranne alcuni esempi, in pochi si sono posti il problema di solidarizzare con i greci e criticare le scelte della Troika (Bce, Commissione e Fmi). Quasi nessuno, poi, ha collegato quelle scelte a ciò che sta già accadendo in Italia ed in altri paesi in crisi. Di questa laconicità, di questa insopportabile afasia italiana, soffre l’intero campo delle forze democratiche europee, che a partire da alcune forze legate al Pse e ai Verdi europei (Hollande in Francia, la Spd e i Grunen in Germania), aprono un fronte di contestazione e, soprattutto, una concreta prospettiva di cambiamento. Lo voglio dire in particolare al Pd ma ancor con più forza all’Idv, vista la sua posizione di opposizione parlamentare: non si faccia l’errore di considerare la Grecia lontana, di votare il pareggio di bilancio in Costituzione e poi immaginare che a casa nostra quelle immagini di disperazione non si vedranno. Oggi, l’alternativa in Italia ed in Europa si potrà costruire solo con un’operazione di verità, togliendo il velo del nuovo stile alle vecchie e tragiche politiche di austerità liberiste. Il modo in cui ci affacciamo alla Grecia è il filo rosso che decide con chi stare chi e cosa fare cosa.