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Una sicurezza: è un fallimento

Il ministro dell’interno (volutamente minuscolo) Salvini sta preparando il suo tour estivo sulle spiagge italiane per raccogliere un po’ di voti tra un aperitivo e un po’ di musica dance e mentre finge di scannarsi con i suoi alleati di governo usa il suo unico argomento per tenere caldi i suoi elettori. Sicurezza è la parola magica con cui alimenta il fiele e concima un po’ di odio in giro. Ma forse sarebbe il caso di vedere i numeri di questi suoi famosi decreti sicurezza, i numeri non mentono, i numeri non sono opinioni e stanno lì fermi senza subire condizionamenti.

Come abbiamo scritto più volte il primo decreto sicurezza ha prodotto semplicemente con una firma circa 18.000 irregolari in più. Gente che era sul territorio italiano e che di colpo ha scoperto di non poter accedere alla protezione umanitaria. Il decreto sicurezza, insomma, ha prodotto clandestini. Forte, vero? E anche se volessimo credere che l’iniziativa del governo sia volta a ripulire l’Italia (perché è questo il termine che usano i tifosi del Capitano) allora vale la pena sapere che a giugno del 2019 c’erano in Italia 71.000 stranieri irregolari in più rispetto a giugno del 2018. Sembra incredibile, vero?

Fermi, non è tutto. I numeri sono dovuti al fatto che con 78.000 dinieghi di protezione internazionale il prode Salvini è riuscito a rimpatriare solo 6.953 rimpatri. Vi ricordate quando in campagna elettorale si diceva che i numeri di Salvini sui rimpatri promessi fossero tutte balle? Ecco la prova provata. Ovviamente sulla pelle delle persone. E se qualcuno può pensare che Salvini abbia comunque fatto meglio del governo precedente ditegli tranquillamente di no: il governo Conte sta rimpatriando il 7% in meno rispetto al governo precedente, quello dei comunisti amici delle ONG. Applausi a scena aperta.

I dinieghi di protezione sono passati da meno del 60% nel 2017 a oltre l’80% oggi. Ma ovviamente le persone continuano a rimanere qui. Si producono irregolari che non possono regolarizzarsi e che non vengono rimandati nel proprio Paese: è la formula perfetta per creare ancora più insicurezza e continuare a usarla per scopi elettorali.

A proposito: a questo ritmo per rimpatriare tutti (62.000 persone) ci vorrebbero circa 97 anni. Che poi, se ci pensate, è poco più della rateizzazione concessa alla Lega per restituire i 49 milioni che ha fatto sparire.

Buona sicurezza a tutti. E buon martedì.

L’articolo Una sicurezza: è un fallimento proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/08/06/una-sicurezza-e-un-fallimento/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Così Macerata ha smentito i maestrini


30.000 (ma anche se fossero solo 10.000) persone hanno deciso di disubbidire ai maestrini e di smentire i tanti che presagivano “poche decine di persone” sperando di coprire la propria vigliacca timidezza con il fallimento del parteggiare altrui. Macerata oggi è l’argine civile al ritorno del passato peggiore.
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Expo: la Russia non paga i lavori del padiglione e l’azienda di Treviso fallisce

(ne scrive Andrea De Polo per La Stampa qui)

A mezzogiorno del Primo maggio 2015 Alessandro Cesca, titolare della Sech Costruzioni Metalliche spa di Refrontolo (Treviso), abbraccia uno per uno tutti i suoi operai: hanno finito a tempo di record il loro cantiere al padiglione della Russia, quando nessuno ci avrebbe scommesso un euro. Il 17 ottobre, invece, è da solo quando legge la sentenza del Tribunale di Treviso che accoglie l’istanza dei fornitori e decreta il fallimento dell’azienda, dopo una storia di oltre quarant’anni.

Dal momento più alto a quello più basso della sua vita di imprenditore sono passati 535 giorni. Un anno e mezzo scarso in cui ha lottato contro i mulini a vento, perché quei lavori all’Expo la Russia non li ha mai pagati. Un credito di oltre 400 mila euro mai riscosso perché il committente, tale Rvs Holding Srl, appaltatore di RT-Expo Srl (le due società che gestivano la partecipazione della Russia all’Expo milanese), aveva sollevato una serie di “non conformità” al termine del cantiere. Nonostante il Ctu del Tribunale di Milano non avesse riscontrato alcun problema. Quei 400 mila euro non incassati si sono fatti sentire, eccome, perché hanno aperto la crisi di liquidità che ha portato al crac della Sech Costruzioni. «Nessuno ci ha aiutati, e si è innescata la catena che sta portando alla distruzione di tutto il nostro sistema di imprese: i clienti non mi pagano, io non riesco a pagare i fornitori» ha spiegato Cesca «può capitare a tutti, è la fine del Nordest».

La Sech Costruzioni era in buona (si fa per dire) compagnia. Altre otto imprese italiane vantavano crediti dalla Federazione Russa per i lavori eseguiti al padiglione dell’Expo: Catena Services, Coiver Contract, Ges. Co. Mont, Idealstile, Elios Ambiente, Mia Infissi, Vivai Mandelli, Sforazzini. Qualcuno si è accontentato di portare a casa il 20 o 30 per cento dell’importo, altri – tra cui la Sech – hanno scelto di adire le vie legali, denunciando i russi al Tribunale di Milano. Beffa nella beffa: la prima sentenza sulla vicenda è in arrivo a dicembre. Quando il capannone della Sech, una quarantina di operai al massimo dello splendore, sarà già stato svuotato anche della polvere.

«Ci siamo ritrovati a lottare contro tutto e tutti» denuncia ancora il titolare «nessuno del mondo della politica si è adoperato per darci una mano, figuratevi cosa possiamo fare noi contro un gigante come la Russia. Sì, ci sarà una sentenza tra un paio di mesi, ma anche se fosse favorevole, credete che quei soldi li vedremo? Intanto io sono stato costretto a chiudere tutto, gli operai sono a casa, e domani nessuno di noi sa cosa farà». Gli fa ancora più male, oggi, riguardare le foto dei lavori completati negli anni scorsi. I tornelli dello stadio di San Siro, a Milano. Il museo del tappeto a Baku in Azerbaijan, la stazione di Porta Susa a Torino, la sede di Luxottica ad Agordo. Il padiglione russo con quello strano specchio sopra la testa: l’inizio della fine. La Sech qualche anno fa aveva comprato il capannone di un altro gigante che in zona aveva chiuso i battenti, Indesit, e aveva assunto alcuni operai rimasti a casa. Era il 2013, e l’assessore regionale veneto Elena Donazzan, giunta Zaia, aveva parlato di «imprenditori eroi». «Me lo ricordo», dice oggi Cesca, «ma da quel giorno siamo rimasti soli».

Eh sì, sta andando proprio bene Expo.

Milano – Dopo Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda, Portogallo, Turchia, Australia, Canada e Sudafrica, anche la Svizzera potrebbe rinunciare alla partecipazione, con un proprio padiglione, all’edizione dell’Expo che si terra’ a Milano l’anno prossimo. Molti di questi, hanno organizzato in passato edizioni dell’Esposizione, o sono in procinto di ospitarle (Turchia 2016). Per Expo si tratta di un’ecatombe, dopo gli scandali e gli arresti operati dalla magistratura meneghina per presunte tangenti sugli appalti.

Don Verzè, si spari

“Alla fine mi dissero: non si faccia intimorire dal cardinale Montini. Deve solo temere che la sua opera faccia fallimento”. Io dissi: “E se fallisco?” Uno dei due mi disse: “Se fallisce, un giorno prima si butti dalla finestra del quarto piano”.”
E l’altro?
“L’altro disse: “Meglio che si compri subito una pistola e prima di fallire si spari”. Santa Madre Chiesa! Sacro Dicastero!”
Non ci credo. Le hanno consigliato di suicidarsi?
“E’ la verità. Come si fa a non dire la verità?”

Don Verzè intervistato da Claudio Sabelli Fioretti qui.