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Il piano piano vaccinale di Gallera

La Lombardia è in fondo alla classifica nella vaccinazione anti Covid: è stato usato solo il 3% dei vaccini a disposizione. E l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia spiega che gli operatori sanitari sono in ferie e annuncia 10mila vaccini al giorno. Ma gli abitanti sono 10 milioni

Io un giorno, per qualche ora soltanto, vorrei affittare un angolo della testa di Gallera, sedermi in disparte in qualche angolo e ascoltare quello che ci ronza dentro, sentire quel turbinio di pensieri che spinge l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia a rilasciare interviste che sembrano elaborati copioni di un teatro dell’assurdo, frasi che abbatterebbero in un attimo la carriera politica di chiunque e invece lui, Gallera sempre in piedi, continua impunemente a sfoderare assurdità una dopo l’altra e non si muove una foglia, non viene mai messo in discussione.

Partiamo dall’inizio: arriva il virus e la Lombardia esplode. Eravamo all’inizio dell’anno scorso e Gallera ci spiega che la Lombardia ha numeri così alti perché è stata la regione “più colpita”. La giustificazione, per quanto fosse superficiale, poteva anche starci: peccato che a livello di contagiati (con il 22% dei casi nazionali) e di deceduti (ben il 33%) la Lombardia abbia continuato e continui a svettare. Insomma, l’effetto “sorpresa” ormai non regge più come scusa. Poi ci sono stati i pessimi risultati della medicina generale e delle Rsa, storie piene di dolore e di lutti che hanno attraversato tutti i quotidiani per mesi. Poi c’è stato il fallimento del tracciamento e dei tamponi, con lombardi che si sono ammalati e dopo mesi non hanno nemmeno un tampone che lo certifica. Poi ci sono i numeri disastrosi della campagna vaccinale antinfluenzale: al momento attuale siamo a 1 milione e 135mila vaccini su una popolazione di 2.302.527 persone, con una percentuale del 49,32 per cento ben lontana dall’obiettivo prefissato e addirittura inferiore a quella dello scorso anno quando venne vaccinato il 49,8 per cento della popolazione over 65. Peggio ancora per i bambini dai 2 ai 6 anni: l’obiettivo era vaccinarne il 50% e siamo al 16,72 per cento del totale, con picchi verso il basso dell’8,23 per cento nella zona di Pavia e del 9,58 per cento a Brescia.

Ora ci sono i numeri sconfortanti della campagna vaccinale anti Covid: la Lombardia svetta, come al solito, in fondo alla classifica con un vergognoso 3% sui vaccini consegnati. E qui Gallera si erge a livelli impensabili. Ci spiega che i suoi operatori sanitari sono in ferie (come se il piano ferie in Lombardia fosse diverso, chissà perché, da quello delle altre regioni), ci dice che non vuole bloccare “interi reparti per eventuali reazioni allergiche” (buttando lì a caso un po’ di allarmismo di cui non si sa niente e non si hanno evidenze), poi rantola su un’eventuale mancanza di siringhe (ma come? E le altre regioni?) e infine si supera affermando: «Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. Partiamo domani con 6000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali. I conti facciamoli tra 15 o 20 giorni».

In sostanza nella testa di Gallera il Veneto, Lazio e tutte le altre regioni che stanno facendo meglio si sarebbero messe d’accordo bisbigliando e dandosi di gomito solo per fargli fare una brutta figura. Infine, convinto di calare l’asso, ci dice che la Lombardia a pieno regime riuscirà a fare 10mila vaccinazioni al giorno. Campa cavallo: con 10 milioni di abitanti il calcolo viene semplice semplice, tenendo conto che di vaccini per ogni persona ne vengono fatti due, basterebbero 2mila giorni. In Israele, 9 milioni di abitanti, solo per fare un esempio, sono a 150mila vaccini al giorno.

Sarebbe una tragicommedia se non ci fossero di mezzo però tutti questi morti, questi contagi che ora tendono a risalire, questo futuro che appare ancora nero. Ma davvero, sul serio, lo dico anche ai leghisti che sostengono questo governo in Lombardia, cosa altro serve? Cosa, ancora?

Buon lunedì.

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La maionese è impazzita

Dai cinque parlamentari che hanno fatto richiesta del bonus di 600 euro alla guerra alla politica senza senso della misura. E l’antipolitica è una pessima notizia

Ecco qua. Ci sono cinque parlamentari senza dignità che alla faccia nostra incassano i 600 euro che sarebbero serviti a persone certamente più bisognose e ora la guerra si allarga e si assiste al solito assolutismo italiano, quello che è l’ingrediente perfetto per scivolare ancora più in basso rispetto a dove siamo.

Sia chiaro, i cinque sono imperdonabili. Imperdonabili. Ne abbiamo parlato giusto nel buongiorno di ieri.

Ma si legge in giro qua e là che “addirittura dei sindaci, assessori e consiglieri comunali” avrebbero aderito al bonus Covid, come se davvero la gente fosse talmente cretina da non sapere che un consigliere comunale o un sindaco di un piccolo paese deve lavorare (eh, sì, incredibile, lavorare) per fare politica perché non può permettersi di vivere di quella. Così si butta tutto nel calderone.

Ieri una consigliera comunale di Milano, Anita Pirovano, ha provato a spiegarlo con calma: «Mi autodenuncio. Non vivo di politica perché non voglio e non potrei. Non potrei perché ho un mutuo, faccio la spesa, mantengo mia figlia e – addirittura – ogni tanto mi piace uscire e durante le ferie andare in vacanza. In più ho studiato fino al dottorato e all’esame di stato per diventare psicologa e ricercatrice sociale, professione in cui negli ultimi tempi mi sembra spesso di essere “più utile” alla società che in consiglio comunale (attività a cui comunque dedico tutto il tempo non lavorato e la passione di cui sono capace). Infine e soprattutto pur non cedendo alle sirene antipolitiche ho capito sulla mia pelle che avere un lavoro (nel mio caso più d’uno in regime di lavoro autonomo) mi consente di essere “più libera” nell’impegno politico presente e ancora più nelle scelte sul futuro, per definizione incerto. Come tanti mi indigno – perché è surreale – se un parlamentare in carica fruisce ammortizzatori sociali e penso sia paradossale che una misura di sostegno al reddito non preveda nessuna soglia di reddito».

Niente, è una guerra continua alla politica senza senso della misura e senza cognizione. Magari il presidente dell’Inps Tridico potrebbe anche spiegarci come mai non siano stati comunicati i furbetti delle casse integrazioni inventate o del Reddito di Cittadinanza. Sia chiaro, non è benaltrismo, è che vorremmo conoscerli tutti i furbetti. Tutti. Per avere cognizione di causa.

Intanto veleggia l’antipolitica, ancora una volta. Ed è una pessima notizia. Peggiore di quei cinque cretini.

Buon martedì.

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Gli eroi sono stanchi

«Dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid, mi trovo a piangere lacrime di rabbia», ci scrive un’infermiera in una lettera-denuncia

Ricevo e pubblico la lettera di un’infermiera. C’è dentro tutto: questo tempo, quello passato e un suggerimento per il futuro.

Oggi vorrei parlarvi di quegli eroi di cui molte persone si sono riempite la bocca qualche mese fa: gli infermieri ai tempi del Covid-19.

Ho odiato il termine eroi dal primo momento in cui è stato utilizzato, perché non abbiamo fatto niente di straordinario, è il nostro lavoro. Eroico è più che altro il modo in cui l’abbiamo fatto, cioè sbattuti dai piani alti in prima linea (altro termine molto usato, ma che non amo) senza formazione e – soprattutto – senza risorse sufficienti, sia in termini di materiale che di personale. Abbiamo dovuto far fronte ad una situazione in continua evoluzione e senza l’appoggio dei superiori, avendo un coordinatore che si è eclissato misteriosamente il giorno in cui il reparto è stato adibito ai pazienti Covid.

Ma questo è il passato e speriamo che rimanga tale. Non voglio ripetere le condizioni in cui abbiamo lavorato perché ne hanno già parlato tanti altri prima di me.

Ma come stanno gli eroi oggi? Perché nessuno ne parla più, come volevasi dimostrare.

Qualcuno penserà che abbiamo tirato un sospiro di sollievo, che abbiamo ricominciato a respirare. Nì. Sicuramente siamo felici di non vedere più gente morire ogni giorno e sentirci totalmente impotenti davanti a tanto dolore e solitudine.

Ma nessuno, dall’alto, ha pensato minimamente che abbiamo bisogno di rallentare. Veniamo da un periodo di alto stress e in tutta risposta ci sono stati intensificati i turni, arrivando a 7 giorni consecutivi di lavoro, più notti consecutive, poco riposo. Ci siamo visti totalmente modificati i turni il 29 del mese per il 1° del mese dopo.

Perché per loro (quelli che io chiamo piani alti, i potenti, quelli che non hanno un contatto col paziente) non siamo persone, siamo solo numeri di matricola usati per coprire i buchi sul foglio dei turni. Non abbiamo famiglie, impegni, passioni al di fuori del lavoro. Dobbiamo essere pronti in ogni momento a rispondere alla chiamata dell’azienda. Cene con gli amici, week end al mare, visite mediche dei figli. Non esiste niente di certo per noi.

In più, nel mio reparto il lavoro si sta facendo sempre più difficile e intenso, perché il nostro coordinatore, che ha da poco ripreso a venire in reparto, è presente solo 15 ore a settimana, quindi per le restanti 153 ore passiamo buona parte del turno a dover risolvere problemi burocratici che non ci competono, sottraendo tempo necessario all’assistenza dei pazienti.

Se un collega si ammala, il responsabile che deve occuparsi di sostituirlo fa metodicamente spallucce, quindi dobbiamo telefonare a una marea di reparti facendoci dare i numeri di colleghi che sono a casa di riposo e pregarli di venire a darci il cambio. Altrimenti, si fa doppio turno. 12 ore e passa la paura.

Personalmente, dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid (causata dalla mancanza di dpi), mi trovo a piangere lacrime di rabbia. Non abbiamo sofferto abbastanza? Ho la gastrite da stress, alti livelli di glicemia, ormoni ballerini, non dormo bene e ci sono giorni in cui la stanchezza mi fa a malapena reggere in piedi. Sono esausta, incazzata, delusa.

Ho sempre amato il mio lavoro, ora vado in reparto con la nausea. Vorrei abbandonare tutto e fare altro, ma al momento non me lo posso permettere. Mi hanno fatto odiare un lavoro che ho sempre fatto con passione, responsabilità e competenza.

E tutto ciò, dalla disorganizzazione del reparto, l’aumentato carico di lavoro, fino all’esaurimento psicofisico del personale (pardon, dei numeri di matricola) va a discapito del paziente. E ciò mi fa davvero male. Perché vorrei fare sempre del mio meglio, ma in certi momenti è dura avere un sorriso per gli altri quando non ne hai più nemmeno per te. È difficile fare bene le cose quando nello stesso tempo di sempre devi farne il doppio. Sacrifici, solo sacrifici.

E questa è solo la situazione nel mio piccolo reparto. L’argomento potrebbe andare avanti parlando di contratto nazionale, di ferie non godute, stipendi bassi, mobilità bloccate, competenze non riconosciute, eccetera.

Gli eroi sono stanchi. Gli eroi non erano quelli del Covid, siamo sempre stati eroi, se lo volete sapere. Solo che ve ne siete resi conto solo poco tempo fa (e forse ve ne siete anche già dimenticati).

Siamo stanchi.

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Donare tempo: la figlia sta male e i colleghi le cedono le proprie ferie

Storie che fanno bene al cuore.

La favola di Nicole e di Michela, la sua mamma, è custodita in una casa gialla a due passi da un boschetto di ulivi e dalle mura di un castello. È un posto incantevole sulle colline di Marostica. Tra queste pareti, da quando è nata, Nicole fa i conti con un nemico invisibile che prima le ha portato via la possibilità di muoversi e ora prova a rubarle anche il respiro. Si chiama tetraparesi spastica. E per tenerlo a bada, oggi che ha 6 anni, deve circondarsi – invece che dei giocattoli che fanno compagnia ai suoi coetanei – di una serie di apparecchi, come un grosso bombolone di ossigeno e uno strumento che registra costantemente i suoi parametri vitali. Ma guai a lasciarsi ingannare dalle apparenze: questa non è una storia triste. Basta osservare il sorriso di mamma Michela quando si siede sul divano su cui è stesa la bambina e la prende in braccio – stando attenta a non aggrovigliare i tubicini che aiutano i polmoni a gonfiarsi – e la riempie di baci e di carezze e le dice «sei bellissima» e la chiama «il mio amore». Michela è felice. Di più: «Sono piena di gioia e di speranza », assicura. In fondo è quasi Natale e ha appena ricevuto un grande regalo. Pensare che a settembre le cose si erano messe davvero male: Nicole ha avuto una crisi, il nemico invisibile è stato a un passo dal portasela via per sempre. Per mamma e papà Igor sono stati giorni complicati: la corsa in ospedale a Bassano, poi a Padova, la terapia intensiva. E i primi segnali di ripresa. «La mia bambina è forte, non si arrende mai», dice orgogliosa. A ottobre, finalmente, il ritorno nella casetta gialla ma con un problema in più: la piccola ha bisogno di assistenza costante. «Di giorno – spiega Michela – si stanca facilmente. Ma è durante la notte, quando le funzioni muscolari si abbassano ulteriormente, che le complicazioni sono più frequenti. Quando capita, le apparecchiature alle quali è collegata fanno scattare un allarme e Nicole rischia di soffocare. Io e mio marito dobbiamo intervenire, aiutarla a respirare, se occorre anche con un aspiratore che introduciamo dalla gola per liberare le vie aeree».

Mentre parla indica le strumentazioni sparse intorno al divano: tutto è a portata di mano e pronto per essere usato in qualunque momento. Michela Lorenzin ha 34 anni e da quasi un decennio lavora per la Brenta Pcm, un’industria di Molvena che produce stampi per il settore automobilistico. Fino a qualche mese fa riusciva a incastrare i turni in azienda con l’impegno che comporta l’essere mamma di una bimba che soffre di una grave disabilità degenerativa. Ma ora che Nicole ha bisogno di assistenza continua, le è impossibile tornare al lavoro. La legge, in questi casi, prevede un congedo di diversi mesi che però, tra un ricovero in ospedale e l’altro, Michela ha già utilizzato quasi del tutto. Così ha chiesto ai superiori di anticipare le ferie per stare accanto alla bambina. Un mese, poco più. «Sono stati comprensivi – racconta – mi hanno sostenuta, proponendomi anche un part-time. Purtroppo ho dovuto rifiutare perché non posso allontanarmi da mia figlia, neppure per poche ore al giorno». Era un momento difficile, per questa famiglia di Marostica. Ma come tutte le favole che si rispettino è in questi momenti che arriva l’eroe pronto a sistemare le cose. «Una collega è venuta a trovarmi, mi ha detto che avrebbe voluto fare qualcosa per noi. Ci ha pensato un attimo e poi mi ha detto: “Ti regalo le mie ferie!”. Sono rimasta sorpresa, l’ho ringraziata ma non pensavo fosse possibile…».

Invece, grazie a una norma introdotta dal Jobs Act, si può fare. Grazie a quell’amica, avrebbe potuto trascorrere qualche giorno in più con la sua piccola senza perdere il posto. Ma l’operaia della Brenta Pcm si è spinta molto oltre: è tornata in fabbrica e ne ha parlato con gli altri lavoratori e anche loro hanno voluto contribuire. «A dicembre mi ha telefonato la responsabile del personale dicendomi che tanti colleghi erano disposti ad aiutarmi. Ero contenta, pensavo di poter prorogare le ferie, magari di un paio di settimane… È stata lei ad annunciarmi che, complessivamente, i dipendenti dell’azienda avevano trasferito a mio favore cinque mesi di ferie!». Un sogno. «Quella per cui lavoro è un’impresa solida, che continua ad assumere: molti dipendenti li conosco soltanto di vista. Eppure hanno saputo fare un gesto di puro altruismo, arrivando a rinunciare, per me, a un po’ del tempo che invece avrebbero potuto trascorrere con le loro famiglie». Non è finita. Commossa, Michela ha scritto una lettera a chi la stava aiutando. Poche semplici righe per dire quanto prezioso fosse stato per lei quel regalo. Il foglio è stato appeso alla bacheca dell’azienda, in modo che tutti potessero vederlo. Il giorno dopo, il telefono della casetta gialla è tornato a squillare. «Era di nuovo la responsabile del personale, per comunicarmi che le ferie a mia disposizione sono improvvisamente salite a dieci mesi». La favola di Nicole e degli operai che rinunciano alle vacanze per aiutare la sua mamma, ha colpito tutti. «All’inizio non volevo fare questa intervista – ammette Michela – perché temo che troppe attenzioni possano stressare la bambina. Ma poi ho pensato che, forse, la mia storia potrà insegnare che nel mondo ci sono ancora tante persone buone, e magari offrire uno spunto per aiutare altre famiglie che si trovano ad affrontare le nostre stesse difficoltà ». Mentre la mamma racconta, Nicole continua a godersi le coccole. Indossa un vestitino rosa a pois bianchi e a vederle così, abbracciate, tutto acquista un senso, anche i sacrifici che stanno attraversando. «Ero una donna fragile – conclude – ma mia figlia mi ha insegnato cos’è la forza. Sono la madre di una bambina meravigliosa. E adesso, anche dopo questo piccolo miracolo di Natale, non ho più paura di nulla ».

(fonte)