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GAD Lerner

Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile.»: la lettera di Gad Lerner sul naufragio del PD

(di Gad Lerner, fonte Nigrizia)

Correva l’anno Duemila, lo stesso anno in cui ho cominciato a scrivere Giufà, la rubrica per Nigrizia, quando ho sentito per la prima volta un noto leader politico italiano proporre al telegiornale: “Dobbiamo sparare sulle imbarcazioni degli scafisti, affondiamole!”. In quel momento dirigevo il Tg1 e mi toccò dargli qualche minuto di gloria, pur sapendo entrambi che la sua sparata avrebbe lasciato il tempo che trovava. Nei diciassette anni successivi, tale ideona bellicosa è stata replicata infinite volte, sempre con la medesima prosopopea e in favore di telecamera, da leader di opposti schieramenti (dal centrodestra, al centrosinistra, ai grillini). Non mi stupisce, dunque, se quest’estate un tipo come Salvini, che sempre deve manifestarsi il più assatanato di tutti, sia giunto a chiedere anche l’affondamento delle navi delle organizzazioni non governative (ong), colpevoli di supportare gli scafisti.

La falsa emergenza che descriveva la penisola italiana invasa da orde incontenibili di migranti, smentita dalle cifre ma alimentata dai giornaloni che si trincerano dietro alla scusa del “percepito”, e così manipolano la realtà, si rivela per quello che è: non una “emergenza migranti”, ma una “emergenza elezioni”. Se i giornaloni e le televisioni fanno da megafono a chi sproloquia di invasione, e gli italiani si sentono invasi, ahimè in automatico i politici di ogni ordine e grado innescano il refrain “stop all’invasione”.

Questo sta succedendo, e dobbiamo trarne le conseguenze. Per me la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale né dai codici di navigazione.

Scusate se approfitto, forse impropriamente, di questo spazio che mi è tanto caro. Ma è venuto il momento di formulare anch’io un mio bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo, che considero di importanza cruciale. Non solo in quanto ebreo, ex apolide, figlio fortunato di più migrazioni. Ma proprio come cittadino italiano che, dieci anni fa, è stato fra i promotori di un Partito democratico i cui valori fondativi vedo oggi deturpati per convenienza.

Metto in fila l’operato degli ultimi tre anni. La revoca dell’operazione Mare Nostrum con la motivazione che costava troppo e con limitazione del raggio d’azione della nostra Marina Militare. La mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, per ragioni di opportunità. La soppressione, solo per i richiedenti asilo, del diritto a ricorrere in appello contro un giudizio sfavorevole. La promessa non mantenuta sullo ius soli temperato. E, infine, la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il “reato umanitario” mirato contro le organizzazioni non governative.

Dietro a questa sequenza si riconosce un vero e proprio disarmo culturale. Vittimismo. Scaricabarile. Caricature grossolane della complessa realtà africana con cui siamo chiamati a misurarci. Il tutto contraddistinto da una impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra. Lo scorso 13 agosto, sul Corriere della Sera, Luciano Violante raccontava di essere rimasto senza parole davanti a un vecchio calabrese che, indicandogli un gruppo di africani, si lamentava: «Per loro lo stato spende 35 euro al giorno, per mio figlio disoccupato, invece, non fa niente».

Ecco, mi lascia costernato che neanche un uomo delle istituzioni come Luciano Violante si mostri capace di far notare a quel cittadino che, per fortuna, lo stato ha speso e continuerà a spendere molto, ma molto di più per suo figlio che non per gli immigrati. Ne ha perso forse contezza, l’ex presidente della Camera?

Ho ben presente l’importanza dell’unità dentro un partito grande e plurale. So anche che nel Pd continuano a essere numerosi coloro che hanno a cuore gli ideali oggi deturpati. Ma io che avevo visto male la scissione, né ho considerato motivi sufficienti per un divorzio le riforme istituzionale e il jobs act, ora, per rispetto alla mia gerarchia di valori, mi vedo costretto a malincuore a separarmi dal partito in cui ho militato dalla sua nascita. L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile.

Se la sinistra riparte da Atene

Gad Lerner su Repubblica, oggi, per una sfida che SEL non può perdere:

CO­STRET­TA a for­ni­re il suo ap­pog­gio de­ter­mi­nan­te a un go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le”, cioè au­spi­ca­to dai ver­ti­ci del­l’e­co­no­mia mon­dia­le, la si­ni­stra ri­for­mi­sta in Gre­cia ap­pa­re or­mai pros­si­ma al­la can­cel­la­zio­ne.
Eco­sì, di fron­te al­la tec­ni­ca fi­nan­zia­ria che fa­go­ci­ta la si­ni­stra “re­spon­sa­bi­le”, a noi vie­ne da chie­der­ci: po­treb­be suc­ce­de­re an­che in Ita­lia? Trop­pi in­te­res­sa­ti so­spi­ri di sol­lie­vo han­no of­fu­sca­to l’e­si­to del vo­to gre­co. Sup­pon­go ne ab­bia ti­ra­to uno in­con­fes­sa­bi­le pu­re Ale­xis Tsi­pras, il lea­der del­la si­ni­stra ra­di­ca­le Sy­ri­za che ha qua­si rad­dop­pia­to i suoi vo­ti re­stan­do pe­rò al­l’op­po­si­zio­ne, co­me le è più con­ge­nia­le. Me­glio per Tsi­pras che go­ver­ni una coa­li­zio­ne gui­da­ta dal­la de­stra che pri­ma truc­cò i con­ti pub­bli­ci e poi ha as­se­con­da­to le ri­cet­te di­sa­stro­se im­po­ste dal­l’e­ste­ro a una po­po­la­zio­ne che in mag­gio­ran­za (con­tan­do gli aste­nu­ti) le ri­fiu­ta. Una po­la­riz­za­zio­ne che ha ri­dot­to al­l’ir­ri­le­van­za il Pa­sok, cioè il par­ti­to del so­cia­li­smo eu­ro­peo. Li­qui­dan­do co­me vel­lei­ta­ria l’a­spi­ra­zio­ne a una ri­for­ma de­mo­cra­ti­ca del­l’ar­chi­tet­tu­ra del­l’U­nio­ne, fon­da­ta sul­la sal­va­guar­dia dei di­rit­ti e de­gli in­te­res­si dei ce­ti po­po­la­ri.
Il dub­bio si è af­fac­cia­to ie­ri sul­la pri­ma pa­gi­na del­l’U­ni­tà: “Gioi­re per­ché vin­ce la de­stra?”. Ma for­se è trop­po tar­di: i cit­ta­di­ni ate­nie­si che fan­no la fi­la al­le men­se dei po­ve­ri e de­vo­no ri­nun­cia­re al­l’ac­qui­sto di far­ma­ci per i lo­ro fi­gli, non han­no ri­ce­vu­to nei me­si scor­si nes­su­na vi­si­ta di Hol­lan­de, Ga­briel, Ber­sa­ni, Pé­rez Ru­bal­ca­ba. So­spin­ti da un ec­ces­so di pru­den­za, i lea­der del­la si­ni­stra eu­ro­pea han­no pre­fe­ri­to la la­ti­tan­za, evi­tan­do di por­re la que­stio­ne gre­ca fra le prio­ri­tà di una po­li­ti­ca ri­for­mi­sta uni­ta­ria. Qua­si che la ban­ca­rot­ta di cui i gre­ci so­no vit­ti­me, ma, cer­to, an­che cor­re­spon­sa­bi­li, fos­se una di­sgra­zia pe­ri­fe­ri­ca da igno­ra­re in as­sen­za di so­lu­zio­ni rea­li­sti­che; e dun­que non ri­ma­nes­se che tra­smet­te­re la più mio­pe del­le ras­si­cu­ra­zio­ni: noi non cor­ria­mo il ri­schio di fi­ni­re co­me lo­ro. Ve­ro è che Ber­sa­ni ha di­chia­ra­to di ver­go­gnar­si per co­me l’Eu­ro­pa trat­ta la Gre­cia; ma quel sen­ti­men­to non si è an­co­ra tra­dot­to in mo­bi­li­ta­zio­ne po­li­ti­ca.
Non va di­men­ti­ca­to che pri­ma di ca­pi­to­la­re di fron­te al dik­tat emer­gen­zia­le del go­ver­no tec­ni­co di Pa­pa­de­mos, nel no­vem­bre 2011 il pre­mier so­cia­li­sta Geor­ge Pa­pan­dreou ave­va com­piu­to un estre­mo ten­ta­ti­vo: la con­vo­ca­zio­ne di un re­fe­ren­dum che suf­fra­gas­se at­tra­ver­so il re­spon­so del­la so­vra­ni­tà po­po­la­re la scel­ta di re­sta­re nel­l’eu­ro­zo­na, di­spo­sti a pa­gar­ne il prez­zo do­lo­ro­so. Quel­la pro­ce­du­ra de­mo­cra­ti­ca, che ave­va buo­ne chan­ces di ri­scuo­te­re il con­sen­so del­la cit­ta­di­nan­za, fu bloc­ca­ta nel vol­ge­re di po­che ore dal­la rea­zio­ne in­di­spet­ti­ta del­l’e­sta­blish­ment fi­nan­zia­rio e dei più au­to­re­vo­li sta­ti­sti eu­ro­pei. Con­fer­man­do la più spia­ce­vo­le del­le im­pres­sio­ni: l’in­com­pa­ti­bi­li­tà fra le re­go­le do­mi­nan­ti del­l’e­co­no­mia e le re­go­le, ad es­sa sot­to­mes­se, del­la de­mo­cra­zia. I teo­ri­ci del­l’e­stre­ma si­ni­stra (ma an­che del­la de­stra po­pu­li­sta) eb­be­ro co­sì mo­do di de­nun­cia­re che, sia pu­re con il gio­go del de­bi­to al po­sto de­gli eser­ci­ti, stia­mo vi­ven­do una nuo­va epo­ca co­lo­nia­le. Cioè che ab­bia­mo già su­bi­to la li­qui­da­zio­ne an­ti­ci­pa­ta del­l’u­nio­ne po­li­ti­ca con­fe­de­ra­le dei po­po­li eu­ro­pei. Quel ve­to, im­po­sto nel­la più to­ta­le la­ti­tan­za del­la si­ni­stra ri­for­mi­sta eu­ro­pea, se­gnò l’i­ni­zio del­la fi­ne del Pa­sok e spia­nò la stra­da al suc­ces­so di Sy­ri­za: una coa­li­zio­ne di for­ze del­la si­ni­stra ra­di­ca­le fa­vo­re­vo­le a in­fran­ge­re le nor­ma­ti­ve co­mu­ni­ta­rie; le cui com­po­nen­ti nei pros­si­mi gior­ni si scio­glie­ran­no per da­re vi­ta a un ine­di­to par­ti­to-mo­vi­men­to sot­to l’a­bi­le gui­da di Ale­xis Tsi­pras.
In ap­pa­ren­za un ta­le sce­na­rio ri­sul­ta dif­fi­cil­men­te re­pli­ca­bi­le in Ita­lia. Qui il di­sfa­ci­men­to del­la de­stra ber­lu­sco­nia­na e le­ghi­sta sem­bra fa­vo­ri­re una su­pre­ma­zia elet­to­ra­le del Par­ti­to De­mo­cra­ti­co e, al­la sua si­ni­stra, Ni­chi Ven­do­la non pa­re in­ten­zio­na­to per il mo­men­to a rom­pe­re l’u­ni­tà del cen­tro­si­ni­stra. Ta­le qua­dro pe­rò è re­so as­sai sdruc­cio­le­vo­le dal­l’ex­ploit del Mo­vi­men­to 5 Stel­le e dal­le ten­ta­zio­ni po­pu­li­ste no eu­ro che al­li­gna­no tra­sver­sa­li, ali­men­ta­te dal­la cri­si. Se in Gre­cia è An­to­nis Sa­ma­ràs di Nea De­mo­kra­tia a pren­de­re da de­stra le re­di­ni del go­ver­no con il Pa­sok e Si­ni­stra De­mo­cra­ti­ca in po­si­zio­ne su­bal­ter­na, il pro­ba­bi­le ter­re­mo­to elet­to­ra­le ita­lia­no po­treb­be de­ter­mi­na­re ri­sul­ta­ti ta­li da co­strin­ge­re an­che il no­stro Pae­se a ri­pro­por­re un al­tro go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le” co­me scel­ta ob­bli­ga­ta. “Au­spi­ca­ta” dal­l’al­to. Co­me te­sti­mo­nia an­che la ri­for­ma del mer­ca­to del la­vo­ro che la si­ni­stra par­la­men­ta­re si ac­cin­ge a vo­ta­re con­tro­vo­glia — qua­si fos­se im­pos­si­bi­le pro­muo­ve­re un nuo­vo eu­ro­pei­smo d’im­pron­ta so­cia­le — i ri­for­mi­sti co­stret­ti a muo­ver­si sot­to det­ta­tu­ra tec­ni­ca non rie­sco­no da tem­po a rom­pe­re uno sche­ma che li pe­na­liz­za. Ma la po­li­ti­ca ob­bli­ga­ta a de­ro­ga­re dal­le pro­prie am­bi­zio­ni, sa­cri­fi­can­do i va­lo­ri in cui cre­de e i le­ga­mi so­cia­li che la vi­vi­fi­ca­no, fi­ni­sce per sof­fo­ca­re. L’e­sem­pio del so­cia­li­smo gre­co in­ca­pa­ce di rea­gi­re al­la sof­fe­ren­za del suo po­po­lo è lì a di­mo­strar­ce­lo. Co­sì, nel me­dio pe­rio­do, an­che nel no­stro Pae­se si ri­pro­por­reb­be­ro le spac­ca­tu­re in­ter­ne del­la si­ni­stra, a sca­pi­to del­le for­ze ri­for­mi­ste.
I lea­der del­la si­ni­stra te­de­sca, fran­ce­se, spa­gno­la e ita­lia­na che han­no di­ser­ta­to di fron­te al­la tra­ge­dia gre­ca, in­con­tra­no ogni gior­no nuo­vi osta­co­li sul­la via di una po­li­ti­ca dav­ve­ro eu­ro­pei­sta. Lo te­sti­mo­nia il re­cen­te con­gres­so del­la Spd che ha de­ci­so di pro­ce­de­re su­bi­to, d’in­te­sa con la Mer­kel, al­la ra­ti­fi­ca del Fi­scal Com­pact nel Par­la­men­to di Ber­li­no: un trat­ta­to che co­sì com’è esclu­de pos­si­bi­li­tà di de­ro­ghe per i Pae­si in­de­bi­ta­ti; né più né me­no “stu­pi­do” co­me già lo fu­ro­no i pa­ra­me­tri di Maa­stri­cht vio­la­ti tran­quil­la­men­te dai più for­ti ma im­po­sti ai de­bo­li in no­me di una con­ve­nien­za spac­cia­ta per vir­tù. Del re­sto, per pau­ra di per­de­re con­sen­si, i so­cial­de­mo­cra­ti­ci te­de­schi con­fer­ma­no an­co­ra og­gi il lo­ro ri­fiu­to de­gli eu­ro­bond. Co­me in tem­po di guer­ra, gli in­te­res­si pa­triot­ti­ci l’han­no vin­ta sul­l’in­ter­na­zio­na­li­smo pro­le­ta­rio.
Chi di fron­te al­l’in­co­gni­ta di un’e­co­no­mia al col­las­so vuo­le ali­men­ta­re di nuo­va lin­fa gli idea­li del­l’u­ni­tà eu­ro­pea e del­la giu­sti­zia so­cia­le, non può igno­ra­re più a lun­go l’a­go­nia del­la Gre­cia. O la si­ni­stra ri­co­min­cia da Ate­ne ca­pi­ta­le, o ri­schia di per­der­si.

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Le bugie nascoste nell’eccesso di difesa

Diceva Oscar Wilde che “niente ottiene successo come l’eccesso”. Per questo mi stupisce poco la reazione scomposta e imbizzarrita del Presidente del Consiglio Regionale Davide Boni alla mia partecipazione alla trasmissione L’INFEDELE di Gad Lerner su LA7: l’eccesso è la matrice propagandistica della Lega Nord che con il gioco manicheo del nord pulito e buono contro il sud sporco e cattivo ha sfamato la pancia molle di un esercito di semplicisti e banalizzatori.

La relazione al Parlamento della Direzione investigativa antimafia (Dia) riferita al primo semestre 2010 dice  chiaramente che “la consolidata presenza in alcune aree lombarde di «sodali di storiche famiglie di ‘ndrangheta» ha «influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi». La relazione sottolinea il «coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede a impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative».

Di fronte a questa analisi del più alto organo istituzionale antimafia in Italia la mia stringata opinione durante la trasmissione rischia addirittura di essere banale se non scontata. Certamente per niente rivoluzionaria. Molti mi stanno scrivendo che ho parlato specificatamente di Consiglio Regionale. Certo, ho parlato di persone chiaramente indicate dai gruppi criminali per le elezioni regionali e lo ripeto qui. Nell’ordinanza dell’operazione INFINITO al foglio 387 i magistrati scrivono:

Sintetizzando quanto fin qui è emerso dalle attività tecniche e dai servizi di osservazione, si può affermare che Barranca Cosimo e Pino Neri hanno promesso di convogliare un certo numero di voti a favore di due candidati alle elezioni regionali lombarde (Abelli e Giammario) e ciò è avvenuto attraverso la “mediazione” di Carlo Chiriaco, esponente di rilievo della sanità lombarda. L’impegno della famiglia Barranca a favore di Angelo Giammario emerge anche da · una conversazione il 12.03.2010, intercorsa tra Chiriaco e Barranca Pasquale, detto “Lino”, fratello di Cosimo. Nel corso della stessa, i due interlocutori commentavano il proprio sostegno alla candidatura di Giammario Angelo, esteso altresì alla sua famiglia, ad esempio alla figlia che veniva indicata essere impegnata presso la sezione elettorale di Viale Monza, con l’incarico di telefonista -‹‹…qui Cosimo sta facendo Giammario e tutti quanti Giammario. Anche mia figlia sta rispondendo al telefono lì in viale Monza per Gianmario›› · Due conversazioni il 22.2.07 e 23.2.07 e quando Barranca viene richiesto da Chiriaco di portare “50 – 60 fotocopie” (forse 50-60 mila euro) all’avvocato SCIARRONE, indicato quale uomo di GIAMMARIO, in prospettiva delle elezioni Regionali 2010. L’esito delle consultazioni elettorali, che dal punto di vista di numero dei voti non ha sicuramente rispettato le attese, ha però visto l’elezione di entrambi i candidati sostenuto dall’interno ‹‹nucleo di calabresi›› mobilitato da Chiriaco. ABELLI, infatti, è stato eletto con 8600 preferenzee; Giammario l’ha comunque spuntata a Milano, come ultimo eletto (oltre 6000 voti), anzi vi è da sottolineare che le indicazioni provenienti dalle intercettazioni non lasciano dubbi sul fatto che quest’ultimo sia stato sostenuto (a detta di Chiriaco) dai voti procurati dall’entourage di Barranca Cosimo perché, a dire sempre dello stesso Chiriaco, Giammario avrebbe rifiutato i voti “compromettenti” provenienti da Neri Giuseppe: CHIRIACO…ma che cazzo devono dire ….non c’entra un cazzo Maullu….questi qua pigliano i voti e poi se ne fottono ..inc.., ah.., io stavolta io ho dato una mano ad ANGELO GIAMMARIO …no.. FRANCO …si… CHIRIACO …io gli ho detto, ANGELO ..questi sono voti puliti…….essendo che ad un certo punto i miei amici gli hanno portato circa 1800... nome cognome, residenza e dove votavano… se vuoi posso darti ancora dei contributi .., però sono voti che poi ad un certo punto… sai .. . io…no, no, mi ha detto non ne voglio…e infatti dietro c’è PINO NERI..ho detto Pinuccio…lascia stare… FRANCO: l’amico di Ciocca CHIRIACO …nooo FRANCO: GIAMMARIO è quello che è stato eletto a Milano? CHIRIACO: sì Angelo GIAMMARIO

In un’altra ordinanza relativa alla maxinchiesta della Dda di Milano (quella firmata dal gip del Tribunale di Milano Giuseppe Gennari) il gip, riservando un capitolo ai «Rapporti politici ed istituzionali» scrive: «È chiaro che, se l’obiettivo dei nostri è quello di mettere le mani su appalti pubblici, avere ottimi rapporti con esponenti politici rappresenta un capitale aggiunto di notevole valore e considerevole interesse. Ciò lo si dice, ovviamente, a prescindere dal tipo di “risposta“ del soggetto istituzionale di riferimento che talvolta, come nel caso di Oliverio, ma anche di Santomauro e di Ponzoni – si presenta incredibilmente spregiudicata mentre, in altri casi, può essere del tutto neutra. Insomma, queste relazioni altro non sono che parte di quello che il pm, nella richiesta di misura cautelare, definisce il capitale sociale dell’organizzazione criminale. Per l’ex Assessore regionale lombardo Ponzoni – continua il gip – si registra immediatamente un salto di qualità rispetto ai due faccendieri Oliverio e Santomauro. Sono i calabresi che “forzano” un appuntamento con Ponzoni su richiesta di Santomauro; è personalmente Strangio (Salvatore Strangio, anche lui arrestato nella maxioperazione) che procura un appuntamento tra l’imprenditore e l’assessore. Ciò a dire che Ponzoni fa parte del capitale sociale della organizzazione indipendentemente e da prima dell’ingresso dell’imprenditore e delle sue relazioni».

Questi due episodi per citare qualche esempio nel mare magnum di elementi e atti che ci raccontano come sia inevitabile che la ‘ndrangheta anche in Lombardia punti con i propri voti all’elezione di uomini ritenuti “disponibili” all’interno del Consiglio Regionale Lombardo. Che siano amicizie millantate e che abbiano ottenuto in cambio qualche promessa è materia della magistratura. Ma la febbrile ricerca di sponde politiche è un problema di cui si deve fare carico proprio il Consiglio Regionale, in primis nel Presidente Davide Boni. Se no, chi altro?

Risponderò punto per punto alle accuse che mi sono mosse, senza problemi. Avrò anche occasione di ripetere i nomi e i fatti in Tribunale e (visto che la Lega lo chiede ad alta voce) anche in Aula Consiliare. Il mio unico vero pensiero e dubbio (al di là delle levate di scudi o delle raccolte di firme che non servono più di un impegno ordinario e sottovoce di tutti coloro che credono nella dignità di una regione senza puzzo di malaffare e compromesso) è per tutti gli altri: parlo di un’infinità di giornalisti e di blogger che nell’ombra si ritrovano a dovere fronteggiare questo eccesso di difesa in un momento in cui si vorrebbe negare anche la verità storica. Penso a chi non ha voce per difendere le proprie opinioni ma si ritrova strozzato dalle querele e dal silenzio tutto intorno. Penso ad una libertà di parola che si autocensura di fronte allo spettro di una querela. Penso ad una legge seria sulla “lite temeraria” che oggi in Italia serve subito, come spesso invocato da Milena Gabanelli. Penso al dovere che dobbiamo imporci di dare voce chi non ha voce.

Per me, la mia unica preoccupazione è sapere se andando in Aula a riraccontare quello che dico da anni sui libri o sui palchi devo o non devo pagare la SIAE.