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Gaza

Kamala Harris e la Palestina

Ci sono, tra le dichiarazioni della vicepresidente degli Usa, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi

Sì, certo, ci sono anche le ombre. Due giorni fa nel mio #Buongiorno mi permettevo di sottolineare come fosse un vento buono quello che ha portato alla vicepresidenza degli Usa una donna che ha una visione dei diritti completamente lontana da quella dei diritti negati secondo Donald Trump. E il dibattito si è infiammato: qualcuno giustamente fa notare a noi di Left che Kamala Harris è troppo poco progressista poiché molto vicina, anzi vicinissima a Hillary Clinton (come se una vittoria, ai tempi, di Hillary Clinton su Donald Trump non sarebbe stata comunque una buona notizia rispetto a quello che abbiamo vissuto), qualcuno sottolinea i diversi errori (e qualche omissione) di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice (i 1.500 arrestati per reati legati al fumo di marjuana, ad esempio, oppure la proposta di mettere in prigione i genitori di bambini che registravano un elevato tasso di assenze scolastiche). Ed è tutto vero, verissimo. Vero anche che Kamala Harris sia parte integrante dell’establishment democratico. Mi permetto di credere però che se esponenti molto progressiste femministe vedono nella sua elezione un ulteriore passo in avanti verso la caduta del tetto di cristallo ci saranno delle buone ragioni.

È estremamente preoccupante anche la posizione di Kamala Harris sulla questione palestinese, con la Palestina che ancora una volta non vede una gran luce dalle elezioni americane (Israele è corso subito alla corte di Biden). Ci sono, tra le dichiarazioni di Kamala Harris, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi.

«L’ultima raffica di attacchi missilistici da Gaza contro israeliani innocenti non può essere tollerata: Israele ha il diritto di difendersi da questi orribili attacchi. Mi unisco agli altri nell’esortare contro un’ulteriore escalation», ha detto a JewishInsider il 15 novembre 2019. Sul fatto che Israele soddisfi o meno gli standard dei diritti umani: «Nel complesso, sì» ha detto al New York Times, 19 giugno 2019. E poi: «Per questo motivo sostengo fortemente l’assistenza alla sicurezza dell’America a Israele e mi impegno a rafforzare il rapporto americano di sicurezza e difesa israeliana… Credo che quando una qualsiasi organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare apertamente contro di essa. Israele deve essere trattato allo stesso modo, ed è per questo che la prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e di affermare e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una soluzione giusta, sicura e sostenibile per due Stati» (intervento al Comitato ebraico americano, 3 giugno 2019).

Le debolissime politiche di Biden sui diritti dei palestinesi sembrano avere trovato un ottimo appiglio in Kamala Harris. Purtroppo per noi e purtroppo per tutti quelli che tengono alla situazione mediorientale. Sarà un’altra presidenza americana dura dalle parti di Gaza, senza dubbio. E su questo ci sarà da lottare.

Poi, mi sia concesso, il profumo dell’assenza di Trump è una vittoria politica. Una vittoria breve? Può essere. Noi siamo qui proprio per questo, per osservare e informare, osservare e informare, osservare e informare.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

A me, alla fine, manca tantissimo Vik

Mi manca Vittorio Arrigoni. Ed è una mancanza che sanguina perché non siamo riusciti mica a raccontarlo abbastanza quindi mi succede come succede con le persone che finisci per raccontare in modo troppo “privato” per sentirsi in pace con se stessi.

Mi manca perché hanno provato quasi tutti a infilarlo nel cassetto dei pericolosi “estremisti” quando in realtà ci ha raccontato Gaza (e la Palestina) tenendo la barra dritta sui diritti, i dolori e le persone. I cuori, poi: Vittorio scriveva reportage dai cuori anche se tutti credevano di leggere un articolo di cronaca.

Mi manca perché quando è intervenuto a un mio appuntamento elettorale (erano le elezioni regionali del 2010 e sembrano cent’anni fa) è riuscito nel miracolo di farci sentire tutti mostruosmente piccoli. Ha soffiato il respiro di Gaza mentre noi parlavamo di Formigoni e ci incagliavamo sul San Raffaele o Nicole Minetti.

Mi manca soprattutto perché è stato un maestro di umanità. Ogni tanto mi dico che questa emergenza umanitaria che affligge l’Europa lui sarebbe stato capace di intenderla come non riesce nessuno di noi.

Ce ne sarebbe bisogno. Avrei un milione di cose da chiedergli.

Ci manchi, Vik.

Scusaci, Vik

Ancora una volta. Come sempre. La Freedom Flotilla Zaytouna-Oliva in missione umanitaria verso Gaza è stata braccata dalla marina israeliana. Un’imbarcazione pericolosissima: un equipaggio interamente femminile (per ricordare il ruolo delle donne nei territori occupati) tra cui un premio Nobel. Ancora una volta la notizia rimarrà sepolta tra le esotiche vicende dai luoghi lontani che non ci interessano troppo. Ancora una volta la politica italiana rimarrà troppo silente (grazie a Pippo e Bea che hanno presentato alla Camera questa interrogazione per Possibile) e ancora una volta noi non riusciremo a raccontare la vicenda all’altezza del dolore che procura.

E ogni volta penso a come Vittorio Arrigoni invece trovasse la chiave giusta per dare un nome, una forma, un posto a notizie come queste. A come fosse chirurgico nel racconto. E quanto poco ci riusciamo noi.

Seguiamo la vicenda. Almeno noi.

#Gaza: i disertori d’Israele che si rifiutano di bombardare

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Udi Segal, 19 anni, israeliano, sta aspettando di essere preso e incarcerato nella prigione militare Prison Six dalle autorità del suo paese. L’accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito: “Israele può continuare questa occupazione, ‘but not in my name’, non nel mio nome”, racconta a IlFattoQuotidiano.it. Un sondaggio del Jerusalem Post rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione Protective Edge. Dall’altra parte, però, almeno 50 soldati dell’Israel Defense Force hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione e migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionistiNeturei Karta, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ieri in tremila sono scesi in piazza Rabin, a Tel Aviv, per manifestare contro i raid d’Israele sulla Striscia. “L’appoggio del paese alla politica del primo ministro,Benjamin Netanyahu, è ancora forte – spiega Segal – ci sono molte persone, però, che sono stanche di questa guerra. Solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione”. A New York, Parigi, Londra, migliaia di ebrei hanno manifestato in strada al grido di “Palestina libera” e “no allo stato d’Israele” per protestare contro la politica militare del premier israeliano. A capo della maggior parte di queste manifestazioni c’erano gli ebrei ortodossi di Neturei Karta, un movimento antisionista nato a Gerusalemme nel 1938.

Il principio che muove il gruppo e i rappresentanti dell’ortodossia ebraica che non appoggiano le idee sioniste, però, non è di matrice politica, ma religiosa. Sostengono, infatti, che la costituzione di uno stato d’Israele violi le leggi della tradizione religiosa. Secondo i testi sacri, la diaspora ebraica è il frutto dei numerosi peccati commessi dal popolo d’Israele e solo l’avvento del Messia potrà restituirgli una patria. L’accusa mossa da Neturei Karta nei confronti dei sostenitori dello stato ebraico è quella di violare le leggi della tradizione religiosa, strumentalizzandola per meri fini politici. I membri del movimento sostengono che l’Onu, riconoscendo lo stato d’Israele, abbia commesso un’ingiustizia anche nei confronti del popolo ebraico.

“Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione”. In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. “Non so ancora di preciso quanto rimarrò in carcere – continua Segal -, anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro”. Anche 50 soldati israeliani hanno deciso di rifiutare qualsiasi incarico nei territori occupati. Lo hanno comunicato con una lettera al Washington Post in cui spiegano i motivi che hanno portato alla loro decisione: “Ci opponiamo – scrivono – all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare”.

Quello di Udi Segal, però, non è un caso isolato. Il primo risale 1954, quando Amnon Zichroni, militare, chiese di essere sollevato dal servizio militare perché pacifista. Da quel momento in poi sono molti i movimenti che raggruppano, per motivi diversi, obiettori di coscienza o militari che si rifiutano di servire l’esercito. Nel 1982, durante la guerra tra Israele e Libano, è nato il movimento Yesh Gvul formato da veterani dell’esercito che si rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Questo “rifiuto selettivo” si estese, successivamente, anche ai territori occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere nei territori occupati è l’Ometz LeSarev o “Coraggio di rifiutare“. I 623 componenti del movimento, formatosi nel 2002, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare. Per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al premio Nobel per la pace.

(fonte)

(la lettera dei soldati)

Le novità dalla Freedom flotilla

Le autorità israeliane hanno espulso l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki e la eurodeputata Ana Miranda che si trovavano a bordo di una imbarcazione umanitaria in rotta verso la Striscia di Gaza con l’obiettivo di rompere l’assedio.La Marina israeliana ha accostato la nave ‘Marianna’ scortandola verso il porto di Ashdod senza incidenti. Le altre tre imbarcazioni della Freedom Flotilla salpata da Creta lo scorso 26 giugno, sono ripartite verso porti greci. In totale 16 cittadini di diverse nazionalità e due israeliani si trovavano a bordo della Marianna.
La piccola flotta voleva portare a Gaza attrezzature mediche e pannelli solari per la popolazione palestinese, ridotta allo stremo dopo un assedio in corso dal 2007, alle prese con gravi carenze di generi alimentari, medicinali e mancanza di energia elettrica.
Questa è la terza spedizione tentata dagli attivisti filo-palestinesi dopo che la prima, nel maggio del 2010, si era conclusa con la morte di nove persone. Questa volta non ci sono stati incidenti.

4 anni che ci manca Vik #opengaza

Quattro anni fa moriva Vittorio Arrigoni. Moriva masticato dalla solita becera stampa che ha bisogno di piallare le vittime per renderle inoffensive più da morte che da vive. Moriva una voce da Gaza che era troppo spessa per essere contraddetta, troppo appuntita per essere sepolta e troppo vera per essere smentita: perché la voce di Vik era per noi la voce di Gaza.

Quattro anni fa moriva anche l’etica di un giornalismo che non voleva perdere tempo a capire i macrosistemi sotterranei che rendono notiziabile un fatto: Vittorio Arrigoni scriveva le persone, le case, i giorni di Gaza e i buchi delle bombe.

Eppure Vittorio Arrigoni ci ha anche insegnato che “restare umani” nella nostra funzione di scrittura e lettura delle cose del mondo non è una fragilità da combattere ma un ingrediente imprescindibile per non cadere nella retorica, nella superficiale guerra delle posizioni e nella superficialità che funziona perché vende.

In quattro anni forse non siamo nemmeno riusciti a difendere la tua memoria, Vik, ma tu lo sai bene che questo è un Paese che guarda le guerre degli altri nel polistirolo in promozione delle confezioni da sei. Per questo continuiamo a batterci. Per questo continuiamo a scrivere.

Mi manchi, Vik.

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Torno a Gaza anche senza gambe

faiz2In primo piano c’è una donna col capo coperto, intenta a scappare mentre dal cielo piovono schegge di morte. Sullo sfondo cumuli di macerie a perdita d’occhio, deserto di solitudine e distruzione. Questa è una delle foto scattate a Gaza da Momen Faiz, giovane fotografo palestinese costretto su una sedia a rotelle dopo che, nel 2008, i proiettili israeliani gli hanno portato via le gambe.

«È successo mentre ero in servizio», racconta. «Indossavo un cappello e un giubbotto con la scritta “stampa”. Mi ero appostato per fotografare la frontiera chiusa, che impediva il passaggio delle merci necessarie a festeggiare la Id al-Adha, la tradizionale festa islamica del sacrificio».

Di colpo frastuono, sangue, poi più nulla. Momen non può più camminare, resta invalido per sempre.

Una vita, la sua, che non è mai stata facile. Orfano di padre, è il più piccolo di sette fratelli. Nonostante le tante bocche da sfamare, sua madre crede nel valore dell’istruzione: Momen si iscrive alla facoltà di Giornalismo e media, anche se l’incidente blocca il suo percorso.

Si ferma, ma non si arrende. «Dopo quell’attacco la mia vita è cambiata», spiega, «ma io ho scelto di continuare il mio lavoro». Così ogni mattina esce di casa con la macchina fotografica per immortalare la tragedia che travolge Gaza. Ovunque strazio e macerie.

Tornare sui campi di battaglia non è facile per chi ha subito un trauma come il suo. C’è la disabilità, c’è la paura. Ma c’è anche la voglia di continuare a essere un fotoreporter, di documentare crimini e massacri, perché sia i contemporanei che i posteri ne abbiano memoria. Chi crede ancora che esistano guerre giuste dovrebbe conoscerlo di persona o almeno parlarci mezz’ora al telefono. Dovrebbe guardare le sue foto, un grande, pacifico manifesto contro tutte le guerre.

(clic)

Anche il Portogallo riconosce la Palestina. In Italia tutto tace.

 Il parlamento portoghese ha votato in favore del riconoscimento da parte del governo della Palestina come “stato indipendente e sovrano”. La mozione era stata presentata dalla maggioranza di centrodestra insieme con il Partito socialista, principale schieramento d’opposizione. Il Portogallo si unisce così ai parlamenti di Francia, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda che hanno tutti riconosciuto lo stato palestinese. Caso a parte la Svezia, dove è stato il governo stesso a riconoscere la Palestina.

(link)

Palestina sì. Certo. Ma. Non ora. Però. Eh.

La dichiarazione del neoministro Gentiloni sulla Palestina rilasciata all’ANSA è roba che neanche Andreotti nei suoi apici più lucidi:

“Il riconoscimento della Palestina è sul tavolo ma non può essere una petizione di principio usata in un momento che non è il più opportuno. E’ giusto discuterne, ma poi dovremo utilizzarla nel momento in cui serve di più a sbloccare il negoziato”. Così il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. La questione “sarà affrontata in Parlamento e il governo esprimerà la sua posizione” sulle diverse mozioni che saranno presentate, ha aggiunto.

A Gaza la nuova scuola Vittorio Arrigoni

585x780x8-768x1024-585x780.jpg.pagespeed.ic.RvJIO21zuoChe gioia poter comunicare che una nuova scuola è stata aperta a Gaza ed è a nome di Vittorio Arrigoni. L’Associazione per lo sviluppo “Ghassan Kanafani” comunica questa bellissima notizia dicendo che sono ben 98 i bambini registrati nella scuola materna e che possono contare su sette maestre assunte per l’ occasione. La lettera comunicato inizia così ” Compagni e amici in Italia, I nostri calorosi saluti a tutti voi da Gaza, dalla terra della fermezza e dell’eroismo.Calorosi saluti dai bambini della scuola materna “Vittorio Arrigoni” per l’anima di Vittorio Arrigoni, quei ragazzi ai quali, con il vostro sostegno, siamo riusciti a disegnare un sorriso sui volti….” e si conclude con un “promettiamo a tutti voi di tenere fede e mantenere i principi per i quali Vittorio il Ribelle ha vissuto e combattuto e vi promettiamo di insegnare ai nostri figli il patriottismo, il rispetto per l’umanità ed a resistere all’oppressione ovunque si trovi.”

Alla fine potrete trovare tutte le indicazioni per il contatto. L’asilo è stato costruito grazie anche alla raccolta fondi tramite la vendita del dvd “Restiamo umani – the reading movie”, scritto dallo stesso Vittorio Arrigoni.

Scrive Mariagiulia Agnoletto, psichiatra e coordinatrice dell’Associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo Milano-Onlus, che dal 2001 collabora con l’associazione palestinese socio-educativa Remedial Educatioon Center con progetti di affido a distanza dei bambini/e dei villaggi e del campo profughi del nord della striscia di Gaza: “La mia esperienza nella striscia di Gaza è nell’incontro con i bambini/e e le loro famiglie e nel rapporto con i volontari e gli operatori (educatori, insegnanti, psicologi, clown, animatori) delle associazioni palestinesi psico-educative, che quotidianamente “resistono”, cercando di trasmettere, condividere con i bambini un attaccamento alla vita, una speranza per il futuro.A Gaza tutti i diritti del’infanzia sono negati quotidianamente: alla vita, alla libertà, alla salute fisica e psichica, alla casa, all’istruzione, al gioco, alla libertà di movimento. I bambini appaiono passivi, ritirati o più spesso tesi, con atteggiamenti di sfida, rabbia, che nascondono dolore, paura, frustrazione. Infatti “i bambini delle pietre non sono di pietra, soffrono, hanno paura”, come diceva un amico psichiatra palestinese. Sono bambini continuamene traumatizzati, quindi gli educatori palestinesi devono intervenire “durante il trauma” e cercare di aumentare la resilienza dei bambini: identificare il trauma, dare un senso all’evento e alla propria reazione emotiva, cercare di garantire loro una protezione di fronte agli eventi traumatici successivi, per evitare che il disagio psichico si strutturi in patologie. Permettere ai bambini di esprimere emozioni, bisogni, disagi, dare un significato alle proprie paure, angosce, aiutarli ad uscire dalla alienazione/rabbia, trovare soluzioni costruttive e specialmente riconoscere e stimolare le loro risorse positive (con teatro, danza, pittura, narrazione, clowneria, psicodramma, tecniche di rilassamento).Ho visto le maestre accogliere i bambini terrorizzati (come loro stesse), dopo una notte sotto le bombe, proponendo una narrazione singola e collettiva, come valore terapeutico della testimonianza e condivisione. Una possibilità di distinguere i fatti reali da quelli amplificati e deformati dalla paura, piuttosto che il disegno, come occasione per proiettare le conseguenze emotive del trauma. Ho visto costruire con i bambini le lanterne e gli aquiloni, con scritti e disegnati sopra messaggi di pace, giustizia, desideri, speranze … da far navigare in mare o volare in cielo, oltre l’isolamento di Gaza. Ho visto incontri tra madri e insegnanti per costruire, ideare, immaginare, imparare giochi, canzoni, racconti da utilizzare per sé e i propri bimbi nelle successive situazioni di paura, terrore.”

Restiamo umani

Doriana Goracci
Associazione per lo sviluppo “Ghassan Kanafani”- GKD
Indirizzo: Bait Hanoun – Al Shawa suburb
Email: Ghassan_k1972@hotmail.com
Telfax 2482540

(fonte)