La «Resistenza culturale» in una lettera di Giaime Pintor (un bigino per gli “intellettuali” timidi dei nostri tempi)
Nel novembre del 1943 Giaime Pintor scrive una lettera al fratello Luigi, pochi giorni prima di morire. Ed è una lettera attualissima da tenersi in tasca. Per tutte le Resistenze future.
Napoli, 28 novembre 1943
“Carissimo,
parto in questi giorni per un’impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro le armi e le istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d’animo in cui affronto questa missione. I casi particolari che l’hanno preceduta sono di un certo interesse biografico, ma sono troppo complicati da riferire: qualcuno degli amici che è da questa parte vi potrà raccontare come nella mia fuga da Roma sia arrivato nei territori controllati da Badoglio, come abbia passato a Brindisi dieci pessimi giorni presso il Comando Supremo e come, dopo essermi convinto che nulla era cambiato fra i militari, sia riuscito con una nuova fuga a raggiungere Napoli.
Qui mi è stato facile tra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione trovare un ambiente congeniale e ho contribuito a costituire un Centro Italiano di Propaganda che potrebbe avere una funzione utile e che mi ha riportato provvisoriamente alle mie attività normali e a un ritmo di vita pacifico. Ma in tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necessità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l’attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancor peggiorare hanno reso più urgente la decisione. Così dopo il fallimento, per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, di altri progetti più ambiziosi ma non irragionevoli, ho accettato di organizzare una spedizione con un gruppo di amici. È la conclusione naturale di quest’ultima avventura, ma soprattutto il punto d’arrivo di un’esperienza che coinvolge tutta la nostra giovinezza.
In realtà la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà la «generazione perduta » che ha visto infrante le proprie «carriere»; nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la nuova esperienza.
Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari, avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada: c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile.
Credo che per la maggior parte dei miei coetanei questo passaggio sia stato naturale: la corsa verso la politica è un fenomeno che ho constatato in molti dei migliori, simile a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo. Una società moderna si basa su una grande varietà di specificazioni, ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo momento per sacrificare tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria. È questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento.
Questo vale soprattutto per l’Italia. Parlo dell’Italia non perché mi stia più a cuore della Germania o dell’America, ma perché gli italiani sono la parte del genere umano con cui mi trovo naturalmente a contatto e su cui posso agire più facilmente. Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa. L’Italia è nata dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico episodio della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre minoranze per restituire all’Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza.
Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte. Vent’anni fa la confusione dominante poteva far prendere sul serio l’impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso. Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo.
Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza e che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che morti seppelliscano i morti. Anche per questo ho scritto a te e ho parlato di cose che forse ti sembrano ora meno evidenti ma che in definitiva contano più delle altre. Mi sarebbe stato difficile rivolgere la stessa esortazione alla mamma e agli zii, e il pensiero della loro angoscia è la più grave preoccupazione che abbia in questo momento. Non posso fermarmi su una difficile materia sentimentale, ma voglio che conoscano la mia gratitudine: il loro affetto e la loro presenza sono stati uno dei fattori positivi principali nella mia vita. Un’altra grande ragione di felicità è stata l’amicizia, la possibilità di vincere la solitudine istituendo sinceri rapporti fra gli uomini.
Gli amici che mi sono stati più vicini, Kamenetzki, Balbo, qualcuna delle ragazze che ho amato, dividono con voi questi sereni pensieri e mi assicurano di non avere trascorso inutilmente questi anni di giovinezza.”
Giaime
(fonte)