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gioia tauro

La relazione annuale della DNA: le mafie sono in ottima salute

NO-MAFIAAl Nord, e in particolare a Milano, la ‘ndrangheta ha conquistato una posizione di “predominio, a discapito di altre compagini associative, come quella di origine siciliana”. Cosa nostra mantiene il cervello a Palermo. L’ndrangheta si è specializzata in appalti pubblici, entrando nel privato laddove esiste una partnership pubblico-privato. Gioia Tauro è il porto di approdo della cocaina. Bologna è entrata a far parte dell’elenco delle “terre di mafia”. A Roma proliferano le mafie autoctone, come quella di Carminati. Mentre è in corso una indagine sul “protocollo fantasma”, sull’ipotesi che alcuni magistrati siano da anni spiati per conto di una misteriosa entità.

Sono, questi, i punti salienti della Relazione annuale presentata oggi al Senato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, alla presenza del presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi. “Il tema dell’immigrazione clandestina – ha detto Roberti – si incrocia con il tema del terrorismo internazionale. L’immigrazione clandestina può alimentare, finanziarie il terrorismo internazionale, questo è un rischio concreto e tangibile”. Nella relazione di Roberti non compare mai la parola “politica”, neppure nel capitolo dedicato alla trattativa Stato-Mafia, né allorquando si parla della banda Carminati, entrata in Campidoglio proprio grazie ai contatti con la politica.

Expo 2015. Importante per Roberti l’obbligo di iscrizione delle imprese operanti in determinati settori ritenuti particolarmente a rischio di infiltrazioni mafiose, in una white list di “elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa”.

Mafia. L’arresto dei suoi capi, dice Roberti, non le impedisce di esistere. L’assenza di leader carimatici in stato di libertà non ha portato a una guerra di mafia. Anzi, al contrario sta tentando di ricostituire il mandamento centrale, il cui capo risulta tutt’ora Totò Riina. Sono false le analisi che teorizzano una sorta di “balcanizzazione” dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra e un suo inarrestabile declino. Si conferma invece che la città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità, la sua struttura sopravvive anche in assenza di importanti capi riconosciuti in stato di libertà. L’assenza, in Cosa Nostra palermitana, di personaggi di particolare carisma criminale in stato di libertà, seppure latitanti, non ha riproposto la violenta contrapposizione interna tra famiglie e mandamenti del passato. Cosa nostra rinnova l’interesse per il traffico di stupefacenti e per la gestione dei “giochi” sia di natura legale che illegale.

La cattura di Matteo Messina Denaro resta una priorità (foto: l’identikit). Mentre Salvatore Riina, del tutto inaspettatamente, osserva Roberti, ha preso a parlare apertamente, intrattenendo il compagno di detenzione sui più disparati temi: dalla sua storia criminale, all’ideazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, a quelle commesse nel 1993/94 nel continente, al processo cosiddetto “Trattativa” in corso avanti la Corte d’Assise di Palermo, alle reiterate minacce di morte rivolte al magistrato Di Matteo.

Protocollo Fantasma. Altro procedimento che merita menzione riguarda quello inerente il cosiddetto “Protocollo fantasma”. Trattasi di un esposto anonimo nel quale oltre a varie vicende, in gran parte di competenza della Dda di Palermo, riguardanti processi anche risalenti nel tempo ed appartenenti alla Storia del contrasto giudiziario a Cosa Nostra, emergono notizie di reato a carico di ignoti, asseritamente appartenenti alle forze dell’ordine, che avrebbero per conto di una non meglio specificata entità, spiato alcuni magistrati, impegnati in delicate attività di indagine.

‘Ndrangheta. La ‘ndrangheta è amministrata da una sorta di “consiglio di amministrazione della holding” che elegge il suo “Presidente”. Del resto era difficilmente ipotizzabile che ad amministrare centinaia di milioni di euro, a governare dinamiche economiche, lecite ed illecite, in decine di comparti diversi e che attraversano, non solo l’Italia, ma buona parte del pianeta (dall’Australia al Sud America, dall’Europa al Nord America passando per tutti i possibili paradisi fiscali ), potesse essere questione affidata allo spontaneismo anarcoide di gruppi criminali disseminati e slegati, di decine e decine di cosche e locali, sorta di piccole monadi auto-referenziali.

Le cosche operanti nella città di Reggio Calabria, la particolare capacità della ‘ndrangheta cittadina di inserirsi nella gestione delle cd società miste  –  pubblico/privato  –  attraverso cui vengono forniti i principali servizi pubblici alla cittadinanza. In particolare, attraverso una serie concatenata di prestanomi, la ‘ndrangheta ha il controllo totale delle quote di spettanza del partner privato e, attraverso la sua capacità collusiva ed intimidatoria, riesce a condizionare la parte pubblica.

Gioia Tauro. La ‘ndrangheta ha il controllo controllo totalizzante del Porto di Gioia Tauro, ove attraverso una penetrante azione collusiva, gli ‘ndranghetisti riescono a godere di ampi, continui, si direbbe inesauribili, appoggi interni. Il Porto di Gioia Tauro è divenuta la vera porta d’ingresso della cocaina in Italia. Sul punto basterà osservare che nel solo periodo di riferimento (Giugno 2012-Luglio 2013) quasi la metà della cocaina sequestrata in Italia (circa 1600 kg su circa 3700 complessivi ) è stata intercettata a Gioia Tauro.

Bologna “Terra di Mafia”. Quanto al distretto di Bologna, l’imponente attività di indagine durata oltre due anni ha consentito di accertare la esistenza di un potere criminale di matrice ‘ndranghetista, la cui espansione si è appurato andare al di là di ogni pessimistica previsione, con coinvolgimenti di apparati politici, economici ed istituzionali. A tal livello che oggi, quella che una volta era orgogliosamente indicata come una Regione costituente modello di sana amministrazione ed invidiata per l’elevato livello medio di vita dei suoi abitanti, oggi può ben definirsi “Terra di mafia” nel senso pieno della espressione.

Camorra. La Camorra non è un’entità assimilabile dal punto di vista delle forme di manifestazione né a Cosa Nostra né alla ‘ndrangheta. Va ribadita, forse in modo ancor più accentuato, la caratteristica propensione delle aggregazioni camorristiche alla contrapposizione, talvolta, passando con eccessiva disinvoltura, da situazioni di alleanza a situazioni di contrasto violento. La Camorra si dedica alle agenzie di scommesse che  – per la sua peculiare ramificazione territoriale (che può corrispondere alla dislocazione delle singole agenzie di una determinata società di raccolta di scommesse sportive), oltre che per la stretta relazione con il gioco on-line, per sua natura, dematerializzato – spesso implica il coinvolgimento di più di un sodalizio criminale. Su questo terreno spesso si formano e consolidano alleanze o, viceversa, si consumano sanguinose rotture.

Mafia Capitale. Le organizzazioni mafiose autoctone nel distretto di Roma. Se sul territorio laziale sono dunque presenti le articolazioni di tutte le organizzazioni mafiose tradizionali, che si dedicano al riciclaggio e al reinvestimento dei capitali illecitamente accumulati, vi è poi un altro fenomeno, del tutto peculiare alla realtà della Capitale, rappresentato da organizzazioni che sono state qualificate dalla Dda come associazioni di stampo mafioso ma che non fanno riferimento ai sodalizi tradizionali del sud Italia, essendo, per così dire, autoctone.

In una città come Roma, una città di servizi e di attività terziarie, gli affari più lucrosi si fanno appunto attraverso l’acquisizione e il controllo di tali servizi e attività, e dunque attraverso l’infiltrazione sistematica nei settori economici e commerciali e nei servizi pubblici, e dunque negli appalti pubblici. L’associazione capeggiata da Massimo Carminati si dedica ad attività prettamente criminali quali l’usura, le estorsioni, il commercio di armi, ma soprattutto si dedica all’acquisizione di appalti in variegati settori in favore delle società controllate dall’organizzazione.

(fonte)

Con le slot la ‘ndrangheta si mangia Roma

E’ terra loro il Lazio. Il luogo discreto dove investire, gonfiando a dismisura la cassa dei clan. Il ritiro strategico, la retrovia da usare per riorganizzarsi, per poi tornare nella Piana di Gioia Tauro, più forti di prima.

Questo era il piano di Girolamo Molè, detto Momo, il capocosca che dal carcere ordinava agli affiliati le strategie dopo l’omicidio per faida di Rocco Molè. Quella morte la chiamava “lo schiaffo”, un affronto da restituire al momento opportuno. Con pazienza, chiudendosi a riccio, mettendo al sicuro i ventenni, eredi della ndrina. E investendo, ripulendo i soldi dove è possibile diventare invisibili, sapendo che “la potenza militare della famiglia è direttamente rapportata a quella economica”. Puntando direttamente sul business sicuro dei locali e, soprattutto, delle slot machine. Macchine in grado di macinare utili presentabili, puliti, non tracciabili. Un asse Gioia Tauro – Roma mantenuto in piedi anche grazie ad una rete di telecamere, in grado di mostrare in tempo reale agli uomini della Ndrina cosa avveniva nei locali controllati.

L’operazione del Ros dei carabinieri di martedì mattina ha chiuso tre anni di indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Tutto era partito da un albergo dei castelli romani – a sud della capitale – il Villavecchia, gestito da imprenditori di Colleferro, legati alle famiglie di ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro.

Cinque anni fa il locale fu sequestrato (operazione “Maestro”), mostrando come per la ‘ndrangheta il territorio romano era un territorio strategico. E come le cosche fossero in grado di rendersi invisibili, grazie ad alleanze compiacenti, che passavano attraverso ambienti insospettabili para massonici. Da quel momento i magistrati calabresi non hanno più mollato la presa, coordinandosi con i colleghi romani guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone. Hanno seguito i soldi, le aziende controllate attraverso prestanome, ricostruendo con pazienza gli schermi societari e i trucchi contabili. Fermare i soldi era strategico per bloccare l’ala militare, pronta ad agire.

Giuseppe Galluccio era – per la Dda – l’uomo della cosca Molè che aveva in mano i fili degli affari romani, “il vero e proprio braccio operativo nel settore delle slot machine”. Condannato in primo e secondo grado – già nel 1994 gli era stata contestato di essere “intraneo” alla Ndrina dei Molè – è stato recentemente assolto dalla Cassazione “per un mero difetto formale”, una mancata notifica ad un difensore. Dalla sua casa in Calabria gestiva bar, ristoranti e il giro delle slot, utilizzando un sistema di telecamere installate nei locali. Un sistema che, per il Gip, faceva “arrossire le migliori teleassistenze di cui oggi la P.A. dispone”.

La rete delle slot controllata dai Molè è vastissima. Due società coinvolte nelle indagini – la Power Play e la MD Trasporti – avevano, per gli inquirenti, piazzato videopoker in locali a Roma, Latina, Monterotondo, Tivoli, Velletri, Fiumicino e Guidonia. E poi pub, ristoranti, come il “Pozzo dei desideri” di Tivoli. E ancora, imprese sul litorale romano, a Ostia, al centro della recente indagine della procura di Roma “Nuova Alba”, dove si incrociano i destini delle mafie siciliane, campane e della capitale.

Qui Giuseppe Galluccio chiamò Rocco Femia – il boss delle slot a Modena, noto anche per aver minacciato il giornalista dell’Espresso Giovanni Tizian – per risolvere i contrasti che sorgevano nella gestione dei videopoker. Una rete collaudata, solida, attiva sull’intero territorio romano, che si spingeva fino a Terni, con investimenti che stavano entrando anche nel settore della sanità privata.

Intanto la giovane leva della Ndrina di Gioia Tauro cresceva, si preparava a prendere in mano l’organizzazione, lasciata dal “capo carismatico” Girolamo Molè, recluso in carcere. Al figlio Rocco – durante i colloqui – il capo cosca spiegava: “E’ finito di giocare … non esiste il gioco … mi dispiace … mi dispiace ma non c’è gioco … sto puntando tutto su di te (…) siccome c’è questo problema dobbiamo lasciare perdere il giocare … dobbiamo vedere solo la famiglia e basta”. La conferma – per i magistrati – che la cosca di Gioia Tauro – oggi in contrasto con i Piromalli – è più viva che mai. Lanciata verso la conquista economica della capitale.

(clic)

Stanati a Rosarno: Cacciola e Albanese in manette

arresto-gregorio-cacciola-vincenzo-albanese-01Due latitanti sono stati arrestati dai Carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria e del Ros che li hanno rintracciati rispettivamente in due distinti covi nel centro di Rosarno (nel reggino). Gli arresti, secondo quanto reso noto dagli investigatori, sono avvenuti grazie alle indagini condotte dalla compagnia dell’Arma di Gioia Tauro.

In manette sono così finiti Gregorio Cacciola, 34 anni, di Rosarno (RC), ricercato nell’ambito dell’operazione coordinata dalla Dda “Mauser-Scacco Matto” del Luglio 2014 e per i reati di traffico di droga e riduzione in schiavitù; e Vincenzo Albanese, 37 anni, pure di Rosarno (RC), ricercato dal 4 dicembre scorso per evasione dagli arresti domiciliari dopo l’arresto in flagranza per reati di droga.

Cacciola, fratello di Antonio, entrambi considerati i capi dell’omonima cosca di ‘ndrangheta, era nascosto in un’azienda per la lavorazione di agrumi, in contrada Testa d’acqua. Insieme a lui sono state arrestate anche tre persone di etnia rom e considerate come presunti fiancheggiatori della sua latitanza: si stratta di due donne, Natalia e Hanna Yakinchuk e un uomo, Seryi ChibruVincenzo Albanese, è stato invece intercettato e fermato mentre era in una casolare tra Gioia Tauro e Rosarno.

(fonte)

Non lo uccise la ‘ndrangeta, lo uccidono le banche

Stanno per essere licenziati 40 dipendenti dell’azienda Demasi di Gioia Tauro. Dove non è riuscita la ‘ndrangheta ci stanno pensando le banche e al danno si aggiunge la beffa: sì, perché gli istituti di credito sono stati condannati, in via definitiva, per usura ai danni dell’imprenditore Antonino Demasi che è in attesa di un risarcimento milionario. Soldi che non arrivano fino a quando non si conclude il procedimento civile con il quale l’imprenditore, sotto scorta dopo le minacce declan locali, ha chiesto agli istituti bancari un risarcimento di 215 milioni di euro. Nel frattempo, oltre alle linee di credito, le banche gli hanno chiuso anche i conti correnti e ora Demasi sarà costretto a mandare in liquidazione la sua azienda nonostante le commesse che gli consentirebbero, al contrario, di fare assunzioni. Una storia assurda che vede la Fiom schierata al fianco del “padrone”. “È paradossale quello che sta succedendo a Gioia Tauro“, racconta il segretario provinciale del sindacato Pasquale Marino che chiede l’intervento del governo. “Io ho subito l’usura e la Cassazione ha stabilito che la responsabilità è delle banche. – spiega Demasi – È da 11 anni che sto cercando di farmi restituire quanto mi è stato rubato. Più di quello che ho fatto non posso, adesso ho l’obbligo giuridico di chiudere l’azienda il primo gennaio. Licenzierò tutti ma continuerò a battermi contro il mondo bancario. Ci sono tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. È importante avere ben chiaro chi sono i criminali e chi sono le vittime”. Già nell’aprile scorso, della vicenda si era parlato durante il congresso della Fiom. Ma le parole del segretario Maurizio Landini e di don Ciotti sono rimaste inascoltate

(di Lucio Musolino)

La ‘ndrangheta che non tollera l’amore

18 marzo 1994. Pegli, Liguria. Maria Teresa ha quarant’anni ed è innamorata. Vedova è innamorata di nuovo, come quei fiori che rinascono quando ormai sembravano destinati a seccarsi. Vedova di un ‘ndranghetista e innamorata con un figlio giovane, Francesco Alviano, che a Rosarno in Calabria si è avvicinato a gente pericolosa, negli stessi giri del padre. Maria Teresa è con sua madre Nicolina Celano e la nipote Marilena Bracali, di ventidue anni. Tre donne in casa a Pegli, scappate dalla Calabria che ha incastrato i rami della loro famiglia, fuggite dagli uomini della cosca della Piana di Gioia Tauro. Tre donne morte ammazzate quel 18 marzo del 1994 a Pegli, così troppo poco lontana per scappare. Forse parlavano d’amore mentre venivano interrotte dall’irruzione dei killer.

Il sospettato numero uno è stato proprio il figlio di Maria Teresa, Francesco. Forse lei aveva raccontato del nascondiglio del boss che era stato arrestato esattamente 24 ore prima che lei partisse come partono le persone che  sentono addosso la puzza di morto e la vendetta. Forse Francesco doveva dimostrare di avere la caratura per una buona carriera, punendo la sfrontatezza infame della madre. Già così sarebbe una storia da pelle d’oca. Ma forse è anche peggio, forse. La pentita Giuseppina Pesce (la figlia del boss Salvatore, appunto, quello che insieme ai Bellocco controlla la Piana) ha raccontato un’altra verità: Maria Teresa si era innamorata e una vedova di ‘ndrangheta non può tradire il marito nemmeno da criminale e nemmeno da morto. Si era presa la licenza d’amare senza permesso. E doveva finire così. Chissà se avremo un cuore abbastanza grande per riuscire a ricordare e raccontare anche questa storia, tra le storie che gocciolano sangue.

 

(La notizia arriva fino a El MundoUna mujer debe ser siempre fiel al marido, siempre, incluso después de su muerte. La viuda de un mafioso tiene rigurosamente prohibido volver a casarse o mantener cualquier tipo relación sentimental, y si lo hace lo pagará con la vida. Eso establece el llamado código de honor de la mafia, un compendio del machismo y la brutalidad más absolutas que, por desgracia, aún sigue en vigor. )