Galeotto fu il pamphlet scritto dal giurista Giovanni Fiandaca, e pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara l’1 giugno dell’anno scorso con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca”, che sostiene una tesi machiavellica e contorta: non solo la trattativa tra boss e istituzioni ci fu (e fin qui siamo tutti d’accordo), ma fu un’iniziativa legittima e addirittura doverosa, trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato cercò di assolvere al suo obbligo fondamentale, cioè preservare la vita dei cittadini. Se davanti ai cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino, lo Stato trattò con la mafia – è la tesi del libello – ebbe ragione di farlo allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. “Basta con l’antimafia gridata – implora Fiandaca – oggi la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie, che chiudano una volta e per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione”.
Da allora, nulla è più come prima. Le parole del giurista hanno avuto l’effetto di uno squillo di tromba che ha chiamato a raccolta quanti, in Sicilia ma soprattutto nelle alte sfere istituzionali, vedono il processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia come il fumo negli occhi. Primo fra tutti Giorgio Napolitano. E difatti a Palermo, per discutere il pamphlet giustificazionista, si catapulta il suo più fido luogotenente, Emanuele Macaluso, totem vivente dell’area migliorista siciliana, ma soprattutto l’uomo che il generale Mario Redditi (ex capo di gabinetto al Sisde) intercettato al telefono con Mario Mori definì “il ventriloquo” del capo dello Stato. Non è passato che un mese dall’articolo del Foglio. Sotto le capriate di Palazzo Steri, sede della storica Inquisizione siciliana, Nenè Macaluso, il vecchio senatore comunista, battezza il trattato anti-pm di Fiandaca come la bibbia del nuovo garantismo di sinistra, infrangendo pubblicamente un tabù che da oltre vent’anni gravava sulle spalle del Pd, o almeno di quel pezzo di partito che ancora in qualche modo si sentiva erede del Pci di Pio La Torre: l’impossibilità di criticare le scelte della magistratura antimafia, senza incorrere nel rischio di essere immediatamente assimilati alla destra e alle tesi del berlusconismo. Dopo lo scontro scatenato da Napolitano con il conflitto di attribuzione nei confronti dei pm di Palermo, un’autentica manna per chi ha a cuore l’estraneità del capo dello Stato all’affaire che mette sotto accusa lo Stato.
L’alibi giuridico allo scontro politico
A sinistra, immediatamente, lo squillo è diventato fanfara. Allo Steri di Palermo si raccoglie un pezzo della cosiddetta intellighenzia siciliana: oltre all’autore del saggio sponsorizzato da Giuliano Ferrara, sul tavolo dei relatori c’è l’ex pm di Palermo Giuseppe Di Lello, componente dello “storico” pool antimafia di Giovanni Falcone, il segretario del Circolo socialista Alessio Campione (ex aderente alla sinistra del Psi di Lombardi e Signorile) e, nei panni del “portatore di dissenso” (ma non troppo) il giovane ordinario di diritto privato Luca Nivarra, che si professa orgogliosamente “comunista” e “marxista”. In platea, un occhiuto melting pot di accademici, studiosi, pezzi del fu Psi, metastasi del fu Pci, giornalisti, ex miglioristi migrati in fondazioni, ex socialisti riciclati in associazioni, circoli ed ex ideologi di professione ormai disoccupati. Risultato? In un festival di dotte citazioni filosofico-giuridiche, tra scrosci di applausi e urla di approvazione, il parterre dello Steri in tre ore fa a pezzi il processo di Palermo. Macaluso non perde occasione per attaccare i pm: “La questione è nel protagonismo: un processo a Mori pone chi lo affronta in una certa posizione particolare, quella di magistrato integerrimo. E una parte dei media concorre alla promozione di un eroe che osa sfidare i poteri. Penso che Mori è vittima di questa questione”. Persino Di Lello, ex senatore di Rc, icona della sinistra colta, fa sfoggio di scetticismo: “Quale sarebbe il filo che tiene insieme stragi e trattativa, il 41 bis, stabilizzato dopo pochi mesi dalla sua sospensione per i detenuti minori? Sarebbero Conso e Mancino i terminali della trattativa?”. E giù applausi.
Perchè questa voglia di dire addio, e per sempre, alla stagione del rigore antimafia, tacciato di “giustizialismo”, proprio mentre nell’aula bunker lo Stato tenta di processare se stesso? Si può parlare di un “laboratorio Palermo” dove l’accademia costruisce un alibi giuridico alla guerra (tutta politica) contro i pm di Palermo? E si può ipotizzare che Macaluso, che trascorre le vacanze con il capo dello Stato, sia il motore di questa operazione che passa per i media? E l’ambizioso Fiandacacosa c’entra? E l’insospettabile Di Lello?
Macaluso come D’Ambrosio e Mancino
Domande retoriche, ovviamente. Macaluso giura e spergiura che il suo garantismo è genuino e che le sue critiche alla procura di Palermo non hanno nulla a che vedere con Napolitano e con lo scontro presidenziale con i pm della trattativa. Anche se, sfogliando gli archivi, si scopre che il “ventriloquo” del Quirinale sostiene le stesse cose del trio Napolitano-Mancino-D’Ambrosio, proprio nei giorni delle telefonate top secret dell’ex ministro dell’Interno al centralino del Colle. Le date parlano chiaro: il 25 febbraio, il 5 marzo e il 7 marzo 2012, Mancino chiama D’Ambrosio. Si cerca il modo di “scippare” l’indagine ai pm di Palermo con la scusa di affidarne il coordinamento al Procuratore nazionale antimafia. D’Ambrosio: “Intervenire su Grasso”, con cui Mancino vorrebbe un incontro “in maniera riservatissima, che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio: “Lo vedo domani”. L’8 marzo, mentre il Quirinale ipotizza questa exit strategy per Mancino, Macaluso sul defunto Riformista critica il “processo a Palermo che vede imputati il generale Mori e il colonnello De Donno” (ma gli imputati sono Mori e Obinu) e suggerisce: “Con l’aiuto della Procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione”. Lo stesso giorno, dichiara al Corriere: “C’è una guerriglia tra poteri dello Stato, apparati investigativi e pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà a inserire Mori. La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino, mentre a Palermo sono sotto processo Mori e De Donno (sono sempre Mori e Obinu)… Ci vorrebbe un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo”. Non pago di tanto zelo, il 15 marzo Macaluso si fa intervistare pure dalla rivistina ciellina Tempi: “Non è possibile che un paese viva chiedendosi per anni se c’è stata o no una trattativa, se Borsellino è morto per questo o no… Chiederei che si mettesse un punto. La procura nazionale antimafia, che ha tutti gli strumenti necessari per approfondire, perché non interviene per fare un po’ di chiarezza?… Mancino ha ribadito… che lui non sapeva nulla su una trattativa…”. Sono più o meno le stesse parole che D’Ambrosio, per conto di Napolitano, spendeva al telefono con Mancino, cercando di rassicurarlo. Solo un caso?
Ma questo è solo il prologo. Il successo del pamphlet negli ambienti della sinistra che conta ha gonfiato le vele di Fiandaca che, nella primavera di quest’anno, ci riprova. E pubblica, per i tipi di Laterza, un volume scritto a quattro mani con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo: “La mafia non ha vinto”. È la conferma, stavolta arricchita da una prospettiva storica, della sua critica radicale al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anche stavolta la presentazione a Palermo viene allestita a Palazzo Steri: a organizzarla è l’ex dirigente del Pci Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre e parte civile nel processo sulla trattativa. Fiandaca ha ormai acquisito i toni del predicatore che non tollera dissensi. A Lo Monaco che, dopo aver auspicato un “dibattito sereno”, aveva osato: “Il libro ha grandi pregi, ma io credo che la discussione non possa partire soltanto dalla memoria dei pm, una quindicina di pagine in tutto, quando il processo è composto da decine di faldoni e migliaia di pagine”, il giurista replica furioso davanti a una sala attonita: “Lo Monaco, ma che obiezione è? Che senso ha? Non c’è bisogno di leggere migliaia di pagine di tanti faldoni, perchè nei faldoni ci sono tantissimi particolari e fatterelli che non assumono alcun rilievo ai fini della trattazione critica dei nodi di fondo posti dal processo sulla trattativa”. Poi si scaglia apertamente contro chi lo definisce un “giustificazionista”: “Siamo davanti a termini di tipo stalinista e fascista, perchè servono solo a screditare l’avversario”. Così predicando, il professore salta di presentazione in presentazione, vestendo ormai i panni dell’arguto polemista. Si avvicinano, intanto, le elezioni Europee.
Il crollo di un tabù
All’inizio di aprile, Macaluso torna a Palermo per festeggiare i suoi 90 anni e Massimo Accolla, ex giovane dell’area migliorista, raccoglie alla Gam (Galleria d’arte moderna) un plotone di vecchi amici ed esponenti della sinistra siciliana per rendere omaggio al grande vecchio della destra Pci. Anche stavolta il pubblico è d’eccezione: da Luigi Colajanni, europarlamentare all’inizio degli anni ’90, all’ex leader di Rc Francesco Forgione, presidente della fondazione Federico II, dal cuperliano Antonello Cracolici al deputato regionale Fabrizio Ferrandelli, dall’ex governatore della Regione Angelo Capodicasa al renziano Davide Faraone, dal sindacalista della Cgil Italo Tripi, fino al segretario dei democratici siciliani, Fausto Raciti. Non è una corrente, né un’area politica. Non è uno scampolo dell’ala migliorista del Pci. Non si può neppure definire una sorta di “cerchio magico” che fa capo a Napolitano, anche se al centro della corte brilla lo zio Nenè, il pupillo dell’inquilino del Colle. Che sia allora lo zoccolo duro del nuovo garantismo “rosso”? Anime e pezzi di quella sinistra che un tempo, nella Sicilia delle stragi e dei depistaggi, faceva dell’antimafia giudiziaria una bandiera di rigore e di giustizia. E oggi non nasconde più il fastidio per quello che Macaluso definisce con disprezzo il “populismo giudiziario”, l’ossessione delle manette. C’è la torta, lo spumante, ci sono le candeline. Baci, applausi, letture. Si celebra un compleanno, una stagione che fu, una generazione di ricordi; per una fetta della sinistra è il trionfo postumo di un’idea di riformismo garantista che finalmente ha l’avallo della massima carica istituzionale.
Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria. Si fa vivo, alla festa, l’immancabile Fiandaca, l’ex maestro di Ingroia che ormai nei salotti di Palermo si atteggia ad anti-Ingroia. Di questo neo-garantismo di sinistra è un improvvisato ma utile cantore: a Roma c’è chi se n’è accorto da tempo. Pochi giorni dopo aver fatto gli auguri al “ventriloquo” di Napolitano, attorno alla torta confezionata a Palermo, Fiandaca viene promosso da Renzi in persona al ruolo di candidato del Pd alle Europee per la Sicilia. Ed è a questo punto che l’Unità saluta, con fervore, la fine di un tabù: “È molto più di una candidatura – scrive Claudia Fusani il 15 aprile – È la fine di un tabù lungo vent’anni. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura e in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. La candidatura del professor Fiandaca, uno dei massimi esperti in Italia di diritto penale, nella circoscrizione Isole alle Europee nelle liste del Pd ha un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo’’.
Coraggioso Fiandaca. Che però rastrella solo 76 mila voti e alle elezioni del 24 e 25 maggio viene solennemente trombato, incarnando l’ennesimo flop isolano dei democratici che piazzano invece a Strasburgo Caterina Chinnici, magistrato e figlia di magistrato (suo padre, Rocco Chinnici, è il consigliere istruttore di Palermo che fu massacrato dalla mafia con un’autobomba nell’83), capace di tesaurizzare un bottino di 133 mila voti. C’è tra gli elettori Pd la voglia di premiare ancora una volta un simbolo dell’antimafia? È uno schiaffo agli anatemi anti-pm del giurista che sbeffeggia la trattativa Stato-mafia? Contestato dai suoi studenti, snobbato dai siciliani, il professor Fiandacatorna a fare l’anti-Ingroia nel chiuso della sua aula universitaria e sparisce di scena. Come da copione, il Pd glissa sulla figuraccia inflitta all’accademico polemista.
La riforma della giustizia
Ma oggi il fantasma “fiandachiano” di un sinistra iconoclasta che divora i propri eroi antimafia aleggia nell’aula bunker e incombe sul processo della Trattativa. Uscendo dalle pagine del libro del giurista, il garantismo di sinistra è diventato ormai un indirizzo istituzionale che va da Renzi (suo l’imprimatur alla candidatura di Fiandaca) al ministro della Giustizia Andrea Orlando (migliorista in età giovanile, ha sponsorizzato anche lui il giurista palermitano), che trova concorde il presidente del Senato Pietro Grasso (“Quelli lì, avrebbe detto a Mancino riferendosi ai pm di Palermo, “danno solo fastidio”) e il candidato alla Consulta Luciano Violante (“originale” per lui l’idea di citare il capo dello Stato come testimone al processo sulla trattativa).
Ora, dopo la conferma della convocazione di Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo, la nuova linea di Fiandaca e Macaluso è pronta a farsi agenda politica. La guerra con le toghe è a 360 gradi. E Re Giorgio ha già annunciato l’imminente riforma della giustizia. La novità? Manco a dirlo, sta nella svolta di Renzi: il Pd non più come partito fiancheggiatore di giudici e Procure, ma “partito che laicamente affronta il tema della giustizia” declinandola sotto il segno del garantismo. “Noi siamo garantisti sul serio – promette il premier – alla magistratura chiediamo di rispettare ogni norma a tutela dell’imputato”.