Vai al contenuto

giornale

Lo Stato di diritto (e di rovescio)

Non sta facendo il clamore che dovrebbe il fatto che in Italia la giornalista Nancy Porsia, esperta di Libia, sia stata illegalmente intercettata nell’inchiesta di Trapani sulle Ong nel 2017. Partiamo da un punto fermo: Nancy Porsia non è mai stata indagata eppure un giudice, su richiesta della polizia giudiziaria, ha deciso che si potesse scavalcare la legge: nel documento di 22 pagine – datato 27 luglio 2017, firmato Sco, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera – ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’Africa del nord. La notizia è stata data dal quotidiano Domani che racconta come indirettamente, oltre a Porsia, siano stati ascoltati anche il giornalista dell’Avvenire Nello Scavo, conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti, Fausto Biloslavo de Il Giornale e Claudia Di Pasquale di Report.

Primo punto fondamentale: in uno Stato di diritto che non venga rispettato il diritto per intercettare giornalisti che parlano con le loro fonti (nel caso di Porsia addirittura vengono intercettate anche telefonate con l’avvocata Ballerini, la stessa che si occupa della vicenda Regeni) significa che il potere giudiziario (su mandato politico, poi ci arriviamo) scavalca le regole per controllare coloro che per mestiere controllano i poteri per una sana democrazia. È un fatto enorme. E non funziona la difesa di Guido Crosetto (il destrorso “potabile” che è il braccio destro di Giorgia Meloni) quando dice che anche i politici vengono intercettati: si intercetta qualcuno dopo averlo iscritto nel registro degli indagati e soprattutto in uno Stato di diritto si proteggono le fonti dei giornalisti, con buona pace di Crosetto e compagnia cantante.

C’è un altro aspetto, tutto politico: in quel 2017 gli agenti di sicurezza presenti a bordo della nave Vos Hestia dell’Ong Save the Children portano foto e prove (che poi si sono rivelate più che fallaci visto che tutto si è concluso in una bolla) prima a Matteo Salvini, prima ancora che alle autorità giudiziarie. È scritto nero su bianco che proprio Salvini su quelle informazioni ci ha costruito tutta la sua campagna elettorale. Un giornalista, Antonio Massari, racconta la vicenda su Il Fatto Quotidiano e costringe Salvini ad ammettere di avere avuto contatti, prima delle forze dell’ordine, proprio con i due vigilantes che puntavano a ottenere in cambio qualche collocazione, magari politica. Salvini, conviene ricordarlo diventerà ministro all’Interno.

Rimaniamo sulla politica: l’ordine di indagare sulle Ong parte dal ministero dell’Interno dell’epoca di cui era responsabile Marco Minniti. Ci si continua a volere dimenticare (perché è fin troppo comodo farlo) che proprio da Minniti parte la campagna di colpevolizzazione delle Ong che verrà poi usata così spregiudicatamente da Salvini e compagnia. Ad indagare sull’immigrazione clandestina viene applicato il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato, il servizio di eccellenza degli investigatori solitamente impegnato in indagini che riguardano le mafie. Anche questa è una precisa scelta politica.

Rimane il sospetto insomma che politica e magistratura si siano terribilmente impegnate per legittimare una tesi precostituita. Di solito (giustamente) ci si indigna tutti di fronte a una situazione del genere e invece questa volta poco quasi niente. Anzi, a pensarci bene la narrazione comunque è passata.

È gravissimo e incredibile eppure accade qui, ora.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sì Renzi, che Bin Salman sia il mandante dell’omicidio Khashoggi “lo diciamo noi”, e lo ripeteremo all’infinito

Sempre su Renzi, sì, ancora. Del resto sono giorni che questi arzigogolano su Scanzi e la dieta detox e figurati se non valga la pena imbrattare qualche giornale per un ex presidente del Consiglio che rivendica davanti a una telecamera di essere amico (ha detto proprio così, grande amico) di un principe che l’Onu e la CIA indicano come mandante dell’omicidio di un giornalista.

A proposito: sapete perché Khashoggi è stato ucciso? Perché anche questo punto sembra passato in cavalleria come se fosse una cosa da poco: Khashoggi è passato sotto una moto sega perché nei suoi articoli raccontava come l’Arabia Saudita stesse instaurando un regime dittatoriale costruendosi una maschera internazionale da Paese democratico e internazionale.

Anche questo non conta? Anche questo non vi dice niente? Per gli sbadati: due giorni fa il Guardian ha raccontato delle minacce ricevute dalla reporter dell’Onu che ha indagato sull’omicidio Khashoggi, Agnès Callamard, ma la stampa italiana è stata piuttosto sbadata e si è dimenticata di scriverlo. Del resto avrebbero dovuto scrivere che le minacce sono state pronunciate da un alto funzionario saudita durante un incontro ufficiale con funzionari dell’Onu, questo per dare l’idea del senso di impunità che vige nella rinascimentale Arabia Saudita.

Ci si è dimenticati perfino che un calciatore, Cristiano Ronaldo, sia riuscito a dare una lezione di etica a un ex presidente del Consiglio rifiutando un sontuoso contratto di 6 milioni di dollari per fare da testimonial all’Arabia Saudita in una campagna per il turismo. Mica solo lui: il quotidiano inglese Telegraph ha riportato anche il rifiuto di Lionel Messi. Capite di cosa stiamo parlando? Calciatori con una senso dell’etica e dell’opportunità maggiore di un senatore che siede nella Commissione Difesa.

Che l’esaltazione di un dittatore sanguinario venga fatta alla luce del sole, senza nemmeno un cenno dalle istituzioni della Repubblica Italiana per prendere le distanze, è un fatto politicamente rilevantissimo nonostante qualcuno giochi a minimizzare.

E non è un problema solo di Renzi (che la credibilità l’ha persa da un bel pezzo) ma è una situazione che chiede una presa di posizione forte da parte di tutti coloro che rivestono un ruolo istituzionale: “Questo lo dite voi” e noi lo scriviamo con forza, lo ripeteremo all’infinito, ce ne prendiamo tutte le responsabilità e lo leggiamo nei rapporti della CIA, dell’Onu e di chiunque abbia a cuore i diritti. Non si tratta di un pettegolezzo tra rignanesi, è una questione mondiale.

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta (di Luca Telese) / 3. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli)

4. 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) / 5. Decapitazioni in piazza, attivisti frustati, civili bombardati: ecco l’Arabia Saudita di Renzi “culla del Rinascimento” / 6. Omicidio Khashoggi, la fidanzata Hatice Cengiz a TPI: “Pensavo che l’Occidente si sarebbe battuto, invece ho trovato reticenza”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza?

Tenetevi forte perché manca poco al ritorno dello spettro dei migranti clandestini, degli sbarchi sconsiderati e di tutta quell’orrenda narrazione contro le Ong nel Mediterraneo lasciato sguarnito in modo criminale dall’Europa. E preparatevi perché se è vero che conosciamo già perfettamente alcuni personaggi in commedia, a partire da quel Salvini che già da qualche giorno è tornato sull’argomento per provare a frenare lo scontento tra quei suoi elettori affamati di cattivismo e ancora di più incattiviti dalla pandemia, e a ruota ovviamente Giorgia Meloni per occupare quello spazio politico, soprattutto tornerà alle origini quel Movimento 5 Stelle che si è ammantato di solidarietà per incastrarsi nel secondo governo Conte ma che ora è pronto al ritorno delle sue radici peggiori.

La tromba della carica l’ha suonata ovviamente Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali che sostituiscono da soli le assemblee di partito e che ha usato tutto l’armamentario del razzismo con il colletto bianco per puntare il dito contro le Ong, per irridere le “anime belle” (che per Travaglio sono la categoria di tutti quelli che non la pensano come lui ma che non possono essere manganellati con qualche indagine trovata in giro) e mischiando come al solito le accuse con le sentenze, gli indagati con i colpevoli, le ipotesi dei magistrati come “fatti” e gli stantii pregiudizi come acute analisi. Così la chiusura delle indagini della procura di Trapani per un presunto reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso Iuventa basta al suggeritore dei grillini per richiamare tutti alle armi: picchiamo sui migranti, bastoniamo le Ong e chissà che non si riesca spremere qualche voto anche da qui.

E fa niente che sia dimostrato dai dati (e da anni) che “gli angeli delle Ong” (come li chiama Travaglio per mungere un po’ dalla vecchia accusa di “buonismo”) non “attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani”: Travaglio trova terribilmente sospetto che delle organizzazioni dedite al soccorso in uno spicchio di mare conoscano perfettamente quel mare e i luoghi dei naufragi. La competenza del resto da quelle parti è vista con diffidente apprensione. Ma agli osservatori più attenti, quelli che semplicemente non si sono fatti infinocchiare dallo storytelling del Conte bis, forse non sarà sfuggito che Di Maio sia proprio quel Di Maio che discettava allegramente delle Ong come “taxi del mare” quando c’era da accarezzare l’alleato Salvini e Giuseppe Conte sia proprio quel Giuseppe Conte, nessuna omonimia, che partecipava allegramente alla televendita dei Decreti Sicurezza che andarono alla grande durante la stagione della Paura.

Ovviamente nessuna parola sull’omesso soccorso in violazione del Diritto internazionale del Mare che è un crimine di cui il governo italiano e l’Europa si macchiano almeno dal lontano 2014 quando il governo Renzi decise di stoppare l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare e niente di niente su quella Libia (e qui invece ci sono tutte le prove e tutte le condanne per farci una decina di numeri di giornale) che è un enorme campo di concentramento a forma di Stato, così amico del governo italiano. Ma la domanda vera è chissà cosa ne pensa il Pd, questo Pd che ci promette tutti i giorni che domattina si risveglierà più umano e attento ai diritti e che è sempre pronto (giustamente) per opporsi sul tema a Salvini ma che è stato così terribilmente distratto con i tanti Salvini travestiti che ci sono qui intorno.

Il Pd che ci ha indicato come “punto di riferimento riformista” il presidente del Consiglio che fece di Salvini il più splendente Salvini, il Pd che ancora fatica a riconoscere le responsabilità del “suo” ministro Minniti, il Pd che con il precedente governo prometteva “un cambio di passo” sui diritti dei migranti fermandosi solo alla sua declamazione, mentre la ministra dell’Interno del Conte bis, lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, bloccava contemporaneamente ben sette barche delle Ong tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 riuscendo a fare meglio perfino di Salvini, rispettando in tutto e per tutto la linea d’azione del leader leghista stando con la semplice differenza di non rivendicarla sui social insieme a pranzi e gattini.

Se il nuovo Pd di Letta vuole recuperare credibilità forse è il caso che ci dica parole chiare su questa irrefrenabile inclinazione dei suoi irrinunciabili alleati perché alla fine Salvini rischia di risultare onestamente feroce in mezzo a tutti questi feroci malamente travestiti.

L’articolo Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza? proviene da Il Riformista.

Fonte

Massacrata dall’ex, Clara si era pagata il funerale da sola: già sapeva di morire e nessuno ha fatto niente

L’aspetto più agghiacciante e emblematico della morte di Clara Ceccarelli, la donna di 69 anni uccisa furiosamente con più di trenta coltellate a Genova da suo ex compagno Renato Scapusi, piastrellista disoccupato cinquantanovenne che dopo essere stato lasciato dalla donna dodici mesi fa non aveva mai accettato la fine della loro relazione, è che la sua “morte annunciata” si ritrovi nelle azioni della donna nei suoi ultimi giorni di vita.

Clara Ceccarelli aveva già pagato il suo funerale per non pesare economicamente sui suoi famigliari nemmeno da morta, aveva contattato un tutore per il figlio disabile e aveva sistemato anche la cura del padre anziano e malato. È l’immagina di una donna che sa di dover partire e che rinuncia perfino a difendersi preferendo usare le sue ultime energie per apparecchiare un “dopo di lei” che è una resa anche dello Stato tutto di fronte alla slavina dei femminicidi: una donna che rinuncia a difendersi ci obbliga a porci domande sulla protezione non solo giudiziaria ma anche culturale e sociale che sta intorno alle donne che si ritrovano sole di fronte all’orrore. Pagarsi il proprio funerale significa non intravedere nessuna possibilità di salvezza, certificare la propria disperazione come ineluttabile, cedere senza nemmeno riuscire a immaginare un appiglio.

Per questo forse di femminicidi è doveroso parlare, nonostante i fallocrati che se ne risentano. Per questo ogni giorno si dovrebbero usare parole per raccontare un fenomeno che continua a essere percepito come “un vezzo delle femministe” (scrisse così un innominabile editoriale di un innominabile giornale di cui non vale la pena per ecologia intellettuale nemmeno fare il nome) e che solo nel 2021 ha già fatto registrare 9 vittime, una ogni 5 giorni. E parliamo solo d quelle che hanno perso la vita.

Ora immaginate un omicidio ogni 5 giorni in Italia di qualche gruppo terroristico, un omicidio ogni 5 giorni da parte di persone di una qualsiasi etnia o provenienza geografica, provate a immaginare il grido di allarme smisurato e sventolato per fomentare ribellione e indignazione. E provate invece ad ascoltare l’arreso silenzio che ogni volta volteggia sulle vittime di femminicidio e sui casi di violenza con assassini che non riescono a non considerare una donna come proprietà privata indegna di poter prendere decisioni in autonomia. Quel silenzio è il cappio che spinge le donne ad arrendersi prima ancora di cercare giustizia. Ed è una responsabilità generale, sociale, politica e culturale che non dovremmo concederci.

Leggi anche: TUTTE LE NOTIZIE DI CRONACA DI TPI

L’articolo proviene da TPI.it qui

Dora

Ricoverata per un’operazione all’anca. Contagiata all’interno della clinica. Dimessa per errore come negativa al Covid. Morta e abbandonata in un deposito del cimitero in mezzo ai sacchi della spazzatura. È accaduto a Monopoli. Ora la famiglia di Teodora Scarafino chiede giustizia

«Io quest’anno non ho voglia di festeggiare niente, l’idea di passare le feste senza mia mamma è lacerante. Ho dovuto a malincuore preparare l’albero per mia figlia ma voglio solo che quest’anno passi il più velocemente possibile, il più silenziosamente possibile». Non trattiene la commozione Roberto Leoci mentre racconta a Left la drammatica storia di sua mamma Teodora Scarafino, per tutti Dora, che è uno delle migliaia di lutti che attraversano il Paese in quest’epoca di pandemia ma che assume i contorni di un enorme schiaffo in pieno viso per come si sono svolti i fatti.

Dora era il perno della famiglia, sempre attiva, sempre dedicata alle cure di suo marito, dei suoi figli e dei suoi nipoti. La sua cucina era sempre in movimento per ospitare qualcuno a pranzo o a cena, lei che la domenica andava in campagna per raccogliere ciliegie e i capperi e gli asparagi e preparare quelle cene di famiglia che tenevano insieme quattordici persone.

«Non era una presenza: era la presenza», dice il figlio. E proprio per essere in forma in occasione delle feste che arrivavano Dora aveva deciso di farsi operare all’anca, «avremmo anche potuto ritardare» dice Roberto. E invece il 7 settembre la signora Scarafino viene ricoverata nella clinica Mater Dei di Bari per un’operazione che avrebbe dovuto essere di routine. «Effettua il tampone in ingresso, negativo, – racconta il figlio – va tutto bene e dopo tre giorni viene trasferita nel reparto di riabilitazione motoria per iniziare il suo percorso di recupero». Anche in questo caso tutto procede nella norma, arriviamo ai primi di ottobre: «Era il 2 o 3 ottobre e ci sentiamo telefonicamente poiché le visite erano proibite dalle norme anti Covid. Mia madre mi racconta, un po’ preoccupata, che la sua vicina di letto, in stanza con lei, lamenta tosse, febbre e dolori vari».

I quattro figli di Dora si preoccupano, durante la prima ondata del virus a marzo l’hanno tutelata con molta attenzione. «Comincia a fare dei ragionamenti non suoi, sragionava, ad esempio mi chiedeva se mio padre fosse rientrato dal lavoro eppure mio padre è in pensione da anni». I figli chiedono informazioni a medici e infermieri ma non ottengono risposte, vengono sommariamente rassicurati, gli dicono che non c’è nessun problema e che la febbre della compagna di stanza è una semplice influenza, probabilmente dovuta a un colpo di freddo.

Il 5 ottobre la signora Dora comunica ai figli che alla vicina di letto è stato fatto il tampone, una risonanza e i raggi ai polmoni. «Aumenta ovviamente la preoccupazione – racconta il figlio al nostro settimanale – ma dalla clinica la risposta è sempre la stessa: state tranquilli. La signora continua a rimanere in camera con mia madre. Addirittura il giorno successivo, il 6 ottobre, me la passa al telefono e quella mi saluta, “tranquillo tranquillo” mi dice mia mamma»·

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, tutto precipita: «Nostra madre ci chiamava e ci dice che l’hanno spostata in un’altra camera, con tutte le sue cose, il suo letto, il suo armadietto, i suoi vestiti, che non le permettono nemmeno di affacciarsi sul corridoio dell’ospedale, che si sente reclusa. Io e mio fratello partiamo subito, cerchiamo di parlare con vari medici, non ci fanno entrare e riusciamo solo a metterci in contatto con una dottoressa che ci dice che l’ex compagna di stanza di nostra madre non è positiva al tampone e di stare tranquilli. Addirittura prende nostra mamma dalla stanza dov’era e la fa affacciare dalla finestra. Mia madre continua a sragionare, in quell’occasione disse a me e a mio fratello di “fare i bravi con i medici” perché la stavano trattando bene».

I due fratelli tornano a casa, a Monopoli, in attesa del risultato del tampone. Quella sera stessa leggono alcune notizie di un focolaio di Covid proprio nella clinica Mater Dei di Bari. La mattina dopo si rimettono in macchina e ripartono, riescono a parlare con il direttore sanitario della struttura che li rassicura, ancora, conferma che ci sono casi di positivi nel reparto ma dice di non preoccuparsi. Alle 15 arriva l’esito del tampone: negativo. «Diciamo a mia mamma di firmare le dimissioni, anche perché erano cinque giorni che non faceva più riabilitazione e non aveva senso rischiare. Arriviamo in ospedale e in tre minuti fanno uscire nostra madre al freddo, in pigiama, con la sua valigia. In auto non stava bene: tossiva, aveva dolori e difficoltà respiratorie». Ma era negativa, nessuno si preoccupa. Due ore dopo la clinica richiama e dice che c’è stato un errore: avevano scambiato il tampone di ingresso con quello di uscita, la signora Dora è positiva. I figli non possono credere di ritrovarsi in una situazione del genere: chiamano il 113, scrivono all’Asl, alla Regione Puglia, decine di mail, nessuna risposta. Solo il medico di base prescrive una cura.

Il 14 ottobre la donna viene portata via in ambulanza. Tutta la famiglia si mette in isolamento, una figlia viene ricoverata per Covid. Dora viene portata in terapia intensiva dove il suo ultimo calvario finisce con la morte: «Un percorso in ospedale di tre settimane che l’ha portata alla morte – racconta il figlio – ma l’ultimo schiaffo doveva ancora arrivare. Il giorno 9 novembre ci restituiscono il corpo e la bara viene trasportata in un ufficio del cimitero di Monopoli adibito a deposito. La bara di mia madre la ritroviamo in mezzo a sacchi della spazzatura, ossari, lettighe per le tumulazioni. Veniamo addirittura minacciati da chi avrebbe dovuto prendersi cura di quel luogo. Noi siamo andati completamente fuori di testa, ho scoperto lati di me che non conoscevo, vedere il corpo di mia madre in quelle condizioni mi ha ferito perfino di più di quella clinica che l’ha uccisa». Ora la famiglia di Dora sta preparando le denunce mentre i responsabili del cimitero si sono sommariamente scusati con un articolo su un giornale locale e il direttore della clinica Mater Dei ha parlato di un “errore fatto in buona fede”.

«L’ultima volta che l’ho sentita – racconta Roberto – prima che entrasse in terapia intensiva le ho detto che qui tutti, i suoi figli e i suoi nipoti, le volevamo un gran bene e lei senza rendersi conto che era un addio mi ha detto “sono vostra madre, è normale che mi vogliate bene”». Ora i figli di Dora chiedono di ottenere, dopo il dolore, un po’ di giustizia.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sul caso Genovese auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri

È dura essere Vittorio Feltri. Ogni mattina si sveglia e deve riuscire a intercettare gli umori peggiori dei più bassi discorsi da bar e metterli su pagina per manganellare qualcuno. Oggi il “giornalista” se la prende con la vittima di Alberto Genovese e lo fa con un editoriale che si racconta già dal titolo: “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”.

Si comincia instillando un dubbio: “Certo, gli piacevano le donne e non credo che faticasse a procurarsene in quantità – scrive Feltri. Che necessità aveva di rincorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico”.

E così il dubbio è subito bello e servito. Ma Feltri dà il peggio di sé nella descrizione dello stupro: “Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nell’abitazione del nostro “eroe” del menga […] Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito fumavo una sigaretta…”.

Finito qui lo schifo? No, no. Feltri ci dice “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Capito? Per Feltri, come per tanti sostenitori del giornalismo fallocratico, non c’è differenza tra violenza, stupro e un normale rapporto amoroso: è tutto solo un atto sessuale, è tutto solo quella cosa lì, tutto uguale, sempre uguale.

Il finale poi è un manifesto di indegnità giornalistica. Feltri si domanda se la vittima “entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite” pensava “di andare a recitare il rosario”, senza sospettare “che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele” e scrive che “sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui”. Insomma, se l’è cercata.

Il vomitevole editoriale si chiude con “lui” che “adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni (indovinate cosa, nda) con l’augurio di “disintossicarsi in carcere”. E la vittima? Scrive Feltri: “Alla vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri è tutto qui.

Qualcuno dice che non bisognerebbe sottolinearli certi pezzi, qualcuno dice che bisognerebbe fare finta di niente. Ma c’è una responsabilità sulle parole che ritorna proprio in questo periodo ancora più prepotente: la violenza sulle donne inizia quasi sempre con la parola, è lì che si infila la prima fallocrazia. Qualcuno dice che Feltri fa così per provocare, benissimo, allora mettiamoci d’accordo su quale sia il limite delle cosiddette “provocazioni” che poi non sono altro che articoli che vogliono parlare a un pubblico ben preciso: i maschi che per sentirsi maschili sanno solo essere maschilisti. La violenza sulle donne è qualcosa di troppo grave e di troppo serio per essere lasciata in mano a Feltri e per questo c’è da continuare a sottolineare qualsiasi sua schifezza, soprattutto se pubblicata su un giornale di tiratura nazionale.

Del resto ci sono articoli scritti bene, articoli scritti male, articoli giusti, articoli sbagliati e articoli scritti con il cazzo dentro la penna. E in questi ultimi Feltri (e quelli di cui fieramente si fa portavoce) è un maestro. L’Ordine dei giornalisti non ha niente da dire?

Leggi anche: Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini (di F. Bagnasco)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Aveva 6 mesi, avete dormito?

Aveva sei mesi. A sei mesi hai una vita davanti, dopo il mare e a sei mesi sei anche ghiotto per farci un articolo di giornale. Ma il naufragio avvenuto l’altro ieri a circa 30 miglia a nord delle coste libiche di Sabratha ha fatto “poca” notizia. Sono subito diventati numeri. Accade così: se non ci sono corpi da fotografare e cadaveri tra i bagnanti la notizia scuote poco poco, interessa agli addetti del settore, dicono così. A proposito che sanno “gli addetti del settore” di 6 persone morte tra cui un bambino di sei mesi? Chi sono gli “addetti del settore”? Le persone, mica solo quelle di buone volontà, la morte di un bambino annegato è un peso anche per le persone di cattiva volontà, gli auguro di sentirlo, gli auguro di non riuscire a disfarsene appena farà capolino.

Si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea. Una volta scriverne il nome almeno faceva un certo effetto. Ora nemmeno quello. Scivolano anche i nomi, scivolano le storie, scivola tutto in fondo al mare. Joseph era con più di 100 persone su un gommone stracarico, talmente stracarico, che ha ceduto il pianale. Un abisso che si apre sotto il pavimento. Visto da un aereo di Frontex sono stati salvati dalla nave di Open Arms, le Ong cattive, quelle che l’altro ieri ne hanno salvati 111 che stavano aggrappati ai galleggianti come ci si aggrappa al ciglio di un burrone, con quella paura che è talmente densa da diventare puzza. Voi le avete mai sentite le persone quando puzzano per la paura? È un odore rancido che non si riesce a staccare di dosso.

Articoli su articoli, editoriali su editoriali sui processi (giusti) a un ex ministro che ha lasciato persone a bordo di una nave militare italiana e chi processa chi per un bambino di 6 mesi rinsecchito dal mare? Chi è il colpevole? Chi sono i colpevoli? Dov’è la giusta indignazione? Perché si continua a morire ma non si continua più a raccontare con la stessa virulenza di prima? È una cosa che non mi fa dormire la notte.

A proposito: voi che avete responsabilità sul Mediterraneo e che lasciate intoccabile l’inferno libico avete dormito in queste ultime due notti? Vi siete riposati tra i guanciali del virus che ammorba anche tutto il resto rendendo soffici le tragedie? Siete soddisfatti che sia passato il cattivismo solo perché è cambiata l’aria? Perché il mare continua a uccidere. Annega e se li mangia. E uccide.

Siate maledetti.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti

Sono due gli agenti della casa circondariale di Rebibbia sospesi dal loro incarico, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio all’istituto che ora sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. La presunta vittima è una detenuta con problemi psichiatrici. I fatti risalgono alla notte dello scorso 21 luglio: la donna è stata trascinata con forza perché aveva rotto un termosifone, dopo avere chiesto una sigaretta e avendo ottenuto un rifiuto, e per questo sarebbe stata portata in un’altra stanza priva di telecamere di sorveglianza. Il tutto sarete avvenuto con la presenza di ben 5 agenti donne e un agente di sesso maschile che avrebbero poi redatto un verbale di servizio in cui era riportata una presunta aggressione da parte della detenuta nei confronti degli agenti che in realtà non sarebbe mai accaduta.

«Non risulta che la detenuta stesse tenendo un comportamento aggressivo che abbia reso necessario l’intervento di un agente di sesso maschile, né dai filmati risultano situazioni che rendessero necessario l’uso della forza per lo spostamento della detenuta, come sostenuto dagli indagati nell’interrogatorio» scrive nell’ordinanza la gip Mara Mattioli, che descrive anche i fatti successivi: «Il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda, non è stato posto in essere per salvaguardare l’incolumità della stessa (avendo la detenuta già da un po’ cessato le intemperanze) apparendo invece chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna». Nel video agli atti anzi la donna detenuta è evidentemente in imbarazzo proprio per la presenza di un uomo e cerca di coprirsi le parti intime. Scrive la gip: «L’agente entra nella stanza n.3 e ne esce tenendo ferma la nuca della detenuta che in quel momento appare collaborativa ed è completamente nuda, la accompagna all’interno della stanza n.1 resa nuovamente agibile».

Una circostanza che per l’eccezionale presenza di personale di sesso maschile non autorizzato doveva diversamente essere riportato agli atti. «Inoltre la telecamera esterna alle ore 2.01 del 22/7/2020 riprende nuovamente l’agente entrare nella stanza n.1 ove è rimasta la detenuta ed uscirne circa 24 secondi dopo. Di questo accesso non vi è traccia nei verbali né dai filmati si capisce sulla base di quale necessità un agente di sesso maschile sia intervenuto da solo presso la cella della detenuta (peraltro ancora completamente nuda)». Secondo quanto riportato dalla vittima nel suo interrogatorio sarebbe rimasta sola con l’agente uomo nella stanza mentre era minacciata di non rivelare quei fatti a nessuno altrimenti le violenze si sarebbero ripetute. Da qui la condanna di falso ideologico e di abuso di autorità che hanno portato anche alla sospensione del servizio: “personalità del tutto spregiudicate” che avrebbero potuto reiterare le violenze e che avrebbero potuto inquinare le prove. Secondo fonti interne al carcere, infatti, gli accusati non era la prima volta che eccedevano in violenze e risulterebbero diverse segnalazioni e condanne disciplinari nel loro curriculum.

Per il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia «pur rimanendo ovviamente garantisti la loro sospensione è un segnale importante perché in molti casi di abusi, quando non vengono coperti con omertà, il personale resta normalmente in servizio e in molti casi restano in servizio nello stesso istituto se non addirittura nelle stesse sezioni». Per questo, dice Anastasia, «l’intervento del Dap è particolarmente apprezzabile perché è risultato abbastanza urgente, mentre spesso si aspetta l’esito del procedimento penale, quindi molti anni dopo, prima di intervenire e allontanare gli eventuali colpevoli»· Mentre ora le indagini faranno il suo corso e accerteranno eventuali responsabilità però resta da registrare un dato, che è sempre lo stesso: nelle carceri italiani continuano a consumarsi violenze che difficilmente riescono a rompere il muro di omertà che si crea tra agenti penitenziari. In questo caso i video delle telecamere di sorveglianza hanno potuto almeno appurare che non ci sia stata nessuna presumibile aggressione, motivazione molto spesso usata per proteggere la facciata di eventuali violenze, ma solo il lavoro delle indagini ha permesso di scoprire che il verbale redatto sull’accaduto non corrispondesse alla realtà dei fatti.

Poi c’è la questione, la solita annosa di cui spesso scriviamo anche sule pagine di questo giornale, di detenuti che non sono nelle condizioni psichiche di poter sicuramente stare in una cella: la donna vittima della violenza nel carcere di Rebibbia è descritta da tutti, anche dagli inquirenti, come una persona con gravi disturbi psichici. Ma siamo davvero sicuri che una situazione del genere non sia anche creata dalla mancanza di misure alternative al carcere che dovrebbero permettere a lei di scontare la propria pena con un metodo alternativo che comprenda anche le giuste cure (oltre alla propria dignità) e che non debba mettere operatori penitenziari (anche senza le giuste competenze) in condizioni così difficili? Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale.

La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Un detenuto su 4 assume regolarmente psicofarmaci. Tutto questo mentre una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso agosto mette nero su bianco che è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare. La donna di questa terribile storia ancora prima che non essere maltrattata non doveva stare a Rebibbia.

L’articolo Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti proviene da Il Riformista.

Fonte