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giovanni falcone

La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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Dove eravamo? Adesso siamo qui

Giro l’Italia per incontri, presentazioni di libri, spettacoli e conferenza. Sono molto fortunato. Sono molto fortunato perché mi ha insegnato ad ascoltare. E non è facile come sembra: richiede curiosità e fatica. Poi ogni tanto trovo l’eco di una presentazione su qualche frammento sul web. E penso sempre di più che ne valga la pena, sul serio. E che sono tantissime le occasioni in cui avrei bisogno di qualche minuto in più per fermarmi e ascoltare, discutere, parlare. Valeria Grimaldi scrive della presentazione del libro Dove eravamo (Caracò editore) e infonde bellezza e forza:

Una parola usata da Giulio Cavalli mi ha colpito molto: la parola lutto. “Il lutto è già passato” riferendosi alle stragi. Ho sentito un bruciore al cuore, la rabbia che saliva: forse perchè ho vent’anni, forse per un rimorso non dipeso da me ma solo dal tempo, perchè non ho un ricordo personale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Perchè non sono potuta essere lì a sostenerli quando ancora erano in vita. Il mio lutto non è passato, credo non passerà mai: ogni giorno saranno il 23 maggio e il 19 luglio. Ogni giorno mi farò la stessa domanda: dove sono? A combattere. Per loro, per me, per tutti.

Il post completo è qui.

L’ex direttore del DAP: “lo Stato ha ceduto alla mafia”

Nel febbraio del 1993 Scalfaro ha ricevuto dalla mafia una lettera dove si chiedeva il mio allontanamento. Fatto sta che dopo qualche mese fui cacciato”.Nicolò Amato, direttore del Dap dal 1982 al 1993, parla della stagione più nera per le istituzioni italiane in una lunga intervista adAffaritaliani.it: “Il Presidente della Repubblica decise la mia destituzione nonostante la cosa non fosse di sua competenza. Perché fui mandato via? Sapevano che avrei proseguito sulla strada del carcere duro”.

Si può parlare di trattativa? “E’ un fatto che le richieste della mafia siano state accolte“. E sulla versione dell’ex ministro della Giustizia Conso: “E’ impossibile che abbia deciso da solo la revoca del 41 bis. E al Dap più che Capriotti, comandava il suo vice, Di Maggio“. Chi cede non è perseguibile, ma secondo Amato “non si sarebbe mai dovuto cedere alle pressioni di Cosa Nostra”. E sulla Commissione Antimafia che ha deciso di non riconvocarlo: “Ora so molte cose in più di quando sono ascoltato. Se c’è voglia di arrivare alla verità? Bisognerebbe chiederlo a chi la cerca”.

Un’intervista importante di oggi su Affari Italiani.

E alla fine sarà colpa nostra anche via D’Amelio

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Siamo cresciuti con Falcone e Borsellino nelle orecchie come un mantra per farci addormentare. Sembrava semplice, anche, a vederlo da fuori o da lontano, arrampicati quassù a Milano dove le bombe al massimo erano un incidente di percorso ma senza rischio. Chi erano i buoni e chi erano i cattivi: era semplice. Loro, ci dicevano, li hanno uccisi perché erano buoni, Falcone perché combatteva la mafia. E allora così piccolo e sprovveduto pensavi sempre che era una battaglia a perdere, quella contro la mafia, come la bottiglia da restituire quando ci hai bevuto tutta l’acqua dentro. Borsellino l’hanno ucciso perché era l’amico di Falcone, il suo erede. E ce l’hanno raccontato con quelle facce che hanno gli adulti quando sanno di raccontare una storia che è così chiara da sembrare banale, con le certezze dei dogmi da passare ai figli con la solennità che si addice ai padri sempre un po’ di fretta di ritorno dal lavoro.

Era la stessa faccia che si ingrugniva su Andreotti, che forse sì, non era stato sempre trasparente ma “la mafia è un’altra cosa”. Forse Andreotti l’aveva incrociata a qualche fermata del tram o l’aveva salutata seduta al tavolo di fianco durante la pausa pranzo. Ma “la mafia è un’altra cosa”. Oppure le facce con il mezzo sorriso dei cretini mentre scuotevano la testa quando si diceva di odore di mafia con Raul Gardini, che da noi, qui giù al nord, era l’abbronzato più nordico che si potesse immaginare. Insomma sì, la politica e qualche imprenditore saranno stati un po’ spericolati in quegli anni ma “la mafia è un’altra cosa” e l’importante è santificare i morti. Ricordandosi e ricordandoci tutti che la mafia è sporca e cattiva, tutti insieme nella santa messa dei morti ammazzati saltati in aria quell’anno lì, quell’anno di Falconeeborsellino scritto tutto attaccato come si mischiano le cose quando perdono la memoria e il senso.

Poi ci è toccato di andare a studiare Andreotti com’era Andreotti dentro le carte del processo, cosa diceva Dalla Chiesa al figlio e alla moglie, abbiamo frugato nei cassonetti della memoria superficiale e deteriorabile in fretta per ripescare gli articoli che si incaponivano, che non volevano semplificare. Che non era tutto bianco e nero e che in mezzo al brodo di tutto quel grigio ci stava la forza buia degli ultimi vent’anni. Non è nemmeno stato facile trovare le memorie di quel tempo: gli articoli stavano annichiliti dietro alla lavagna, dove si castigano gli allarmisti per professione e per eversione professionale.

Ora quel 1992 e quella bomba esplosa sotto le scarpe di Paolo Borsellino forse non è più così semplice. Ora le indagini e le Procure dicono che c’era qualcosa in più. Forse, ci dicono, forse non è vero “che la mafia è un’altra cosa”. Forse il filo rosso che sta dietro gli ultimi venti anni ha un padre che viene da molto lontano e dei figli che sono la seconda generazione di quel buco in via D’Amelio. Figli dallo stesso utero del tritolo di Capaci. Altro che buoni e cattivi, bianco o nero, e i complotti che stanno a zero. Altro che le farneticazioni dei figli, dei fratelli e dei parenti che non riescono a sopravvivere tranuquilli ai familiari morti ammazzati.

Qualcuno balbetta, sì forse abbiamo dato per scontato e invece c’è qualche scheggia impazzita. Provano a tranquillizzarci così. Un’educazione antimafiosa di errori, banalizzazioni e falsità e provano a discolparsi accusando pochi personaggi minori della storia. Poi ci diranno che bisogna aspettare i riscontri. Sicuro. E che comunque queste sono le settimane della memoria: mani giunte, sguardo umido e poche domande. Non si bisbiglia durante la messa. E’ un peccato mortale.

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Pubblicato su I Siciliani Giovani – giugno 2012

Per scaricare il nuovo numero: www.isiciliani.it

Nell’uscita di questo mese:

Margherita Ingoglia e Michela Mancini  Giovani: Telejato e Siciliani Gian Carlo Caselli Illusioni e verità Nando dalla ChiesaNdrangheta e sanità Giulio Cavalli Via D’Amelio Riccardo Orioles Maledetta antimafia Norma Ferrara / Sabina Longhitano Gaetano Liardo Un’estate libera Emanuele Midolo Terre bruciate Giovanni Caruso Terre bruciate Pietro Orsatti Beni confiscati Rino GiacaloneBeni confiscati Rino Giacalone Il mancato arresto di Messina Denaro Francesco Feola Rewind-Forward Salvo Vitale Muoiono 40 tv, si salva Telejato Maria Visconti e Salvo Ognibene Telejato e le scuole di Bologna Studenti di Bologna Lettera al Presidente Nadia Furnari Rita Atria vent’anni dopo Luciano Mirone Il caso Manca Antonio Mazzeo I droni di Sigonella Sara Spartà Niscemi: NoMuos e antimafia Arnaldo Capezzuto L’azzardo di Laboccetta Arnaldo Capezzuto L’editto di Nick ‘o ‘Mericano Ester Castano Perego e ‘ndrangheta Desirée Miranda e Leandro Perrotta Catania/ “Vuoi parlare? Paga!” Salvo Vitale L’affare dela distilleria BertolinoMargherita Ingroglia Partinico/ Elezioni in cosca Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Pantelleria/ Un sindaco in mezzo al mareCarlo Gubitosa, Kanjano e Mauro Biani Mamma Jack Daniel Satira/ Vergine again Luca Salici e Luca Ferrara Grafic Novel/ Caponnetto Antonello Oliva Musica/ I nuovi cantautori Elio Camilleri Storia/ Portella delle Ginestre Alessandro Romeo Altri Sud/ Pausa indiana Giuseppe Giustolisi Medici catanesi Daniela Sammitto Chi vuol chiudere la comunità Rossana Spadaro Vittoria/ Volti e storie Lorenzo Baldo Interviste/ Alfredo Morvillo Giovanni Abbagnato Palermo fra passato e futuro Irene Di Nora Antimafia in IrlandaAntonio Cimino Da Chinnici a Borsellino Salvo Vitale Antimafie, Istruzioni per l’uso Rossomando Campania/ Il triangolo del lavoroPietro Orsatti Fare libri Fabio Vita Apple vs Bitcoin Pino Finocchiaro Lettere al Quirinale Riccardo De Gennaro “Fondata sul lavoro”Gapa I bambini, la resistenza, i perseguitati Piero Cimaglia e Daniela Siciliano Uomini e no Giovanni Caruso Periferie/ La fossa Dino Frisullo Periferie/ Malli Gullu Fabio D’Urso e Luciano Bruno Ballata della città dimenticata Giuseppe Fava Sicilia, miseria e miliardi

La trattativa, Mancino e il buco nero

Credo sia difficile raccontare cosa stiamo vivendo. E quanto tutto sia così sotto traccia e con un dolorosissimo silenzio intorno.

L’ultimo indagato nell’inchiesta sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Stato è un membro di spicco delle istituzioni. L’ex presidente del Senato Nicola Mancino è infatti accusato dalla procura di Palermo di aver rilasciato false dichiarazioni durante le sue audizioni davanti ai magistrati. “Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose” aveva detto perentorio il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti la quarta sezione penale di Palermo durante il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Oggi proprio per Mancino è scattato l’avviso di garanzia per falsa testimonianza.

Ad inguaiare l’ex dirigente della Democrazia Cristiana sono state le varie discrepanze emerse durante i confronti con altri esponenti politici , come Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel periodo 1992 – 93, ovvero durante il governo guidato da Giuliano Amato. Mancino, Scotti e Martelli sono stati sentiti a più riprese dagli inquirenti palermitani ma i loro ricordi sulle dinamiche politiche dell’epoca sono apparsi in certi casi assolutamente inconciliabili. La discrepanza più evidente è emersa in merito all’avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del Ministero dell’Interno il 28 giugno del 1992.

L’articolo completo (da leggere, ritagliare, diffondere e dibattere) è qui.

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La memoria di Falcone secondo Ilda

Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito.

Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm, Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l'”assoluta indipendenza” dell’antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che “i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità”. Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo “popolare” per Viglietta. Più esplicito in quell’accusa fu Alfonso Amatucci, anch’egli togato al Csm, per la corrente dei Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse al Sole-24 ore che Giovanni “in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica”. Falcone era più o meno un “venduto” per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra – che “dentro i cassetti della procura di Palermo ce n’è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici”. Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l’accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un “venduto”. Delle due l’una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda.

In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l’eccentricità “rivoluzionaria” del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al ministero dove gli fu possibile.
(Ilda Boccassini, 2002)

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Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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Ho vinto io

“Ho vinto io”, dice Rosaria, nel bel documentario di Felice Cavallaro:

“Io che sono riuscita ad andare avanti, andandomene da Palermo ma rimanendoci con la testa.

Io che ho cresciuto un figlio, che oggi ha vent’anni e sta frequentando l’accademia della guardia di Finanza.

Io che ho camminato sulle mie gambe, con la vicinanze delle altre persone che come me hanno sofferto per la mafia: il figlio di Rocco Chinnici, la moglie del giudice Paolo Borsellino ..
Io che ho tenuto in piedi una famiglia senza ricorrere ai soldi dei delitti”.

Ma dove siamo stati noi mentre Rosaria vinceva? Dove siamo mentre ci racconta la solitudine con cui ha convissuto? Le parole di Rosaria sono il ventennale più pulito di tutti quelli che vedremo tra qualche giorno: sta tutto nel vivere i momenti, gli affetti e le cose della vita, con la responsabilità del dolore e quella straordinaria ordinarietà nell’amare la dignità.

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Dove eravamo – Capaci e via D’Amelio 20 anni dopo

L’amico Massimiliano Perna ha concluso la sua ultima fatica letteraria. E forse è un libro che vale la pena di leggere.

23 maggio e 19 luglio 1992: la mafia e i suoi complici di Stato uccidono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, otto agenti delle scorte e Francesca Morvillo. L’Italia è in ginocchio, scossa, ferita. Sembra il colpo mortale alla speranza di battere la mafia. E invece c’è una cittadinanza che reagisce, c’è il coro “fuori la mafia dallo Stato” urlato di fronte alla cattedrale di Palermo, ci sono i fischi e gli insulti alle autorità, le lenzuola bianche, le associazioni antimafia, il consolidamento di una cultura che ha portato la Sicilia e l’Italia intera a uscire dal silenzio, ad aver meno paura e a reclamare una verità che tarda ad arrivare. Dove eravamo noi in quel momento? Come abbiamo guardato al futuro, in che misura siamo cambiati e quanto le stragi del ‘92 hanno inciso sulla nostra vita e sulle nostre scelte? A vent’anni dagli attentati di Capaci e via D’Amelio, questo libro prova a raccontare quei giorni drammatici, attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti. Non solo familiari, magistrati, giornalisti, poliziotti, persone all’epoca già in prima linea nella lotta alle mafie, ma anche donne e uomini che, a partire da quei giorni, hanno iniziato, ognuno nel proprio ambito, a combatterle.

Sono 20 i testimoni che, insieme all’autore Massimiliano Perna, hanno scelto di dare, ciascuno a suo modo, il proprio contributo di memoria: Salvatore Borsellino, Maria Falcone, Antonio Ingroia, Raffaele Cantone, Imd, Giulio Cavalli, Nando Dalla Chiesa, Renato Sarti, Lella Costa, Moni Ovadia, don Giacomo Panizza, Sonia Alfano, Dario Riccobono di Addiopizzo Palermo, Pina Maisano Grassi, Fabrizio Moro, Pino Maniaci, Salvo Vitale, Pif e Gianluigi Nuzzi, Giuseppe Casarrubea”.

L'onorevole Pecorella, Don Diana e quel gioco antico

Don-PeppinoE’ un gioco antico (ma non per questo meno doloroso) il dubbio che cammina sul bordo della delazione per le vittime di mafia. E’ la ginnastica suicida di un paese che non riesce nemmeno a lasciare in pace la propria memoria, quella più violenta e infame che di solito finisce sotto un lenzuolo. Che l’onorevole Pecorella decida o meno di ripassare il brillantante su “l’eroico” Vittorio Mangano o altri è una liturgia che potremmo aspettarci, come pure che tutto passi latente e indolore come si conviene ad un paese bengodiano che indossa sempre la maschera del martire per celebrare i funerali con tanto fumo da offuscare il ricordo dei fatti; ma che, ancora una volta, si condisca il cadavere di un giusto con l’olio e le feci del dubbio è e deve essere inaccettabile.

Ho sentito la prima favoletta detrattrice su Don Peppe Diana mentre l’auto blindata mi portava dentro le viscere polverose di Casal di Principe pochi mesi fa, mi dicevano di questa consonanza di cognome con famiglie di camorra e alludevano alle armi nascoste in sacrestia. Mi si è chiuso lo stomaco. Alludevano con l’occhio peloso delle malignità che riuccide, con quella mano che indica e subito si ritira, con l’impunità di un momento storico per la  responsabilità alla deriva dove  non dimenticare è reazionario, raccontare i fatti prima delle opinioni è desueto e vigilare un privilegio che ci viene generosamente accordato. La delazione invece (meglio ancora se esercitata nella sua forma più pavida della insinuazione) è un esercizio gratuito e per tutti che saltella popolare dai bar e dagli uffici fino ad arrampicarsi tra i pensatori maximi sbrindellati e cicciottelli nei consigli comunali e ancora più su. In un democraticissimo e trasversale turbine di livore, invidia, noia e bassezza d’animo che defeca dubbio.

Il dubbio è la pratica culturalmente mafiosa più abusata dalla società civile per isolare i vivi e riseppellire i morti. E’ uno schiaffo infame perchè non appartiene a nessuna mano, nessuna faccia ma arriva come un’ombra quasi sempre di rimbalzo dalla piazza. E’ la solitudine di dover rispondere a qualcuno non si sa chi che ti preme dentro il cervello e ti esplode nell’inimmaginabile assurdità di doversi difendere dopo essere già stato colpito o, peggio, proprio per scontare la colpa essere stato attaccato.

Una pratica che hanno esercitato con arte i corleonesi contro i magistrati, la camorra contro Don Peppe Diana, i suoi stessi colleghi contro Giovanni Falcone, la finanza deviata contro Giorgio Ambrosoli e poi Mauro Rostagno, Peppe Fava, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rita Atria, Antonino Scoppellitti… l’elenco sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe. E poi ci sono i vivi: Roberto Saviano, Pino Maniaci, Rosario Crocetta, Vincenzo Conticello, Piera Aiello, Pino Masciari, Lirio Abbate… e anche questo sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe.

Caro onorevole Pecorella, legga di fila quei nomi e scoprirà un unico denominatore: sono nomi che alla sera, da vivi e da morti, si saranno chiesti se è normale doversi difendere non solo dai nemici dichiarati (che fanno parte del gioco) ma soprattutto da questo vento di isolamento che nasce dall’insinuazione. E ci aiuti anche lei, per il ruolo istituzionale che ricopre, a fare in modo che i fatti riprendano il posto e la forma dei fatti, le opinioni non tracimino dalle sponde del rispetto e i professionisti della delazione possano continuare a masturbarsi la propria povertà nella solitudine da wc che si meritano.

La solitudine da scontare sia solo cosa loro per il 41 bis.