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giovanni tizian

Il sottosegretario dei migliori

Fanpage in una sua inchiesta che (c’è da scommetterci) difficilmente passerà nei telegiornali nazionali racconta la transizione politica dell’attuale sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, uno dei fedelissimi di Salvini (e infatti per niente amato dalla Lega vecchia maniera). Ve lo ricordate Matteo Salvini quando tutto fiero presentava i suoi uomini nel governo Draghi? «Questo è il governo dei migliori?» gli chiese una giornalista e lui rispose «certo questi sono gli uomini migliori della Lega».

Bene, eccolo il migliore: come racconta benissimo Fanpage, Durigon è uno che avrebbe gonfiato i dati degli iscritti del sindacato Ugl di cui era dirigente, riuscendo a dichiarare 1 milione e 900mila iscritti mentre erano (forse) 70mila. Sapete che significa? Che stiamo continuando a parlare di una rappresentatività dopata che non esiste nella realtà (questo anche a proposito del nostro Buongiorno di ieri sulla sparizione del salario minimo dal Pnrr, su cui torneremo). Durigon da sindacalista ha avuto piena gestione sulla cassa da cui potrebbero essere passati i movimenti che la Lega non era libera di fare per quella storia dei suoi 49 milioni di euro. Durigon ha fatto prostituire un sindacato (pompato) alla Lega per ottenere qualche candidatura. Poi ci sono le amicizie che sfiorano certa criminalità organizzata nel Lazio (ma i lettori più attenti lo sapevano da tempo che certi clan hanno fatto campagna elettorale nel Lazio per Lega e Fratelli d’Italia) e infine c’è quella registrazione vergognosa in cui Durigon tutto sornione confida di non avere nessuna preoccupazione sulle indagini sui soldi della Lega perché il generale della Guardia di Finanza che se ne occupa è un uomo che hanno “nominato” loro: «Quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi»

Tutto grave, tutto gravissimo. Tra l’altro fa estremamente schifo anche questo atteggiamento di politici con il pelo sullo stomaco che ancora si atteggiano come i peggiori politici socialisti, i peggiori unti democristiani che sventolavano il potere come se fosse un mantello, per piacere e per piacersi. Fa schifo questa esibizione dello scambio di favori. Fa schifo tutto.

Fa schifo anche Salvini che ieri alla Camera ha risposto ai rappresentanti del M5s che sottolineavano l’inopportunità di un tizio del genere come sottosegretario mettendosi a parlare di Grillo. Il solito gioco da cretini di buttare la palla in tribuna. Il solito Salvini. Se posso permettermi è parecchio spiacevole anche il composto silenzio del Pd che vorrebbe rivendere il poco coraggio come diplomazia. Siamo alle solite.

C’è però anche un altro punto sostanziale: della vicinanza tra Durigon e uomini della criminalità organizzata durante la sua campagna elettorale ne avevano scritto un mese fa Giovanni Tizian e Nello Trocchia su Domani, degli intrecci mafiosi su Latina ne scrivono da anni dei bravi giornalisti chiamati con superficialità “locali” e che invece trattano temi di importanza nazionale. Sembra che non se ne sia mai accorto nessuno e questo la dice lunga sulla percezione che in questo Paese si continua ad avere della criminalità organizzata. Anche questo fa piuttosto schifo.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

I risparmi della mamma

Era immaginabile che la procura indagasse il presidente di Regione Lombardia (l’ipotesi di reato è autoriciclaggio e falsa dichiarazione in sede di voluntary disclosure, lo scudo fiscale) per il suo conto corrente in Svizzera di 5,3 milioni di euro, a detta del presidente “ereditati” dalla madre.

Bastava leggere con attenzione la storia raccontata nelle carte dell’altra indagine che vede coinvolto il presidente, quella dei famosi camici del cognato e della moglie prima venduti alla Regione, poi “donati” (perché si erano sbagliati, hanno detto, che sbadati) e infine sequestrati dalla procura. Proprio nel tentativo di pagare quei camici si scopre che Fontana aveva usato il suo conto svizzero per un bonifico di 250mila euro. Sia chiaro: detenere denaro all’estero non è un reato (tra l’altro quei soldi sono stati scudati nel 2015 grazie alla legge voluta dal governo Renzi) ma, al solito, ci sono questioni di responsabilità politica (al di là della questione giudiziaria) su cui basterebbe dare alcune risposte.

Dice Fontana che quel tesoretto siano i risparmi della madre, dentista. «Evasione fiscale? Ma figuriamoci, lei era superfifona», disse Fontana. C’è da dire che fosse piuttosto scaltra, questo sicuro, se è vero che a partire dal 1997 aveva trasferito i suoi soldi prima in Svizzera e poi alle Bahamas su un conto su cui il figlio poteva tranquillamente operare. Attilio Fontana tra l’altro in quegli anni era sindaco di Induno Olona, vale la pena ricordarlo.

Si è parlato poco anche del fatto che i suoceri del presidente (Paolo Dini, il patron della Dama, deceduto due anni fa, e sua moglie Marzia Cesaresco) avessero, con la società di famiglia, spostato circa 6 milioni di euro poi condonati. «L’istante Paolo Dini ha detenuto attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi e di monitoraggio fiscale», si legge nelle note di accompagnamento alla domanda di condono. Evasione fiscale, in pratica. A questo si aggiungono una serie di operazioni (che ha raccontato benissimo Giovanni Tizian per Domani) segnalate come sospette proprio da parte della moglie di Fontana che ha ereditato l’azienda insieme a suo fratello. Quella dei camici, per intendersi.

Eppure a Fontana basterebbe rispondere solo ad alcune semplici domande: quel conto svizzero è il suo unico conto all’estero? Può dimostrare la legittimità di tutte le operazioni effettuate su quel conto? Quando è stato acceso, nel 1997, era destinato solo a preservare i risparmi della mamma, dentista di Varese e all’epoca ultrasettantenne? Fontana ha usato quel conto anche per suoi interessi personali? Se sì, quali? Con che soldi?

Perché siamo sempre alle solite: l’etica dei rappresentanti politici è un tema che sta fuori dalle indagini giudiziarie e Fontana deve delle risposte agli elettori. Semplicemente questo.

Poi magari si potrebbe discutere di come stia governando la Lombardia ma su quello ormai il giudizio è quasi unanime ed è già Cassazione.

Buon giovedì.

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Caro Femia, ti è tornato in bocca lo sparo per Giovanni Tizian

Ieri il tribunale di Bologna ha condannato a 26 anni e 10 mesi Nicola Femia, il boss che con il business del gioco d’azzardo ha impiantato pezzi di ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Pene pesanti anche per i suoi figli, Rocco (15 anni, contro i 19 e sei mesi chiesti dall’accusa), e Guendalina (10 anni e tre mesi, la procura ne chiedeva 14), per il genero Giannalberto Campagna (12 anni e due mesi, a fronte di una richiesta di 15 anni). Nove anni a testa, inoltre, per Rosario Romeo e Guido Torello per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nicola Femia tra le altre cose è anche quel vigliacco che disse senza sapere di essere intercettato che bisognava “sparare in bocca” a Giovanni Tizian, allora giornalista della Gazzetta di Modena…

(continua su Left)

Emilia-Romagna – cose nostre (Cronaca di un biennio di mafie)

In Emilia Romagna c’è da anni una rete antimafia che è diventata adulta: riesce ad essere inclusiva, adotta seri parametri di analisi e difficilmente cerca il sensazionalismo o il sentimentalismo acritico. Per questo vi invito a leggere il loro nuovo dossier che ha il profumo delle cose fatte bene, prese terribilmente sul serio. Il pdf è Schermata 2015-01-03 alle 22.34.05qui.

Alcune note per spiegare al lettore cos’è ”Emilia-Romagna – cose nostre”. Questo lavoro non è un’opera letteraria, né un esauriente testo universitario che tratta il tema delle ”mafie” con carattere scientifico, perché pensiamo che altri abbiano qualità migliori delle nostre per realizzare quel tipo di ricerca. Le pagine che andrete a leggere sono semplicemente uno strumento. Una ”cassetta degli attrezzi” che vuole fornire, a chi accosta il tema della criminalità organizzata nella nostra Regione, un motivo in più per decidere di dedicare una quota del suo tempo al contrasto alle mafie. Abbiamo voluto assemblare quindi i fatti che hanno attraversato il biennio 2012/2014, privilegiando le indagini che si sono svolte in Romagna. Il motivo è semplice: mentre il racconto della presenza mafiosa in Emilia (Modena, Reggio Emilia, Bologna) grazie a giornalisti come Giovanni Tizian ha, anche a fatica, un minimo di rilevanza mediatica, la Romagna sembra essere circondata da un ovattato muro di gomma in cui le notizie, anche quelle più dirompenti, finiscono per rimbalzare per poi disperdersi nei mille rivoli di un’informazione silente e devota. Il lavoro è suddiviso in quattro parti. Nella prima proveremo a disegnare con le parole la cornice di un quadro dove il protagonista, le mafie, si sono arricchite al limite dell’opulenza. Nella seconda racconteremo la triste sequela dei morti per droga. Lì abbiamo fatto una scelta: raccontare il particolare, Bologna, per non perdere nel complessivo l’impatto sul tema. La terza sezione del Dossier è dedicata al filo conduttore che lega 40 anni di mafia in Emilia-Romagna: il gioco d’azzardo e le bische clandestine. In conclusione troverete il rapporto completo di tutte le operazioni effettuate dalla magistratura e dalle forze dell’ordine in Riviera. Un lavoro certamente non esaustivo della ”marea di mafie” che si è abbattuta sulla nostra Regione, ma che regala spunti su cui poter costruire collegamenti, reti e collaborazioni. Il dossier ha un taglio militante perché rispecchia il nostro modo di essere. Siamo consapevoli che per alcuni di noi (non tutti per fortuna!) questo ha implicato un prezzo da pagare: dalla gomma tagliata, alla mail intimidatoria, ai Pc o strumenti tecnologici violati da parte di quei ”signori” che non capiscono il perché questi ragazzi vogliono tenere pulito il loro ”piccolo angolo di mondo”, passando per tentativo di isolamento da parte di quei ”professionisti dell’antimafia” per i quali il contrasto alla criminalità potrebbe fermarsi all’utilizzo di fondi pubblici distribuiti a iosa. Quindi lasciamo a voi aprire questa cassetta per gli attrezzi e speriamo che nell’arco di poco tempo anche voi vorrete metterci qualcosa dentro.

Gaetano Alessi, Massimo Manzoli, Davide Vittori

Quanto è vicina la camorra e San Marino

Giovanni Tizian al solito scrive un pezzo preciso (e con nomi e cognomi, come piace a noi) sull’infiltrazione camorristica nel piccolo stato a forma di neo che è San Marino. Il copione è sempre lo stesso: riciclaggio, criminalità e politica. Gabriele Gatti e Fiorenzo Stolfi sono nomi della politica sammarinese (che noi continuiamo a considerare minuscola senza tenere conto del percolato che partendo da noi finisce per stagnare lì) che da tempo risultano chiacchierati:

E’ il sistema San Marino, raccontato nelle oltre 100 pagine di relazione conclusiva della Commissione consiliare Sammarinese sulle infiltrazioni mafiose.

Istituita per la prima volta nella storia di San Marino nel luglio 2011, la commissione dotata di potere di indagine, ha ascoltato decine di testimoni. Parole che raccontano di contatti diretti e indiretti tra il boss Francesco Vallefuoco – legato alla camorra napoletana del gruppo Stolder, al clan dei Casalesi e a esponenti di Cosa nostra- e alcuni politici sammarinesi. Nomi noti e importanti della vita istituzionale locale come Gabriele Gatti e Fiorenzo Stolfi, entrambi ex ministri della piccola Repubblica e tuttora consiglieri, il primo nel Partito socialista democratico cristiano, il secondo nei socialisti democratici.

La carriera di Gatti inizia nel ’74 quando entra nel Psdc. Da oltre trent’anni siede al Consiglio Grande e Generale (il parlamento sammarinese). Nel ’90 è stato presidente del Comitato dei ministri al Consiglio europeo. Il 2008 lo vede Segretario di stato alle Finanze, diretto interlocutore del ministro Giulio Tremonti durante i tentativi di accordi bilaterali tra Italia e San Marino. E infine l’anno scorso assume la massima carica di capitano reggente per la durata di sei mesi. 

Fiorenzo Stolfi, “il ministro Fiore” è il nome in codice affibbiatogli dal boss, è consigliere in Parlamento ed ex Segretario di stato agli Esteri. I sospetti e le responsabilità la commissione li fa ricadere su di loro. Sospetti e ombre che partono da due inchieste della primavera 2011 coordinate dalle procure antimafia di Bologna e Napoli, precedute da un altro ciclone giudiziario che ha travolto il Credito Sammarinese coinvolto in una storia di riciclaggio con un narcotrafficante della ‘ndrangheta. 

Dei seri accordi bilaterali (con San Marino ma anche la Svizzera, ad esempio) sulla trasparenza bancaria e finanziaria sarebbero sane pratiche antimafia che spettano tutte alla politica e non sembrerebbero nemmeno così difficili. Perché ogni tanto sorge il dubbio che gli stati cuscinetto (quando ero piccolo li sentivo chiamare così) servano a tenere calda la testa qui, prima di tutto.

Giovanni Tizian, non farti rubare la bellezza

Caro Giovanni,

Ho letto questa mattina la notizia del pericolo che vorrebbe spegnere il sole del tuo lavoro e del tuo coraggio lì a Modena dove “la mafia non esiste” e comunque non è un’emergenza. Ho letto le tue parole di quella strana fretta che ti prende nella quotidianità “con la condizionale” che ti è entrata in tasca e ho ammirato la tua serenità nell’andare avanti nonostante tutto e nonostante tutti. E avrei voluto fortissimamente abbracciarti perché questo Paese ha bisogno di parole così serene e forti davanti agli ignobili, ma comunque severe nei nomi e cognomi anche (e soprattutto) nei quotidiani di provincia, perché noi abbiamo bisogno di riflettere su quanto sia colpevolmente cretino pensare che non potesse succedere, invece di urlare forte che non dovrebbe succedere in nessun angolo del mondo.

Ti capiterà forse di chiederti se ne vale la pena. Dico di entrare con uno zaino di presunta bellezza dentro un gorgo a forma di vomito e di rischio, sotto il livello del mare a raschiare i fondali della minaccia avvisata. Il giudice ragazzino Livatino diceva che una volta vissuti nessuno ci avrebbe chiesto se fossimo stati credenti, ma se fossimo stati “credibili”. Ecco, una frase così sempre tenuta in tasca è una buona compagnia.

Guardarsi alle spalle non è mica bellezza: camminare guardandosi i piedi, leggersi nei riflessi, condizionarsi per come potresti essere guardato. È una malaugurata esposizione a pochi che ha comunque il sapore della nudità. Stare “giù al nord” con la parola che ti è violentemente rimbalzata in faccia è una sberla alla socialità, un calcio alla vivibilità, un invito alla tranquillità compromettente.

Ma se ci sono storie, in questo paese malato d’insofferente indifferenza, in cui si vuole frenare e ammutolire la parola, significa anche che la parola funziona. E questa è una grande e buona notizia. L’unica buona notizia che può lenire la condizione dell’essere osservati: bere il caffè immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti guardi con la tazzina in mano. Lavorare o scrivere o raccontare immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti controlli senza ascoltare. In una sterile città del nord essere guardati dal pelo delle mafie (sempre vissute come “sud”) è la perdita del diritto di cittadinanza nel paese della normalità. Un tarlo. Un tarlo col quale convivi per difenderti ma che intanto cresce mangiando la tua solitudine. La minaccia delle mafie non sta nelle minacce, quella è roba buona per farci la fascetta di un libro o le chiacchere da bar; la minaccia delle mafie sta nell’isolamento, la delegittimazione del proprio lavoro, nella sovraesposizione cannibale, nel fianco che ti ritrovi costretto a prestare a chi non aspettava altro che un nuovo idolo da abbattere per primo. Nel momento in cui ti dichiarano sotto scacco tutto il resto diventa rumorosissimo. La sofferenza, il rischio e la paura finiscono per essere solo tue. Un autismo irrisolvibile. Passeggiare, dire, bere e mangiare sempre malato della convinzione che è una cosa che non si riesce a raccontare, che non si riesce a far capire, che vuoi ascoltartela e giocartela da solo. Anche se è peggio.

Giovanni, oggi le tue parole sono le nostre parole, le tue terre sono le nostre terre e noi dobbiamo essere i tuoi colleghi. Nella professione migliore del mondo senza precari, quella che rispetta l’articolo 4 della Costituzione che dice che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: non essere indifferenti. Perché in fondo ce lo dice la Costituzione che essere indifferenti è incostituzionale.

Sperando che ti arrivi questo abbraccio.

Pubblicata su IL FATTO QUOTIDIANO