Il fantasma di Andreotti batte cassa: 1 milione di euro
Ad Andreotti spetta 1 milione di euro di tfr: sono i soldi che dovrebbero garantire ad un politico il “reinserimento” nel mondo del lavoro.
Ad Andreotti spetta 1 milione di euro di tfr: sono i soldi che dovrebbero garantire ad un politico il “reinserimento” nel mondo del lavoro.
Niente da dire: questo brodino di Governo è indigesto anche visto da fuori.
In Italia, le ultime elezioni hanno irrigidito le posizioni: tre grandi blocchi, all’incirca della stessa dimensione, schierati gli uni contro gli altri, due dei quali ora fanno parte del nuovo governo. Questa pace apparente è costantemente esposta al ricatto di Berlusconi.La morte la scorsa settimana di Giulio Andreotti, il grande vecchio della politica italiana, astuto democristiano e stratega ineguagliabile, lascia esterrefatti per il suo tempismo perfetto: il democristiano ha trovato la pace eterna subito dopo la formazione del nuovo governo, conclusa la contrattazione per la spartizione degli incarichi ministeriali e l’assunzione delle delle cariche apicali da parte di due ex democristiani, Enrico Letta come capo del governo e Angelino Alfano come suo vice. Anche se l’onnipotente ex Democrazia Cristiana non esiste più, il suo, spettro riporta una vittoria tardiva. Berlusconi, suo erede effettivo ma indegno, se la ride sotto i baffi e risulterebbe di nuovo incomprensibilmente amato, secondo recenti sondaggi.
Compiti difficili
Pur provenendo dallo stesso vivaio politico della DC, i due nuovi leader non potrebbero essere più diversi l’uno dal’altro. Eppure ora presiedono una coalizione che altrove sarebbe stata denominata «Arcobaleno», ma che in Italia viene definita una “grande coalizione”, perché così fa più tedesco e assume un tono più solenne. E’ al primo ministro Enrico Letta del Partito Democratico (PD) che tocca l’onere più gravoso in questa impresa incerta. Con i suoi 46 anni, nell’ambiente politico italiano uno sbarbatello, non nega le sue radici politiche cristiane e ormai da tempo si è dimostrato un brillante e prudente socialdemocratico, ricoprendo la sua prima carica di ministro a 32 anni. Egli dovrebbe riuscire a placare gli animi di almeno una parte degli italiani infuriati, dovrebbe portare il paese fuori dalla recessione, allentare le rigorose politiche di austerità, stimolare il consumo e l’economia, e compiere qualche altro miracolo, tra cui quello di impedire la caduta del PD, il suo partito, da cui i suoi sostenitori fuggono a frotte dopo essere stati costretti alla diabolica alleanza con l’impresentabile Berlusconi. Il compito del vice leader Angelino Alfano, che ora è ministro degli interni, anche lui 42enne, è meno gravoso. Anche lui proveniente dallo schieramento democristiano, è entrato a far parte presto dei devoti di Berlusconi, diventando il Presidente del Popolo della Libertà (PdL), nonché ministro della giustizia e fedele guardia del corpo giuridica del suo Signore. Ora egli ha il compito non troppo oneroso, anche se moralmente ingrato, di proteggere gli interessi di Berlusconi e salvarlo dalla magistratura italiana – anche sotto il nuovo governo. Funziona esattamente come un ricatto: se il primo ministro Letta suggerisce qualcosa che Berlusconi non gradisce, immediatamente al Parlamento scatta la minaccia di far cadere il governo, essendo il PdL il principale componente. Nelle prime due settimane di vita il governo Letta è stato retoricamente minacciato per ben due volte da questo freno a mano. La prima volta dopo la recente condanna per frode fiscale di Berlusconi, la seconda volta a causa degli strascichi giudiziari che potrebbero derivare dalle accuse di prostituzione minorile e istigazione alla prostituzione mosse al Cavaliere. Berlusconi, che ha contribuito spudoratamente negli ultimi vent’anni alla rovina del suo paese, arricchendo una numerosa schiera di cortigiani, sostenitori del suo stile di vita e, in maniera impudente, soprattutto se stesso, ora continua a determinare “il bello e il cattivo tempo” nel suo paese. Non stupisce quindi che il vascello fantasma Italia continui ad andare alla deriva a vele ammainate. Ma la colpa non è affatto sua, dato che il vento di poppa gli arriva principalmente dagli errori dei suoi avversari. Ancora all’inizio di quest’anno, Berlusconi sembrava politicamente finito, ma poi grazie ad una serie di errori dei suoi rivali è riuscito a risalire la china in maniera inquietante, quasi una sorta di risurrezione. Possiamo dire anche quando è avvenuta la svolta, precisamente non molto tempo fa, e Claudio Magris lo ha scritto sul «Corriere della Sera»: era la sera del 10 gennaio, quando lo sconfitto Berlusconi entrò nella tana del leone, il programma «Servizio pubblico» di Michele Santoro, un giornalista che si che si finge un arrabbiato di sinistra. Berlusconi ha ribadito di fronte a una platea di otto milioni di telespettatori le sue audaci promesse elettorali, tra cui l’abolizione dell’IMU e qualche altra arditezza – mentre il conduttore della trasmissione e i suoi accoliti della sinistra restavano lì, ammutoliti come scolaretti.
Un disastro dopo l’altro
Nei mesi seguenti l’Italia è precipitata da un disastro all’altro. Mario Monti ha fatto sicuramente una buona impressione a livello internazionale con il suo governo d’emergenza, tagliando qua e là per risparmiare, ma ha condotto una campagna elettorale da dilettanti, tanto da essere stato preso in considerazione dai moderati del PD solo come partner di coalizione. Il risultato delle elezioni nel mese di febbraio è stato un disastroso triangolo quasi equilatero: scarso il 30 per cento per il PD, quasi quanto per il PdL di Berlusconi, e poco meno quel fuoco fatuo del Movimento Cinque Stelle (M5S) di Beppe Grillo. Potrebbe essere arrivata l’”ora X” per questo comico, il cui «movimento» da allora rappresenta per l’Italia gioia e dolore, croce e speranza. Le principali richieste del M5S sono piuttosto scontate, alcune di loro sono talmente ragionevoli da apparire quasi banali; meno convincente sembra il loro non ben definito programma, se esaminato nei suoi dettagli; ed è un disastro la tattica di Grillo e del suo popolo di mantenere le distanze da tutti gli altri partiti con cui si siedono ora in Parlamento. Tutti sono indistintamente corrotti e contaminati, questo è quanto ripetono di continuo nei loro comunicati. Nei colloqui per formare un governo, hanno tenuto testa al capo del PD umiliando uno sbiadito Pierluigi Bersani fino a costringerlo alle dimissioni. Così facendo il comico dalla lingua lunga e i suoi rabbiosi parlamentari hanno sprecato le occasioni migliori per l’Italia di sbarazzarsi di Padron Berlusconi. In quel febbricitante momento di pausa sia il PD che il M5S hanno sbagliato praticamente tutto, al punto da far fallire l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. Nemmeno su Romano Prodi si sono trovati d’accordo, e così hanno costretto l’ormai anziano Napolitano a prolungare il suo mandato, spingendo Enrico Letta a stringere un patto di governo col diavolo Berlusconi e i suoi seguaci. Letta vorrebbe fare del suo meglio, ma non durerà molto, perché con la sua impresa azzardata subisce attacchi da tutti i fronti, anche dai suoi stessi compagni dell’irritato PD. Il filosofo Massimo Cacciari fantastica sul modo in cui questo partito andrà avanti. Nella sua rubrica sull’ «Espresso», egli auspica la fine della “politica dell’illusione” (nell’articolo in italiano Cacciari ha usato il termine tedesco “Illusionspolitik”, ndt) e incoraggia due portatori di speranza, l’economista di sinistra Fabrizio Barca e Matteo Renzi, il sindaco di Firenze che, proveniente dallo schieramento cattolico, non sarebbe la scelta peggiore – e che anche il defunto Andreotti non avrebbe disdegnato. Anche l’autore Roberto Saviano in un articolo riflette sul suo paese e sul desolato PD; ha recentemente scritto, anche se in maniera molto astratta, di «un’Italia che vuole sognare» o, ancora, «del partito che io sogno». Che un simile sogno sia stato mai d’aiuto, sono soprattutto i giovani compagni a dubitarne, tra le cui fila pare si nascondano alcuni di quelli che hanno occupato molte sedi locali del partito sotto il motto di «Occupy PD», perché non si fidano dell’operato di Letta, giudicando l’alleanza con la destra di Berlusconi solo una combutta, una fittizia «guerra tra bande di arrivati». Questa aspra sentenza potrebbe essere corretta, ma priva di alternative, fintanto che il testardo Beppe Grillo del M5S avrà voce in capitolo. Perché non cambierà nulla con il neo eletto leader del PD, Guglielmo Epifani, uomo mite dei moderati di centro. Il nepotismo espresso dallo stato tra PD e PDL scaturisce sì da uno stato di emergenza, ma ciononostante non ha inventiva e, oltre al rinnovato consolidamento di Berlusconi, ha anche altri aspetti ripugnanti. Il simbolo tipico della viscidità che si sta estendendo sui partiti italiani è una giovane coppia di intelligenti giovani politici: Lei, Nunzia de Girolamo del PdL, che a difesa di Berlusconi, ha partecipato a numerosi talk show, e ora è diventata ministro dell’agricoltura. Lui, Francesco Boccia del PD, è stato appena confermato a capo della Commissione Parlamentare per i conti. Questo ha spinto il filosofo e traduttore di Kierkegaard Dario Borso, a chiedersi cosa ha da dirsi di notte sotto le lenzuola questa strana coppia. In tempi in cui la povertà dilaga nell’ex ceto medio, dove sempre più sono in aumento i suicidi per la disperazione e il termometro sociale rischia di precipitare sotto zero, l’Italia ha però ancora altre domande da porsi. Sabato scorso l’atmosfera si è surriscaldata, quando ad una manifestazione sostegno di Berlusconi a Brescia, i suoi esaltati seguaci e i suoi avversari altrettanto infiammati sono arrivati alle mani. La violenza si manifesta ancora principalmente in maniera verbale e simbolica, scritte di vernice spray sui muri o urla nei programmi televisivi, fatta di uomini dalle maniere apparentemente garbate presenti col contagocce nei media tradizionali o di personaggi maleducati che fanno solo propaganda in Internet.
Campagna denigratoria anonima
E’ soprattutto nei social network che imperversa una campagna denigratoria anonima, contro cui il turpiloquio usato nel blog di Beppe Grillo non ha alcun effetto. Sempre più spesso, si tratta di invettive misogine e razziste come quelle contro Cécile Kyenge, nuovo Ministro per l’Integrazione di origine congolese, o minacce contro altre persone esposte, come il giornalista televisivo Enrico Mentana, che è stato costretto a chiudere il suo account Twitter dopo aver ricevuto numerose minacce di morte. Sparare sui giornalisti era diventato un fatto consueto 40 anni fa, quando iniziò in Italia un periodo di terrore che portò lo Stato a un passo dal collasso mettendolo a rischio di golpe.
[Articolo originale “Ein Geisterschiff mit schlaffen Segeln” di Franz Haas]
La mia intervista per Byoblu:
È morto Giulio Andreotti, e questo era prevedibile, perché la biologia è sicuramente l’arma più tagliente anche rispetto alla prescrizione giudiziaria. È morto Giulio Andreotti; io credo che però l’andreottismo in realtà sia in ottima saluta, a differenza di Giulio, e questa è una pessima notizia per l’Italia. Perché nella morte di Giulio Andreotti, in queste ore, in queste ultime 24 ore, si sta perpetuando quella macchina infernale che Andreotti è riuscito per primo a praticare, trovando degli ottimi allievi, in primis Silvio Berlusconi. Ovvero quello di dividere, fondamentalmente, l’aspetto dell’etica da quello giudiziario; e non solo: permettersi di mettere in discussione le carte giudiziarie manipolando la sentenza.
Cosa dice la legge italiana? Cosa dice la sentenza della corte d’appello [di Palermo] confermata poi in Cassazione? Che Giulio Andreotti ha dimostrato un’ampia disponibilità con la mafia fino alla primavera del 1980, cioè si è seduto con i più importanti uomini della Cupola mafiosa, ha ascoltato le loro richieste, e sicuramente ha preso delle decisioni – scientemente o no, questo lo deciderà la storia, e non la storia breve di questi giorni in cui Andreotti può permettersi di utilizzare anche da morto alcuni studi televisivi come suoi bidét, di questi suoi ululanti censori in continuazione – e ha preso delle decisioni che sicuramente sono state convergenti con gli interessi di alcuni uomini di Cosa Nostra. Questo cosa significa? Significa che noi in Italia, ancora oggi, non sappiamo che essere amico di un mafioso, non è un reato. E quindi se si riesce a spostare – come è riuscito Andreotti, come continuano a riuscire i suoi allievi – a spostare l’aspetto dell’opportunità sul campo giudiziario, be’, mai nessuno sarà condannato perché è amico dei mafiosi. Non sarà mai condannato perché – io credo – i nostri padri costituenti non avrebbero mai pensato che un popolo potesse sopportare e tollerare una classe del genere con amicizie del genere, provate. E poi perché la legge è stata, nel corso degli anni, sempre sfiancata da questo punto di vista per cercare di depenalizzare le amicizie, e per rendere sempre più difficile, dal punto di vista giudiziario, la prova certa di eventuali scambi di favore.
E allora cosa succede? Che noi abbiamo celebrato Giulio Andreotti come assolto, quando in realtà semplicemente è stato prescritto, cioè significa che dal punto di vista giudiziario il suo reato, che risulta commesso, non è punibile, perché è passato il periodo che lo rende, dal punto di vista giudiziario, punibile. In un Paese normale sarebbe stato punito dalla memoria; in questo Paese che di normale ha poco, invece, è stato premiato con il ruolo di senatore a vita. E oggi si piange un amico dei mafiosi come se fosse uno statista. Dimenticando, secondo, tutte quelle che sono le sue mediocrità: che non sono solo quelle di essere profondamente bugiardo – questo, diciamo, noi Italiani siamo abbastanza abituati a una classe dirigente che, per difesa, racconta delle enormi palle, rendendole assolutamente credibili soprattutto perché sparate dai cannoni delle trasmissioni in prima serata e molto spesso da una stampa compiacente.
La cosa che a me colpisce più di tutte è che Andreotti ad esempio è ritenuto un buon cattolico, quando ha bestemmiato in realtà Dio nel suo agire politico, tradendo la fiducia del bene comune, del bene pubblico, anzi molto spesso si è interessato a un bene che interessava tre o più persone, e che danneggiava nei suoi risultatati amministrativi il bene pubblico. Abbiamo premiato come cattolico – e in questi giorni basta leggere i giornali di oggi, i coccodrilli, viene addirittura celebrato come uomo di Chiesa – un uomo che si è permesso di infangare la memoria del generale Dalla Chiesa, raccontando e giustificando la sua assenza al funerale, dicendo che aveva sempre preferito i matrimoni ai funerali. Oppure l’Andreotti che sull’avvocato Ambrosoli, disse che era uno che, in romanesco, se l’andava a cercare. Oppure l’Andreotti che tiene un atteggiamento, perlomeno con qualche ombra su Aldo Moro, e che da Aldo Moro viene raccontato, secondo me in una delle descrizioni letterarie più belle, come un uomo grigio, ma di quel grigiore che viene scambiato ogni tanto per una virtù politica, cioè nel sapere stare in mezzo, e invece è in realtà un grigiore che è figlio di mediocrità. Quando Aldo Moro dice: “Si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni”, dice: “Le manca proprio il fervore umano”. E, visto che è una delle ultime lettere scritte da Aldo Moro nella sua prigionia, penso che sia davvero difficile pensare che ci possa essere un dibattito politico dietro, e non un semplicemente giudizio profondamente umano.
La cosa che mi preoccupa più di tutte è che c’è una generazione intera in questo Paese – ho letto anche una dichiarazione di un deputato del Movimento 5 Stelle che diceva, appunto. “Io sono molto giovane, quindi non ho potuto conoscere la vita di Andreotti, però mi è stato passato, diciamo così, come statista” – insomma un Paese che ha sempre premiato i mediocri. Cioè che crede che quella capacità di star nel mezzo, cioè di non prendere posizione, sia una virtù politica. E mi fa molto paura, perché se Pericle diceva che gli indifferenti sono pericolosi per la politica, e sono i cittadini che stanno nel mezzo che sono dannosi per la democrazia, be’, Giulio Andreotti è stato quello che lì, in mezzo al guado, s’è permesso e ha potuto usufruire di quell’ombra che gli ha garantito degli incontri che non sono proprio leciti e nemmeno opportuni, e soprattutto è quello che riuscito a convincerci che la mediazione ad ogni costo, anche se puzza di compromesso, in realtà è un intelligente agire politico.
Del resto Andreotti muore sotto un governo che vuole raccontarsi, con una letteratura, il grande governo delle grandi intese, e invece non è nient’altro che un enorme compromesso che ci viene rivenduto, nel nome della responsabilità, come negli ultimi anni sta succedendo in questo Paese. E allora io credo che se non si capisce che mentre noi, ogni tanto, ci stupiamo o rabbrividiamo leggendo di questi sindaci di alcuni paesi del Sud, ma anche del Nord ultimamente, che si siedono al tavolo della mafia e stringono accordi, ecco non si capisce perché un amministratore di Andreotti che ha dimostrato di non essere capace di amministrare secondo le regole, ma in modo molto patetico ha avuto bisogno, molto spesso, di governare fuori dalle regole, o con rapporti fuori dalle regole, invece non debba meritare gli stessi brividi, lo stesso disgusto.
Poi secondo me Andreotti è un grande inventore di una nuova formula di comunicazione, cioè della pubblicità applicata alla politica. Cioè del riuscire sa rivendere solo gli stimoli ottimi di un prodotto, nascondendone i difetti in una sorta di comunicazione comparativa per cui si urla cercando di raccontare i difetti degli altri, per poter godere di un’impunità dei propri:è il berlusconismo. Non è nient’altro che la figura del berlusconismo, e ovviamente il berlusconismo ha modernizzato questo modo di fare, però se ci pensiamo Andreotti è stato il primo che ci ha detto che alcuni rapporti, anche abbastanza scuri, sono inevitabili per chi fa politica anche a grandi livelli. Ed è il modo migliore per riuscire a creare quel fossato tra i politici e i cittadini, che è quello che poi oggi è diventato, secondo un certo stile narrativo, la Casta, o, secondo un altro stile narrativo, l’incomprensibilità di certe di alcune dinamiche politiche. Dipende poi dalle accezioni di ognuno. Ecco, Andreotti è quello che ha convinto le nostre nonne che il voto dovesse essere una delega totale, e per cui che il politico non dovesse dare delle spiegazioni: questo è un passaggio che, in questi giorni, è molto poco analizzato, ma la lontananza della politica è stata creata proprio nel momento in cui la Democrazia Cristiana ha raccontato, ad esempio, che le alleanze non dovessero avere per forza un principio di idealità e idealismo comune, ma dovessero rispondere anche a dei termini algebrici. Non vedo grandi differenze con il governo Letta, in questo momento.
E allora io ero certo che i coccodrilli di Andreotti oggi avessero questo tono. Ero certo che il servilismo su Andreotti si è sempre dimostrato veramente apicale, e ancora oggi venisse esercitato in modo così intenso. Mi preoccupa non tanto Giulio Andreotti: oggi muore un amico dei mafiosi, tra l’altro molto mediocre anche nelle sue amicizie; muore una persona assolutamente anaffettiva, che viene a sapere della morte programmata di Piersanti Mattarella e decide di non salvarlo, per cercare di salvare gli equilibri di corrente del proprio partito; non muore neanche, se ci pensiamo, una persona che ha raccolto enormi consensi, perché in realtà la corrente andreottiana, all’interno della Democrazia Cristiana era piccola, assolutamente minoritaria, semplicemente era una di quelle correnti che era disposta a svendersi al miglior offerente, e quindi che più di tutte ha fatto in modo che i valori della politica fossero una questione di somma, piuttosto invece che una comunione d’intenti. La cosa che mi preoccupa è che l’andreottismo, invece, parlo dell’andreottismo di Formigoni, che si rivende paracattolico con Comunione e Liberazione, e in realtà è solidale tra sodali, che è quello che Andreotti aveva fatto per primo, e quindi una solidarietà che non è più cattolica, ma essendo ristrette ad una cerchia ben definita, in realtà ha le dinamiche del clan; mi preoccupa un Parlamento che onora, da destra a sinistra, un uomo semplicemente perché morto. Ecco, io credo che noi, se ogni volta decidiamo che, in nome di non so quale buonismo, mi sembra un’enorme irresponsabilità, di premiare un defunto indipendentemente da quello che ha compiuto in vita, be’ allora siamo un Paese che non crescerà mai, e che non avrà nemmeno quel briciolo di memoria per riconoscere la ciclicità dell’andreottismo e per dare delle chiavi di lettura collettive per riconoscere i nuovi Andreotti, oggi.
La strategia dei due forni, cioè quando Andreotti diceva: “Andiamo alle elezioni, poi decidiamo se allearci col centrodestra dei suoi tempi, o col centrosinistra”, ecco la strategia dei due forni, se non viene passata di generazione in generazione, non ci può fare capire le dinamiche politiche che sono avvenute oggi.
Poi qualcuno dice: “Sì, be’, Andreotti è sopravvissuto a tutte le repubbliche”. Lui diceva, tra l’altro con questo suo modo molto sardonico: “I miei amici che facevano sport sono morti da tempo. Ho visto la prima repubblica, forse anche la seconda, e mi auguro di vedere anche la terza”. Be’, io credo che il fatto che Andreotti sia sopravvissuto così a lungo come personaggio politico dimostra che i veri colpevoli del processo Andreotti, di tutti i processi Andreotti – ma in primis quello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa – sono gli elettori, che ancora una volta dimostrano di godere di quell’indignazione passeggera che dura un battito d’ali di farfalla e di non andare mai sull’analisi. E soprattutto di non avere voglia di costruire una chiave di lettura collettiva delle inopportunità. Ricordare oggi, in questo modo, Andreotti, sui maggiori quotidiani italiani, significa uccidere ancora una volta Ambrosoli, uccidere ancora una volta, da morto, il generale Dalla Chiesa, ma soprattutto significa uccidere Pio La Torre, o tutti quei politici, mi viene in mente Borsellino, quegli uomini della magistratura, che hanno provato ad urlare che l’opportunità è un confine molto più largo di quelle che sono le responsabilità giuridiche, e non sono state definite dal punto di vista giudiziario perché un popolo maturo, una democrazia matura, deve esser in grado di riconoscere ciò che è opportuno o inopportuno. Ecco, a tarpare e narcotizzare l’opportunità, Andreotti c’è riuscito benissimo. Oggi, secondo me, laggiù – perché non credo proprio che sia andato in alto, seco0ndo me sta ridendo, sempre sardonico, vedendo come il suo meccanismo perverso stia continuando a funzionare.
Sulla questione dell’assoluzione di Andreotti, semplicemente è stato coltivato un analfabetismo di base che fa in modo che in questo Paese le opinioni si creino sulle diversi tesi e opinioni delle sentenze. E questi si sono creati questi due gradi di separazione, che chissà perché fanno in modo che i magistrati debbano improvvisamente diventare degli intellettuali, anche, esponendosi tra l’altro – come abbiamo visto – al cannibalismo politico, perché gli intellettuali, non si sa perché, oltre a Pirandello, ultimamente, sembrano poco interessati a cercare di creare una coscienza comune. E quindi l’analfabetismo è quello che ci dice che Andreotti è stato assolto perché l’ha detto Vespa. Ma attenzione: anche che Andreotti è colpevole perché l’ha detto Travaglio. L’errore di fondo è identico. Perché nel momento in cui noi per delega costruiamo delle opinioni, in realtà pecchiamo nello stesso modo. Poi possiamo avere il 50% delle possibilità di imboccare la strada giusta dal punto di vista giudiziario.
Il farlo per il bene del Pese … è proprio questo: il passaggio culturale di cui cercavo di parlare prima è proprio … quando Craxi dice: “Sì, abbiamo preso tangenti ma le metropolitane a Milano le abbiamo costruite molto più velocemente”, riesce proprio a far passare questo diritto, se non addirittura dovere, della politica, di percorrere non sempre strade lecite, per riuscire ad ottenere un risultato migliore. È quello che nelle regioni del Nord è accaduto da sempre. Questa Lombardia ce lo racconta benissimo: per essere locomotiva dell’Italia è inevitabile che la spericolatezza politica e la spericolatezza imprenditoriale insomma vadano sopportate. Andreotti dice: “Per difendersi dal Comunismo, e per difendersi dall’avanzata coloniale, quasi, degli Stati Uniti, noi abbiamo bisogno di stringere rapporti che non possiamo raccontarvi perché altrimenti si corrompono, e rendono la trattativa politica del tutto molto più difficile. Andreotti, in realtà, è quello che legittima la politica oscena. Andreotti è un uomo fondamentalmente osceno. Un uomo che ha chiesto di essere giudicato per i risultati, risultati politici che giustamente, come dicevi tu, sono preservazione del potere: Andreotti non è un riformista, dal punto di vista – se ci pensiamo anche – politico, non ha attuato nessun progresso, a meno che non intendiamo il progresso nell’accezione ormai medievale delle grandi infrastrutture. Però per chi non crede al Ponte di Messina come progresso del Paese, non è riuscito a portare avanti questa cavalcata dei diritti. Addirittura, quando si ritrova a firmare la legge sull’aborto, lo fa perché la forza spintanea del popolo non gli permetteva di fare altro. È osceno perché decide di prendere delle decisioni fuori scena insieme a due o tre persone. E semplicemente si preoccupa di costruirne, direbbe Vendola, una narrazione democraticamente accettabile, e quindi fare in modo che si potabile la decisione raccontando quelli che sono i passaggi. È come se fosse un trovarobe, che vive soprattutto in camerino, e che in realtà viene scambiato per un grande drammaturgo, quando in realtà si preoccupa di avere solo qualche pupo che entra in scena per rendere digeribile le conclusioni a cui bisogna arrivare. Però non è molto diverso da oggi: cioè oggi capita ancora molto spesso, ma anche nei piccoli comuni, in generale nel percorso politico e di lettura dei fatti politici, capita molto spesso che qualcuno che sia classe dirigente ci dica: “Voi preoccupatevi del risultato. Non è un vostro diritto sapere come ci arriviamo”. E quindi come venga vissuto addirittura come un appetito di pornografia il volere sapere quali sono i passaggi che portano a qualcosa. È identico, se ci pensiamo, a quello che sta succedendo oggi. Cioè, che Andreotti muoia mentre c’è un governo in cui Miccichè viene riciclato e può permettersi di raccontare di essere fiero delle sue amicizie di uomini condannati per mafia, significa in realtà che l’andreottismo sta benissimo. E indipendentemente dalla mediocrità umana, di sensibilità politica, di intellighenzia dei suoi interpreti, è un meccanismo assolutamente rodato.
La domanda vera è: perché tutti incensano Andreotti? Perché Andreotti ha costruito rapporti politici basati molto spesso sul ricatto. Cioè Andreotti comincia ad affondare, nel processo di Palermo, quando ad un certo punto non erano più ricattabili i suoi referenti mafiosi, che avevano deciso di non essere più ricattabili perché avevano invertito – avrebbero voluto invertire: forse ci sono riusciti e non ce ne siamo ancora accorti – il rapporto di forza e quindi hanno detto: “Noi, Cosa Nostra, non siamo più camerieri della politica; noi, Cosa Nostra, vogliamo che la politica sia nostra cameriera”. A quel punto Andreotti decide di ritirarsi e decide di utilizzare i suoi compagni di partito come scudo. E quindi, io penso che Andreotti si in realtà colpevole anche di un concorso esterno anche in omicidi politici, dal punto di vista intellettuale.
Il problema qual è? L’andreottismo, se ci pensi, è un po’ come Via d’Amelio, è un po’ come Capaci, un po’ come la trattativa: oggi è raccontato per fazioni politiche. Se sei di centrodestra Andreotti è uno statista, se sei di centrosinistra Andreotti è un colpevole. Non ci sono motivazioni reali perché sia uno statista, ma in realtà anche chi lo ritiene colpevole non ha contezza e coscienza di quali siano le motivazioni reali. Nel momento in cui diventa una diatribe prettamente partitica – neanche politica, perché in realtà di politica c’è molto poco – diventa poco interessante per tutte le generazioni che vengono, soprattutto per i più giovani. Cioè, a un giovane non interessa sapere perché quel comunista di cavalli dice che Andreotti è un mafioso; perché per Cavalli Andreotti è mafioso perché è comunista. Riuscire a spostare il confronto politico nella questione di tifo di diverse fazioni, be’ penso che anche qua un grande interprete ultimamente l’abbiamo avuto.
E il livellamento, il nutrire la superficialità del dibattito, anche questo l’ha fatto Andreotti ma l’aveva teorizzato Licio Gelli. E il problema vero qual è? Che Andreotti, comunque sia, io da drammaturgo, non da politico, direi: “è uno troppo sfigato per aver fatto tutto quello che ha fatto”. Troppo sfigato perché, se ci pensi, in tutte le favole dell’orrore che abbiamo avuto in questi ultimi decenni, i cattivi di tutte le storie d’Italia prima o poi son stati fotografati mentre citofonavano a casa sua. E quindi è un po’ come se dentro Biancaneve, o tutti le Biancanevi raccontate a tutti i bambini del mondo, ci fosse un personaggio unico che era sempre parente alla lontana che era amico del lupo. Quindi il vero problema qual è? Che lui è riuscito in modo molto pop, molto popolare, a raccontarsi come perseguitato; dall’altra parte gli avversari di Andreotti, secondo me sono semplicemente i coltivatori della verità, ancora una volta – e questa è una cosa tutta della sinistra italiana – hanno deciso di affrontare in modo molto intellettualoide, pensando di essere intellettuali, i principi di colpevolezza. Quindi lui andava a Porta a Porta e sullo sfondo era scritto “ASSOLTO” e noi continuavamo a fare, più i nostri padri che noi, i nostri convegni nelle sezioni di partito, in cui dicevamo che i compagni dovevano essere consapevoli … Non siamo riusciti a far venire l’appetito alle casalinghe sulla storia di Andreotti; cioè la storia di Andreotti non è stata considerata interessante, e ancora una volta, secondo me, abbiamo perso l’occasione – io c’ho provato con il libro, ci provo con lo spettacolo, direi che ci stiamo provando in tanti in questo momento – oggi mi sento un ambientalista. Cioè cerco di preservare l’ecologia dell’etica di questo Pese: cioè sto cercando di raccogliere veramente tutte le erbacce, le erbe di cani, in quel giardino pubblico che dovrebbe essere il Paese Italia. E oggi invece non solo nessuno ha la paletta per raccogliere le defecazioni di questi giornalisti leccaculo, ma addirittura in queste ultime 24 ore stanno arrivando le badilate. E quindi noi siamo gli spazzini: sai quegli uccelli sulla schiena dell’ippopotamo, che cercano di tenerlo pulito? Ecco, oggi l’ippopotamo è questa prostituta che sta facendo quest’enorme popmpino alla memoria di Andreotti e noi solleviamo il becco molto fino e cerchiamo di spulciare, facendo molto fatica.
Io Andreotti e i nuovi Andreotti che cercano di fermare il Comunismo riesco anche a sopportarli per i prossimi 50 anni. È questo Comunismo così flebile, che sembra un ruttino di un neonato, che sembra un rigurgito di prima mattina, che mi lascia un po’ perplesso. Perché il problema vero è che lì la battaglia ad Andreotti si faceva fermando le ruspe insieme agli agricoltori per cercare di salvare il salvabile, oggi questo neo-Comunismo che è così andreottiano invece in alcuni suoi spigoli, fa dei grandi convegni sul consumo di suolo, e poi nelle Commissioni vota insieme ai consumatori di suolo. Io credo che la differenza rispetto ad allora è che la sinistra sia molto meno appuntita, e sia molto meno appuntita perché viene il dubbio che sia stata ben pagata nel suo ruolo di moderata opposizione. E quindi oggi fare un’opposizione fare opposizione convinta … oggi Pio La Torre sarebbe un terrorista; oggi Peppino Impastato sarebbe un visionario. Io mi auguro che se si incrociano, e se si incrociano si incrociano solo sul ballatoio, sicuramente, perché non vanno nello stesso posto, però almeno Agnese Borsellino una sberla ad Andreotti gliela possa dare, in questo momento in cui deve più tenere quella forma delle celebrazioni di Stato. E quindi la differenza vera qual è? Prima si occupavano di tenere fuori le forze politiche più spigolose dal Parlamento, oggi invece hanno imparato ad ammaestrarle. O forse la sinistra di oggi ha una classe dirigente che è molto più facilmente ammaestrabile.
Come si esce dall’andreottismo? Pretendendo l’esatta conoscenza di tutti i processi politici che stanno dietro a qualsiasi decisione, e rifiutando, anche nel caso in cui i risultati siano buoni, una classe dirigente che si prende il lusso di non raccontare queste dinamiche. Esercitando il diritto e il dovere dell’opportunità, e quindi decidere che ci sono delle leggi che non state scritte perché probabilmente nessuno avrebbe pensato che avremmo avuto bisogno di una legge che vietasse ad un politico di essere amico dei mafiosi. E poi, secondo me, cercando di raccontare come la politica sia una cosa molto semplice, molto leggibile, e che dovemmo preoccuparci un po’ meno, secondo me, dell’IMU, e rincominciare invece a leggere le mozioni del nostro Consiglio Comunale, cominciare a capire che quegli strumenti – che sono degli strumenti meravigliosi per me che faccio teatro, perché sono la drammaturgia del vivere insieme, se ci pensi, di una comunità, che sia una provincia, un comune, una regione, o a livelli più alti una nazione o l’Europa – ecco, pretendere che dentro la drammaturgia siano considerate anche le nostre parti, e quindi qual è il nostro ruolo, quali sono le battute che dobbiamo portare in scena, qual è la nostra responsabilità in scena. È un percorso che, secondo me, bene o male, si sta avviando. Poi con alcune caratteristiche che io non amo molto, con alcuni grillismi esasperati, ma secondo me il Movimento 5 Stelle, ad esempio, da questo punto di vista ha aperto una ferita di coscienza che può essere assolutamente sana. Insieme e a loro anche alcune forze politiche, poche, che stanno cercando di portare avanti un lavoro politico.
“El proceso a Giulio Andreotti fue un gran farol porque nos ha enseñado que si se repite una mentira infinitamente se acaba transformando en verdad histórica algo que en realidad nunca pasó”. El escritor Giulio Cavalli, autor de La inocencia de Giulio, no podía encontrar mejor manera de resumir la vida del siete veces primer ministro de Italia fallecido este lunes a los 94 años de edad. Andreotti fue hallado en 2004 culpable de asociación mafiosa con Cosa Nostra “hasta la primavera de 1980” y, por tanto, no fue absuelto como muchos de sus seguidores quisieron que quedara grabado en la memoria histórica italiana.
Anche in Spagna qualcuno osa ricordare Andreotti per quello che la Storia ci ha raccontato. L’articolo è qui.
Due parole con gli amici di ‘Cultura e Culture’. Qui.
Ha fatto bene Umberto Ambrosoli ad uscire dall’aula del Consiglio Regionale della Lombardia mentre si commemorava Giulio Andreotti.
Anzi: magari il prossimo giro evitiamo di farli entrare, quegli altri.
Eccolo, alla fine è morto. E il cristianesimo e la pietà umana che gli abbiamo concesso di sventolare mentre bestemmiava Dio nel suo agire politico oggi si alza ancora per celebrarlo.
Noi siamo un popolo così: non riconosciamo la gratitudine dal ricatto perché abbiamo avuto gentilissimi maestri di inumanità come il grigio Giulio. Ci hanno convinto che essere cinici sia una virtù e che essere buoni è da coglioni, ci hanno insegnato a dividere il fine dai mezzi e giudicare solo il risultato, ci hanno detto per decenni che la mafia è un febbriciattola leggera in cui inevitabilmente si incappa nel fare politica “alta” ma che passa con un po’ di riposo e che certe cose bisogna lasciarle a Dio e intanto Dio lo prostituivano per il prossimo appalto. Il maestro di questa perversione diventata buona educazione è il Divo Giulio Andreotti che chissà come sarà felice di leggere oggi nei suoi coccodrilli unti e servili che il suo ingranaggio è ben oliato e funziona ancora.
E’ morto un amico dei mafiosi fino alla primavera del 1980 come accertato nelle carte giudiziarie. Poi dicono che è guarito. Come un raffreddore. E alcuni ci hanno creduto, altri hanno pregato per lui e qualcuno ha messo a disposizione il proprio studio televisivo per farne il suo bidet. E’ morto uno di quegli amici dei mafiosi che si meriterebbe un funerale dove i partecipanti siano filmati e schedati e invece ci saranno tutte le alte cariche di questo Governo che nasce con quel grigio di mezzo fetido e cinico come piaceva a lui.
E’ morto un bugiardo. Spergiuro davanti alla Costituzione, alla Legge e al suo Dio. Che ha detto al Paese di farlo per il suo bene.
E’ morto un uomo che ha svenduto gli ideali politici per le trattative da bottega e ha inventato il compromesso ad ogni costo come pregio da mediatore piuttosto che codardìa intellettuale come sarebbe stato in un Paese normale.
E’ morto un mediocre che ha avuto bisogno di scavalcare le regole perché non riusciva ad amministrare rispettandole.
E’ morto un uomo grigio, come lo scriveva Aldo Moro nelle sue ultime lettere dalla prigionia:
Tornando poi a Lei, on. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Paese (che non tarderà ad accorgersene) a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un pò più, un pò meno, ma passerà senza lasciare traccia.
E’ morto Giulio Andreotti ma non ha lasciato orfani, perché tutto intorno i suoi allievi sono diventati grandi e camminano con le loro gambe e hanno imparato bene a non mostrare chi tengono per mano.
Gli elogi funebri che leggerete oggi sono l’effetto dell’etica erosa negli anni dalla mafia e dal brigantaggio politico. Chissà almeno che lo schiaffeggi Dio. Perché qui ci siamo prescritti tutti per interessi o vigliaccheria.
Alle 18.30 nel Palazzo della Ragione a Padova ospiti della Fiera delle Parole io e Peter Gomez (direttore de Il Fatto Quotidiano) presentiamo il mio libro L’INNOCENZA DI GIULIO ma inevitabilmente ci ritroveremo a discutere degli andreottismi di oggi e di questa squallida pagina politica delle ultime ore.
Perché le storie si ripetono se la memoria è troppo distratta e gli interessi sono sempre convergenti sotto traccia. Perché la Lombardia di oggi assomiglia ogni giorno di più al modello culturale che ad Andreotti ha portato tanta fortuna e perché non ci rassegnamo. No.
Qui le informazioni per la serata.
Due parole a Fano, su Andreotti, mafie e questo Paese che potrebbe decidere di ripartire dalla bellezza.
Nel 1982 a Palermo arriva un uomo senza mezze misure. Questa storia, il processo a Giulio, è uno via vai tra persone insopportabilmente opposte. E qualcuno rimane sempre per terra. Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arriva a Palermo nel mese di maggio quando sbocciano i fiori. Prefetto contro Cosa Nostra, lo dicono tutti. “Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì” dice lui. Il Generale sa bene che per toccare il cuore di Cosa Nostra c’è da andare ad infilare il dito tra la piega melmosa dove mafia e politica si baciano con la lingua. Sul suo diario scrive del suo colloquio con Giulio del 5 aprile 1982. “Gli ho detto quello che so dei suoi in Sicilia”, annota, “sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori”. Se questa storia fosse solo un film Dalla Chiesa sarebbe il coraggioso che alla fine vince. Eppure, dice il generale, “ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli. C’è troppa gente onesta, tanta gente qualunque, che ha fiducia in me. Non posso deluderla”. Se questa storia fosse un film il generale dovrebbe vincere, con un bel bacio sul finale. Da vivo. Ma questa storia è un’ombra. Un’ombra come un peccato originale. Un’ombra che lascia gente per terra in un campo dove gli opposti non possono convivere, e vivere nemmeno. Alle 21.15 del 3 settembre 1982 la A112 bianca dove viaggiava il Prefetto Dalla Chiesa e la moglie Emanuele Setti in via Carini viene affiancata da una BMW che sputa un Kalashnikov AK-47. Muoiono i coniugi Dalla Chiesa e l’agente di scorta Domenico Russo che seguiva pochi metri più indietro. “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti” urla un cartello affisso il giorno dopo. Vengono condannati come mandanti Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. ll 5 settembre al quotidiano La Sicilia arrivò un’altra telefonata anonima, che annunciò : “L’operazione Carlo Alberto è conclusa”.
(dallo spettacolo “L’innocenza di Giulio”)