Ogni egiziano invia, in media, 216 euro al suo paese. Il tanzaniano 5.856. Il flusso del denaro spedito ai luoghi d’origine è aumentato nel 2011 rispetto agli ultimi due anni. La parte del leone spetta ai marocchini e ai senegalesi, anche se questi ultimi sono molto più prodighi dei primi. Le rimesse mondiali in Africa ammontano a 22 miliardi di dollari. E nel 2014 potrebbero arrivare a 27.
Leggendo con attenzione la tabella, elaborata su dati della Banca d’Italia, riguardante le rimesse degli africani che vivono nel nostro paese, si scopre che la generosità alberga nei portafogli degli ex immigrati verso i loro luoghi d’origine. Ma qualcuno è più munifico di altri.Già sappiamo che nel 2011 le rimesse complessive degli stranieri che vivono da noi sono state pari a 7,4 miliardi di euro. E che di questi, 847 milioni 139mila euro sono arrivati nel continente a sud del Mediterraneo. In valore assoluto, la quota africana è tornata a crescere dopo un 2009 e un 2010 che avevano avuto il segno negativo.
Ma la percentuale africana sul totale delle rimesse che traslocano dall’Italia continua a calare. L’11,46% del 2011 è il punto più basso dal 2005 ad oggi (il punto più alto si è avuto nel 2006, quando i 748 milioni e 258mila euro africani rappresentarono il 16,5% del totale). Dipende probabilmente anche dal mutare della composizione geografica degli stranieri che vivono da noi.
“L’impiego del nastro adesivo, sia pure accompagnato da rudimentali accorgimenti per assicurare la respirazione e dettato dalla comprensibile concitazione del momento, non corrisponde a nessuna delle misure coercitive previste e, nei fatti, si traduce in un comportamento che la coscienza collettiva percepisce come offensivo della dignità della persona” dice la Cancellieri sui metodi di rimpatrio dei tunisini zittiti con scotch sulla bocca.
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. (Primo Levi)
Non dorme nessuno stanotte. Il mondo dei grandi è in rivolta. La stanza rimbomba sotto una grandinata di colpi. Omar comunque non sa cosa siano una rivolta e la grandine. E’ un neonato, ha due mesi. Nemmeno suo fratello Hamza, 3 anni, e sua sorella Maha, 7, capiscono da dove arrivi questo rumore spaventoso. Infatti non grandina. Sull’isola di Lampedusa d’estate non succede mai. Sono i sassi che cadono contro le pareti e il tetto in lamiera. Lanciano pietre ovunque. Una notte ordinaria nel centro di detenzione per immigrati e rifugiati. Omar, Hamza e Maha sono piccoli carcerati. Da settimane non possono uscire dal recinto di filo spinato e lamiere arroventati dal sole. Chissà Maroni come racconterà questa Lampedusa ai suoi figli.
I turisti milanesi confermano. Tramonti infuocati con le palme in controluce, cene a base di cous cous, dammusi con le cupolette e vento caldo. Siamo alla stessa latitudine di Kairouan, Tunisi e Algeri sono molto più a nord. “A chisti ci piace l`Africa ma senza l`africani`, commenta una volontaria. “Dormiamo la sera con le finestre e la porta di casa aperte` – racconta una coppia di Monza al giornale di Parma. “L`isola è sicura come nessun altro luogo. Siamo qui da 10 giorni e dai telegiornali abbiamo appreso che sono sbarcati 2000 immigrati, noi non abbiamo visto nulla, nemmeno un clandestino, niente. Questo è il vero scoop`. La declinazione turistica del fascismo igienico a Lampedusa raccontato da Antonello Mangano mette i brividi di primo pomeriggio e ci racconta quanto ci siamo sfilacciati nelle battaglie ‘umanitarie’. Lampedusa è lontana proprio come sognava qualcuno.
Il diritto di accendere i riflettori sui Cie (Centri di identificazione) e sui Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo): è la richiesta proveniente dalla giornata di mobilitazione, intitolata“LaciateCIEntrare”, che vede oggi giornalisti italiani e stranieri, parlamentari di diverse forze politiche, consiglieri regionali, sindacalisti, associazioni e attivisti della società civile manifestare davanti ad alcuni centri in tutta Italia.
Obiettivo dell’iniziativa – promossa da un comitato composto da Fnsi, Ordine dei giornalisti, Articolo 21, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), Primo marzo, Open Society Foundation, European Alternatives; tra i parlamentari, da Jean Leonard Touadi, Rosa Villecco Calipari, Savino Pezzotta, FabioGranata, Giuseppe Giulietti, Furio Colombo, Francesco Pardi (Leggi l’elenco completo degli appuntamenti); i consiglieri regionali di Sel Giulio Cavalli e Chiara Cremonesi – dire no al divieto, stabilito nella circolare n. 1305 del ministero dell’Interno emanata il 1° aprile 2011, con cui si nega ai cronisti la possibilità di accedere a questi centri. Tra i promotori persino Livia Turco, che nel 1998 firmò insieme all’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la legge che istituiva i centri di identificazione e espulsione – che allora si chiamavano Cpt, ovvero centri di permanenza temporanea. La manifestazione si è svolta a Roma, Bologna, Modena, Gradisca, Torino, Milano, Bari, Cagliari, Santa Maria Capua Vetere, Trapani, Catania, Lampedusa, Porto Empedocle. I Cie e i Cara “sono da tempo off limits per l’informazione – ha spiegato il comitato promotore -, luoghi interdetti alla società civile e in cui soltanto alcune organizzazioni umanitarie arbitrariamente scelte riescono ad entrare”.
“La circolare voluta da Roberto Maroni – ha denunciato ancora il comitato – ha reso ancora più inaccessibili tali luoghi, fino a data da destinarsi, in nome dell’emergenza nordafricana”. Giornalisti, sindacati, esponenti di associazionismo antirazzista umanitario nazionale e internazionale, presenti nel territorio in cui sono ubicati Cie e Cara, “sono considerati secondo il testo ministeriale “un intralcio” all’operato degli enti gestori e per questo tenuti fuori. Questo si traduce di fatto in una sospensione del diritto-dovere di informazione che si va ad aggiungere alle tante violazioni già riscontrate in questi centri”.
Il primo appello per l’abrogazione della circolare era stato pubblicato il 26 maggio dal sitoFortress Europe. Lo stesso sito che oggi ha diffuso la notizia, corredata da quattro foto di una giovane tunisina percossa – secondo il suo stesso racconto – da due uomini della Guardia di finanza. La donna, reclusa nel centro di identificazione ed espulsione di Roma, a Ponte Galeria, mostra gli evidenti segni di percosse e manganellate sulla schiena e sul braccio. E racconta: “Stavamo giocando a calcio, io ho colpito la palla e ho preso una ragazza nigeriana sul viso, abbiamo iniziato ad insultarci e alla fine ci siamo prese per i capelli. In quel momento a Ponte Galeria c’era una grande ostilità tra ragazze tunisine e nigeriane anche perché sono le nazionalità più numerose. Nessuna mollava la presa e sentendo le grida sono entrati tre uomini, due della Guardia di Finanza e uno in borghese. Hanno iniziato a manganellarmi per separarci, davanti a tutte le ragazze che assistevano alla scena. Sono stata picchiata dietro la schiena, sul braccio e alla spalla. Mi sono lamentata più volte con gli infermieri del Cie per i forti dolori chiedendo di poter essere accompagnata in ospedale. Ma mi hanno dato sempre e solo dei tranquillanti.” I fatti risalgono agli inizi di giugno 2011. Adesso la ragazza è stata rimessa in libertà. Le foto sono state scattate all’interno della biblioteca del Cie e consegnate da una fonte anonima a Fortress Europe, che le diffonde in anteprima attraverso l’agenzia Redattore Sociale.
Sel: la violazione più grave è il mancato diritto di difesa
Cavalli, consigliere regionale di Sel, dopo la visita istituzionale all’interno della struttura di via Corelli a Milano: “Ogni volta che si entra in questi centri si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”.
“La violazione più grave sta nel mancato diritto di difesa: qua dentro nessuno sa cosa gli stia succedendo”. Giulio Cavalli, consigliere regionale di Sel, è appena uscito dalla visita istituzionale all’interno del Cie di via Corelli, a Milano. “Ogni volta che si entra in questi centri -prosegue l’attore e politico-, si sentono persone denunciare i pestaggi e le violenze subite. Ormai è un fatto accertato”.
Non appena la delegazione di parlamentari e consiglieri regionali (con l’aggiunta dell’assessore comunale al Welfare Pierfrancesco Majorino, in un primo tempo bloccato all’ingresso) ha varcato la soglia del centro, si è formato un assembramento di detenuti attorno al gruppo, ognuno con la sua storia da raccontare. Ciò che stupisce Chiara Cremonesi, consigliere regionale Sel, è che avevano in mano i loro documenti d’identità: “Non c’è una reale volontà di identificazione. Dal Cie si giustificano dicendo che nonostante il documento si tratta di persone che vanno espulse perché prive di permesso di soggiorno, e che i consolati sono lenti nel provvedere”.
Aumentano i casi di autolesionismo e di tentati suicidi, l’ultimo proprio ieri notte. “Un’impennata che si è registrata nel corso delle ultime due settimane -spiega Chiara Cremonesi- legata alla decisione di prolungare la detenzione da 6 a 18 mesi”. Perché lo fanno? “Sono venuti a sapere che qualcuno, dopo essersi ferito, era stato graziato – risponde il consigliere regionale Sel Giulio Cavalli – non si sa in base a quale principio”. “Mi chiedo come abbiamo fatto a lasciare che questo diventasse possibile”, commenta.
La vicenda più incredibile riguarda un uomo rumeno, rinchiuso da mesi nel centro. “Ha tre bambini nati tutti in Sardegna e dice che pagherebbe il viaggio per andarsene coi suoi soldi se solo lo lasciassero uscire”, racconta Giulio Cavalli. Il consigliere regionale Sel assicura che farà le verifiche necessarie per capire come mai questa persona si ritrova detenuto in un centro d’espulsione, nonostante sia comunitario. Uno dei numerosi aspetti su cui è necessario fare luce, rimasto oscuro in virtù della direttiva del ministero dell’Interno 1305, datata primo aprile 2011: un giro di vite che ha limitato l’accesso ai Cie solo a pochissime Ong internazionali, oltre a Croce Rossa, Caritas e gli altri enti che hanno convenzioni aperte con il Viminale.
“Dentro ci sono 94 persone di cui quattro prorogati con la nuova direttiva. Un’area del centro è tutta da risistemare per la rivolta di maggio, mentre la sala benessere sembra piuttosto una fotografia della Diaz” afferma Giulio Cavalli al termine della visita. I “quattro” sono immigrati a cui stava scadendo il termine di permanenza nel Cie, allungato a 18 mesi con il decreto rimpatri. “Ci è capitato di parlare con gente” continua Cavalli “come un cittadino rumeno che ci ha mostrato di avere i documenti dei tre figli nati in Sardegna, che si dice disposto, per uscire di lì e incontrare i suoi figli, anche a pagarsi pure il viaggio”. Ma il vero problema sono i legali “che dovrebbero essere la chiave di volta per uscire da questa situazione, e invece sono messi a disposizione dalla Croce Rossa, che sono i custodi di questa gente”.
Milano. Il Centro di Identificazione ed Espulsione di via Corelli ha altissime mura di cemento, qualche tratto costellato da filo spinato e militari e polizia a presidiare gli ingressi. Qui si sono ritrovati cittadini, giornalisti (il presidio era organizzato dall’Associazione Lombarda Giornalisti) e alcuni esponenti della politica, per ribadire che non consentire l’ingresso alla stampa nei centri è un ‘buco nero nel sistema democratico del paese’, così come lo ha definito Giulio Cavalli (Sel) presente sul posto. Con lui anche il parlamentare del Pd Jean-Lèonard Touadi, Giuseppe Civati consigliere regionale sempre del Pd e l’assessore al welfare Pierfrancesco Majorino. Civati e Touadi sono entrati nel centro perchè “autorizzati”, Majorino ha tentato ma senza successo: al loro ritorno ci siamo fatti raccontare come è andata e Touadi ha lanciato un invito al Ministro dell’Interno Roberto Maroni: ‘Dovrebbe venire a fare un giro qui”. Servizio Federica Giordani
A differenza del localismo di stampo leghista questa attenzione alle identità locali è aperta allo scambio, anzi vuole mettersi in relazione con tutte le altre: della città, del Paese, dell’Europa, del mondo. Si definisce non solo attraverso la storia e la memoria (il “come eravamo”) ma attraverso le trasformazioni sociali di cui è il risultato, perché in ogni momento l’identità di un luogo, di una comunità, di un popolo è provvisoria e dinamica. Ed è inclusiva: pretende riconoscimento reciproco, rispetto e dignità per ogni membro della comunità, e considera gli immigrati nuovi cittadini che concorrono alla nostra vita sociale e alla nostra ricchezza materiale e culturale. Fa piacere leggere cose così.