Vai al contenuto

immigrazioni

#ACasaLoro Rapporto choc. «Fermate i profughi» (con l’uso della forza)

Giuro che ce la metterò tutta perché lo spettacolo A Casa Loro venga visto il più possibile. Perché si squarci il silenzio, perché prenda corpo l’accusa (che ha scritto benissimo Civati nel suo libro “Voi sapete”) contro un tempo che non ci perdoneremo. Ecco l’articolo di Nello Scavo (che dello spettacolo è coautore) sull’aria che tira, da leggere con attenzione e cuore aperto:

Poliziotti che premono il grilletto contro i migranti in Belgio. Gendarmi francesi che non si curano di profughe incinte, fino a provocarne la morte. Governi che in Ungheria issano barriere elettrificate. Paramilitari della Bulgaria che danno la caccia ai siriani in fuga. Servizi segreti impiegati nelle indagini sui soccorritori nel Mediterraneo, nella nostra Italia.

Niente di strano che un’Europa così si sia messa in affari con 35 tra i più controversi governi del mondo, pur di sigillare i confini e tenere alla larga gli ultimi. Lo sostiene il rapporto “ Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza”, diffuso dall’istituto transnazionale ‘Stop Wapenhandel’ (Campagna olandese contro il commercio di armi) e rilanciato dalla Rete Italiana per il Disarmo. «La collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito profitti alle imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani», si legge nel dossier. I ricercatori hanno esaminato il frequente ricorso a intese per l’esternalizzazione delle frontiere.

Esemplare il caso della Turchia del presidente Erdogan, regolarmente criticato da Bruxelles per le ripetute violazioni delle libertà fondamentali, ma a cui sono stati versati 6 miliardi di euro pur di trattenere in Anatolia il più alto numero possibile di profughi siriani. Le misure adottate dall’Ue includono la formazione delle forze di sicurezza di Paesi terzi; donazioni di elicotteri, navi per pattugliamento e veicoli; cessioni di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio; sviluppo di sistemi di controllo biometrico; accordi per i respingimenti. Nella lista, oltre alla Turchia, vi sono Libia, Egitto, Sudan, Niger, Mauritania e Mali. In tutti questi Paesi, «gli accordi hanno portato l’Ue – insistono i ricercatori – a trascurare o attenuare le critiche sulle violazioni dei diritti umani». In Egitto, per fare un esempio, è stata intensificata la cooperazione per il controllo delle frontiere con il supporto del governo tedesco, «malgrado il consolidamento del potere militare al Cairo».

In Sudan, il sostegno per la sicurezza delle frontiere da parte dell’Ue ha permesso al presidente Omar al-Bashir (destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja) di rompere l’isolamento internazionale, «consentendo di rafforzare le Forze di supporto rapido, formate da combattenti della milizia Janjaweed», responsabili di crudeli crimini contro i civili nella regione del Darfur. Il dossier esamina da vicino tutti i 35 Paesi a cui l’Ue attribuisce priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. Il 48% (17) ha un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati Stati democratici. Il 100% (35) pone rischi estremi o elevati per il rispetto dei diritti umani. Il 51% (18) è classificato come ‘basso’ negli indici dello sviluppo umano.

In Niger, una delle nazioni più povere al mondo, le intese procedono verso una progressiva militarizzazione, aumentando i rischi per i migranti e accrescendo il potere di bande armate e trafficanti. Allo stesso modo in Mali, Paese che sta riprendendosi dopo la guerra civile, gli ‘aiuti’ militari dall’Europa per trattenere i migranti minacciano di risvegliare quel conflitto. «L’Unione Europea – sostengono gli autori dello studio – ha voltato le spalle ad un impegno incondizionato per i diritti umani, la democrazia, la libertà e la dignità umana espandendo negli ultimi anni in maniera problematica le proprie politiche di esternalizzazione delle frontiere». Dalle cronache degli ultimi giorni, purtroppo, non arrivano smentite.

(fonte)

Natura morta

Ne scrive bene il Post:

Martedì scorso un gommone con a bordo 181 migranti è stato raggiunto da un’imbarcazione della ong spagnola Proactiva Open Arms al largo delle coste libiche, a circa 15 miglia a nord della città di Sabrata. La chiamata di emergenza è arrivata verso le 11 di mattina, e insieme al personale della ong ha assistito ai soccorsi anche il fotogiornalista freelance Santi Palacios, che lavora per l’agenzia Associated Press. Palacios ha scattato delle foto molto forti di quello che stava succedendo e ha poi raccontato la sua esperienza a TIME: «Si capiva che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che non era normale». Dopo avere cercato di tranquillizzare i migranti a bordo del gommone, i soccorritori hanno cominciato a distribuire i giubbotti di salvataggio, prima di iniziare a spostare i migranti dal gommone alla barca di Proactiva Open Arms: «È stato solo quando abbiamo caricato quei quattro bambini sulla nostra barca – e una donna che si prendeva cura di loro – che abbiamo cominciato a capire che c’erano dei cadaveri a bordo». I soccorritori hanno contato 13 morti, 5 uomini e 8 donne, tra cui due incinte.

Una fotografia dei corpi dei migranti sul gommone scattata da Santi Palacios è stata condivisa moltissime volte sui social network nei giorni scorsi, ed è stata ripresa da giornali e siti di news. Secondo Riccardo Gatti, il capo della missione Proactiva Open Arms, alcuni migranti potrebbero essersi piegati fino a stendersi a causa del mal di mare, e poi potrebbero avere inalato i vapori del carburante insieme all’acqua salata: «Non sono morti affogando fuori dalla barca, ma affogando dentro la barca». Palacios ha pubblicato la foto dei morti su Facebook, poi il post è stato rimosso e poi rimesso, ma con alcune limitazioni nella visualizzazione. Palacios ha pubblicato la foto anche sul suo account Twitter.

I soccorsi sono proseguiti per almeno due ore, e poi è stato necessario altro tempo per trasportare sulla barca della ong i corpi dei morti. I migranti a bordo del gommone provenivano per lo più dalla Nigeria, dal Sudan e dal Ghana. Alcune donne hanno poi raccontato di essere state stuprate in Libia. Almeno due di loro hanno confermato le violenze ai medici a bordo. «Guardandole negli occhi», ha raccontato Palacio, «le parole che mi sono venute in mente sono state: “questo è l’inferno in Terra”». Ai migranti sono stati dati cibo e coperte e il giorno dopo sono stati trasferiti su un’altra imbarcazione diretta verso l’Italia.

La corsa di Ahmed

Ahmed-500x666
Ahmed Tunij corre da sempre. Corre da quando era ragazzo, perché correre è stato il mezzo che gli ha permesso di salvarsi la vita. E continua a farlo. Continua a correre. Questa volta, però, per ricostruirsi una vita. Per integrarsi, per sognare, per mettere a frutto i talenti che ha tenuto nascosti in questi anni. Anche se sono stati sfregiati, segnati dalle cose che ha visto. Dalla morte che ha incrociato ma che lo ha risparmiato perché, forse, gli ha riservato un destino speciale. Un destino che qui in Italia, in Puglia, sta lentamente prendendo forma. E che si concretizzerà domenica 12 giugno, quando Ahmed Tunij prenderà parte alla sua prima gara di corsa campestre, al «Trail delle 5 Querce», un percorso di 28 km nel Canyon di Gravina in Puglia, a cui parteciperanno campioni di fama internazionale come Giorgio Calcaterra, attuale detentore del titolo mondiale nella 100 km di ultramaratona.
IL LUNGO VIAGGIO DI AHMED
Per Ahmed sarà un esordio speciale, ed al di là della posizione in cui arriverà, il traguardo più importante l’ha già tagliato. Perché prima di prendere confidenza con questa particolare disciplina sportiva, Ahmed ha dovuto percorrere un lungo viaggio. Un viaggio iniziato 22 anni fa ad Ajah, il piccolo centro nel Sud Ovest della Nigeria, a pochi km dal Benin, in cui il giovane è nato e vissuto con la sua famiglia. Poi le cose sono cambiate. La guerra e l’instabilità politica hanno spinto Ahmed a lasciare il suo Paese per trovare rifugio in Libia. «Ho lavorato sei mesi come tecnico informatico. Ma dalla Libia sono fuggito presto per non finire arruolato in bande armate o essere vittima delle continue violenze inflitte dai ribelli e miliziani dell’Isis». Ahmed, a questo punto, inizia a correre. E come tanti migranti, lo fa via mare, a bordo di un barcone, in uno di quei viaggi interminabili in cui la vita è sospesa fino a quando i piedi non toccano terra. «Fin da piccolo ho imparato a nuotare, e il mare non mi ha mai spaventato però in quel viaggio ho conosciuto un mare diverso, e l’unica cosa che potessi fare era affidarmi a Dio». Il suo viaggio dura 23 giorni. A fine agosto arriva in Sicilia, da dove poi viene trasferito in Puglia, presso il Centro di Accoglienza Straordinaria di Poggiorsini, un piccolo comune della Murgia barese.
(dal Corriere della Sera, continua qui)

Mamma è rimasta in mare

52b9ba4c04c56e06af3f8d3b160a5191-U431301008320562mgG-U431801133097850OnF-1224x916@Corriere-Web-Sezioni

Nohamed, 9 mesi e una traversata che s’è bevuta la madre. Europa 2016.

«Mentre a 18 miglia dalle coste libiche si ribaltava un peschereccio con quasi 600 migranti, a Lampedusa arrivava il carico di un altro dramma del Mediterraneo: 150 scampati al naufragio di due gommoni, compresa una bimba di appena 9 mesi che ha perso la mamma, morta per ustione da benzina durante la traversata. Una bimba sola arrivata dal cuore dell’Africa, recuperata tutta bagnata, totalmente disidratata, dall’equipaggio di una motovedetta della Guardia costiera che, ancor prima di attraccare alla banchina, ha allertato il poliambulatorio diretto dal medico tante volte premiato come simbolo di solidarietà, Piero Bartolo, protagonista del film di Gianfranco Rosi «Fuocammare», che adesso vorrebbe prendere la piccola in affidamento.»

Salvini, leggi qui.

guerra-successioneGrazie ad una segnalazione di Cristiana sono incappato in un pezzo sull’Eritrea. Sapete l’Eritrea? Quel paese massacrato da cui fuggono molti dei profughi che starebbero invadendo l’Italia? Ecco date un’occhiata qui a chi sono stati gli ottimi sponsor politici della tirannia. Così magari abbattete anche loro, con le ruspe.

Ah, l’articolo risale ai tempi del Governo Berlusconi. Con la Lega al Governo, insomma.

#TorSapienza su da bravi, fatevi cavalcare dalle destre

Un articolo di Daniele Vicari:

L’ultima volta che sono venuto a Tor Sapienza è stato per sba­glio pochi mesi fa. Ero diretto alla prima comu­nione di Maria, figlia di un caro amico, alla Rustica, quar­tiere cusci­netto tra Tor Sapienza e l’autostrada Roma-L’Aquila. Distra­zione al tele­fono e mi ritrovo nell’anello di via Morandi. Fac­cio il giro degli enormi palazzi un paio di volte, senza tro­vare la via d’uscita, e come suc­cede nei film mi ritrovo nel pas­sato, quando con un gruppo di pazzi all’inizio dei ’90 ani­mammo l’estate per i bimbi pro­prio su que­sta via: gio­strine, clown, musica, pro­ie­zioni. «Meno male che cono­sco le strade» dico a mia figlia seduta accanto per tran­quil­liz­zarla. Esco dall’anello e rag­giungo facil­mente via Lon­goni, dritto per la Rustica. Ma mi ritrovo in un posto sco­no­sciuto, con decine di trans in pieno giorno che colo­rano la via, mia figlia è immersa nel suoi Ipod e non mi fa domande…

Ho vis­suto 25 anni a ridosso di que­sta zona di Roma, a Pie­tra­lata, nella parte oppo­sta dell’autostrada, ma quando l’altra notte le tv hanno tra­smesso l’ormai fami­ge­rato raid con­tro il cen­tro di acco­glienza, mi sono sve­gliato vagando per il quar­tiere con la testa. E al mat­tino ho twit­tato la mia ango­scia: #Tor­Sa­pienza torna alle cro­na­che. Il quar­tiere abban­do­nato da tutte le ammi­ni­stra­zioni, la “disca­rica umana”. Allora? Aspet­tiamo il #morto?

Sarà per que­sto quasi inspie­ga­bile attac­ca­mento a un quar­tiere che ho fre­quen­tato per anni, che ora ci cam­mino in mezzo, non me la sono sen­tita di risol­vere il mio per­so­nale rap­porto con que­sto mondo sem­pli­ce­mente con un twitt. Anche per­ché nella sem­pli­fi­ca­zione gior­na­li­stica mi sono ritro­vato a dire: «per­ché quei cen­tri non li met­tono ai Parioli?». Che come pro­vo­ca­zione magari fun­ziona, ma non è esat­ta­mente il mio pen­siero. Le chiac­chiere stanno a zero, que­sta è una zona sotto asse­dio: poli­zia ce n’è un bel po’; tanti capan­nelli di per­sone; grida scon­clu­sio­nate di donna che dice «Basta!» a ripe­ti­zione. Non la vedo, ma le sue grida inter­pre­tano que­sta atmo­sfera alla per­fe­zione. Ora che que­sto luogo è diven­tato tri­ste­mente famoso nel mondo per il raid con­tro la coo­pe­ra­tiva sociale «Un sor­riso», tutto è più dif­fi­cile, tutto è male­det­ta­mente sci­vo­loso. Qui le ragioni e i torti si mesco­lano fino a essere irri­co­no­sci­bili. L’unica cosa certa: troppi pro­blemi che si sovrappongono.

E’ legit­timo chie­dersi come si sia mai potuto pen­sare di inne­stare in un quar­tiere come que­sto l’ennesima forma di disa­gio sociale. Ma chi le pensa que­ste cose? Chi si prende certe respon­sa­bi­lità? Magari, invece, chi ha deciso que­sta cosa avrà avuto le sue ragioni, l’edilizia pub­blica viene uti­liz­zata per scopi sociali e magari ai Parioli non ci sono case pub­bli­che… Le strade ad anello sono senza scampo e gira gira mi ritrovo davanti al cen­tro di acco­glienza «Un sor­riso». C’è la poli­zia, ci sono i mili­tanti dei movi­menti che pro­teg­gono l’uscio. Dall’altra parte della strada musi lun­ghi che dicono no. Passo in mezzo come un fan­ta­sma. Nes­suno si accorge di me. Provo un bri­vido freddo, un ser­pen­tello mi scorre lungo la spina dor­sale: oltre quelle vetrate ci sono ragazzi che ven­gono da zone di guerra vere, dove la vita vale meno di zero. E sono stati ripe­scati in mare come tonni. Per loro quei musi lun­ghi sono l’Italia che non li vuole. E io sono ita­liano, sono coin­volto. Ma se la mia fami­glia fosse lassù, die­tro quei panni stesi al terzo piano? Asser­ra­gliata in casa per paura?

Qual­che mese fa rimasi imbot­ti­gliato nel traf­fico in via Col­la­tina, a un chi­lo­me­tro da qui. Ten­tando di capire dalla radio cosa stesse suc­ce­dendo, sco­prii che era in corso una pro­te­sta dei cit­ta­dini del quar­tiere, sen­tii quel gran pezzo di sin­daco che fu Ale­manno chie­dere iste­rico: «Marino dov’è?». Si era pre­sen­tato alla mani­fe­sta­zione e le tele­vi­sioni locali non man­ca­rono di immor­ta­larlo in mezzo alle mamme con le car­roz­zine e le maschere con­tro la dios­sina men­tre diceva nevro­ti­ca­mente: «Marino dov’è?». La “destra sociale”, quella che sa vin­cere le ele­zioni caval­cando il disa­gio popo­lare senza peli sullo sto­maco, e che quando governa demo­li­sce pezzo per pezzo il wel­fare, Ale­manno, era li in mezzo alla gente del quar­tiere. Le mamme e i bimbi pro­te­sta­vano per ogget­tive con­di­zioni inac­cet­ta­bili di vita. Non ricordo altri poli­tici di rango pre­senti. Con disa­stri di que­sto tipo, iper­me­dia­tiz­zati, come il ter­ri­bile stu­pro e l’uccisione della signora Reg­giani, si vin­cono e si per­dono le ele­zioni o peg­gio si inau­gu­rano cicli poli­tici. I cit­ta­dini pro­te­sta­vano per i roghi tos­sici su via Sal­viati, appic­cati dai rom. Ho visto spesso il fumo venire su pas­sando dall’autostrada. A via Sal­viati c’è un campo nomadi dove si dice risie­dano migliaia di per­sone anzi­ché le 300 pre­vi­ste. Recen­te­mente è stato fatto uno sgom­bero molto con­te­stato del campo, ma un gran numero di Rom pare sia ancora li. A que­sta pre­senza dif­fi­cile si aggiun­gono alcuni cen­tri di acco­glienza in zona, uno di que­sti è quello di Via Morandi preso di mira l’altra notte, e me lo sono appena lasciato alle spalle. Mi fermo per scri­vere, mi nascondo come un ladro die­tro un pilone di cemento.

Giro ancora in tondo e passo davanti alla sede di Antro­pos. Una asso­cia­zione capace di svi­lup­pare una quan­tità di atti­vità sociali incre­di­bile. 13 anni fa vi feci i pro­vini per il mio primo film: «Velo­cità Mas­sima». Vi tro­vai il pro­ta­go­ni­sta e alcuni dei ragazzi di Tor Sapienza fecero le com­parse nel film. Mi sem­bra chiuso il cen­tro, non sono nem­meno sicuro di rico­no­scerlo. Non mi va di par­lare con nes­suno, tiro dritto.

Biso­gna dire che pas­sarci a piedi si capi­sce molta della rab­bia dei cit­ta­dini. E’ sporco, ma come fanno i bam­bini a gio­care qui in mezzo? Mar­cia­piedi che improv­vi­sa­mente fini­scono nel nulla. Lam­pioni pian­tati al cen­tro degli sci­voli per disa­bili. Mon­nezza. Penso che se il posto in cui stai fa schifo, prima di pren­der­tela con l’ultimo dei rifu­giati, dovre­sti pren­der­tela con te stesso che ci abiti e fai poco o nulla per miglio­rare la situa­zione, e magari pisci anche tu in quel cespu­glio dove al mat­tino va a gio­care a nascon­dino tuo figlio. Mi do ragione da solo, ovvia­mente, come tutti i ben­pen­santi, ma c’è sem­pre il pic­colo det­ta­glio che io non abito qui. Non abito nem­meno più a Pie­tra­lata che rispetto a que­sto posto è un luc­ci­cante quar­tiere resi­den­ziale, e me ne sono andato qual­che anno fa per­ché spesso si ful­mi­na­vano i lam­pioni, e pas­savo le serate buie alla fine­stra per essere sicuro che la mia com­pa­gna par­cheg­giasse e tor­nasse a casa senza rot­ture. Ora sono su un altro pia­neta, quasi in cen­tro a San Giovanni.

Pen­sieri in libertà e mi ritrovo a leg­gere il nome della strada: via Luigi Nono! Provo un momento di entu­sia­smo, è un genio della musica del nove­cento, un uomo impe­gnato poli­ti­ca­mente, autore tra l’altro de «Il canto sospeso» musica lan­ci­nante e testi dalle «Let­tere dei con­dan­nati a morte della resi­stenza»… solo ora mi rendo conto che il tea­tro di que­sto dramma sociale è una via inti­to­lata al più iso­lato e mite tra i pit­tori ita­liani: Gior­gio Morandi. Me lo ripeto ad alta voce, per­ché il nome suona strano a guar­dami attorno, lui è stato uno dei geni della pit­tura del XX secolo, con le immor­tali nature morte dipinte nella sua stan­zetta bolo­gnese. Qui le strade por­tano nomi di grandi per­so­na­lità dell’arte con­tem­po­ra­nea, invo­lon­ta­ria­mente a sug­gel­lare la misera scon­fitta di una idea di civiltà e di poli­tica appic­ci­cata con lo sputo sulla pelle di una società che sotto un velo sot­tile di reto­rica fard nasconde puru­lenze mai sanate. Ecco.

A sprazzi mi andrebbe di par­lare con qual­cuno, anche per uscire da que­sto soli­lo­quio, ma mi freno, per­ché i media hanno già vam­pi­riz­zato le peg­giori nefan­dezze e irri­pe­ti­bili minacce che «i resi­denti» indi­riz­zano ai rifu­giati. Se ne potrebbe fare un cata­logo che non sfi­gu­re­rebbe nel dizio­na­rio del per­fetto fascio­le­ghi­sta. Infatti si parla di «infil­trati» di gruppi poli­tici di estrema destra o cose simili. Infil­trati? Cer­ta­mente gente che getta ben­zina sul fuoco ce n’è. Credo che i raid raz­zi­sti vadano non solo cri­ti­cati a parole, ma fer­mati senza ten­ten­na­menti, per­ché sono un cri­mine con­tro l’umanità, e mai come in que­sti casi va invo­cato lo stato di diritto (se esi­ste). Va bene tutto, ma in que­sta vicenda c’è un ma: MA per­ché qui ven­gono con­cen­trate tutte le con­trad­di­zioni del mondo, senza risol­verne nem­meno una?

Qui, nelle case dell’Ater (Azienda Ter­ri­to­riale per l’Edilizia Resi­den­ziale), trenta e più anni fa arri­va­rono migliaia di per­sone cari­che di sto­rie dif­fi­cili, vi furono con­cen­trate situa­zioni spesso ai limiti. Quando arri­va­rono «que­sti qui» delle case popo­lari che ora fanno i raid con­tro i rifu­giati, gli abi­tanti delle bor­gate limi­trofe, come la Rustica, pro­te­sta­rono. Lo ricordo con esat­tezza, per­ché alla Rustica ci vivono molte per­sone ori­gi­na­rie del paese in cui sono cre­sciuto, le case se le sono costruite negli anni ‘50 e ’60 con le loro mani, e su quelle case due o tre gene­ra­zioni hanno but­tato tutte le risorse fami­liari dispo­ni­bili. Quelle stesse case, abu­sive e poi sanate, sono diven­tate un cape­stro per i loro pro­prie­tari a causa di Ici o Tasi varie, ma sono pur sem­pre case pri­vate, «digni­tose», non case popo­lari prese «a sbafo», come si diceva degli inqui­lini di via Morandi: «Io lavoro, sudo e quelli si pren­dono la casa a gra­tis e poi vanno in giro con la mer­ce­des», così si diceva. Ora la ruota gira, e quelli che furono pro­te­stati trent’anni fa pro­te­stano gli ultimi arri­vati, che «man­giano a sbafo con i soldi nostri e but­tano nei sec­chi dell’immondizia il cibo…». E’ un assurdo espe­ri­mento psico-sociale quello rea­liz­zato in que­sta assurda peri­fe­ria, lon­tana dalle le zone «bene» della città, che si sono sem­pre sen­tite al riparo da ogni con­se­guenza diretta dai casini dei «bor­ga­tari». Però, come suc­cede nei film cata­stro­fici, da que­sto espe­ri­mento il virus potrebbe sfug­gire e ora lo sap­piamo tutti, siamo tutti avver­titi, le molo­tov con­tro il cen­tro di acco­glienza «Un sor­riso» par­lano chiaro.

E la poli­tica? Mistero… l’unica cosa evi­dente è che c’è chi ha molto fiuto per que­ste situa­zioni, come Sal­vini. S’è visto bene a Bolo­gna, è un ragazzo intel­li­gente che piace tanto ai salotti tele­vi­sivi, ma tanto tanto. Si dice che dreni i voti in libera uscita da Forza Ita­lia, quindi è utile… L’attivismo raz­zi­stoide della Lega ha già impo­sto per venti anni cam­pa­gne elet­to­rali su «legge e ordine» e con­tro «lo stra­niero». Lo ricor­diamo tutti, spero, che la Lega nac­que a ridosso dell’arrivo degli alba­nesi sulle coste pugliesi nel 1991? Per­sino la sini­stra «di governo» ha dato il suo bel con­tri­buto a quella ten­denza con l’invenzione dei Cie.

Fa il suo, Sal­vini, biso­gna dar­gliene atto: egli fa poli­tica. Ma a parte alcuni «amici» di twit­ter che danno del fasci­sta agli abi­tanti di un intero quar­tiere, e a parte qual­che per­so­na­lità della sini­stra non di pri­mis­simo piano, cosa fa il resto della poli­tica per scio­gliere que­sto garbuglio?

E senza accor­ger­mene i miei pen­sieri flui­di­fi­cati dalla rab­bia mi hanno tele­tra­spor­tato al Lory Bar. Mi prendo il caffè che non è nem­meno accio. Devo ammet­tere che è la prima volta che provo disa­gio nella «mia» peri­fe­ria. Guardo le per­sone che mi guar­dano, qui non passo inos­ser­vato. Sento dire che sta arri­vando o è arri­vata la Meloni, che i rifu­giati li hanno già tra­sfe­riti in parte sta­mat­tina. Vik­to­ria! Voglio andare via subito, a me certe «vit­to­rie» danno ai nervi, non vor­rei che si rive­las­sero delle immense débâcle.

Un po’ me lo merito con i miei miste­rici Ray-ban di essere un «osser­vato spe­ciale». Uso la taz­zina del caffè come scudo, mi pro­teggo dallo sguardo lim­pido di una ragaz­zina bionda seduta sul muretto, gio­va­nis­sima. Io farei cre­scere qui mia figlia?

Due anziani discu­tono degli acca­di­menti ultimi, uno dei due dice guar­dando me: «Qua a Tor Sapienza sémo ven­ti­mila abi­tanti ar mas­simo in tutta l’ottava zona dell’Agropontino, ma come fai tra rifu­giati, sban­dati e Rom, a met­te­cene den­tro n’antri due o tre­mila?». Per­ché l’ha detto a me? La cosa mi bru­cia. L’altro risponde solo «’nfatti», fumando una siga­retta elet­tro­nica. Men­tre penso che il vec­chio non ha tutti i torti anche se il suo discorso somi­glia ine­vi­ta­bil­mente a: «Non sono raz­zi­sta ma…», mi do anche la rispo­sta: «no, non ci farei cre­scere mia figlia qui»… non ci vivrei nem­meno io, piut­to­sto me ne andrei da Roma, forse tor­ne­rei a Col­le­giove, dove sono cre­sciuto, dove mia madre gesti­sce l’unico bar del paese. Ma improv­vi­sa­mente mi viene da ridere, non rie­sco a trat­te­nermi e credo di rischiare una col­tel­lata da un tipo con il giub­bot­tone di pelle nera che mi fissa, come fac­cio a spie­gar­gli che rido per­ché a Col­le­giove, un paese di un cen­ti­naio di abi­tanti, in pro­vin­cia di Rieti a 1.000 metri d’altezza, da qual­che mese ci sono 30 rifu­giati nell’albergo chiuso da sem­pre e aperto per l’occasione? 30 su 100. E come fac­cio a spie­gar­gli che sono clienti di mia madre, che sono gen­ti­lis­simi, brave per­sone con neo­nati al seguito scap­pate dalla Siria, e che pagano i loro pic­coli debiti, che non la chia­mano Gabriella, ma la chia­mano MAMMA, esat­ta­mente come la chiamo io? E che quando me l’ha detto qual­che giorno fa per tele­fono, mi sono pure un po’ inge­lo­sito? Ma forse il giub­bot­tone nero ha ragione, c’è poco da ridere, almeno qui a Tor Sapienza.

Non siamo nemmeno all’altezza dei nostri morti

img1024-700_dettaglio2_Lampedusa-tragediaLa strage di Lampedusa non sanguina oggi, no. Sanguinerà domani sera, forse, e sicuramente dopodomani quando verrà archiviata tra le morti straniere in patria e riempirà il faldone delle cose da dimenticare subito dopo l’erezione fisica dovuta all’indignazione.

Piangere oggi le vittime di Lampedusa è un diritto di chi ha il giusto sentore delle sevizie dei CIE, di chi non scambia lo schiavismo per libera prostituzione, di chi giudica un morto perché è morto e non dove è nato o, ad esempio, di chi ha il mirabolante coraggio di inserire tra le cifre del femminicidio quelle ragazzine puttanelle che rimangono ammazzate ai bordi delle strade tra i profilattici usati e il bidone incendiato per scaldarsi.

Piangiamo lacrime italiane per gli italiani, lacrime non comunitarie per gli extracomunitari e lacrime da pasto per i profughi: diversifichiamo il dolore con una pratica del lutto che, nemmeno lei, riesce a non essere federalista e democratica.

Mio nonno si chiamava Gregorio, Gregorio Cavalli, detto Gigeto per quell’abitudine veneta di smitizzare per diluire la fatica di vivere, e si era trasferito in America per lavorare prima al canale di Panama e poi aprire un bar americano come si vedono i bar americani nei film americani. Quando è tornato a Carpanè (Carpanè Valstagna) per tutti era “l’americano” e si è comprato anche una bella casa: con nonna e poi mio padre e i suoi fratelli. Quando era tornato a casa mio nonno Gigeto aveva perso un braccio. Nei racconti epici del bar giù a Carpanè si raccontava di Greogorio Cavalli l’Americano che aveva lasciato un braccio sotto la ruota di un carro. Lì, in America, probabilmente, avevano scritto che “un italiano ha perso un braccio sul lavoro” e tutti a dire che guarda questi italiani che lavorano come muli, disposti a tutto per un tozzo di pane, e forse chissà che giri loschi aveva l’italiano e magari vuoi che sia stata una vendetta. Una cosa così.

Oggi a Lampedusa sono morti centinaia di nonni Gigeto che non hanno nemmeno avuto l’occasione di essere epici nel proprio bar dopo essere stati servi in terra straniera. Oggi a Lampedusa sono morti di adrenalina, vomito, placenta e sangue dei morti che muoiono tutto il giorno e solo oggi faranno un po’ più di rumore perché hanno superato i chili di cadaveri ammessi per la normalità del lutto quotidiano.

Le discussioni politiche sono state strumentali alle persone piccolissime che gareggiano in propaganda. Le morti invece no, le morti, mannaggia dio, sono sempre altissime nonostante i colori e le provenienze. E noi sempre immaturi vivi davanti ai morti. Adolescenti di fronte ad ogni sentimento che sia più del tifo o dell’odio.