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I suicidi e i cittadini clandestini

Ne scrive Barbara Spinelli su Repubblica oggi, riprendendo quello che scrivevamo ieri e proponendo un tema che è politica.

Quando il cittadino diventa un clandestino

RI­SA­LE a più di die­ci an­ni fa un ar­ti­co­lo di Paul Krug­man — uno dei più pro­fe­ti­ci — sul col­las­so del­la com­pa­gnia ener­ge­ti­ca En­ron. La Gran­de Cri­si che tra­ver­sia­mo fu pre­ce­du­ta da quel pri­mo cu­po se­gna­le, e in es­so l’e­co­no­mi­sta vi­de, sul New York Ti­mes del 29 gen­na­io 2002, la for­ma del­le co­se fu­tu­re. Quel­la sto­ria di fin­ta glo­ria mi­schia­ta a fro­de era ben più de­ci­si­va del­l’as­sal­to al Tra­de Cen­ter, che l’11 set­tem­bre 2001 ave­va se­mi­na­to mor­te e of­fe­so la po­ten­za Usa.

«Un gran­de even­to — era scrit­to — cam­bia ogni co­sa so­lo se cam­bia il mo­do in cui ve­di te stes­so. L’at­tac­co ter­ro­ri­sta non po­te­va far­lo, per­ché di es­so fum­mo vit­ti­me più che per­pe­tra­to­ri. L’11 set­tem­bre ci in­se­gnò mol­to sul wa­ha­bi­smo, ma non mol­to sul­l’a­me­ri­ca­ni­smo ».
La vi­cen­da En­ron mi­se fi­ne al­l’e­tà di in­no­cen­za del ca­pi­ta­li­smo, sve­lan­do le sre­go­la­tez­ze e il las­si­smo in cui era pre­ci­pi­ta­to. I sa­cer­do­ti di quel­l’e­tà era­no pri­gio­nie­ri di dog­mi, e nes­su­na do­man­da du­ra scal­fi­va la con­vin­zio­ne che que­sto fos­se il mi­glio­re dei mon­di pos­si­bi­li. Fu co­me il ter­re­mo­to di Li­sbo­na, che nel 1755 co­strin­se la fi­lo­so­fia eu­ro­pea ad ab­ban­do­na­re (gra­zie a Vol­tai­re, a Kant) l’ot­ti­mi­sti­ca fe­de nel­la Prov­vi­den­za. Nel­l’im­me­dia­to non uc­ci­se co­me l’11 set­tem­bre, ma sic­co­me non esi­ste sa­cer­do­te sen­za sa­cri­fi­ci cruen­ti an­che que­sto pre­sto cam­biò: fra il 2007 e og­gi la cri­si ha co­min­cia­to ad ave­re i suoi mor­ti, sot­to for­ma di sui­ci­di. So­no ini­zia­ti in Fran­cia, nel 2007-2008. Ora que­st’in­fe­li­ci­tà estre­ma, im­po­ten­te, lam­bi­sce Gre­cia e Ita­lia, col­pi­te dal­la re­ces­sio­ne e da mi­su­re che ren­do­no di­spe­ran­te il rap­por­to fra l’uo­mo e il la­vo­ro, l’uo­mo e la pro­pria vec­chia­ia, l’uo­mo e la li­ber­tà. Sen­za la­vo­ro, sen­za la pos­si­bi­li­tà di adem­pie­re gli ob­bli­ghi che più con­ta­no (ver­so i pro­pri fi­gli, la pro­pria di­gni­tà) la stes­sa li­ber­tà po­li­ti­ca s’ap­pan­na: di­ven­ti un emi­gran­te clan­de­sti­no in pa­tria, un tra­pian­ta­to.
Sui­ci­di di que­sto ti­po non so­no pa­to­lo­gie in­ti­me, di­slo­ca­zio­ni­del­l’a­ni­ma che nel­la mor­te cer­ca un suo me­to­do. In Fran­cia, in Gre­cia, in Ita­lia, so­no tut­ti le­ga­ti al­la cri­si. So­no com­mes­si da pen­sio­na­ti, la­vo­ra­to­ri, im­pren­di­to­ri pre­si nel­la gab­bia di de­bi­ti, mu­tui non rim­bor­sa­bi­li, azien­de fal­li­te. È si­gni­fi­ca­ti­vo che qua­si tut­ti si im­mo­li­no in piaz­za o nei po­sti di la­vo­ro, la­scian­do let­te­re-te­sta­men­ti che di­co­no l’in­di­ci­bi­le scel­ta. Di­mi­tris Chri­stou­las, il pen­sio­na­to che il 4 apri­le s’è tol­to la vi­ta in Syn­tag­ma Squa­re — la piaz­za del­le pro­te­ste — scri­ve che il go­ver­no, ri­bat­tez­za­to «go­ver­no col­la­bo­ra­zio­ni­sta di Tso­la­ko­glou » in ri­cor­do del Pre­mier che nel ’41-42 aprì le por­te ai na­zi­sti, «ha an­nien­ta­to la mia ca­pa­ci­tà di so­prav­vi­ven­za, ba­sa­ta su una pen­sio­ne di­gni­to­sa cui ave­vo con­tri­bui­to per 35 an­ni».
Chri­stou­las non vuol «met­ter­si a pe­sca­re nel­la spaz­za­tu­ra» di che so­sten­tar­si, e av­ver­te: i gio­va­ni de­ru­ba­ti di fu­tu­ro im­pic­che­ran­no i re­spon­sa­bi­li co­me fe­ce­ro gli ita­lia­ni a Piaz­za­le Lo­re­to con Mus­so­li­ni. «Vi­sta la mia età avan­za­ta, non pos­so rea­gi­re in mo­do at­ti­vo.
Ma se un mio con­cit­ta­di­no af­fer­ras­se un Ka­la­sh­ni­kov, sa­rei pron­to a sta­re al suo fian­co». Le sta­ti­sti­che sui pri­mi cin­que me­si del 2011 cer­ti­fi­ca­no un in­cre­men­to di sui­ci­di del 40 per cen­to, ri­spet­to al­lo stes­so pe­rio­do del 2010.
Di­sa­stri si­mi­li ac­ca­do­no in Ita­lia. La Cgia, As­so­cia­zio­ne ar­ti­gia­ni e pic­co­le im­pre­se di Me­stre, an­nun­cia che nel 2008-2010 i sui­ci­di so­no cre­sciu­ti del 24,6%: so­no usci­ti dal mon­do im­pren­di­to­ri, la-vo­ra­to­ri di­pen­den­ti, pen­sio­na­ti. Nel 2008 i sui­ci­di eco­no­mi­ci so­no 150, nel 2010 so­no 187. C’è un «ef­fet­to imi­ta­zio­ne», spie­ga la Cgia, ma il ter­mi­ne è le­ni­ti­vo. Ci si con­so­lò co­sì nel 2008, quan­do si uc­ci­se­ro 24 di­pen­den­ti di Te­le­com-Fran­cia (una pri­ma av­vi­sa­glia era ve­nu­ta l’an­no pri­ma da Re­nault: tre sui­ci­di in 4 me­si). Il mo­ti­vo so­cia­le ven­ne sot­to­va­lu­ta­to, co­me nel 2002 si sot­to­va­lu­tò il crol­lo di En­ron, ro­vi­no­so per i fon­di pen­sio­ne di mi­glia­ia di la­vo­ra­to­ri. Giu­sep­pe Bor­to­lus­si, se­gre­ta­rio del­la Cgia, par­la di «per­di­ta di si­cu­rez­za, so­li­tu­di­ne, di­spe­ra­zio­ne, ri­bel­lio­ne con­tro un mon­do che si sta ri­ve­lan­do ci­ni­co, ino­spi­ta­le ». Go­ver­ni, gior­na­li­sti, eco­no­mi­sti do­vreb­be­ro smet­te­re le sa­cer­do­ta­li li­ta­nie sul­la «re­si­sten­za al cam­bia­men­to». Fa­par­te del lo­ro me­stie­re pro­va­re a ca­pi­re le se­gre­te mol­le del­l’uo­mo, non so­lo dei bi­lan­ci. Il sui­ci­da è un in­di­gna­to che nau­fra­ga per­ché non ri­co­no­sciu­to, non vi­sto.
An­che su que­sto Krug­man fu veg­gen­te, nel 2002: «Per chi non è di­ret­ta­men­te im­pli­ca­to — gran par­te dei po­li­ti­ci non lo è — non con­ta quel che ha fat­to, ma quel che fa». Man­cò in­fat­ti ogni esa­me cri­ti­co del pas­sa­to, del con­sen­so a tan­te sre­go­la­tez­ze. Un de­cen­nio è pas­sa­to, e l’ot­tu­sa rea­zio­ne del mi­ni­stro del Te­so­ro di Bush, Paul O’Neill, fa tut­to­ra scuo­la: «Le im­pre­se ven­go­no e van­no. È il ge­nio­del ca­pi­ta­li­smo». I sui­ci­di in Gre­cia o Ita­lia so­no una ri­bel­lio­ne con­tro il fa­ta­li­smo di que­sta de­fi­ni­zio­ne — ge­nio — che ve­de nel ca­pi­ta­li­smo una for­za di na­li­mi­ta­re­tu­ra, con­tro cui nul­la si può se non ca­der fuo­ri dal­la gio­stra im­paz­zi­ta. Un fal­so pro­fe­ta, Sa­muel Hun­ting­ton, pre­dis­se nel ’92 pros­si­mi scon­tri tra le ci­vil­tà. Lo scon­tro è den­tro le ci­vil­tà: la no­stra. I sui­ci­di ne so­no il sin­to­mo. Chi non ci cre­de va­da al­l’A­qui­la. Sal­va­to­re Set­tis ha vi­sto una Pom­pei del XXI se­co­lo ( Re­pub­bli­ca 7-4). Le ro­vi­ne del ter­re­mo­to so­no re­sta­te ta­li e qua­li, co­me in un rac­con­to di fan­ta­scien­za. Chi ha det­to che il ca­pi­ta­li­smo è mo­vi­men­to?
Il sui­ci­dio stu­dia­to nel­l’800 da Emi­le Dur­kheim è l’au­toaf­fon­da­men­to del cit­ta­di­no cui so­no strap­pa­ti non so­lo i di­rit­ti ma gli ob­bli­ghi stes­si del­la cit­ta­di­nan­za: la li­be­ra sot­to­mis­sio­ne al­la ne­ces­si­tà del la­vo­ro, il sen­tir­si par­te di una so­cie­tà, di un or­di­ne pro­fes­sio­na­le, di un sin­da­ca­to che in­clu­da e in­te­gri. A dif­fe­ren­za del sui­ci­dio in­ti­mi­sta, o del­l’im­mo­la­zio­ne al­trui­sta, Dur­kheim lo chia­ma sui­ci­dio ano­mi­co. La sua ra­di­ce è nel­l’a­no­mia: nel­lo sva­ni­re di nor­me che ogni cri­si com­por­ta. Nel­l’im­pu­ni­tà di cui go­do­no gli ini­zia­ti che di nor­me fan­no a me­no.
In que­st’a­no­mia vi­via­mo, sen­za più gli av­vo­ca­ti del­l’in­di­vi­duo che so­no sta­ti i sin­da­ca­ti, gli or­di­ni pro­fes­sio­na­li, le chie­se, i par­ti­ti. La cor­ru­zio­ne di que­sti ul­ti­mi è una man­na, per chi vuol fa­re un de­ser­to e chia­mar­lo pa­ce. Gre­cia e Ita­lia ne so­no ma­la­te, e non a ca­so è qui che il cit­ta­di­no tra­mu­ta­to in clien­te non spe­ra più di es­se­re udi­to. «Mai gli uo­mi­ni con­sen­ti­reb­be­ro a i pro­pri de­si­de­ri se si cre­des­se­ro au­to­riz­za­ti a su­pe­ra­re il li­mi­te lo­ro as­se­gna­to. Ma per le ra­gio­ni sud­det­te non pos­so­no det­tar­si da so­li que­sta leg­ge di giu­sti­zia. Do­vran­no per­ciò ri­ce­ver­la da una au­to­ri­tà che ri­spet­ta­no e al­la qua­le si in­chi­na­no spon­ta­nea­men­te. Sol­tan­to la so­cie­tà, sia di­ret­ta­men­te e nel suo in­sie­me, sia me­dian­te uno dei suoi or­ga­ni è ca­pa­ce di svol­ge­re que­sta fun­zio­ne mo­de­ra­tri­ce, sol­tan­to es­sa è quel po­te­re mo­ra­le su­pe­rio­re di cui l’in­di­vi­duo ac­cet­ta l’au­to­ri­tà. Sol­tan­to es­sa ha l’au­to­ri­tà ne­ces­sa­ria a con­fe­ri­re il di­rit­to e a se­gna­re al­le pas­sio­ni il li­mi­te ol­tre il qua­le non de­vo­no an­da­re». (Dur­kheim, Il sui­ci­dio, 1897).
Del­la so­cie­tà fan­no par­te par­ti­ti, sin­da­ca­ti, im­pren­di­to­ri, go­ver­nan­ti: tut­ti si so­no ri­ve­la­ti in­ca­pa­ci di os­ser­va­re e dun­que im­por­re le nor­me, tut­ti so­no por­ta­to­ri di ano­mia. Per que­sto leg­gi e tu­te­le so­no co­sì im­por­tan­ti. Di­ce­va nel­l’800 il cat­to­li­co Hen­ri La­cor­dai­re: «Tra il for­te e il de­bo­le, tra il ric­co e il po­ve­ro, tra il pa­dro­ne e il ser­vi­to­re: quel che op­pri­me è la li­ber­tà, quel che af­fran­ca è la leg­ge».
Di leg­ge, di nò­mos, han­no bi­so­gno i cit­ta­di­ni gre­ci e ita­lia­ni, apo­li­di in pa­tria. Se è ve­ro che vi­via­mo tra­sfor­ma­zio­ni pla­ne­ta­rie, ur­ge sa­pe­re che es­se sca­te­na­no sem­pre un au­men­to di sui­ci­di: se­con­do Dur­kheim an­che i boom eco­no­mi­ci de­mo­ra­liz­za­no.
Dob­bia­mo in­fi­ne sa­pe­re che Ca­mus ave­va ra­gio­ne: la ri­vol­ta è la ri­spo­sta, l’u­ni­ca for­se, al sui­ci­dio (il pae­se «si sal­va al pia­no ter­ra », di­ce Er­ri De Lu­ca). Quan­do è po­si­ti­va, la ri­vol­ta ten­de a rein­tro­dur­re il sen­so del­la leg­ge lì do­ve s’è in­se­dia­ta l’a­no­mia.

#nonmifermo La piccola media impresa che va a fuoco

Questa è ormai un’emergenza tale per cui si è arrivati addirittura ad istituire una rete di psicologi ed un numero verde anti-suicidi come sostegno per coloro che ormai sono stati colpevolmente abbandonati dalle Istituzioni.

Non è sostenibile un sistema dove lo Stato pretenda di imporre una pressione fiscale insostenibile senza, però, far fronte ai propri debiti in tempi ragionevoli.

Ridurre l’intero dibattito sul lavoro alla mera regolamentazione delle modalità con cui i lavoratori possono prestare le proprie mansioni, denota una mancanza di conoscenza della specificità del tessuto sociale italiano. In tal modo, ancora una volta, si lasciano al di fuori del dibattito gli artigiani ed i piccoli imprenditori.

In Italia non esistono solo evasori fiscali, ma anche imprenditori che si uccidono per la vergogna di non poter più pagare i propri operai. Imprenditori che non possono far fronte all’insostenibile pressione fiscale, che non si traduce in servizi.

Ne scrive Davide Mapelli qui.

Crisi lavoro: le nostre proposte

L’ordine del giorno sottoscritto dalla minoranza.

ORDINE DEL GIORNO

“ESAME DEI PROBLEMI INERENTI LA SITUAZIONE INDUSTRIALE REGIONALE”

Il Consiglio regionale

Premesso che

in Lombardia permane una situazione pesante sul piano occupazionale, nonostante una flessione del 33% nell’utilizzo della cassa integrazione, ed una leggera inversione di tendenza nelle assunzioni di giovani;

la disoccupazione coinvolge ancora più di centomila lavoratori; aumentano i licenziamenti e gli inserimenti nelle liste di mobilità; interi settori sono coinvolti nella crisi industriali, in particolare l’high tech;

nell’attuale congiuntura necessitano interventi sul piano degli ammortizzatori sociali, ma sopratutto una politica industriale capace di favorire la ripresa utilizzando tutti gli strumenti a disposizione della Regione, a partire dalla legge1/2007 e da quei settori propri della Regione: sanità, trasporti, energia, banda larga, ecc;

Fare squadra, fare rete, significa ripristinare e rinvigorire i tavoli regionali funzionali a politiche attive del lavoro e all’intervento coordinato fra sistema delle imprese, Istituzioni e sistema bancario;

la Lombardia si caratterizza come Regione a forte vocazione industriale e manifatturiera, deve uscire da una fase di progressivo declino per dare prova concreta della sua vocazione per riprendere a crescere: attivando tutte le sedi opportune, e gli strumenti legislativi necessari, per porsi alla testa di una politica industriale funzionale alla ripresa occupazionale e produttiva.

il Consiglio Regionale impegna la Giunta ad:

 

  1. Attivarsi per prolungare gli ammortizzatori sociali nel 2012;
  2. Rimettere in campo strumenti capaci di far incontrare domanda ed offerta di lavori, recuperando politiche formative utili alle domande che una timida ripresa sembra prospettare, attivando un proficuo rapporto con le parti sociali e gli strumenti della bilateralità;
  3. Incentivare i contratti di solidarietà dando loro più forza e favorendone l’applicazione;
  4. Utilizzare gli strumenti che la Regione ha a disposizione, in particolare Raid, concordando con le parti sociali percorsi necessari per consolidare occupazione e vocazione manifatturiera della Lombardia;
  5. Istituire presso Arifl una cabina di regia con le parti sociali, per monitorare i problemi più acuti del tessuto produttivo lombardo, individuando interventi tempestivi ed efficaci;
  6. Vincolare i bandi della regione, dallo start up all’innovazione, a valorizzare chi con gli stessi bandi crea occupazione aggiuntiva, facendo dell’occupazione un punteggio premiante;

 

  1. Definire le norme applicative in grado di attivare da subito le legge sulle varie forme di apprendistato, sia in rapporto alle università che ai diversi mercati del lavoro. Contestualmente va riportata alle sue origini la norma applicativa degli stage e dei tirocini;
  2. Attivare interventi sul mercato del lavoro più fragile: giovani, donne, over 45; agevolando la stabilizzazione dei rapporti di lavoro in particolare per giovani e donne, sperimentando percorsi di flessibilità positive sul versante della conciliazione lavoro- famiglia e favorendo modalità di lavoro, fra cui il part time anche nella PA, ed il telelavoro, tutelando maggiormente le lavoratrici madri;
  3. Incrementare l’occupazione giovanile attraverso gli strumenti dell’apprendistato e dei tirocini, favorendo la stabilizzazione del lavoro dei giovani; sperimentare adeguati percorsi di reinserimento attraverso specifiche opportunità formative per over 45;
  4. a governare le aree dismesse per favorire insediamenti produttivi disincentivando le attività di carattere immobiliare;
  5. sostegno dei distretti e settori che rappresentano il Made in Italy: settore moda e ricerca;
  6. politiche di sostegno al credito per le imprese;
  7. a verificare la sussistenza delle condizioni per l’individuazione delle aree di crisi industriale complesse, in particolare per il settore dell’high tech al fine di poter attivare le misure previste dal DM 24 marzo 2010;

 

da mandato alla Commissione competente di sottoporre al 

Consiglio una specifica risoluzione con la quale si individuino:

 

  1. gli elementi normativi e programmatori necessari per un rilancio del settore industriale, con particolare riferimento ai settori tessile, edile, meccanico e high tech, coinvolgendo le parti sociali e il mondo accademico per individuare le azioni necessarie per la ripresa produttiva e occupazionale;
  2. le modalità per far evolvere l’attuale iniziativa RAID in una vera e propria cabina di regia, cui partecipino anche le parti sociali, dotata di una struttura tecnica di adeguato profilo professionale, con il compito di monitorare l’andamento di settori e aziende, studiare le tendenze dei mercati, predisporre piani di sostegno finanziario, collegare ai processi di spin off e di trasferimento tecnologico, facilitare e favorire l’intervento di nuove iniziative industriali e imprenditoriali;
  3. uno scenario per gli interventi pubblici sulla banda larga;
  4. lo sviluppo della filiera della green economy;
  5. scenari di regolamentazione e sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili;
  6. quadro normativo e sostegni finanziari, e ipotesi di sostegno e riconversione di specifici casi aziendali o comparti in difficoltà con l’obbiettivo del rilancio della produzione, mantenimento delle aziende e dell’occupazione sul territorio;
  7. quadro della semplificazione normativa e assetto delle infrastrutture e qualità territoriale per favorire l’attrattività produttiva.

 

Milano, 25 ottobre 2011

OPERAZIONE "COMPENDIUM" CONTRO COSCA GELA; 41 ORDINI CUSTODIA CONTROLLAVANO APPALTI, PIZZO E TRAFFICO DROGA ANCHE AL NORD

gelaLa polizia sta eseguendo 41 ordini di custodia cautelare nei confronti di altrettanti esponenti della cosca mafiosa degli Emmanuello di Gela, nell’ambito di una vasta operazione antimafia tra la Sicilia, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, la Liguria e la Toscana. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, su richiesta della Dda nissena. Gli arrestati devono rispondere, a vario titolo, di associazione mafiosa finalizzata al controllo illecito degli appalti e dei subappalti, intermediazione abusiva di manodopera, traffico di stupefacenti, ricettazione, estorsione, danneggiamenti, riciclaggio di denaro sporco, detenzione e porto abusivo di armi e munizioni. Tra le armi (pistole, fucili ed esplosivo) sequestrati dagli uomini della squadra mobile di Caltanissetta, del commissariato di Gela e delle altre questure che hanno partecipato all’operazione denominata «Compendium», c’è anche una colt calibro 45 che, secondo una perizia balistica, sarebbe stata usata in due omicidi compiuti a Gela, durante la guerra di mafia: quello di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel febbraio del 91. La cosca Emmanuello aveva messo in piedi al Nord una ramificata organizzazione, con base a Parma, che controllava imprese, appalti e manodopera in cinque regioni. Tre suoi esponenti si erano persino candidati nella lista Udeur-Popolari alle elezioni comunali di Parma, il 27 e 28 maggio del 2007, senza però essere eletti. L’inchiesta si è avvalsa della collaborazione di una donna tedesca, ex convivente di uno dei fratelli Emmanuello, Alessandro. Una conferenza stampa è stata convocata dagli inquirenti in mattinata nella questura di Caltanissetta.

Sono 40 le ordinanze di custodia cautelare eseguite fino ad ora in tutta Italia dalla polizia, nell’ambito dell’operazione «Compendium» contro la cosca mafiosa degli Emmanuello di Gela (Caltanissetta). Uno solo degli indagati, infatti, è riuscito a sfuggire alla cattura. Questi i nomi degli arrestati. Carmelo Alabiso, 32 anni di Gela detto «u Mongolo»; Nunzio Alabiso, 30 anni di Gela ma residente a Varano Melegari (Parma); Francesco Aprile, 63 anni, di Niscemi detto «u Vecchiu»; Rocco Ascia, di 34 anni, Giuseppe Salvatore Bevilacqua, di 42, Giuseppe Billizzi, di 37, Massimo Carmelo Billizzi, di 34, Maurizio Bugio, di 39, Emanuele Caltagirone, di 33, Marco Gino Carfà, di 31, tutti di Gela; Rosario Cascino, 43 anni, nato a Gela e residente a San Zeno Naviglio (Brescia); Angelo Eugenio Di Bartolo, 32 anni nato a Gela e residente a Parma; Gianfranco Di Natale, 36 anni di Gela; Andrea Frecentese, 33 anni di Pordenone; Raimondo Gambino, 25 anni, Gianluca Gammino, di 35 e Salvatore Gravagna, di 27, tutti di Gela; Claudio Infuso, 31 anni nato a Gela e residente a Parma; Fabio Infuso, 37 anni di Gela; 39 anni di Gela ma residente a Parma; Nunzio Mirko Licata inteso Barboncino, 32 anni di Gela ma emigrato a Ghedi (Brescia); Claudio Lo Vivo 34 anni di Gela ma domiciliato a Pordenone; Crocifisso Lo Vivo, 44 anni di Gela; Marco Maganuco, 33 anni, Francesco Martines di 26, e Sandro Vissuto, di 21 anni, tutti di Gela; Claudio Parisi, 54 anni, domiciliato a Genova; Gianluca Pellegrino, 25 anni e Alessandro Piscopo, di 35, e Giuseppe Piscopo, di 33, tutti di Gela; Tommaso Placenti, 33 anni di Gela ma residente a Parma; Paolo Portelli, 41 anni di Gela; Bruno Salvatore Quattrocchi, 30 anni, di Gela, Nunzio Quattrocchi 34 anni di Gela residente a Sesto Fiorentino; Calogero Sanfilippo, 34 anni di Mazzarino; Gabriele Giacomo Stanzà, 39 anni nato a Capizzi (Messina) e residente a Valguarnera (Enna); Salvatore Terlati, 35 anni di Gela inteso «Ciap Ciap», Daniele Turco, 40 anni, Francesco Vella, di 34 anni e Domenico Vullo, di 33, anche loro di Gela.

Nell’ambito dell’operazione la Squadra mobile di Caltanissetta e gli uomini del Commissariato di Gela hanno anche trovato un arsenale vero e proprio, Tra le armi rinvenute ci sono pistole, fucili e persino esplosivo. Sequestrata anche una colt calibro 45 che, secondo una perizia balistica eseguita dalla Polizia, sarebbe stata usata in due omicidi compiuti a Gela durante la guerra di mafia. In particolare, l’omicidio di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel febbraio del 91.

Il clan Emmanuello era in possesso di una grande quantità di armi e munizioni. Durante le varie perquisizioni sono stati sequestrati un fucile a canne mozze, mezzo chilo di esplosivo, una decina di pistole e numerose munizioni. Dalle perizie balistiche, una delle pistole è risultata già usata in due omicidi di mafia, quello di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel ’91. Ma nelle attività illecite c’era spazio anche per le ricettazioni. I malviventi rubavano ciclomotori da rivendere o da restituire agli stessi proprietari dietro pagamento di riscatto. Come covo usavano una vecchia casa del centro storico, dove nascondevano i proventi dei vari furti e dove si riunivano per programmare la loro attività criminale. L’organizzazione mafiosa non tralasciava alcun affare. Nei suoi traffici illeciti c’erano spazio anche per la ricettazione di reperti archeologici di età greca, tra cui un vaso e delle monete, definite di rilevante interesse storico-culturale.

CODICE DEONTOLOGICO PARTITI A GELA

«Un codice di autoregolamentazione e deontologico dei partiti a Gela in vista delle prossime elezioni contro la mafia». A suggerirlo  è stato il procuratore aggiunto della Dda di Caltanissetta, Domenico Gozzo. Il pubblico ministero parlando della «eccessiva drammatizzazione della situazione gelese al punto da proporre il ritorno dell’esercito in città» ha ribadito «il ruolo naturale ed insostituibile nella lotta alla mafia delle forze dell’ordine e della magistratura». Gozzo ha detto: «non condivido la battaglia e la contrapposizione politica tra destra e sinistra sul fronte della lotta alla mafia, piuttosto sarebbe opportuno che in vista delle prossime amministrative tutti si mettano d’accordo per tempo sull’azione politica contro la mafia».

LUMIA (PD), STRAORDINARIO COLPO A CLAN

«Un’importante operazione, un colpo straordinario inferto al clan Emanuello e alle sua rete di collusioni con i sistemi imprenditoriale e politico ramificati in tutta Italia». Così il senatore Giuseppe Lumia, componente del Pd in Commissione antimafia, commenta le 41 ordinanze di custodia cautelare eseguite nell’ambito dell’operazione Compendium della Dda della Procura di Caltanissetta. «Nessuno si illuda che a Gela l’azione antimafia si sia esaurita – aggiunge l’esponente del Pd – il cammino avviato dall’ex sindaco Rosario Crocetta e delle associazioni antiracket andrà avanti con maggiore intensità e determinazione. Non bisogna abbassare la guardia perchè le nuove leve sono pronte a prendere il posto dei capi colpiti duramente, in quest’ultimo periodo, dalle forze dell’ordine e dalla magistratura»

Dall'Ortomercato al Corvetto, svelata in aula la nuova alleanza tra 'ndrangheta e Cosa nostra. Cooperative, false fatture e fondi neri

Ne ha parlato l’imprenditore Mariano Veneruso, accusato di aver favorito la cosca Morabito, Venersuo ha ammesso la sua conoscenza con  Giuseppe Porto, un palermitano molto vicino al latitante Gianni Nicchi

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Il personaggio

Mariano Veneruso è nato a Napoli nel 1959. A Milano arriva a metà degli anni Settanta. Inizia subito a lavorare nel settore della logisica e del facchinaggio. Prima come impiegato di grandi aziende, poi in proprio. Nel 1997 fonda la Time service. L’impresa dura lo spazio di due anni poi fallisce. Veneruso ci riprova con altre due cooperative

Poi, attorno al 2003 fa il salto di qualità. Conosce Antonio Paolo e nel 2006 rileva quasi tutti gli interessi del Nuoco Coseli, il consorzio di Paolo. Veneruso, che risulta incensurato, fonda il Consorzio Europa di cui fanno parte la New Gest di Cardile, la New Coop di La Penna e la Padana servizi. Nello stesso consorzio lavora anche Salvatore Morabito

Prima dell’inchiesta Ortomercato, Veneruso viene coinvolto nell’indagine Ciramella condotta dalla Dda di Reggio Calabria

Milano, 26 novembre 2009 – Un benzinaio in piazzale Corvetto. Sembra questo lo snodo principale attraverso il quale passano gli affari di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Il sodalizio affaristico è emerso durante l’ultima udienza del processo Ortomercato. A dare corpo a questo inedito legame, le parole dell’imprenditore Mariano Veneruso, alla sbarra con l’accusa di aver dato supporto finanziario e logistico alla ‘ndrangheta. Incalzato dalle domande del pm Laura Barbaini, Veneruso, classe ’59, origini napoletane, ma residenza in via Ravenna proprio al Corvetto, è subito entrato nei particolari. “Si tratta del benzinaio Esso – ha detto – qui, noi andavamo perché il titolare è un amico e la benzina la pagavamo poco”.

Ma c’è dell’altro. Perché qui Venersuo ci è andato spesso anche con Gianni Falzea, giovane calabrese di Africo imparentato con Rosario Bruzzaniti, capocosca assieme a quel Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, arrestato nel 2004 dopo anni di latitanza. Dunque, a quegli incontri c’era Veneruso, Falzea e anche Salvatore Morabito, giovane boss calabrese. “Morabito – ha detto Veneruso – non veniva mai in macchina. All’epoca lui non aveva la patente e così veniva in zona con la metropolitana, dopodiché qualcuno di noi andava a prenderlo”. Poi ecco il particolare che non ti aspetti. Sì, perché assieme a quei calabresi, gli uomini della Squadra mobile filmano e fotografano anche il siciliano Giuseppe Porto. Circostanza confermata dallo stesso Veneruso in aula.

Per capire meglio, ecco cosa scrive la Squadra mobile a proposito di quel palermitano dai grossi baffi e dagli occhi a mandorla. “Porto Giueseppe è vicino alla famiglia mafiosa palermitana di Pagliarelli, segnatamente a Gianni Nicchi, latitante e strettamente legato al capo dell’omonimo mandamento mafioso di Antonino Rotolo”. Lo stesso Porto a metà anni Novanta viene coinvolto in un’inchiesta di mafia nella quale emerge, tra le altre cose, un enorme giro di fatture false, giocato su un castello societario, al cui vertice c’erano due imprenditori messinesi. Sotto di loro, proprio Pino Porto, titolare di diverse cooperative e, particolare non di poco conto, molto legato agli eredi di Vittorio Mangano che proprio al Corvetto avrebbero le loro attività legali. La zona ha, dunque, una forte presenza di Cosa nostra. Particolare confermato dall’ultima inchiesta del pm Ilda Boccassini. E ribadito dal fatto che qui Pino Porto, alias il cinese, è di casa da sempre.

Dopodiché da quel benzinaio di piazzale Corvetto al bar Golden di corso Lodi ci passano poche centinaia di metri. Ai suoi tavolini, il primo marzo 2003, si incontrano Veneruso, una tale Mario La Penna, altro imprenditore nel campo della logistica, lo stesso Pino Porto e un altro imprenditore calabrese, tale Alberto Chillà, non coinvolto nel processo Ortomercato, ma “storico socio di Pino Porto”, almendo stando alle dichiarazioni di Veneruso. Non solo: “Chillà era amico di Morabito e fu lui a presentarmelo, proprio nel 2003”. Chillà, dunque, viene descritto come l’anello di congiunzione tra Morabito e Porto. Quello stesso Porto che, ha rivelato il pm, “andò ad Africo con la moglie per trovare Morabito”. L’ombra di una joint venture tra Cosa nostra e ‘ndrangheta si fa sempre più pesante, quando in aula si torna  a parlare delle centinaia di cooperative che ruotavano attorno ad Antonio Paolo. Tra queste c’era la New Gest di Carmelo Cardile, parente, guarda caso, di Chillà. La New Gest, aperta nel 2004 proprio da Veneruso che nel 2007 la passa proprio a Cardile. La società fin da subito risulta inattiva, però in poco meno di tre mesi monetizza quasi un mlione di euro. Denaro del tutto ingiustificato vista l’inoperosità della impresa. La New Coop, invece amministrata da La Penna, ha i suoi uffici in via Scalarini, a due passi da piazza Bonomelli, guarda caso proprio al Corvetto. (dm)

DA http://www.milanomafia.com/home/veneruso

A CENTO PASSI DAL MUNICIPIO – Milano capitale della mafia

A CENTO PASSI DAL MUNICIPIO – Milano capitale della mafia
di Gianni Barbacetto
da L’Unità, 9 ottobre 2008

I boss stanno a cento passi da Palazzo Marino, dove il sindaco di Milano Letizia Moratti lavora e prepara l’Expo 2015. O li hanno già fatti, quei cento passi che li separano dal palazzo della politica e dell’amministrazione? Certo li hanno fatti nell’hinterland e in altri centri della Lombardia, dove sono già entrati nei municipi.

Comunque, a Milano e fuori, hanno già stretto buoni rapporti con gli uomini dei partiti. «Milano è la vera capitale della ’Ndrangheta», assicura uno che se ne intende, il magistrato calabrese Vincenzo Macrì, della Direzione nazionale antimafia. Ma anche Cosa nostra e Camorra si danno fare sotto la Madonnina. E la politica? Non crede, non vede, non sente. Quando parla, nega che la mafia ci sia, a Milano. Ha rifiutato, finora, di creare una commissione di controllo sugli appalti dell’Expo. Eppure le grandi manovre criminali sono già cominciate. Ne sa qualcosa Vincenzo Giudice, Forza Italia, consigliere comunale di Milano, presidente della Zincar, società partecipata dal Comune, che è stato avvicinato da Giovanni Cinque, esponente di spicco della cosca calabrese degli Arena. Incontri, riunioni, brindisi, cene elettorali, in cui sono stati coinvolti anche Paolo Galli, Forza Italia, presidente dell’Aler, l’azienda per l’edilizia popolare di Varese. E Massimiliano Carioni, Forza Italia, assessore all’edilizia di Somma Lombardo, che il 14 aprile 2008 è eletto alla Provincia di Varese con oltre 4 mila voti: un successo che fa guadagnare a Carioni il posto di capogruppo del Pdl nell’assemblea provinciale. Ma è Cinque, il boss, che se ne assume (immotivatamente?) il merito, dopo aver mobilitato in campagna elettorale la comunità calabrese. Ne sa qualcosa anche Loris Cereda, Forza Italia, sindaco di Buccinasco (detta Platì 2), che non trova niente di strano nell’ammettere che riceveva in municipio, il figlio del boss Domenico Barbaro. Lui, detto l’Australiano, aveva cominciato la carriera negli anni 70 con i sequestri di persona e il traffico di droga. I suoi figli, Salvatore e Rosario, sono trentenni efficienti e dinamici, si sono ripuliti un po’, hanno studiato, sono diventati imprenditori, fanno affari, vincono appalti. Settore preferito: edilizia, movimento terra. Ma hanno alle spalle la ’ndrina del padre. Cercano di non usare più le armi, ma le tengono sempre pronte (come dimostrano alcuni bazooka trovati a Buccinasco). Non fanno sparare i killer, ma li allevano e li allenano, nel caso debbano servire. Salvatore e Rosario, la seconda generazione, sono arrestati a Milano il 10 luglio 2008. Eppure il sindaco Cereda non prova alcun imbarazzo. Ne sa qualcosa anche Alessandro Colucci, Forza Italia, consigliere regionale della Lombardia. «Abbiamo un amico in Regione», dicevano riferendosi a lui due mafiosi (intercettati) della cosca di Africo, guidata dal vecchio patriarca Giuseppe Morabito detto il Tiradritto. A guidare gli affari, però, è ormai il rampollo della famiglia, Salvatore Morabito, classe 1968, affari all’Ortomercato e night club («For a King») aperto dentro gli edifici della Sogemi, la società comunale che gestisce i mercati generali di Milano. È lui in persona a partecipare a una cena elettorale in onore dell’«amico» Colucci, grigliata mista e frittura, al Gianat, ristorante di pesce. Appena in tempo: nel maggio 2007 viene arrestato nel corso di un’operazione antimafia, undici le società coinvolte, 220 i chili di cocaina sequestrati. Ne sa qualcosa anche Emilio Santomauro, An poi passato all’Udc, due volte consigliere comunale a Milano, ex presidente della commissione urbanistica di Palazzo Marino ed ex presidente della Sogemi: oggi è sotto processo con l’accusa di aver fatto da prestanome a uomini del clan Guida, camorristi con ottimi affari a Milano. Indagato per tentata corruzione nella stessa inchiesta è Francesco De Luca, Forza Italia poi passato alla Dc di Rotondi, oggi deputato della Repubblica: a lui un’avvocatessa milanese ha chiesto di darsi da fare per «aggiustare» in Cassazione un processo ai Guida. Ne sa qualcosa, naturalmente, anche Marcello Dell’Utri, inventore di Forza Italia e senatore Pdl eletto a Milano. La condanna in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa si riferisce ai suoi rapporti con Cosa nostra, presso cui era, secondo la sentenza, ambasciatore per conto di «un noto imprenditore milanese». Ma ora una nuova inchiesta indaga anche sui suoi rapporti con la ’Ndrangheta: un altro imprenditore, Aldo Miccichè, trasferitosi in Venezuela dopo aver collezionato in Italia condanne a 25 anni per truffa e bancarotta, lo aveva messo in contatto con la famiglia Piromalli, che chiedeva aiuto per alleggerire il regime carcerario al patriarca della cosca, Giuseppe, in cella da anni. Alla vigilia delle elezioni, Miccichè prometteva a Dell’Utri un bel pacchetto di voti, ma chiedeva anche il conferimento di una funzione consolare, con rilascio di passaporto diplomatico, al figlio del boss, Antonio Piromalli, classe 1972, imprenditore nel settore ortofrutticolo con sede dell’azienda all’Ortomercato di Milano. Sentiva il fiato degli investigatori sul collo, Antonio. Infatti è arrestato a Milano il 23 luglio, di ritorno da un viaggio d’affari a New York. È accusato di essere uno dei protagonisti della faida tra i Piromalli e i Molè, in guerra per il controllo degli appalti nel porto di Gioia Tauro e dell’autostrada Salerno-Reggio. Qualcuno si è allarmato per questa lunga serie di relazioni pericolose tra uomini della politica e uomini delle cosche? No. A Milano l’emergenza è quella dei rom. O dei furti e scippi (che pure le statistiche indicano in calo). La mafia a Milano non esiste, come diceva già negli anni Ottanta il sindaco Paolo Pillitteri. Che importa che la cronaca, nerissima, della regione più ricca d’Italia metta in fila scene degne di Gomorra? A Besnate, nei pressi di Varese, a luglio il capo dell’ufficio tecnico del Comune è stato accoltellato davanti al municipio e si è trascinato, ferito, fin dentro l’ufficio dell’anagrafe, lasciando una scia di sangue sulle scale. Una settimana prima, una bottiglia molotov aveva incendiato l’auto del dirigente dell’ufficio tecnico di un Comune vicino, Lonate Pozzolo. Negli anni scorsi, proprio tra Lonate e Ferno, paesoni sospesi tra boschi, superstrade e centri commerciali, sono state ammazzate quattro persone di origine calabrese. Giuseppe Russo, 28 anni, è stato freddato mentre stava giocando a videopoker in un bar: un killer con il casco in testa, appena sceso da una moto, gli ha scaricato addosso quattro colpi di pistola. Alfonso Muraro è stato invece crivellato di colpi mentre passeggiava nella via principale del suo paese affollata di gente. Francesco Muraro, suo parente, un paio d’anni prima era stato ucciso e poi bruciato insieme alla sua auto. L’ultimo cadavere è stato trovato la mattina di sabato 27 settembre in un prato di San Giorgio su Legnano, a nordovest di Milano: Cataldo Aloisio, 34 anni, aveva un foro di pistola che dalla bocca arrivava alla nuca. A 200 metri dal cadavere, la nebbiolina di primo autunno lasciava intravedere il cimitero del paese, in cui riposa finalmente in pace, benché con la faccia spappolata, Carmelo Novella, che il 15 luglio scorso era stato ammazzato in un bar di San Vittore Olona con tre colpi di pistola in pieno viso. Milano, Lombardia, Nord Italia. È solo cronaca nera? No, Gomorra è già qua. Ma i politici, gli imprenditori, la business community, gli intellettuali, i cittadini non se ne sono ancora accorti.

I professionisti dell’antipizzo

di Claudio Fava – 10 settembre 2008
Il caso Lo Bello

Quando parliamo di mafia, ci tocca ragionare anche su una sottocultura di luoghi comuni e di ammiccamenti poco raffinati ma utilissimi a prendere le distanze, a celebrare dubbi, a insinuare malizie.

Cominciò Leonardo Sciascia ventuno anni fa prendendosela con i professionisti dell’antimafia, e fu pessimo profeta perchè di quei cosiddetti professionisti (Sciascia ne citò per cognome e nome uno per tutti: Paolo Borsellino) i sopravvissuti sono proprio pochini. Adesso siamo ai professionisti dell’antipizzo. Anzi, al professionista: Ivan Lo Bello, presidente degli industriali siciliani, colpevole d’aver promesso (e mantenuto) di cacciar via dall’associazione gli imprenditori che avessero preferito pagare e tacere. Tra qualche settimana dovrebbero riconfermarlo nell’incarico, ma i suoi colleghi di Catania hanno già aperto il tiro a bersaglio: «Lo Bello? Non lo votiamo. Troppo monotematico con questa sua fissazione sul pizzo». E subito si sono
alzati gli echi malevoli, le voci di contorno e di rimbalzo: la battaglia contro il racket? Una vetrina, una passerella, una trovata per farsi pubblicità…Sono gli stessi argomenti, magari un po’ dirozzati, che usarono molti anni fa commercianti e imprenditori palermitani contro Libero Grassi. Colpevole d’aver detto, anzi d’aver proclamato con tutta la carica emotiva di una denunzia in televisione, che lui il pizzo non lo avrebbe mai pagato. I commenti di molti suoi colleghi furono un repertorio di grossolano buon senso: certe cose non si dicono, non si denunziano e soprattutto non si raccontano in tivù; meglio pagare, tacere e conservarsi in salute. Libero Grassi lo ammazzarono una settimana dopo il florilegio di quei commenti. Ora, non sappiamo se gli industriali che si sono schierati, con siffatti argomenti, contro Lo Bello abbiano presente quanto la mafia abbia gradito la loro scomunica. Non sappiamo se si rendano conto che il gesto di quel
loro presidente aveva, da solo, riscattato lustri di opacità. Non so se la memoria li soccorre per ricordare che il predecessore di Lo Bello fu allontanato dall’incarico con ignominia dopo aver scoperto le tresche d’affari che mescolavano i suoi soldi a quelli di una veccia famiglia mafiosa palermitana.
No, davvero non sappiamo se ci sia consapevolezza sulla violenza di certi gesti, di certi ammonimenti. Sciascia, forse, non se ne rese conto: ma chi si nutrì di quel tristo riferimento ai “professionisti dell’antimafia” lo fece, nei mesi e negli anni a venire, sperando che quella povera gente – giudici, giornalisti, poliziotti, professori, studenti – venisse spazzata via. E che tornasse il tempo felice e scellerato in cui tutta aveva un prezzo e una scorciatoia, dalle licenze edilizie ai pubblici appalti. Forse anche adesso qualcuno rimpiange il tempo in cui si pagava tutti e tutti si taceva, ricevendone in cambio benevolenza e protezione dai signori delle cosche. Ci auguriamo che Lo Bello resti a lungo presidente degli industriali siciliani, che non defletta mai dalla linea di rigore civile che si è dato e che ha preteso dalla sua associazione. Ci auguriamo che non resti solo e che il nuovo ritornello sui “professionisti dell’antipizzo”
venga raccolto per ciò che é: un atto di viltà, parole di miseria da dimenticare subito.

L’UNITA’