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È che ci vorrebbero felici di essere schiavi

Il “rider felice”: un articolo de La Stampa – che si è basato su una notizia falsa – rivela una narrazione che colpevolizza i disoccupati alimentando pregiudizi

Ieri ha fatto molto discutere un articolo pubblicato da La Stampa, a firma di Antonella Boralevi, che racconta di tale Emiliano Zappalà, un rider felicissimo di essere rider, secondo Boralevi, che pedala per 100 km al giorno e guadagna come un manager dopo avere dovuto chiudere il suo studio da commercialista a causa dell’epidemia. Il sottotesto dell’articolo (in cui si attacca anche il reddito di cittadinanza) è in sostanza questo: se siete poveri è colpa vostra che non avete voglia di fare un cazzo perché il mondo del lavoro è pieno di grandi opportunità. Insomma, il solito articolo da libberisti (con due b) che vedono in giro un mondo perfetto e che tacciano coloro che rivendicano diritti come fastidiosi lagnosi.

“Si chiama Emiliano Zappalà, ha 35 anni. Aveva aperto uno studio di commercialista, il Covid gliel’ha fatto chiudere. E lui, invece di chiedere il reddito di cittadinanza, si è messo a lavorare. Dove? In uno dei settori che il Covid ha reso vincenti: la consegna a domicilio. Business raddoppiato in 10 mesi, come il numero degli addetti”, si legge nel pezzo di Boralevi. E già l’incipit è roba da orticaria. E poi: “Come racconta in un’intervista al Messaggero, da quasi un anno il Dottor Zappalà è un rider di Deliveroo. Cioè fa circa 100 chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone giallo sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna 2000 euro netti al mese e, certi mesi, anche 4000. Uno stipendio da manager. Ed è felice”. Felice, capito?

Il pezzo ovviamente è diventato subito combustibile per infiammare gli stomaci contro gli sfaticati che si lamentano e che non producono. Tutto perfettamente in linea con una certa narrazione che vorrebbe risolvere il problema della povertà e dei diritti del lavoro semplicemente negando. Se è felice Emiliano Zappalà dovremmo essere felici tutti. Ovvio. Ah, il grande sogno americano.

Peccato però che Emiliano Zappalà non esista e che quell’articolo sia completamente falso. E c’è da scommettere che tutti quelli che l’hanno rilanciato siano gli stessi che inorridiscono per le fake news in internet, ci metto la firma.

Emiliano Zappalà si chiama Emanuele (vabbè, ha solo sbagliato il nome, una giornalista, a proposito di meritocrazia e di cura nel proprio lavoro), ha studiato da commercialista ma non lo è mai diventato e quindi non ha mai aperto uno studio che quindi non è mai stato costretto a chiudere per la pandemia. Anzi i chilometri che percorre li macina su un motorino. Quindi si perde anche il culto dell’attività fisica, che peccato. Raggiunto da un giornalista de La fionda racconta di avere avuto mesi positivi, di lavorare molte ore al giorno e di guadagnare in media 1.600 euro al mese. Niente stipendio da manager, insomma. Anzi a voler indagare per bene si vede che proprio un Emiliano Zappalà risulta tra i firmatari del contratto siglato da Assodelivery e Ugl, un contratto che introdusse un “cottimo mascherato” e per questo è stato sconfessato e ritenuto illegittimo dallo stesso ministero del Lavoro. Tra l’altro, denunciano molti rider, “la sottoscrizione del contratto è stata utilizzata dalle aziende per ricattare più o meno velatamente i lavoratori: chi non firma, viene estromesso dalle piattaforme”. Insomma Zappalà è molto aziendalista, senza dubbio. E infatti dal suo profilo Linkedin rilancia con molto entusiasmo le comunicazioni aziendali di Deliveroo.

Quindi per l’ennesima volta la favola che avrebbe dovuto colpevolizzare i disoccupati si rivela semplice fuffa buona solo ad alimentare pregiudizi. Un bell’editoriale che si basa tutto su una notizia falsa e su una pregiudiziale narrazione a favore dello schiavismo felice. Perché loro ci vorrebbero così: mica solo schiavi, addirittura anche felici.

A proposito: “è un fatto o no?” chiedeva Antonella Boralevi in chiusura del suo saccente articolo. No, signora Boralevi. No.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Santamamma, l’incipit

(Il mio libro Santamamma è in libreria per i tipi di Fandango Libri e questo è l’incipit. Buona lettura.)

Foto non ne ho

Domani portate una vostra foto da piccoli, ci aveva detto la maestra. Forse prima elementare: di solito è lì che si inizia con la perversione dell’inculcare la meraviglia per la natura col diventare grandi, con la polpa che si aggiunge a polpa e i peli che si fanno capelli. Portate una foto da piccoli, la maestra si chiamava Anna, che dobbiamo fare un lavoretto; e la classe già inebriata dal pensiero di forbici, carta a strisce e colla secca sui polsini del grembiule.

Io invece no. Io non ce l’avevo una mia foto da piccolo.

Non l’ho mai avuta perché sono stato piccolo al massimo a due anni e mezzo: prima niente foto, niente tutine, niente ciucci da tenere sotto teca e nemmeno le prime scarpine slacciughente e uncinettate. La mia prima foto sono io, verso i tre anni, seduto sui gradini di un giardino con la ghiaia al posto dell’erba mentre spingo una macchinina fuoristrada rossa con la ruota di scorta avvitata sul tetto. Indosso una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse, pantaloni rossi e lo sguardo abbacinato. Sarò stato colpito da tutto quel troppo rosso o forse dalla violenza di chi martella ruote sui tetti delle auto; mi sono dato questa spiegazione per giustificare la torvatura della faccia. Niente per cui strapparsi lacrime a inizio del capitolo, intendiamoci: la fotografia, pur tardiva, svolge serenamente la funzione delle nostre foto da piccoli e ogni sputata volta c’è qualcuno che mi trova perfettamente somigliante a uno a caso dei miei figli. Tutto a posto. Qualcuno spericolato vede anche qualcosa di spiccicato “alla mamma” e fa niente che io sia stato adottato: io e lei ci guardiamo e in silenzio ci diciamo che no, che non vale nemmeno la pena di dirglielo, e in silenzio ci diciamo che va bene così. Mica vorrai frantumargli l’eccitazione.

La foto per la maestra Anna comunque non ce l’avevo e già allora non avevo il fisico per inscenare un dramma che non mi sfiorava per niente. Piansi. Iniziai a piangere nel modo meno credibile di tutta la mia vita con un lamento bitonale come una sirena dalle batterie scariche. Per mancanza di lacrime mi misi anche le mani sulla faccia simulando una lentezza straziata e producendo singhiozzi con colpi di pancia: devo essere stato uno spettacolo orribile se è vero che la maestra Anna, con il solito fragore degli adulti che hanno paura dell’oscenità di un pianto in pubblico, si è alzata dalla cattedra per soffocarmi di consolazione.