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incostituzionale

Far pagare le cure ai no vax è una scemenza incostituzionale

Poi un giorno ci interrogheremo sull’utilità di infiammare lo scontro, su questo approccio frontale e muscolare contro i dubbiosi del vaccino da parte di quelli che avrebbero tutti gli strumenti a disposizione per prendersi in toto le proprie responsabilità e assumere le decisioni conseguenti. Lo scontro tra la politica che vorrebbe indurre al vaccino e le diverse sfumature di no vax (e no green pass) sta ingenerando un caos normativo che trasforma il tutto in una zuffa tra bighelloni, svilendo l’approccio giuridico (e scientifico) nei confronti della pandemia e inevitabilmente tendendo la mano a coloro che sfruttano il caos per racimolare un po’ di voti e per concimare un po’ di propaganda.

L’ultimo in ordine di tempo è l’assessore alla sanità del Lazio che stentoreo chiede che “i no vax si paghino le cure” e come ogni volta succede è tutto un profluvio di applausi e pacche sulle spalle. Anche Mauro Minelli, immunologo e allergologo coordinatore per il sud Italia della Fondazione per la Medicina personalizzata rilancia: “I non vaccinati contro Covid-19 che non hanno alcuna legittima controindicazione all’inoculo del vaccino dovrebbero essere obbligati a pagarsi le visite, i ricoveri e i farmaci in caso di Covid”. I giornali e i politici da social ovviamente vanno a nozze: cosa c’è di meglio di una bella tensione tra fazioni per ottenere un po’ di visibilità da una o dall’altra parte? Gli scontri sul vaccino, non è un caso, hanno portato alla ribalta personaggi inimmaginabili che difficilmente avrebbero potuto trovare un palco nazionale su cui potersi trastullare.

La salute, la politica e le leggi però (per fortuna) sono una cosa terribilmente seria: la Costituzione italiana (quella Carta che viene sventolata troppo spesso come roncola contro questo o quell’avversario) sancisce che il Servizio sanitario nazionale sia universale ovvero che garantisca tutte le cure necessarie al di là di ogni possibile causa. Altrimenti verrebbe fin troppo facile pensare che anche i danni provocati dal fumo, dall’abuso di sostanze e perfino da un incidente a causa dell’alta velocità potrebbero essere addebitati. No? Vitalba Azzolini (giornalista che in questi mesi convulsi prova a tenere la barra dritta su norme e diritti) in un suo pezzo per il quotidiano Domani dello scorso 28 luglio ha spiegato bene “che, nemmeno ove la vaccinazione divenisse obbligatoria, la sanzione per la violazione dell’obbligo potrebbe consistere nell’annullamento di diritti inviolabili, come quello alle cure. E mettere a carico di un no-vax anche solo alcune spese sanitarie potrebbe comportargli l’impossibilità di curarsi”.

Poi c’è un punto squisitamente politico: “forzare” il diritto per spingere le persone a vaccinarsi senza preoccuparsi di garantire trasparenza sulle evidenze scientifiche che determinano le decisioni. La trasparenza dei dati sui quali vengono poi prese decisioni pubbliche (vale ad esempio per il green pass la cui validità è stata prorogata da 9 a 12 mesi proprio nel momento in cui alcuni studi rilevano la riduzione della durata della protezione del vaccino) è un elemento fondamentale di ogni sana democrazia: il rischio dell’autoritarismo (che non ha niente a che vedere con la “dittatura sanitaria” di cui cianciano certi strumentalizzatori) è sempre dietro l’angolo se non si chiarisce la natura delle proprie decisioni (sanitaria o politica) con l’evidenza pubblica di tutti gli elementi a disposizione.

Oppure il governo “dei migliori” prenda una decisione netta e precisa: la Costituzione prevede che possa essere imposto un determinato trattamento sanitario (in cui rientrano anche le vaccinazioni) con una legge dello Stato. Con la sentenza 5/2018 la Corte Costituzionale ha affermato che un eventuale obbligo vaccinale debba essere “diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri” e che ogni restrizione della sfera individuale (lo spiega benissimo sempre Vitalba Azzolini) “dev’essere motivata la proporzionalità alla gravità della situazione su cui interviene; l’adeguatezza e la necessarietà al fine cui è indirizzata; la minore pervasività rispetto ad altre soluzioni”.

Vale davvero la pena provocare e minacciare con un certo paternalismo? La politica faccia la politica, è lì per quello, e se ne assuma le responsabilità. Altrimenti la cura della comunicazione è l’unica soluzione, evitando strafalcioni giuridici che inquinano solamente un quadro già torbido.

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I diritti cominciano pretendendoli

Quando si iniziò a chiedere il diritto al divorzio in Italia ci credevano in pochi. Così come avvenne per la fine dell’apartheid negli Usa. Perché i diritti restano sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sicilia, Fava a TPI: “Musumeci fa lo scaricabarile. Ma sui migranti il governo ha paura di decidere”

Nello Musumeci insiste. Il governatore della Sicilia non ha intenzione di fermarsi sulla sua ordinanza che chiede lo sgombero degli hotspot dell’isola e risponde al no del governo parlando di responsabilità sanitarie. Si finirà probabilmente con un ricorso al tribunale amministrativo ma intanto la provocazione ha preso piede tra i sostenitori di destra e corre sul web. TPI ha intervistato Claudio Fava, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Fava, il governatore Musumeci insiste. Come legge questa ultima uscita sullo svuotamento degli hotspot e la chiusura ai nuovi arrivi?
È già un pezzo di campagna elettorale, perché ha riannodato i fili di una coalizione piuttosto frammentata e lasca e naturalmente ha ottenuto le benedizioni della destra alla quale Musumeci continua a rivolgersi. Manifesta la sua indole, la sua cultura politica: è un autoritario, convinto che la migliore forma di governo sia quella di affidare al podestà le chiavi della vita dei cittadini. Anche se si affida ai poteri di tutela della salute lui sa perfettamente che intervenire sui porti, sulle prefetture, sugli hotspot è competenza esclusiva del governo nazionale, segnatamente del Ministero dell’Interno. Ma è un modo per rimettere al centro una parola che sia una calamita e che ha bisogno di nemici facili, l’immigrato portatore di contagi.

Quindi è tutta campagna elettorale…
L’altra ragione è che c’è un fallimento complessivo su tutta la politica di investimento del post-Covid, le risorse promesse per il settore del turismo non sono mai arrivate, nemmeno un centesimo, le condizioni dell’isola sono abbastanza allo sfascio quindi un giorno ci si inventa il ponte, un giorno il tunnel, un giorno chiudiamo gli hotspot. Tutto pur di non parlare di quello che accade a casa nostra: c’è un’ordinanza di controlli per chi arriva dai Paesi considerati focolai poi però in aeroporto, nei porti e nelle stazioni i controlli sono minimi e anche in questo Musumeci dice che la responsabilità non è sua ma del Ministero dei Trasporti.
Una responsabilità che palleggia…
Su alcune cose dice “la responsabilità non è nostra”, su altre dice “la responsabilità non è nostra ma me ne occupo direttamente io”. In questo un po’ ci è un po’ ci fa.

Sembra seguire un po’ il copione di certe Regioni di centrodestra che giocano sul Covid per scontrarsi con il governo e fare parlare di sé. Non è simile all’atteggiamento della Lombardia con Fontana?
Sì. In più nel suo caso c’è una sfumatura di carattere politico, di identità politica. Gli piace fare il podestà. Dopo il Covid ha preteso e ottenuto dalla sua maggioranza il voto su un emendamento infilato in una legge che gli dà, in caso di emergenza sanitaria, pieni poteri e la possibilità di emanare delibere di giunta anche in contrasto con la legislazione vigente. Ed è una cosa abbastanza bizzarra, decidono loro a quale normativa possano derogare senza passare dal Parlamento regionale. È la sua idea di ventennio e ha utilizzato il Covid per ritrovare quei toni, quel cipiglio. Un tempo era un atteggiamento inoffensivo e invece oggi interviene su un tema vero, reale.

Esiste comunque un problema immigrazione in Sicilia?
Esistono problemi concreti nelle città che sono il punto di approdo naturale per i profughi. Non lo risolvi chiudendo, lo risolvi cercando di avere un livello di partecipazione da parte di tutte le Regioni. Anche perché non possiamo lamentarci dell’Europa che non fa la propria parte e poi in Italia lasciare che siano le Regioni di frontiera a occuparsene perché le altre non vogliono rotture di coglioni. Abbiamo un sistema geopolitico basato sul principio dell’egoismo: non a casa mia. È una questione che va affrontata da un governo che non riesce e non è riuscito a ottenere una linea di condivisione e di consapevolezza e di disciplina partecipata da tutti i presidenti di Regione. Qui tutti, in nome della salute, hanno deciso a casa loro.

Però la propaganda di Musumeci sembra funzionare: cosa dire a quelli che lo applaudono, come riuscire a parlar con loro?
Non è semplice perché se dall’altra parte hai un governo pavido che non è capace di fare un passo e di prendere una direzione risolutiva è chiaro che poi è difficile parlare solo sul piano di principio e della linea della condotta morale. Il cittadino alla fine si trova confortato da un decisionista che può anche essere incostituzionale ma che è una risposta alla preoccupazione. Come per le discoteche si registra una certa inerzia da parte di figure chiave del governo nazionale di affrontare con coraggio i problemi che si presentavano. Ora il tema sono gli immigrati e il tema ha bisogno di un tavolo di soluzione che non può essere affidato a ciascun presidente di Regione. Avere un nemico, un untore, qualcuno su cui scaricare le proprie frustrazioni in tempo di crisi conforta molti, anche chi non ha nulla a che fare con quella cultura politica. Poi magari un giorno ti svegli e ti accorgi che gli untori sono i tuoi figli che sono andati a fare un party e sono tornati asintomatici e carichi di virus.

Leggi anche: 1. Sicilia, ordinanza di Musumeci: “Entro le 24 di domani migranti fuori dall’isola”. Ma il Viminale lo blocca: “Non può farlo” / 2. Sicilia, Musumeci non molla: “Il governo vuole un campo di concentramento per migranti, vado dalla magistratura”

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L’indifferenza è incostituzionale

Ogni volta che muore un partigiano c’è da dividersi anche il suo peso, il suo compito. Che poi è una parola bellissima, partigiano: significa “sapere esattamente da che parte stare”, odiare gli indifferenti. Non si tratta di essere antifascisti soltanto, no, si tratta di rispettare l’articolo 4 della Costituzione che dice “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”. Quindi l’indifferenza è incostituzionale, oltre che vigliacca. Come spiegava il partigiano Eros.

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)