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intervista

(Intervista, da LA REPUBBLICA) Teatro sotto scorta per Giulio Cavalli Impegno civile al rione Sanità

da La Repubblica

Schermata 2013-11-03 alle 11.08.40“Smettiamola con questi voyeurismi paratelevisivi sui personaggi minacciati: interroghiamoci invece su che razza di paese è quello che costringere sotto scorta i suoi cittadini”. Giulio Cavalli, sotto scorta dal 2009 per il suo impegno antimafia a teatro, si esibirà all’Nts -Nuovo Teatro Sanità stasera alle 21 e domani alle 18 con “L’innocenza di Giulio  –  Andreotti non è stato assolto” (ingresso 10 euro). Lo spettacolo, che doveva andare in scena il 5 ottobre, è slittato a causa delle nuove minacce ricevute da Cavalli: l’attore ha ritrovato nel giardino della sua casa romana una pistola carica.

Dopo l’allarme e il trasferimento in una nuova località protetta con la sua compagna Miriana Trevisan, Cavalli è riuscito a fare una breve tappa a Napoli il 15 ottobre per guidare la Mehari di Giancarlo Siani. L’attore ha scelto di portare il monologo sul “Divo Giulio” solo al rione Sanità: “Altrove  –  spiega  –  nei teatri da avanspettacolo, non sareiandato”. E proprio una storia di camorra è al centro del suo romanzo in uscita a gennaio per Rizzoli: è la vicenda di Michele Landa, il metronotte ucciso a Mondragone. Si intitola “Mio padre in una scatola di scarpe”, ispirato alla vittima innocente che sorvegliava i ripetitori telefonici rubati dalla camorra.

Cavalli, come si vive sotto scorta?
“Non vivo peggio di chi non ha i soldi per arrivare a fine mese o di chi vive in territorio sotto ricatto delle mafie. Non voglio diventare, però, l’oggetto scenico dei miei spettacoli, quindi smetterei di parlare della scorta, e parlerei invece di che razza di Paese è quello che costringe sotto scorta i suoi cittadini”.

È stato consigliere regionale in Lombardia nelle fila dell’Idv, il suo teatro civile si occupa di mafia: cosa pensa della desecretazione tardiva dei verbali del 1997 nel quale il pentito Schiavone ammetteva che in vent’anni la popolazione della Terra dei fuochi sarebbe morta di cancro?
“Credo sia una magra consolazione per il movimento della Terra dei fuochi: la vera vittoria ci sarà quando avremo una classe dirigente capace di portare in Parlamento le tematiche centrali per il bene dei cittadini, e non solo dopo una manifestazione o la dichiarazione di un pentito”.

In questi giorni i residenti del rione Sanità denunciano la recrudescenza criminale, anche se ilquartiere riesce ancora ad essere meta dei turisti. Perché ha scelto di andare in scena nel neonato teatro Nts, e non in uno più blasonato?
“Nei templi dell’avanspettacolo non avrei messo piede. È meritevole il lavoro portato avanti del direttore artistico Mario Gelardi in un quartiere complesso, e va sostenuto. Ma, intendiamoci, questo paese non ha bisogno di altri eroi, anche perché l’Italia, dove devi essere morto per essere credibile, non si cambia certo solo con ilteatro e la cultura…”

A proposito, sul Forum delle culture, che è sempre sul punto di saltare, quali consigli dà al suo amico Luigi de Magistris?
“Luigi ha tante grane da sbrigare, mi sembra di capire. La questione però è che a Napoli e nel resto del Paese la cultura è derubricata a faccenda minoritaria, quando sento il ministro Bray elencare i suoi propositi mi ricorda la solitudine de “Il deserto dei tartari”.

Lo spettacolo su Andreotti nasce dalla collaborazione con il procuratore di Torino Giancarlo Caselli e lo scrittore Carlo Lucarelli, musiche di Cisco dei Modena City Ramblers. Quando ha capito che aveva trovato un taglio originale per una storia arcinota?

“Semplice: quando Andreotti si è arrabbiato. La sua storia è stata sempre raccontata in maniera edulcorata, il mio spettacolo invece è rissoso, maleducato: conoscere il processo Andreotti significa riconoscere la politica che tenta di legittimare l’illegalità. Il pentito di ‘ndrangheta che ha rivelato il piano per farmi fuori diceva che ero uno “scassaminchia”: beh, forse è vero…”

Intervista a Giulio Cavalli: “L’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”

da ArticoloTre

articolotre_newlogo-G.C.– Giulio Cavalli: attore, politico, scrittore  da sempre in prima linea nella lotta contro le mafie. Tanto da volerle denunciare pubblicamente, scatenando la rabbia delle cosche che ora vorrebbero eliminarlo. L’ex consigliere lombardo di Sel vive ora sotto scorta e in una località protetta, ma, non per questo, ha scelto di tacere e di abbandonare il proprio impegno per la legalità.

“Mafie al nord” è un’espressione che finalmente comincia ad essere utilizzata. Si tratta però di una mafia “imprenditoriale”, in grado di esasperare i principi del capitalismo e, per questo, appare ancora più difficile da riconoscere. Se in meridione si parla di contiguità e convivenza, al settentrione è più opportuno parlare di connivenza o ignoranza?

Connivenza e ignoranza: perché non è vero che al nord ci sono solo mafie imprenditoriali difficili da riconoscere e lo dimostra bene il fatto che insieme ai soldi sono stati esportati anche i riti di affiliazioni e le dinamiche interne dei clan, sia per ‘ndrangheta che camorra che Cosa Nostra. L’ignoranza (mi piace di più chiamarlo “analfabetismo”) è soprattutto tra la gente che non ha contatti “diretti” ma semplicemente benefici indiretti o danni collaterali mentre la connivenza è evidentemente politica e finanziaria e imprenditoriale. Parlare di “mafia al nord” diventa quindi molto pericoloso se serve per chiedere una certa indulgenza di giudizio rispetto alle mafie del sud.

Nei giorni scorsi ha parlato di una “antimafia disorganizzata”, che si contrappone ad una criminalità, invece, organizzata. Qual è dunque, a Suo parere, la strada da imboccare per poter contrastare in maniera adeguata l’illegalità?

Un ruolo a cui la politica e la pubblica amministrazione non può rinunciare: non serve fare decine di conferenze stampa per protocolli in nome della legalità che poi non vengono applicati o si rivelano assolutamente antieconomici e allo stesso modo non può bastare un’iscrizione ad un’associazione antimafia per risultare aprioristicamente credibili. L’antimafia deve porsi degli obiettivi concreti e deve stare lontana dalla devozione mafiosa per cui siamo solidali sono con i nostri sodali. L’antimafia deve essere inclusiva e concludente altrimenti è semplicemente imprenditorialità di immagine.

Portare l’antimafia a teatro ha una valenza importantissima, in quanto sottintende, sostanzialmente, un rapporto tra cultura e legalità. In un’Italia che dimentica o consapevolmente ignora, non vi è però il rischio che l’antimafia si trasformi dunque in un valore elitario?

Certamente. Io però posso fare antimafia nei mestieri che so fare. Se tutti facessero semplicemente così risulterebbe facile. Credo che se fossi stato un idraulico avrei comunque inteso la mia professione allo stesso modo.

Il pentito Bonaventura ha illustrato il piano che la ‘ndrangheta aveva per eliminarLa. Nello specifico, ha parlato di un attentato che non dovesse apparire in alcun modo di matrice mafiosa, per evitare la creazione di martiri. La mafia ha dunque paura della memoria?

La mafia ha paura della consapevolezza e di tutto ciò che nel proprio piccolo prova a costruire chiavi di lettura collettive.

A seguito delle numerose minacce di morte ricevute, Lei vive sotto scorta. Altre centinaia di persone, in Italia, conducono una vita simile alla sua. Alcune vengono definite “eroi”: c’è speranza che arrivi il momento in cui gli individui che hanno scelto di combattere il fenomeno mafioso vengano ritenuti non straordinari ma, semplicemente, giusti?

Certo. Basterebbe parlare meno di scorte, ad esempio.

Tra i motivi che l’hanno resa una figura “scomoda” per la mafia vi è la denuncia dei rapporti tra politica e criminalità organizzata. Quanto è ancora forte il legame che intreccia lo Stato e l’antistato per eccellenza, e come è possibile reciderlo?

Le mafie stanno in ottima salute e hanno bisogno della politica per stare bene: la risposta quindi mi sembra evidente. Forse bisognerebbe innamorarsi di più dello Stato, delle sue leggi e della sua Costituzione e meno dei ciclici salvatori della Patria che ci vengono propinati.

Concorda con l’appello lanciato da Teresi, secondo cui i capi-mafia dovrebbero sganciarsi dai propri referenti politici in quanto semplicemente strumentalizzati da essi?

E’ una provocazione, ovvio. Io amo le provocazioni.

Dopo mesi di ritardo, è stata finalmente istituita la commissione antimafia. Tra i membri, spiccano nomi noti per le proprie posizioni controverse in merito al contrasto alle mafie. Come si pone un politico e un uomo di legalità di fronte a quello che potrebbe apparire un paradosso?

E’ la perfetta fotografia dello spessore della nostra classe dirigente. Perfetta: desolante ma precisa.

Giulio Cavalli con la Mehari di Giancarlo Siani a Napoli

di Anna Copertino (qui)

“C’e un’italia diversa da quella che si vorrebbe… È quella dei servi, dei venduti, degli omertosi, dei vili, dei collusi e camorristi …. Un’italia figlia dei colletti bianchi, dei gattopardi, dei para-politici … Un’italia che non tutela la libertà d’espressione e parola…. Un’italia che tutela e da voce ad un corrotto, un lurido che, ancora continua a dire la sua… Un’italia che tacita chi, ha solo deciso di dire la verità nel rispetto degli altri e di se stesso, senza paura ed al di la delle minacce. Questa è l’italia… che non ha più nulla di legale, di libero, di dignitoso, d’umano… Che non tutela le persone vere … quelle che sono sempre, e da sempre, a dire senza reticenza e timore… Un’italia che non tutela chi continua a fare impegno antimafia anche nel suo lavoro d’attore… e non si presta al gioco “delle tre scimmiette” … perché sente, vede e parla… perchè si è stanchi di subire e si desidera un’italia che sappia riprendersi l’identità, la dignitá e la “maiuscola”.

L’attore Giulio Cavalli con il suo spettacolo “L’Innocenza di Giulio- Andreotti non è stato assolto” scritto con il procuratore della repubblica di Torino Giancarlo Caselli e lo scrittore Carlo Lucarelli, sta girando l’Italia, tra “soste forzate” per altre minacce che vanno ad aggiungersi a quelle già esistenti e che lo costringono a vivere sotto scorta dal 2009. Martedì 15 ottobre alle 18 al Pan — Palazzo delle arti di Napoli , Giulio Cavalli ha chiuso gli incontri della rassegna “In viaggio con la Méhari”. Cavalli per la giornata conclusiva con il suo recital “Esercitare la Memoria” ha ricordato Pasquale Romano, vittima innocente di camorra, nel primo anniversario della sua morte, e Giancarlo Siani, che perse la vita 28 anni facendo semplicemente il suo lavoro, il giornalista.

Giulio appena presa la parola, con grande prontezza ha subito ironizzato scartando le sedie con i cuscini viola, per scaramanzia teatrale e provocando grande ilarità tra i tanti intervenuti, e poi con la sua semplicità, con la sua faccia da “giovane pulito”, con parole sagaci e battute senza veli, senza omertà… raccontandosi.. giovane Arlecchino, menestrello del ‘500 ai giorni nostri… ha incantato la sala…. ha raccontato la verità.. quella stessa che viene punita, perché scomoda… nel ‘500 impiccavano… oggi minacciano…. ti costringono a fare l’attore scortato non per timore delle fans ma perché se decidi di fare impegno civile a teatro non va bene… rischi di essere sparato… e non perché stai recitando ma perché devi essere messo a tacere…. Ma Lui continua… imperterrito, la sua voce senza fine… è anche un po’ la nostra…

Mafia? Il sonno di Roma

Da Repubblica

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La video-intervista dell’attore e regista lombardo Giulio Cavalli che racconta la sua vicenda e spiega come la criminalità organizzata abbia messo radici anche nella capitale. Dalla scorsa estate l’attore ha scelto di vivere a Roma e da poco è rimasto vittima di una nuova intimidazione: una pistola, con un colpo in canna e la matricola abrasa, è stata ritrovata nei pressi del giardino della sua abitazione. Questa mattina, un nuovo agguato in città: un imprenditore di 74 anni, proprietario di terreni, golf club e gestore di una discarica, è stato ucciso in strada a Casal Palocco.

 

Il pentito Bonaventura: “Giulio Cavalli doveva tacere: la politica lombarda sosteneva la ‘Ndrangheta”

Ecco l’articolo uscito oggi su Fanpage.it:

“Dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli – rivela l’ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura – c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali. Quando venni avvicinato dai De Stefano, loro mi dissero: “Questa qui è anche la volontà di amici nostri politici”.

Dietro la ‘Ndrangheta, la politica. Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura che nell’intervista rilasciata a Fanpage due settimane fa ha rivelato i piani della criminalità organizzata per uccidere l’attore e scrittore Giulio Cavalli, questa volta aggiunge qualcosa in più. Alza il tiro. Di fronte al silenzio delle istituzioni, lui che ha portato all’arresto di oltre 130 membri della più importante cosca di Crotone nel corso dell’operazione Heracles coordinata dal procuratore Pierpaolo Bruni della Dda di Catanzaro, pronuncia la parola “politica”. Accanto a politica, Bonaventura aggiunge un dettaglio: “lombarda”.

Proprio così: “Dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli  – rivela a Fanpage.it – c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali, nel senso che le azioni erano fortemente volute anche da qualche politico, nello specifico lombardo. Quando venni avvicinato dai De Stefano, loro mi dissero: “Questa qui è anche la volontà di amici nostri politici”. Qualcuno, spiega il collaboratore di giustizia, fa parte anche della politica nazionale. Personaggi pesanti, insomma. E perché dava fastidio, Giulio Cavalli? “Perché parlare di ‘Ndrangheta, nel 2011, in Lombardia era tabù. Era considerato uno ‘scassaminchia’. Oggi è nota la sua presenza al Nord”. Sull’area politica, il partito o i partiti dietro queste “volontà” Bonaventura si ferma: “Su questa domanda preferisco non rispondere perché la mia posizione non è molto sicura. Preferisco riferire ai magistrati”.

Su queste scottanti rivelazioni, però, nessuno ancora ha bussato alla sua porta. E il collaboratore di giustizia da sette anni, giudicato altamente attendibile e per questo collaboratore di nove procura, la Dna e una procura straniera, e tuttavia senza scorta da sempre, è qui che usa un termine particolare: “scioccato”. Da cosa è scioccato? “Dal fatto che nessuno sia venuto a raccogliere queste informazioni che sto rivelando – risponde – nessuno mi ha sentito su questa vicenda, dovrebbe essere il minimo ascoltarmi, mettere sotto protezione me e le informazioni. Sembra che mi stiano lasciando qua, aspettando cosa? Che io muoia e con me le informazioni? Oppure che venga spinto a ritrattare?”.

E poi, preoccupazione per Giulio Cavalli: “Potrebbero togliergli la scorta – dice – Ma Giulio è un patrimonio da proteggere. Se ci fosse attenzione da parte della politica, se ci fosse qualcuno che alzasse la voce insieme ad associazioni dell’antimafia sociale, insieme un risultato si potrebbe raggiungere”.

Infine, l’appello alle istituzioni, fino ad ora silenti: “Mi rivolgo ad Alfano: si impegni a fare qualcosa per assicurare la giusta protezione a Giulio Cavalli e me. Mi rivolgo al premier Letta, non sottovaluti questa situazione. Non vorrei essere spavaldo né arrogante – aggiunge – Ma a questo punto dico: se Bonaventura è attendibile che si mettesse in protezione, se non lo è che si dichiarasse subito la sua inattendibilità  e venga escluso dal programma di protezione”.

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La mia intervista per lindifferenziato.com

Rubrica mensile del portale www.lindifferenziato.com

Nel 2009 ha messo in scena il suo spettacolo Do ut Des, sui riti e conviti mafiosi. A causa delle minacce mafiose ricevute a seguito della messa in scena della sua opera, gli è stata assegnata una scorta. Proprio in questi giorni è stato svelato da un pentito un piano della ndrangheta per eliminarla. Qual è la cosa che le manca di più della vita “normale”? Nei momenti di sconforto cosa le da la forza per andare avanti e cosa pensa per farsi coraggio?

Devo confessare che trovo molta normalità nella vita che faccio e sono più portato a scandalizzarmi per la pavidità diffusa; non per eroismo o per inseguire il superuomo, per carità, ma perché continuo a credere che l’isolamento sia sempre provocato dal silenzio dei giusti piuttosto che dal rumore dei “cattivi”. Certo c’è un’intimità che diventa molto più complicata e una programmazione da cui non si può sfuggire ma la privazione vale la lotta. Per questo quando mi capita un momento di sconforto posso pensare che l’appoggio delle molte persone che mi leggono o vengono a vedermi a teatro è una protezione che non posso deludere.

Come spiegherebbe ad un bambino cosa è la mafia?

Quando tre o più persone si mettono d’accordo, con mezzi e metodi fuorilegge, di arricchirsi impoverendo tutti gli altri. La mafia è egoismo organizzato in un tempo di solidarietà parecchio sgangherata.

Nel 2012 ha scritto un libro “L’Innocenza di Giulio”. Nella sua presentazione sostiene che “legittimare l’illegalità è la sfida della politica italiana. La vicenda Andreotti è il simbolo di una storia che parte da lontano, sale su fino agli albori della Repubblica e scivola fino a oggi, alle leggi fatte apposta per fermare i processi e alla prescrizione dei reati. Prescritto è diventato sinonimo di innocente.” Cosa pensa quando sente dichiarare in tv o sui giornali che Giulio Andreotti era innocente ed è stato un perseguitato politico? Come crede sia possibile il fatto che la maggioranza degli italiani ritengano veritiera questa opinione?

Proclamare continuamente l’innocenza di Giulio Andreotti è un metodo per discolpare gli italiani e per questo la sentenza manipolata viene accolta spesso con un moto quasi di sollievo. La maggioranza degli italiani ha trovato comodo credere a ciò che le veniva raccontato da una larga parte (servile) dell’informazione perché accettare il verdetto televisivo costava poca fatica e non richiedeva un particolare allenamento del muscolo della curiosità; muscolo parecchio atrofizzato in questo Paese.

Recentemente sul suo blog ha scritto: “Puttana la cultura. E’ la vera prostituta del Parlamento. E non solo. Nei Consigli Regionali e in centinaia di Comuni grandi o piccoli. La Cultura è la puttana che tutti usano per garantirsi un aplomb responsabile e intellettuale in campagna elettorale o mentre si sta all’opposizione e che viene poi lasciata appena ci si ritrova a governare in un posto qualunque. A parole la scopano tutti ma poi in fondo non la vuole nessuno. Perché la Cultura richiede sacrificio, chiede che ci venga messa sopra una testa pensante prima di qualsiasi decisione e la Cultura ha bisogno di avere lo spessore politico di sapere giudicare al di fuori delle tonnellate, dei trend, dei risultati finanziari e del “ce lo chiede l’Europa”. Alla luce di questa sua denuncia, quanto reputa profonda la crisi culturale che attanaglia l’Italia? Vede una via d’uscita a questa situazione?

La crisi che stiamo vivendo è soprattutto culturale. Lo sentiamo ripetere da anni, l’abbiamo letto benissimo tra le pagine di Pasolini, lo manifestiamo spesso nelle piazze o nei convegni eppure non riusciamo a declinare l’indignazione in azione. Ci siamo affidati all’economia credendo che l’etica dei numeri non chiedesse la responsabilità di una guida culturale e oggi paghiamo il prezzo di una mancata capacità di elaborazione di pensiero collettiva.

Nell’estate del 2011 ha lasciato l’IDV ed è approdato in Sel “per contribuire a costruire il cantiere della sinistra”. Quanto dovranno aspettare ancora gli elettori di centro-sinistra per veder nascere realmente questo cantiere?

Questa è la domanda più difficile: stiamo aspettando Godot.

Le propongo un gioco molto semplice: le scrivo dei nomi e lei mi dice quale personaggio cinematografico o letterario le fanno venire in mente, spiegando brevemente i motivi dell’accoppiamento.

Matteo Renzi: una tartina da aperitivo. Stuzzica ma non sfama. Non scomoderei cinema e letteratura.

Giovanni Falcone: Ulisse. Solo che non siamo stati capace di farlo tornare a casa.

Silvio Berlusconi: un bravo che è riuscito a diventare Don Rodrigo.

Roberto Calderoli: uno gnu del monologo di Fo. Corre solo per fare polvere.

Giorgio Ambrosoli: credo che Stajano l’abbia raccontato meravigliosamente. Giorgio Ambrosoli è quel Giorgio Ambrosoli.

Giorgio Napolitano: Gargantua. Onnivoro al di là della giusta misura.

Beppe Grillo: uno Zanni, che non riesce ad educarsi.

Toto Riina: un bluff. Sta ai boss come Moccia sta all’amore.

Peppino Impastato: per l’antimafia è un vangelo che qualcuno vorrebbe apocrifo.

Antonio Gramsci scriveva che “ L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.” In che misura la nostra società è indifferente e omertosa?

E’ il vero cancro di questo tempo: gli indifferenti inutili che si sentono legittimati.

Quali sono i progetti futuri di Giulio Cavalli? Cosa si augura per il suo futuro professionale e cosa spera, invece, per l’Italia?

Sto scrivendo il mio primo romanzo. Sto preparando due nuovi spettacoli. E immagino (e lavoro) per un’Italia all’altezza delle aspirazioni delle sue persone migliori.

Recitare a schiena dritta. Intervista per Infooggi.

MILANO, 23 LUGLIO 2013 – Giulio Cavalli è attore ed è sotto scorta dal 2008. La ‘Ndrangheta non gradisce gli attacchi che lancia dal palco, le verità che racconta al pubblico di quel Nord dove per molti ancora vale il ritornello: «qui la mafia non esiste». I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Da Linate 8 ottobre 2001: la strage (2007) sull’incidente aereo, a Bambini a dondolo (2007), sul turismo sessuale infantile, a Primo L. 174517 (2008), uno spettacolo ispirato al romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi, agli spettacoli sul tema della mafia: Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi (2008), A cento Passi dal Duomo (2009), Nomi, cognomi e infami (2009) e L’innocenza di Giulio – Andreotti non è stato assolto (2011). Nell’aprile 2010 all’impegno teatrale ha affiancato quello politico, ed è stato eletto come consigliere regionale indipendente nella lista dell’Italia dei Valori in Lombardia; successivamente ha aderito al gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà, che oggi rappresenta nel consiglio regionale lombardo.

Nasce come artista di teatro. I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Ha affermato che il teatro deve essere un «mezzo per mantenere vive pagine importanti della nostra storia». Deve avere l’obbligo morale di prendere una posizione netta in merito agli avvenimenti che accadono, un teatro di controinformazione. Crede che il teatro possa avere la capacità di influire sulla coscienza civile di un Paese?

Certo. Non lo dico io ma lo dice la storia del teatro. Attraverso la parola si costruisce il pensiero e, nel migliore dei casi, si coltiva la capacità di analisi collettiva. Il teatro poi, a differenza di un libro e soprattutto della televisione, richiede anche allo spettatore una “costrizione” fisica che non può esimersi da una partecipazione attiva: in teatro devi scegliere di andare, scegliere di vedere proprio quello spettacolo e difficilmente si riesce a liquidare l’esperienza in pochi minuti uscendone. In più in teatro ci si mette la faccia e il corpo ed è molto più facile capire se il portatore delle parole sia intellettualmente onesto. É una visione tattile, direi.

Diversi suoi spettacoli nascono da sentenze giudiziarie. In che modo avviene il processo di trasformazione di una sentenza in un’opera teatrale?

Cercando di cogliere all’interno delle carte giudiziarie la storia profondamente umana e il paradigma sociale. All’interno di molti processi si sono scritte verità che esulano dall’ambito giudiziario e descrivono comportamenti di questo tempo. Spesso gli atteggiamenti non sanzionabili per legge (ma comunque inopportuni) sono più significativi delle sentenze. L’umanizzazione delle carte giudiziarie è una scultura che è già disegnata nel cubo, basta farla venire alla luce. E’ un lavoro che ha bisogno di una buona arte di togliere e di una buona umiltà nel non aggiungere.

Dal 2010 è passato anche all’impegno diretto in politica; si è candidato alle elezioni regionali della Lombardia come indipendente nella lista dell’Idv. Come mai ha deciso di affrontare anche questo tipo di impegno? L’approccio culturale non era sufficiente a cambiare le cose? Una volta eletto ha aderito al gruppo di Sel, perché?

Perché il mio teatro è profondamente politico. Ed è politica tutto ciò che decide di non accettare le verità precostituite o semplicemente andare a fondo delle situazioni. Non credo nel “teatro civile” che si illude di fare cronaca o memoria. Si può essere apartitici, certo, ma una posizione politica sta in ogni narrazione che si rivolga alla coscienza civile di un Paese. L’attività all’interno delle istituzioni quindi non ha nulla di innaturale rispetto ad uno spettacolo, un articolo o un libro. L’appartenenza a questo o quel partito è semplicemente un mezzo. Che trovo poco interessante. In Italia la coerenza rispetto ad un’idea spesso è più ferma dei programmi o delle dinamiche di partito.

Dopo aver passato anni a negarne l’esistenza, si può dire che oggi la presenza della mafia al nord Italia è riconosciuta? Qual è la situazione attuale in Lombardia?

Certo è più sentita. Ma siamo ancora a livello di sterile litigio politico o semplice allarme. Manca il percorso di responsabilizzazione e di studio. Oggi il nord ha l’occasione di prepararsi alle mafie facendo tesoro del sud migliore ma è ostaggio di un federalismo che è più un embargo di esperienze positive che altro.

È autore del volume “Nomi, Cognomi e Infami”, racconta quale sia lo stato e le collusioni della criminalità organizzata nel settentrione, perché mettere in scena una realtà cruda come quella delle mafie?

Perché mentre chiedevamo di non avere paura siamo finiti sotto minaccia. Ed era inevitabile accettare la sfida.

Le mafie hanno uno o più lati disonorevoli?

Moltissimi. Spesso le mafie sono l’associazione organizzata dei vizi della malapolitica, dell’imprenditoria spericolata e della cittadinanza incostituzionale. E infatti sono i suoi compagni preferiti.

Per lo spettacolo “Do ut Des”, nel 2008, hai subìto delle intimidazioni mafiose. Da quel momento le è stata assegnata la scorta. Immaginava che il suo spettacolo potesse provocare un simile effetto? 

Non parlo di minacce. Mi annoia questa epoca di minacciati fascinosi come bomboniere della legalità. Sono stato minacciato come è minacciata più in concreto la bellezza e la moralità in Italia.

Cos’è la libertà e cosa rappresenta per lei?

Riconoscermi in tutto quello che faccio.

Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto?

Certo. Altrimenti sarei stato un omertoso, no?

Giulia Farneti (da qui)

Un anno e mezzo dalla “pecorella” di quel NO TAV

E appena si posa la polvere ci si accorge che le cose non sono sempre come vengono urlate. E ci si accorge che la rabbia e l’indignazione sono quasi più belle quando sono semplici e alla luce del sole qui dove agire nell’oscurità è sinonimo (chissà perché) di intelligenza.

“Una volta un sacchetto di plastica otturò uno scarico della fossa biologica che abbiamo nel retro di casa. Dovetti trattenere il fiato, infilarci il braccio e rimestare bene. Qui è lo stesso”.

L’intervista a Marco Bruno firmata Wu Ming è su Internazionale, qui.

Marco che chiamava un carabiniere “pecorella” veniva equiparato alla fame in Somalia e al bombardamento del mercato di Sarajevo. Così La7 apriva il suo Tg la sera del 29 febbraio 2012. Ed era solo l’inizio. Un decano del giornalismo d’inchiesta come Carlo Bonini definiva il discorso di Marco “birignao squadrista”. Al Tg1 Pier Luigi Bersani dichiarava: “Ci sono formazioni anarco-insurrezionaliste che cercano acqua su cui navigare”. Gli faceva eco Mario Sechi sul Tempo del giorno dopo: “In val di Susa stiamo assistendo ad una prova tecnica di squadrismo vecchio e nuovo, ferraglia e hi-tech, all’eruzione di un magma anarco-fascio-comunista che si sta organizzando per fare il salto di qualità”. Da questo magma era affiorato Marco.

Ma chi era Marco? Presto detto: era “un personaggio non bello, l’inatteso volto disumano e strafottente del movimento”. Così Paolo Griseri su Repubblica del 1 marzo. Griseri proseguiva: “Da anni, da molti anni, la val di Susa è anche questo. Una schizofrenia collettiva che trasforma la brava gente in truci eversori, gli impiegati in bombaroli come cantava De Andrè”. Marco, questo truce eversore, era “uno di quelli che non trovi in prima linea durante gli scontri, ma arriva, colpisce, sparisce. Non fa parte del movimento organizzato”. Lo assicurava Libero del 2 marzo.

E se il movimento non era d’accordo, se faceva notare che Marco non era mai “sparito”, anzi, era sempre stato in valle dove lo conoscevano tutti, be’, non aveva importanza. Marco era ormai quello che dicevano i media, cioè uno squadrista, anzi, un anarco-insurrezionalista fascio-comunista. Marco era disumano e truce. Soprattutto, era privo di onore, come si legge in questo lancio Ansa: “ROMA, 29 feb – I vertici del gruppo Pd in Senato, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, hanno chiesto al comando generale dell’arma dei carabinieri di ‘poter stringere la mano in segno di solidarietà e di ringraziamento al carabiniere che ieri in val di Susa è stato vigliaccamente insultato da un dimostrante privo di onore’”.

Il commento te lo strappavano praticamente dalle labbra: in Italia è talmente normale che le forze dell’ordine agiscano in modo violento e scomposto, che se un poliziotto o carabinierenon spacca la testa a qualcuno diventa un eroe, una figura a metà tra Gandhi e Salvo d’Acquisto, uno da encomiare.