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Papa Francesco in Iraq ha fatto politica. Quella che non sanno fare i potenti

Forse ci metteremo anni a capire l’importanza storica della visita di Papa Francesco in Iraq e chissà che non si possa imparare in fretta come la diplomazia, parola sgraziata e scarnificata in questi anni di commercio con una spolverata di finti diritti, è un esercizio serissimo che richiede il coraggio di andare controvento.

Papa Francesco è atterrato in Iraq e in pochi giorni ha infilato il dito nelle ingiustizie di quella parte di mondo che pochi si prendono la briga di raccontare, in mezzo alle macerie che stanno lì ma che sono partorite da tutto l’Occidente. Gli avevano sconsigliato di andare, i venditori di morte occidentali, fingendosi consiglieri apprensivi ma non riuscendo a non apparire ipocriti.

È entrato a pregare in Mosul, l’ex capitale delle milizie del Califfato da cui il Daesh ha sparso morte e ha ripetuto a voce alta che non esiste nessuna possibile guerra in nome di nessun Dio, che non è consentito “odiare i fratelli” e che non bisogna cedere ai “nostri interessi egoistici, personali o di gruppo”.

Al di là del credo di ognuno quelle parole sono un atto politico potentissimo. Così come rimarrà nella storia l’incontro con Ali al Sistani, la massima autorità religiosa sciita del paese, in una stanza spoglia che profuma di sala d’attesa, e in cui si è stretto l’impegno di una collaborazione tra comunità religiose che troppo spesso la politica gioca a brandire l’una contro l’altra.

Sono due uomini che si battono contro le divisioni e che riportano il discorso finalmente a un livello più alto, abbandonando i bassifondi di un razzismo religioso che anche dalle nostre parti si è acuito sempre di più. È il viaggio in cui Papa Francesco ha ascoltato le parole del padre di Alan Kurdi, naufragato su una spiaggia turca nel settembre del 2015 mentre con la madre e con il fratello tentava di raggiungere l’Europa.

Una foto che ha fatto il giro del mondo ma di cui ancora nessuno ha chiesto scusa, nemmeno tra i responsabili politici di una tragedia che ancora oggi continua a rinnovarsi. Le cronache raccontano di un Papa che “ha ascoltato, più che parlare”: quella è una storia che va ascoltata e raccontata, ascoltata e raccontata.

Papa Francesco, comunque la si pensi, si è preso una responsabilità politica enorme gettando luce là dove molti vorrebbero convenientemente mantenere il buio esercitando la diplomazia nel suo senso più alto, guardando negli occhi e quindi legittimando le vittime. Mentre tutti sono concentrati sul proselitismo ascoltare diventa perfino un atto rivoluzionario.

Leggi anche: 1. La prima volta di un Papa in Iraq: Francesco va nei luoghi che furono dell’Isis per costruire la pace

L’articolo proviene da TPI.it qui

Matteo risponde (male)

«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». Lo ha detto il leader di Italia Viva in una intervista in cui ha parlato del suo viaggio in Arabia Saudita. Dove c’è una costante violazione dei diritti umani

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

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Minacciare non è una trattativa

Dopo un incontro di oltre due ore, Italia viva sigla una tregua con Conte. Ma quanto ineleganti e irresponsabili sono stati i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni

Dunque il presidente Conte ha incontrato la delegazione di Italia viva e le minacce urlacciate in questi ultimi giorni (con enormi esercizi di narcisismo del solito Renzi) alla fine si sono sciolte come neve al sole. Hanno fatto un cosa semplice: hanno discusso, si sono confrontati e hanno trovato un compromesso.

I dirigenti di Italia viva dopo due ore e mezza di incontro si sono detti soddisfatti perché, ha spiegato Teresa Bellanova, «è scomparsa tutta la questione sulla governance che si voleva portare con un emendamento in legge di Bilancio, e finalmente si comincia a discutere nel merito».

In sostanza il presidente del Consiglio ha rassicurato che tutti i passaggi e tutte le proposte passeranno dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento. Quelli di Italia viva dicono che non ci sarà più “nessuna task force” e in realtà è una mezza verità: il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola ha chiarito che «la struttura la chiede l’Europa, ma non sostituirà i ministeri, e il Parlamento verrà coinvolto in tutti i passaggi».

Sono anche uscite le prime bozze del Recovery plan che contengono i capitoli di spesa e gli indirizzi per i prossimi mesi. Ora verranno condivise anche con le altre forze politiche di maggioranza e poi si fisserà entro la fine dell’anno un Consiglio dei ministri per trovare il punto d’incontro per tutti.

Insomma ieri semplicemente si è fatta politica, quella che andrebbe fatta con il senso di responsabilità di chi sa di essere al governo di un Paese, soprattutto in un’epoca di pandemia. Verrebbe da pensare a quanto siano ineleganti e irresponsabili i chili di minacce e di urlacci che i renziani hanno sparato in questi giorni ritagliandosi spazio nei media. Lo so già, qualcuno obbietterà che se non avessero fatto così non avrebbero ottenuto nulla. Peggio ancora. Significa che sono una manica di dilettanti, ma tutti, tutti.

E se volete capire quanto sia più forte di loro continuare con il ricatto allora potete leggere le parole di Bellanova appena uscita dall’incontro: «Il governo deve stare sereno se fa le cose. Se no è inutile». Non riescono proprio a stare sereni e a dismettere i panni dei bulli (con un partito da 2%). E vedrete che tra poco ricominciano di nuovo, con lo stesso atteggiamento, sul Mes. Perché quando gli incapaci sono troppo irrilevanti per aprire un dibattito (irrilevanti non solo nei numeri ma anche nei modi) allora provano a convincerci che la minaccia sia una trattativa. Fanno sempre così.

Buon mercoledì.

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Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Da marzo l’ex combattente nel conflitto dei curdi contro l’Isis è sottoposta a sorveglianza speciale. Con motivazioni inconsistenti e in virtù di una norma di dubbia costituzionalità

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

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Lo strabismo di Salvini

Non è una barzelletta. Lo ha detto sul serio: Per impedire che il coronavirus si diffonda, vanno chiusi i porti e non le discoteche

Fermi tutti, c’è un vincitore. Dice Salvini che chiudere le discoteche e prendersela con i giovani non ha senso. E uno si domanda: perché non ha senso? Risponde Salvini: perché bisogna chiudere i porti. E uno si domanda: e che c’entrano i porti con le discoteche? Niente di niente. Ma c’entra Salvini.

La propaganda sovranista finalmente ha trovato un gancio dove appoggiare il suo maiale sgozzato: i casi di positività al Covid di alcuni migranti sbarcati ha reso possibile il solito martellante, incessante logorio di propaganda di Salvini, Meloni e di tutta la loro allegra brigata. Avviene quello che accade ogni volta che un nero compie un reato: prenderlo, amplificarlo e renderlo un manifesto politico.

Così mentre il mondo (e le persone serie) si occupano di come risistemare la vita in tempi di Covid, avendo il coraggio di prendere decisioni strutturali che non si perdano dietro all’ultimo tweet indignato, da noi è una gara al “sempre uno più di te” come i bambini che giocano a trovare il numero più grosso.

Peccato che lo strabismo di Salvini in questo caso sia ancora più lampante. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha detto al Corriere della Sera: «A seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate». L’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) scrive: «Dall’inizio dell’emergenza a oggi sono state meno di un centinaio le persone straniere giunte irregolarmente via mare in Italia e trovate positive al nuovo coronavirus. Il numero va confrontato con i 6.469 migranti sbarcati sulle coste italiane tra inizio marzo e il 14 luglio. In tutto, dunque, solo circa l’1,5% dei migranti sbarcati è risultato positivo. Da non dimenticare inoltre che le positività sono state certificate su gruppi di migranti che avevano condiviso la stessa imbarcazione durante il viaggio, dando credito all’ipotesi che un numero significativo di essi si sia infettato nel corso della traversata».

C’è dell’altro: tutti i migranti che sbarcano vengono sottoposti a tampone e quarantena. Pratica che risulta difficile invece negli aeroporti. E poi c’è la chicca finale: racconta Salvini di una ex caserma in provincia di Treviso dove dei migranti ammassati sono risultati positivi in larga parte e che il sindaco della città voglia fare causa al governo. E chi ha voluto concentrare i migranti in vecchie caserme demolendo l’accoglienza diffusa? I decreti Sicurezza. Di chi? Di Salvini.

A posto così.

Buon martedì.

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Paragone: “Non illudetevi, Grillo e Di Battista hanno visioni diverse per M5S. Io ora mi faccio un partito”

Gianluigi Paragone: “Grillo e Di Battista hanno visioni diverse per il M5S”

Gianluigi Paragone è stato eletto senatore con il Movimento 5 Stelle ma il 1 gennaio di quest’anno è stato espulso dal collegio dei probiviri per avere votato contro la legge di bilancio. L’abbiamo intervistato per TPI sull’attuale momento del M5S.

Paragone, partiamo dallo scontro Grillo-Di Battista: che succede?
Facile: Alessandro (Di Battista nda) ha ancora dentro il dna del movimento antisistema, Grillo invece ha completamente maturato la scelta di portare il Movimento dentro al sistema. Uno scontro tra due visioni: una forse onirica e l’altra più politicante.

Appare chiaro però che il famoso “uno vale uno” ormai valga poco…
Grillo è sempre stato il padre padrone del Movimento. C’è stato un momento in cui, forse più per esigenza personale, ha fatto un passo di lato però nel momento in cui il Movimento doveva andare là dove aveva deciso che andasse ha esercitato quello che esercitava prima, il diritto divino, il diritto del signore feudale. È un partito che nasce grillino.

Alcune voci dentro il Movimento 5 Stelle dicono che Di Battista vorrebbe vincere il congresso con i voti di quelli che ormai sono tutti fuori…
Se “quelli fuori” sono quelli che sono stati espulsi, quelli che se ne sono andati e quelli che non votano più il Movimento stiamo parlando di circa la metà del patrimonio elettorale del Movimento, questo la dice lunga sulle capacità di analisi di alcuni dentro il M5S. Queste non sono malelingue, sono lingue che ormai parlano il linguaggio del palazzo.

Ma secondo lei c’è lo spazio perché il M5S recuperi lo spirito originario oppure ormai la strada verso la maturità politica è segnata?
A me non fa paura una grammatica politica-partitica. Mi fa paura la tesi che sfugge. Cosa succederà non lo so e onestamente non me ne frega più nulla, non sono qui a sfogliare l’album dei ricordi. Qualcuno ha visto nascere il Movimento e quindi è mosso da un afflato di questo tipo però a me interessa dare una soluzione a dei problemi reali, poi ognuno la questione sociale la poggia sulla propria tesi politica. A me interessa lo spaccato sociale.

Secondo lei la rovina del M5S è stato l’accordo con il PD?
La rovina è non avere avuto una struttura politica in grado di fare maturare delle sensazioni, vale per l’economia e per la giustizia. Siccome non avevano una tesi politica hanno sfruttato delle figure che erano figurine ma il Movimento viveva di suggestione, che non è per forza negativo, ma quelle suggestioni dovevano trasformarsi in tesi politiche. Questo passaggio non è stato compiuto, e forse avevano paura di compierlo, si sono poggiati su figurine che dessero sostanza alla suggestione e le hanno prese dalla società civile, come il sottoscritto, Freccero, Di Matteo.

Però poi quando ognuno di costoro ha continuato a dire le cose che ha sempre detto allora è diventato un problema: io ho sempre detto che non ero europeista e ho rivendicato questa scelta anche successivamente e nel programma elettorale del Movimento il karma era antieuropeista. A Nino Di Matteo non puoi chiedere di stare zitto quando vede cose che configgono con l’azione antimafia.

Il suo futuro politico?
Il mio futuro è teso a costruire una forza totalmente antisistema e antieuropeista.

Il Movimento 5 Stelle si spaccherà?
Io non lavoro per fare del male al Movimento, anche perché è un esercizio che gli riesce benissimo. Io lavoro per dare concretezza politica a chi pensa che quello che io ho raccontato e ho scritto debba avere un riscontro nell’azione politica. Per questo mi voglio impegnare questa volta costruendo un soggetto mio così nessuno può sbattermi fuori.

Leggi anche: 1. Paragone a TPI: “I dirigenti M5S cadono a ogni mia provocazione, me li sto bevendo. Mi espellano, il Movimento è morto” / 2. Paragone a TPI: “Mi cacciano dal M5S? Vediamo, ma io non faccio nessuna scissione. Di Maio non deluda le aspettative” / 3. Il M5S è un fantasma che cammina sulle sue gambe

4. Grillo: “Assemblea M5S? Senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta” / 5. Conte leader del M5S? È scontro tra il fondatore Beppe Grillo e “il ribelle” Alessandro Di Battista / 6. Il quotidiano spagnolo Abc: “Nel 2010 il Venezuela di Chavez finanziò il M5S con 3,5 milioni di dollari”. Caracas smentisce

L’articolo proviene da TPI.it qui

La terza via dell’integrazione

(Riccardo Staglianò su Venerdì di Repubblica)

Brescia. Le tre sorelle arrivano a braccetto. Una piccola legione compatta e sorridente. L’appuntamento è davanti all’entrata dell’università, ora di punta. Sms: «Come vi riconosco?». Messaggino di risposta: «Portiamo il velo». In verità solo Asmaa e Hasna Bouchnafa, gemelle ventiquattrenni e studentesse di ingegneria, lo indossano. Dounia, appena maggiorenne, ha lunghi e vaporosi capelli castani. Ci sediamo in un’aula deserta. Chiacchieriamo un bel po’ prima di arrivare al punto: «È cambiato qualcosa al tempo dell’attentato al Bardo, le decapitazioni in streaming e i morti a Parigi?». Quel giorno un collega di Hasna, che per mantenersi agli studi fa turni di otto ore in una fabbrica di componentistica per auto, è andato da lei a brutto muso: «Voi avete ammazzato sei persone!». La ragazza non se l’aspettava. Ha balbettato qualcosa, si è addirittura scusata prima di riaversi e dire che no, le dispiaceva moltissimo per le vittime, ma lei non aveva ammazzato proprio nessuno. Intanto in classe di Dounia, che frequenta un istituto professionale per la finanza, una solerte prof aveva fatto irruzione in classe per chiedere a tutti di pronunciare l’ultima versione del giuramento di fedeltà all’occidente: «Ma io non l’ho fatto. Condanno gli assassini, ma non sono Charlie. Per il semplice fatto che quella rivista mi ha offesa, in quanto musulmana. E ho il diritto di poterlo dire». Né con l’Is, né con gli spernacchiatori del Profeta. Questa, provando a riassumere conversazioni con persone diversissime tra loro che solo l’elementare retorica leghista mette in caricatura come un pericoloso monolite, è la terza via bresciana. Doppiamente interessante perché è espressione di un posto dove gli immigrati sono molti, quasi tre volte la media nazionale (il 22 per cento dei residenti), e molto integrati, perché questi lombardi ruvidi ma pragmatici tendono a misurare gli uomini con il metro laicissimo della voeuja de laurà. Almeno fino a oggi.

A complicare il quadro, giorni dopo la mia visita la polizia ha arrestato ed espulso Ahmed Riaz, un trentenne pakistano con frequentazioni jihadiste su internet. E una settimana dopo la procura locale ha smantellato una cellula terrorista composta da due albanesi e un piemontese.

Fin qui tutto bene ripete, a ogni piano che supera, l’uomo che precipita dal grattacielo nel film di Kassovitz sull’odio nelle banlieues. Perché l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio. È un’associazione di idee facile davanti a questo cilindro di sedici piani di cemento armato in cui otto campanelli su dieci sono di nomi arabi, africani, indiani. Il quartiere di San Polino è un satellite recente della città, dove gli italiani sono l’intruso del vecchio gioco enigmistico. Akram scende a prendermi in ciabatte. Ha finito di lavorare alle sei, l’ho chiamato alle sette e nonostante fosse ora di cena mi ha detto di andare a casa sua, che avrebbe preparato del tè. Nato in marocco ventidue anni fa, ha i capelli corti nerissimi come gli occhi e un bel viso. È arrivato qui dieci anni fa, ha fatto medie e superiori prima di approdare nell’azienda metalmeccanica per cui fa rettifiche e controlli qualità. Su sette dipendenti quattro immigrati, al punto che il titolare ha imparato un po’ di arabo con cui azzarda battute non sempre divertenti. Il fatidico 7 gennaio un collega sbotta: «Bombardiamoli tutti». Parla dell’Is, verosimilmente, ma Akram gli fa notare che non è gente che vive nel deserto e morirebbero tanti, troppi civili. Segue escalation verbale. A raccontarlo il ragazzo diventa ancora paonazzo: «Quelli che hanno ucciso non mi rappresentano, mi fanno schifo e se vengono sono pronto a combatterli. Io sono cresciuto qui, questa è la mia terra e in Marocco ci vado solo per vacanza. Ma sono, siamo stufi di giustificarci». All’indomani degli attentati parigini, ricorda, su Facebook era la sagra dell’islamofobia: «Il commento più gentile che ho trovato era “muori musulmano”». In quei giorni le varie comunità islamiche di Brescia hanno organizzato una manifestazione per una condanna pubblica. Akram voleva organizzarne un’altra per rivendicare la distinzione cui hanno già accennato le sorelle Bouchnafa: «Noi non siamo Charlie Hebdo». Articola: «Perché se offendono gli ebrei scatta l’accusa di antisemitismo e se lo fanno con noi va bene?». Il tema del doppio binario tornerà spesso. Un’altra parola che ritorna nell’arringa di Akram è «rispetto», termine-spia di una frustrazione al livello di guardia. Dunque: «Prima di giudicarci studiate il vero Islam, che non ha niente a che fare con il terrorismo».

(continua qui)

Branco, fascinazione e nichilismo: l’Isis 2.0 spiegato da De Giovannangeli

Un pezzo di Umberto De Giovannangeli da leggere e discutere:

La “car Jihad” che semina morte nel cuore di Barcellona, è “solo” un frammento di una strategia invasiva. Targata Isis 2.0 Una sconfitta che può trasformarsi in un incubo. Un incubo che è già diventato realtà: Barcellona, Parigi, Bruxelles, Nizza, Strasburgo, Monaco, Berlino, Manchester, Londra, Colonia, Stoccolma… Solo in Germania nove attacchi in un anno. Duemila foreign fighters con passaporto britannico addestratisi in Iraq, in Siria, in Libia, sono, quelli rimasti in vita, rientrati in patria per scatenare la Jihad globale. E lo stesso vale per i “fighters” tedeschi, francesi, belgi, olandesi, italiani…

In rotta a Mosul, accerchiati a Raqqa, in difficoltà in Libia, i comandi militari del Daesh hanno deciso di puntare all’Europa come nuova trincea avanzata della lotta per il “Califfato”. Il “Califfato” globale. Il numero dei foreign fighters partiti dall’Europa per combattere in Siria e Iraq, secondo le ultime stime è tra i 3.922 e i 4.294 individui, tutti pronti a morire per la bandiera dell’Isis. La maggior parte, 2.838, sono partiti da soli quattro Paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Regno Unito. Quelli che sono tornati in patria, sono circa il 30%, indicativamente tra 1.176 e 1.288. Il censimento è dell’International Center for Counter-Terrorism (Icct) dell’Aja. Un recente studio dell’Istituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 (l’81,6%) erano collegati all’Isis e 26 (il 18,4%) ad al-Qaeda.

Se ritirata è, quella delle milizie di al-Baghdadi, è una ritirata strategica. Un passo indietro, per colpire mortalmente l’Occidente e, in esso, l’Europa. Raqqa, Mosul, Sirte, Fallujia non sono più difendibili: troppo possente è la potenza di fuoco messa in atto dalle coalizioni, quella a guida americana e quella russa, per poter reggere da parti dei terroristi di Daesh. Meglio ripiegare nello spazio desertico fra il Maghreb e l’Africa Occidentale, a cavallo di confini desertici inesistenti fra Mali, Niger, Mauritania, Algeria, Libia e Ciad, un’area ideale dove riorganizzare le cellule dopo le sconfitte subite in Medio Oriente e da lì, nel Sahel, provare a dar vita al “Califfato del Maghreb” e al tempo stesso riorganizzare le forze e coordinare gli attacchi all’Europa.

In Europa a scatenarsi non sono più solo i “lupi solitari”. Perché i “lupi jihadisti” agiscono sempre più in branco, come dimostrano gli attacchi a Barcellona, Cambrils e Alcanar, si strutturano in cellule compartimentalizzate, i cui membri sono legati in termini generazionali e parentali, acquisiscono elementi fondamentali per colpire attraverso la rete di siti on line legati all’integralismo islamico armato.

Oltre la suggestione della Jihad che si fa Stato. Di più: Califfato. Oltre la dimensione integrista-religiosa che si fa legge – la “sharia” – e regola ogni atto della vita quotidiana del miliziano. La “fascinazione” dell’Isis non è nelle sue indubbia capacità mediatiche, né in una invincibilità militare fortemente intaccata sia in Iraq (Mosul) che a Raqqa (Siria). E non sta neanche nella figura, tutt’altro che carismatica, di Abu Bakr al-Baghdadi. La forza dell’Isis, quella che attira a sé migliaia di giovani con passaporto europeo, è la sua narrazione. Come ben argomenta Olivier Roy nel suo libro “Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente” (Feltrinelli 2017) , il fascino dell’Isis risiede nella “volontà del movimento, presente fin dalle origini, di creare un nuovo tipo di ‘homo islamicus’, staccato da tutte le appartenenze nazionali, tribali, razziali o etniche, ma anche familiari e affettive, per creare una nuova società a partire da una sorta di tabula rasa..”.

La fascinazione è in questo, così come l’elemento di novità dell’Isis sta, riflette Roy, nell’associazione di jihadismo e terrorismo con la ricerca deliberata della morte. Non è dunque l’Islam che si radicalizza ma, guardando all’identikit dei terroristi entrati in azione in Europa, da Parigi a Bruxelles, da Nizza a Manchester, da Monaco a Berlino e Londra, e ora a Barcellona, ciò che colpisce è il fatto che, tranne pochi casi, i jihadisti non passano alla violenza dopo una riflessione sui testi. Per farlo, rimarca ancora lo studioso francese, “dovrebbero disporre di una cultura religiosa che non hanno e, soprattutto, non sembrano intenzionati ad acquisire. Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli…Non è l’Isis che è andato a cercare i giovani di Molenbeek o di Strasburgo, sono loro che sono andati all’Isis”. La radicalizzazione precede il reclutamento, ed essa avviene in genere al di fuori dell’ambiente sociale circostante. Non è il “Paradiso di Allah” ad esercitare su di loro una fascinazione che li porta ad ambire a chiudere la loro vita da “shahid” (martiri). Ad affascinarli è l’idea della “bella morte”. Qui, e viene in soccorso ancora Roy, “sta il paradosso: questi giovani radicali non sono utopisti, sono nichilisti in quanto millenaristi. Il domani non sarà mai all’altezza del crepuscolo. Si tratta della generazione no future“. Il loro avvicinamento alla Jihad globale non si fonda tanto sulla condivisione dei precetti più estremi dell’Islam radicale, quanto sulla convinzione che il riscatto dei diseredati, se un tempo passava attraverso il terzomondismo “modello Che” oggi s’incarna nella sollevazione contro l’Occidente colonizzatore operata dai seguaci di al-Baghdadi.

Sociologia più che religione. Volontà sovversiva globalizzata. La Jihad come tratto identitario unificante. Molti di loro non hanno alle spalle storie di disperazione sociale, di nuclei famigliari distrutti, la loro conversione all’Islam è un processo di identificazione con una causa per la quale vale la pena combattere e sacrificare la propria vita. Alcuni cercano di fuggire dall’emarginazione, hanno conosciuto il carcere per piccoli furti o spaccio, ma altri, la maggioranza, è alla ricerca di una realizzazione personale. Quella che prende forma è una identità transnazionale messa al servizio della comunità in pericolo. “Lungi dal ridursi ai capricci di una barbara idiosincrasia culturale – annota Pierre-Jean Luizard nel suo libro “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” – il discorso dello Stato islamico è portatore di una potente dimensione universalista che seduce oltre le frontiere della sua base sunnita mediorientale.

Quando si rilegge ‘Lo Scontro di civiltà‘ di Samuel Huntington, si viene colpiti dal gioco di specchi che si instaura con le concezioni del salafismo jihadista. Lo Stato islamico riprende a volte parola per parola la tesi di Huntington al fine di inscenare questo ‘scontro di civiltà’. Non si tratta di un conflitto tra due culture, tra Oriente e Occidente – prosegue Luizard , storico e direttore di ricerca al Cnrs – tra arabismo e mondo euro-atlantico, ma uno scontro tra titani, tra Islam e miscredenza. E, nell’Islam, ognuno è benvenuto, anche gli europei biondi con gli occhi azzurri di origine cattolica, come, d’altro canto, la miscredenza include anche arabi e cattivi musulmani… Questa universalità (dell’Isis, ndr) che trascende ogni limitato particolarismo e questo radicamento nella costruzione di una ‘utopia’ concreta sul campo incontra una eco importante tra giovani che vivono in Occidente…”. L’integrismo islamista cancella l’idea di Stato-nazione, la considera il frutto avvelenato del colonialismo crociato, ne attenta l’esistenza, in nome della “umma”, la comunità dei musulmani che non ha confini, di certo non quelli tratteggiati agli inizi del secolo scorso dalle potenze coloniali francese e britannica con gli accordi di Sykes-Picot, e non conosce singole identità nazionali.

L’Occidente sta favorendo non solo l’islamizzazione delle radicalità ma il radicamento di questa suggestione ben al di là dei miliziani della Jihad globale. La nuova leva di foreign fighters risulta più difficile da individuare perché l’avvicinamento alla Jihad globale non avviene attraverso la frequentazione delle moschee radicali nel Vecchio Continente, poste sotto controllo dai servizi di sicurezza occidentali. La frequentazione di ragazzi di origini arabe avviene nelle palestre, le prime manifestazioni a cui si partecipa hanno origine dalla rabbia sociale piuttosto che in solidarietà verso i “fratelli mujaheddin” iracheni, siriani, palestinesi. I “radicalizzati” usano il web per le lezioni coraniche e dal web traggono i contenuti motivatori di un nuovo terzomondismo che vede proprio nel jihadismo militante l’opportunità di combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente. E al web affidano la propria determinazione distruttiva: “Uccidere gli infedeli, e lasciare solo i musulmani che seguono la religione”, era il messaggio lasciato sui social due anni fa da Mousa Oukabir, il diciassettenne ricercato quale presunto conducente del furgone della strage di Barcellona.

Al di là del dato quantitativo, quello che colpisce è la potenza della Rete, dei social network, dei siti legati alla galassia dell’estremismo islamico, per mezzo dei quali sia l’Isis che al-Qaeda riescono a fare opera di proselitismo, a raggiungere, indottrinare e addestrare centinaia di migliaia di giovani”, rimarca una fonte d’intelligence da anni impegnata nel contrasto al jihadismo armato. “Emerge con sempre maggiore evidenza – aggiunge la fonte – l’importanza che sia lo Stato islamico che la nuova al-Qaeda danno alla “mediatizzazione” del loro agire. I filmati che postano sono sempre più sofisticati ed è chiaro che a confezionarli sono dei professionisti. Si tratta di un reclutamento mirato, ancora più importante dell’addestramento militare”.

Le parole chiave della nuova strategia jihadista 2.0 sono viralità e coinvolgimento: snodi centrali di una propaganda orientata sui social media. La decapitazione dei due reporter di guerra Foley e Sotloff, a suo tempo, non ha soltanto riempito le prime pagine dei principali quotidiani online, ma ha anche generato una escalation virale su piattaforme come Twitter e Youtube. Su quest’ultimo social sono stati pubblicati circa 175mila video riguardanti la decapitazione di James Foley: tra questi soltanto i tre più popolari hanno generato circa sette milioni di visualizzazioni. È quanto era emerso da una ricerca realizzata da “IlSocialPolitico.it”, magazine che indaga sulle attività 2.0 di politica, istituzioni, “influencer” e fenomeni sociali. “Per i gruppi jihadisti la guerra di propaganda è dunque altrettanto decisiva di quella in armi sul campo di battaglia. Il cyber-jihad permette di far conoscere la propria visione del mondo, di intimorire e minacciare il Nemico, di reclutare…”, rimarca Renzo Guolo nel suo libro “L’Ultima utopia. Gli jihadisti europei“.

È il nichilismo che si fa Jihad. Sono i “banlieusards” che arrivano al terrorismo attraverso un percorso fatto di segregazione spaziale, segregazione sociale, disperazione, rivolta, fuga. E, alla fine” immolazione. “I giovani jihadisti di banlieu – rileva in proposito Guolo – hanno percorsi simili. Vengono da famiglie numerose, spesso caratterizzate dalla dissoluzione dei legami genitoriali e da un tenore di vita sotto le soglie di povertà; hanno alle spalle un percorso segnato dall’insuccesso scolastico, dalla vita di strada, dalla deviazione e dal carcere. Questo grumo di insoddisfazione e rabbia culmina nell’intenzione di vendicarsi di una società percepita come ingiusta, alla quale vengono imputati i propri fallimenti”.

Emarginazione e non solo. Rileva Nabil El Fattah, già direttore del Centro di Studi strategici di Al- Ahram del Cairo, tra i più autorevoli studiosi arabi dell’Islam radicale armato: “Basta studiare le biografie di alcuni dei foreign fighters europei morti in Siria o in Iraq o anche di alcuni degli attentatori di Parigi o di Bruxelles: non siamo di fronte a dei disperati che devono vendicarsi della fame patita, ma abbiamo a che fare con individui che trovano nella suggestione politico-terroristica del Califfato un ancoraggio identitario, una ragione di vita e di morte. Per contrastare questa deriva, non è solo questione di intelligence, di sicurezza, di militarizzazione delle città, né bombardare a tappeto Raqqa o Mosul. Quella che va condotta è anche una battaglia culturale”, avverte lo studioso egiziano. E sulla stessa lunghezza d’onda si muove Loretta Napoleoni quando, a conclusione del suo libro: “Isis. Lo Stato del terrore“, annota: “Esiste una terza opzione tra il fallimento della Primavera araba e i successi dello Stato islamico? Sì, esiste, e riguarda l’istruzione, la conoscenza e la comprensione dell’ambiente politico in evoluzione in cui viviamo, gli stessi strumenti usati in passato per dar vita con successo al mutamento politico non in maniera cruenta ma con il consenso, cosa che tanto i giovani combattenti degli smartphone quanto i colletti bianchi della politica continuano a non capire”. E se questa incapacità-non volontà di comprendere permarrà, una cosa è certa: l’Isis sarà probabilmente sconfitta in Siria e Iraq ma il “nichilismo che si fa Jihad” troverà altre forme e altre sigle per manifestarsi. E colpire. Barcellona docet.

(fonte)

Non ci si scusa per il dolore che si prova

Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.

“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.

Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.

E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.

Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.

Buon giovedì.

(continua su Left)

«Vado a fare il terrorista»

Il 15 marzo dell’anno scorso all’aeroporto di Bologna alcuni poliziotti notano un giovanotto agitato in coda al check-in del volo per la Turchia. Un biglietto di sola andata e uno zainetto erano  un’accoppiata piuttosto insolita per passare inosservata e così, quando gli uomini delle forze dell’ordine, gli hanno chiesto il motivo del suo viaggio quel passeggero rispose candidamente “vado a fare il terrorista”.

La madre, convocata in Questura, raccontò di essere molto preoccupata per quel figlio che “non sembrava più lui”: “non lo riconosco più – disse -, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer, vede cose stranissime”. Aggiunse che il ragazzo ormai viveva stabilmente a Londra dopo avere trovato lavoro in un ristorante pachistano e che da quando aveva cominciato a frequentare quell’ambiente i suoi atteggiamenti erano diventati molto preoccupanti.

Da un primo sommario esame del suo telefonino gli investigatori scoprirono video che inneggiavano l’Isis e la sua propaganda. Non fu possibile eseguire una ricerca più approfondita sui suoi dispositivi elettronici poiché il Tribunale del Riesame ordinò la restituzione del materiale informatico al sospettato accogliendo un suo ricorso.

Quel giovane era Yousef Zaghba, il terzo attentatore del London Bridge. Questa storiella, che oggi conosciamo e di cui possiamo scrivere, era stata inviata a suo tempo alla polizia inglese. Com’è andata a finire è cronaca di queste ore.

Buon mercoledì.

 

(continua su Left)