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Eccola, Forza Italia Viva

L’agenzia viene battuta nel tardo pomeriggio e lascia pochi dubbi:

= FI: in Sicilia siglato accordo politico con Italia Viva = AGI0494 3 POL 0 R01 / = FI: in Sicilia siglato accordo politico con Italia Viva = (AGI) – – “Oggi sigliamo un accordo politico forte, stretto e serio tra Sicilia futura-IV e Forza Italia”.

L’alleanza tra il forzista Micciché e Matteo Renzi diventa ufficiale in previsione delle prossime elezioni comunali a Palermo e le elezioni regionali siciliane. In un mese i due hanno coronato il loro sogno: a settembre Matteo Renzi era in tour in Sicilia per promuovere il suo libro (ovvio) e c’è stato il primo incontro. Poi la cena con menu di ravioli mascarpone e bottarga, agnello dei monti lucani e biscotto di paprika dolce all’enoteca Pinchiorri. «Vogliamo far prevalere l’impostazione moderata e centrista, evitare gli eccessi sovranisti e populisti» ha detto il capogruppo regionale renziano Nicola D’Agostino. Si parte con un “intergruppo” di 15 parlamentari e poi liste uniche per amministrative e Regionali. Del resto bastava buttare l’occhio sul programma della “Leopoldina siciliana” (giuro, si chiama così) ovvero la scuola politica organizzata dal senatore renziano e siciliano Davide Faraone con Mara Carfagna e Giancarlo Giorgetti per farsi un’idea.

Da Italia Viva fanno sapere che si parla «solo di un’intesa locale», peccato che siano gli stessi che pochi mesi fa dicevano “noi con Forza Italia mai e poi mai” e poi si buttavano in grasse risate. E siamo arrivati fin qui.

Per carità, che Matteo Renzi (insieme a Calenda) sogni di formare in Italia un polo liberale che penda verso il centrodestra è un’idea legittima e forse nemmeno poi così male. Ci sono alcuni passaggi da segnalare: parliamo di quello stesso politico (lui e i suoi sfegatati fan) che ancora fino a ieri insisteva di essere “più a sinistra” della sinistra. Parliamo di quello che per un enorme fraintendimento e lassismo generale ha guidato il principale partito di centrosinistra italiano. Stiamo parlando di un’orda spesso fanatica che fino a ieri pomeriggio definiva “invenzioni” gli abboccamenti tra Renzi e il partito di Berlusconi. Insomma ci sono anni di simulazione antisportiva che ogni volta che veniva segnalata accendeva un putiferio. Ecco ora si sa che il putiferio era cretino.

In fondo che sia finalmente sbocciata Forza Italia Viva è un bene per chiarire le posizioni in campo. È andata come è andata. Anzi, è andata come si sapeva che sarebbe andata. Lo sapevano tutti, tranne i fan di Italia Viva.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’ex senatore di Forza Italia Pittelli è stato nuovamente arrestato per mafia, ma la politica fa finta di non vedere

Il postino a casa Pittelli suona sempre due volte, solo che all’avvocato di Catanzaro, ex senatore di Forza Italia, il postino porta ordini di arresto. Già arrestato nel maxi processo Rinascita-Scott, accusato di essere il ponte tra la ‘ndrangheta, la massoneria e la politica (i magistrati lo definiscono senza troppi giri di parole laffarista massone dei boss della ndrangheta calabrese che grazie a lui è riuscita a relazionarsi con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università e con le istituzioni tutte”) l’ex Forza Italia (poi passato alla corte di Giorgia Meloni prima di finire nei guai) è ora uno dei 29 destinatari di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Vincenza Bellini su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dellaggiunto Gaetano Paci e dei sostituti della Dda Gianluca Gelso, Paola DAmbrosio e Giorgio Panucci.

Anche in questo caso laccusa è di concorso esterno in associazione mafiosa. Pittelli si trovava agli arresti domiciliari ed è stato ricondotto in carcere. In questo caso, i pm che hanno indagato indicano Pittelli come uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento avendo instaurato con la ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico, caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità”.

Secondo l’accusa Pittelli avrebbe garantito la sua generale disponibilità nei confronti del sodalizio a risolvere i più svariati problemi degli associati, sfruttando le enormi potenzialità derivanti dai rapporti del medesimo con importanti esponenti delle istituzioni e della pubblica amministrazione”. Secondo gli investigatori, infatti, lex senatore Pittelli aveva illimitate possibilità di accesso a notizie riservate e a trattamenti di favore”. Per questo veicolava informazioni allinterno e allesterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti in regime carcerario ai sensi dellarticolo 41 bis”. I boss che avrebbero usufruito del rapporto con Pittelli sono Giuseppe Piromalli detto Facciazza” e il figlio Antonio Piromalli reggente della cosca.

Ma come accaduto anche tra le carte del processo Rinascita-Scott, ciò che colpisce è che Pittelli avrebbe addirittura avuto un ruolo «da postino” per conto dei capi della cosca Piromalli, nella perizia balistica relativa allomicidio del giudice Antonino Scopelliti», il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione ucciso il 9 agosto del 1991 in un agguato a Campo Calabro, nel reggino, mentre rientrava a casa a bordo della sua autovettura. In particolare, lex parlamentare, secondo laccusa, avrebbe sottoposto allattenzione di un indagato, ritenuto «soggetto di estrema fiducia» della famiglia mafiosa Piromalli di Gioia Tauro, «una missiva proveniente da Antonio Piromalli finalizzata a far risultare un pagamento tracciato e quietanzato per il consulente tecnico che avrebbe dovuto redigere la consulenza per conto di Giuseppe Piromalli detto Facciazza” indagato quale mandante, in concorso con altri capi di cosche di ndrangheta e di Cosa nostra siciliana, dellomicidio del giudice Scopelliti facendosi portavoce delle esigenze della cosca». In sostanza, per la Dda reggina, avrebbe pianificato «un sistema al fine di eludere la tracciabilità del denaro necessario alle strategie difensive, proveniente da profitti criminali».

Al centro delle nuove indagini ci sarebbe Rocco Delfino, per anni socio e procuratore speciale della Ecoservizi Srl”, una ditta di trattamento di rifiuti speciali di natura metallica con affari su tutto il territorio nazionale e internazionale. Rocco Delfino per anni è stato ritenuto uomo vicino alla cosca dei Molé mentre oggi appare collegato alla cosca Piromalli (“tutore” della cosca, secondo i magistrati) e avrebbe promosso unassociazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende, come la Mc Metalli srl” e la Cm Servicemetalli srl”, fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili alla diretta influenza e al dominio della sua famiglia.

Un’organizzazione di prestanome per riuscire ad operare sul mercato senza incappare in interdittive antimafia. Il tutto avveniva con il concorso attivo di uomini dell’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. TSono stati arrestati gli ex amministratori giudiziari Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi che erano stati nominati dal Tribunale di Reggio e dallAgenzia nazionale per gestire la Delfino srl”.

Nell’ordinanza si legge che Giancarlo Pittelli si adoperava anche per tentare di intermediarecon magistrati che dovevano trattare procedimenti di prevenzione nei confronti delle società del Delfino, quale il consigliere Marco Petrini (arrestato per corruzione dalla Procura Dda di Catanzaro), nonché procedimenti amministrativi al Consiglio di Stato, dinanzi al consigliere dottor Frattini, nella inconsapevolezza di questultimo”.

E chissà intanto che ne pensa la sonnacchiosa città di Catanzaro, lì dove Pittelli in questi ultimi mesi è stato addirittura dipinto come un perseguitato dalla borghesia che fremeva per poter partecipare a una delle sue rinomate cene. E chissà se prima o poi la politica (Forza Italia e Fratelli d’Italia sono i partiti che hanno tenuto Pittelli sul palmo di mano) vorrà dirci come possa accadere che un avvocato che si prostituisce alle cosche possa essere scambiato per un valido dirigente politico. Anche perché, non so se l’avete notato, di mafia se ne parla poco, pochissimo, quasi niente.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Così vengono torturati i migranti che non arrivano in Italia

Perché i drammi non possano disturbare la serenità dei potenti basta che accadano là dove non ci sono occhi e non ci sono orecchie, e che non accadano davanti a una telecamera oppure su una spiaggia e forse sarà per questo che la Tunisia ha gioco facile nel gettare uomini, donne e bambini in quel sacchetto dell’umido internazionale che è la Libia. Sarà per questo che viene perfino difficile provare a raccontare sulle colonne di un giornale un dolore e una vergogna internazionali che dovrebbero sanguinare da tutti i notiziari e che invece rimangono impigliati nelle pieghe delle notizie di poco conto.

Lunedì 27 settembre quattro imbarcazioni con persone di origine subsahariana e tre con persone tunisine sono partite dall’arcipelago di Kerkennah, in Tunisia. È la solita storia di disperati su barche disperate che si illudono di attraversare il mare per trovare un po’ di ristoro. Una di quelle storie che da noi, anche se cambiano i governi, vengono citate solo in occasioni di qualche stantia commemorazione che si trasforma in una liturgia frigida. Accade in questi giorni: le imbarcazioni vengono intercettate dalle unità marittime della Guardia Nazionale tunisina, che le hanno riportate sulla costa tunisina. Qui i racconti si fanno carne. I profughi falliti di origine tunisina vengono rilasciati immediatamente (prima i tunisini, si dice da quelle parti, probabilmente) mentre le persone di origine subsahariana sono state trascinate al confine libico. Secondo le testimonianze (raccolte da alcuni legali per i diritti umani che ancora ostinatamente credono al Diritto) si tratta di «un centinaio di persone, tra cui diverse donne e minori. Almeno tre delle donne erano incinte».

Poiché l’importante è evitare gli occhi i profughi sono stati portati in una lingua di terra a cavallo tra il confine più a nord della Tunisia e la Libia. Le immagini che arrivano sono uno strazio che gocciola vergogna: ci sono alcune persone che sono rinchiuse in un edificio privato, delle donne in avanzato stato di gravidanza e una donna semi incosciente che partorisce in mezzo al deserto, aiutata come si può da un compagno di sventura. Quella donna che partorisce tra la sabbia senza nemmeno una grotta è il presepe infernale di un’Europa che sarà condannata dalla Storia. In una nota congiunta di diverse associazioni, tra cui il Forum tunisino per i diritti umani, Medecins du monde, Avvocati senza frontiere e l’italiana Asgi, spiegano che «all’arrivo al confine con la Libia, gli ufficiali della guardia nazionale tunisina avrebbero costretto i migranti sotto la minaccia delle armi ad attraversare il confine con la Libia». «Una volta attraversato il confine, – scrivono in una nota congiunta le associazioni per i diritti umani – un primo gruppo di migranti è stato rapito in territorio libico. Secondo le nostre fonti, sono attualmente detenuti non lontano dalla frontiera, a Zouara, in una casa privata. Si dice che i rapitori abbiano chiesto circa 500 dollari a testa per il loro rilascio. Un altro gruppo di migranti, inizialmente bloccato a Ras Jedir, sarebbe stato arrestato di recente dai libici. I loro telefoni, che sono irraggiungibili, sarebbero stati confiscati. Si dice che ci siano due donne incinte in questo gruppo, compresa una donna di otto mesi».

Per quanto riguarda il parto dell’orrore sembra che le forze armate abbiano assistito al parto per poi trasportare madre e neonato all’ospedale Ben Guerdane. Sembra che anche a fine agosto sia avvenuta un’altra espulsione sommaria dalla Tunisia alla Libia che anche in quel caso ha coinvolto donne e minori. Tocca ricordare che il comportamento delle autorità tunisine viola le disposizioni della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, ratificata dalla Tunisia nel 1957. Inoltre, le espulsioni verso la Libia, che non può in alcun modo essere considerata un paese sicuro in cui far tornare i migranti, non sono conformi al diritto internazionale e al principio di non respingimento. L’assenza di identificazione e di assistenza iniziale, oltre alla negazione del diritto di chiedere protezione internazionale, sono una chiara violazione dei diritti umani fondamentali e del diritto di asilo. Ma evidentemente la Libia e i suoi confini sono ormai una terra di nessuno che non merita nemmeno un finto moto di contenimento. Le organizzazioni firmatarie dell’appello «denunciano le violazioni dei diritti umani di cui sono vittime i migranti subsahariani e chiedono alle autorità tunisine di chiarire questi fatti, di intervenire urgentemente per garantire un’assistenza adeguata e dignitosa a queste persone, e di prendere con urgenza decisioni politiche al fine di stabilire un meccanismo e un circuito chiari per la presa in carico dei cittadini stranieri soccorsi in mare, per garantire un trattamento delle persone sbarcate che che rispetti gli impegni della Tunisia in questa materia».

Chissà che anche l’Italia, mentre commenta le elezioni che come al solito hanno vinto tutti, trovi un minuto per dirci qualcosa, anche alla luce del fatto che dalle ultime notizie la madre di un bambino di due anni sarebbe morta nelle ultime ore e due uomini risulterebbero dispersi. E intanto in Libia? In Libia ormai siamo ai rastrellamenti della memoria più nera: nelle ultime ore sono stati incarcerati almeno 4.000 migranti (anche se fonti non ufficiali parlano di 8.000) in una retata organizzata nella città occidentale di Gargadesh, ovviamente rivenduta come una campagna di “sicurezza” contro la droga (la violenza delle parole e delle bugie è la stessa in tutto il mondo). I detenuti sono stati raccolti in una struttura a Tripoli chiamata Centro di raccolta e restituzione, ha affermato il colonnello della polizia Nouri al-Grettli, capo del centro. Anche in questo caso i video che si è riusciti a raccogliere sono terrificanti: uomini come topi ammassati. Qualcuno di loro sanguina vistosamente, qualcuno giace inerme e devastato mentre viene massaggiato da alcuni compagni.

Tarik Lamloum, un attivista libico che lavora con l’Organizzazione Belaady per i diritti umani, ha affermato che i raid hanno comportato violazioni dei diritti umani contro i migranti, in particolare nel modo in cui alcune donne e bambini sono stati detenuti. Lamloum ha affermato che molti migranti detenuti sono stati registrati presso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati Unhcr, come rifugiati o richiedenti asilo. Le immagini mostrano migranti legati con le mani dietro la schiena, arresti arbitrari per le strade e un video riprende un uomo catapultato da un’auto in corsa mentre cerca di scappare. Se l’inferno esiste in questi giorni l’inferno è lì.

Nel Paese circolano manifesti che avvisano di prossimi rastrellamenti. I trafficanti libici hanno talmente fame di corpi da usare come carne di ricatto e di pressione politica che ora se la vanno a cercare per le strade del Paese. Chissà se il ministro agli Esteri e il ministro alla Difesa (così sornioni dopo avere recitato benissimo per l’emergenza umanitaria in Afghanistan che sembra miracolosamente già passata) avranno il tempo di dire una parola, di proporre qualcosa. Chissà se non se vergogneranno prima o poi di essere complici con la loro colpevole indifferenza di un girone dantesco finanziato con i nostri soldi. Chissà.

L’articolo Così vengono torturati i migranti che non arrivano in Italia proviene da Il Riformista.

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In Italia i migranti conviene ucciderli, mica accoglierli

Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado di giudizio a 13 anni e due mesi. Le sentenze non si commentano ma si possono confrontare. Luca Traini, che a Macerata nel 2018 sparò per strada contro alcuni immigrati e ne ferì sei, è stato condannato in via definitiva a 12 anni

Il 3 febbraio 2018, verso le ore 11, a Macerata, furono esplosi alcuni colpi di pistola nel centro cittadino da una vettura in movimento, una Alfa Romeo 147 nera, ferendo diverse persone e colpendo anche negozi ed edifici. I colpi furono esplosi con una Glock 17, pistola semiautomatica calibro 9, davanti alla stazione, in via Velini e in via Spalato, ma anche a Piediripa di Macerata, Casette Verdini, via Pancalducci e Borgo San Giuliano.Tra gli altri, fu colpita anche la sede locale del Partito democratico. Nell’attacco, rimasero ferite sei persone, tutti immigrati di origine sub-sahariana con età compresa tra i 20 ed i 32 anni. Il sindaco di Macerata, Romano Carancini, diramò l’allerta, invitando i cittadini a restare in casa, avvertendo della presenza di una persona che stava sparando in città e informando di aver già fermato il trasporto pubblico e di aver chiesto alle scuole di tenere i bambini all’interno. Per l’attacco venne arrestato Luca Traini, un uomo di 28 anni, il quale, secondo la ricostruzione, sarebbe partito da Tolentino e, dopo aver sparato, sarebbe sceso dall’auto davanti al Monumento ai Caduti cittadino, dove avrebbe fatto il saluto romano e gridato “Viva l’Italia” con un tricolore legato al collo, prima di arrendersi alle forze dell’ordine. Nella sua casa furono rinvenuti elementi riconducibili all’estrema destra, tra cui una copia del Mein Kampf e una bandiera con la croce celtica. Il 24 marzo 2021 è stata confermata dalla Cassazione la condanna a 12 anni di reclusione. Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado di giudizio a 13 anni e due mesi: in Italia i migranti conviene ucciderli, mica accoglierli.

Se invece vogliamo parlare di danno erariale allo Stato allora c’è un’altra storia interessante. Il 16 aprile 2012 il Corriere della Sera lancia la notizia secondo cui uno dei fiduciari svizzeri di Pierangelo Daccò, amico di Formigoni e uomo vicino a Comunione e Liberazione riceveva denaro per facilitare le pratiche in Regione. Arrestato per aver creato milioni di fondi neri nello scandalo dell’Ospedale San Raffaele e aver distratto dal patrimonio della Fondazione Maugeri circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e appalti fittizi, avrebbe pagato viaggi aerei compiuti dallo stesso governatore, da un suo collaboratore, e dal fratello di Formigoni e sua moglie. Tra questi benefici, un viaggio Milano-Parigi da ottomila euro, compiuto il 27 dicembre 2008, pagato da Daccò a Formigoni. Il governatore, però, ha smentito categoricamente i fatti, affermando di non aver ricevuto mai alcun beneficio. Il 19 settembre 2018 Formigoni è condannato in appello a 7 anni e 6 mesi di reclusione. Il 21 febbraio 2019 la condanna è stata ridotta a causa della prescrizione a 5 anni e 10 mesi dalla Corte di Cassazione.

Da una ricerca Eures sugli ultimi 10 anni in Italia si scopre che per l’omicidio volontario la durata media della pena inflitta è di 12,4 anni (il Codice prevede da un minimo di 21 anni all’ergastolo), per l’omicidio preterintenzionale è di 8,8 anni (il Codice prevede da 10 a 28 anni), per l’omicidio colposo 0,5 anni (da 6 mesi a 5 anni per il Codice); 2 anni per la rapina (da 3 a 10 anni) e l’estorsione (da 5 a 10 anni); 0,4 anni per il furto (massimo previsto 3 anni) e per la truffa (da 6 a 12 mesi per il Codice); per la bancarotta 1,3 anni (da 6-24 mesi a 3-10 anni per la “semplice” e la “fraudolenta” per il Codice); 1,1 per la detenzione di armi (da 1 a 4 mesi da 1 a 3 anni) e 1,3 anni per il peculato (da 3 a 10 anni la pena edittale prevista).

Le sentenze non si commentano ma si possono confrontare. Un giudice che commina una condanna quasi doppia rispetto alla richiesta dei magistrati deve avere motivazioni interessanti che aspettiamo. Siamo al primo grado di giudizio ma che l’opera di Mimmo Lucano fosse fastidiosa ce ne siamo accorti (e ne abbiamo scritto) da tempo. E attenzione: contro Lucano si era scagliato il Movimento 5 Stelle (un post di Carlo Sibilia si intitolava “Riace non era un modello: è finita l’era del business dell’immigrazione”, solo per fare un esempio). Le ispezioni contro Lucano furono un’idea di un ministro del Pd (sì, lui, Minniti) all’Interno. Quello di Mimmo Lucano è un processo che testimonia un tempo di cui sono colpevoli anche molti che oggi solidarizzano. Insomma, è una storia che fa schifo dappertutto.

Aspettiamo le motivazioni, piuttosto demotivati.

Buon venerdì.

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Zaki a processo nel silenzio dell’Italia: dopo 2 anni in cella il nostro Paese se ne lava le mani

Sarà per questa fastidiosa sensazione di essere rassicurati con quel vuoto fare paternalistico che si usa con chi è considerato troppo molesto ma dietro la prima udienza avvenuta ieri a Mansura in Egitto che ha confermato la custodia cautelare del trentunenne studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki rimbomba con insistenza una certa domanda: ma esattamente cosa ha fatto l’Italia per Patrick Zaki?

Partiamo dall’inizio: l’ergastolo cautelare di Patrick Zaki è iniziato nel febbraio del 2020 all’aeroporto del Cairo, quando lo studente decise di tornare in Egitto per prendersi una pausa dagli studi qui in Italia. Per mesi non si è saputo nulla nemmeno sui suoi capi d’imputazione. Il fatto che fosse rinchiuso nel carcere di Tora, lì dove il governo di Al-sisi rinchiude tutti i suoi più importanti oppositori politici, lasciava ovviamente intendere che l’accusa fosse di natura politica. Oggi sappiamo che è accusato per un articolo scritto nel 2019 sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto (che gli vale un’accusa per “diffusione, in patria e all’estero, di notizie false contro lo Stato egiziano”).

Tutto questo dopo 19 mesi di carcere (oltre il periodo massimo consentito dalla legge egiziana per reati di questo tipo), dopo accuse sempre piuttosto vaghe per alcuni post su Facebook di certi profili che si sono rivelati persino falsi e dopo un interrogatorio avvenuto quattro giorni fa per alcuni suoi scritti risalenti addirittura al 2013. È caduta, per ora, l’accusa di terrorismo per cui Zaki avrebbe rischiato una condanna fino a 25 anni di carcere. Allo stato attuale la pena massima potrebbe essere di 5 anni di reclusione ma certo non tranquillizza che lo studente sia processato davanti a un “tribunale d’emergenza per la sicurezza dello stato”, la cui procedura non prevede diritto d’appello.

In Italia, in mezzo a molti comunicati più o meno convinti (e più o meno convincenti) di solidarietà al ragazzo si registrano due mozioni nelle due camere approvate a maggioranza che chiedevano al governo di “avviare tempestivamente mediante le competenti istituzioni le necessarie verifiche” per l’eventuale concessione della cittadinanza italiana. Peccato che le mozioni non fossero vincolanti, che la risposta del sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, nello scorso luglio fosse piuttosto blanda («Dobbiamo dirci le cose in modo molto chiaro: alle valutazioni tecniche, ci sono anche valutazioni più ampie che devono tenere conto delle circostanze di contesto», – disse Di Stefano – la cittadinanza «può avere effetti negativi») e che il governo ha deciso sostanzialmente di ignorarle senza nemmeno concederci il lusso di ottenere una spiegazione chiara. Nell’elenco dei buoni propositi si registra anche l’ultima puntata di buoni propositi con il ministro Di Maio che durante un evento elettorale a Bologna (la città adottiva di Zaki) 5 giorni fa ci rassicurava dicendoci che il governo «continua a lavorare ogni giorno» con l’obiettivo di «portare in libertà Patrick Zaki e restituirgli tutti i suoi diritti». Anche in questo caso non ci è dato l’onore di sapere esattamente il “come”.

Di certo l’Italia con l’Egitto di Al-sisi continua a mantenere proficui rapporti economici e militari e di certo c’è che dal Cairo continua a rimbombare anche la morte senza verità e senza giustizia di un altro studente su cui si spendono quintali di parole da parte della politica: Giulio Regeni. Alla luce di tutto questo le rassicurazioni mielose infastidiscono e poco altro e si torna alla domanda iniziale. Esattamente cosa sta facendo l’Italia?

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In Italia aumentano le bollette, in Spagna si tolgono gli sgravi alle compagnie energetiche: caro Cingolani, nota la differenza

Se non fosse ammantato da quest’aurea di “migliore” che protegge tutto il governo il ministro Cingolani oggi sarebbe sventolato con strilli sulle prime pagine di tutti i giornali che fanno della competenza un feticcio per colpire i propri avversari politici. La recitata sorpresa con cui il ministro della Transizione ecologica (resta da capire in quale direzione si stia transitando) è riuscito a presentarsi a un convegno della Cgil a Genova e annunciare, con la sorpresa di chi stava passando di là per caso, che “lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20 per cento, il prossimo trimestre aumenta del 40 per cento“, dicendolo con la leggerezza di un amministratore di condominio che appiccia un avviso sulla porta dell’ascensore.

A proposito di competenza: l’aumento dei prezzi internazionali delle materie prime energetiche come gas naturale e petrolio (dovuto alla forte ripresa economica post-pandemia e alle quotazione della CO2) inciderà sul “costo della materia prima energia” che è solo una delle componenti (una serie di voci che vanno dagli oneri di sistema tra cui gli incentivi per le rinnovabili ai costi di trasporto, alle spese di smantellamento del nucleare fino alle varie accise) che compongono il totale delle bollette: quindi le bollette alla fine aumenteranno di circa la metà di quel 40 per cento paventato dal ministro. Così, tanto per chiarire.

E a ben vedere è l’Autorità per l’energia (Arera) che comunica ogni trimestre gli aumenti in arrivo per le famiglie in regime di tutela, quelle cioè che non si sono ancora rivolte al mercato libero: lo farà il primo ottobre e forse è per questo che il ministro ha poi aggiustato il tiro chiarendo che “le variazioni delle bollette sono stabilite ogni trimestre dall’autorità per l’energia sulla base del costo delle materie prime come il gas e dal costo della CO2”.  Ma torniamo al punto: dice Cingolani (è una sua simpatica abitudine ultimamente) che “la transizione ecologica deve andare di pari passo con quella sociale, altrimenti le imprese perdono competitività e i cittadini con reddito medio bassi faticano ulteriormente per pagare dei beni primari come l’energia”.

La frase, c’è da riconoscerlo, lascia piuttosto perplessi: che la transizione ecologica costi è una fatto riconosciuto da tutti (per questo si è pensato a un ministero e per questo l’Europa sta dando all’Italia una parte consistente dei soldi in arrivo) ma che il Ministro sia concentratissimo a sottolineare lo sforzo senza spiegarci quali siano le soluzioni che intende mettere in campo (è il suo ruolo, se non gli crea troppo disturbo) fa il paio con la sua sconclusionata uscita sul nucleare di qualche giorno fa quando ritenne opportuno riaprire il dibattito sul nucleare (con una tecnologia che sarebbe utilizzabile forse nel 2060) senza dirci cos ha intenzione di fare dopodomani.

Che poi in tutte le sue dichiarazioni ci sia come sottotetto a un certo attacco all’ambientalismo lascia ancora più perplessi. In Spagna, ad esempio, la politica ha deciso di fare la politica e ha deciso (per tempo) di predisporre un piano d’urto per abbassare la bolletta. Il premier Sanchez ha dichiarato che ci sono compagnie energetiche che in questo momento stanno facendo “profitti straordinari”, definendo la situazione “inaccettabile”.

Sanchez ha assicurato che “ridurrà questi profitti straordinari” alle compagnie “che possono permetterselo” per ridurre i costi della bolletta per i consumatori e ha illustrato il suo piano per limitare l’impatto dei prezzi nel mercato in quattro punti: riforme strutturali per promuovere un’energia più pulita e meno costosa, misure per proteggere i consumatori più vulnerabili, una riduzione di alcune tasse e la riduzione dei profitti straordinari che alcune compagnie energetiche hanno per trasferirli nella bolletta elettrica. La notate la differenza?

L’articolo proviene da TPI.it qui

Gino Strada: «L’Italia ripudia la guerra ma siamo in guerra da oltre vent’anni»

Una larga fetta del Paese rifiuta l’odio xenofobo diceva Gino Strada in questa intervista per poi aggiungere: «Ma c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Spero che nasca»

Cosa rispondere a chi ancora continua con la retorica dell’invasione?
Risponderei di informarsi. Qui non c’è nessuna invasione, sembra che il problema dell’Italia non siano i trecento miliardi e passa lucrati dalle mafie, i centocinquanta miliardi di evasione fiscale, altri centinaia di miliardi di corruzione ma sembra che il problema siano quaranta migranti fuori dal porto di Lampedusa. Su questo si è costruita una narrazione fasulla. In Italia in questo momento sono più i giovani che se ne vanno di quelli che arrivano. Certo, gli stranieri vengono qui per ragioni diverse rispetto a chi emigra poiché l’Italia è un Paese mediamente ricco. Ma dov’è questa invasione? Calcoliamola in termini demografici: è una follia, non esiste, è una cosa costruita ad arte perché bisogna alimentare l’odio verso il diverso. Diverso che può essere declinato in vari modi: può essere il rom, il sinti, l’ebreo o il nero. Ma è un odio che si riversa sempre su chi sta al di sotto nella scala sociale. Come se la responsabilità dei problemi, anche drammatici, che vivono gli italiani, come la crisi economica e la difficoltà di arrivare a fine mese, fossero colpa degli ultimi e non colpa di chi invece sta più in alto nella scala sociale. E questa è una pazzia tipica della mentalità fascista.
Però molte persone dicono: «Non ho rappresentanza politica, non ho molti mezzi, sono un cittadino normale, cosa posso fare?». Come gli risponderesti?
Io sono tra quelli che non hanno rappresentanza politica. “Nel mio piccolo” è sempre la domanda più grande su cosa possa fare una persona. Io credo che di cose da fare ce ne siano tantissime. Cominciando dall’informarsi e dal capire l’entità reale dei problemi e delle questioni. Fino al continuare ad esercitare delle pratiche alternative, delle pratiche di resistenza e ce ne sono tantissime. Non c’è soltanto Riace, c’è una solidarietà diffusa molto importante. Poi il cittadino normale non ha spesso altri modi per dire le sue opinioni se non votando. Fino a quando non ci saranno più le elezioni, che, attenzione, non significano per forza democrazia: a volte è un esercizio tecnico e poi quando si va sui tecnicismi elettorali si vede che in realtà di possibilità di scelta il cittadino non ne ha. Però si potrebbe iniziare prendendosi l’impegno di non votare per nessuno che non ripudi sul serio la guerra. Io non voterei mai un partito che non mi garantisce che non farà mai la guerra in nessun caso, tranne ovviamente il caso di subire un’invasione militare ma non mi sembra il nostro. Io credo che il primo compito della politica sia quello di rispettare la Costituzione e i suoi principi fondamentali tra cui il ripudio della guerra e invece abbiamo una classe politica che delinque tranquillamente contro la Costituzione, senza nessun problema, e nessuno glielo fa notare.
L’Italia ripudia la guerra…
Sì, ma siamo in guerra da oltre vent’anni. O ce lo siamo dimenticati? Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan. Certo si possono fare le solite operazioni di trasformismo: se un mio avversario compie un gesto di violenza è terrorismo mentre se lo compio io è un atto umanitario. Dobbiamo fare sparire queste nebbie, chiamare le cose con il loro nome: la guerra è guerra. L’Afghanistan è l’esempio più lampante: siamo andati lì con una decisione presa un mese dopo l’inizio dell’attacco americano e siamo ancora lì, abbiamo avuto tanti morti, abbiamo speso miliardi. C’è qualcuno che mi sa dire una ragione per cui noi siamo in Afghanistan al di là del servilismo verso gli Usa? Puro servilismo. Diciamo che siamo una colonia. Abbiamo 70 testate nucleari americane sul nostro territorio, la nostra politica estera non esiste, si prendono solo ordini. Perché oggi siamo nella Nato? Perché siamo in un’alleanza militare? Queste domande ormai non si possono nemmeno più fare, si dà per scontato che siamo una dependance degli Usa. I nostri politici fanno ridere, non hanno nemmeno quella dignità e quell’orgoglio nazionale che tra l’altro tanto vantano.
L’argomento del momento è la vicenda della Sea-Watch e la decisione presa della sua comandante…
Al di là dei dettagli tecnici mi pare che qui sia in gioco un principio: si tende a criminalizzare chi aiuta. Questa cosa è intollerabile, inaudita, perfino inaspettata nella sua rozzezza, nella sua stupidità. E questo purtroppo è un processo che va avanti da qualche anno, dal governo precedente: la guerra alle Organizzazioni non governative è iniziata con il governo a guida Pd e Minniti ministro dell’Interno.
Improvvisamente sembra che una parte degli italiani sia diventata legalitaria, tutti rispettosi delle leggi e tutti pronti a crocifiggere Carola Rackete, che ne pensi?
Vedo che siamo in un periodo in cui tutti urlano, tutti gridano, c’è gente che parla di cose che non conosce, sembra che l’incompetenza sia diventata la regola. Però io non ci credo che a questo schiamazzo di una politica ormai vergognosa corrisponda un vero sentire degli italiani. Credo che molta gente, probabilmente la maggioranza, stia mal sopportando questo clima. Per questo credo che la situazione sia ancora reversibile almeno nel nostro Paese. È vero che c’è una macchina propagandistica pazzesca e che c’è un’assenza delle più alte cariche dello Stato. Che non ci sia nessun commento sul fatto che ormai la politica si faccia con i tweet e il dibattito si faccia con gli insulti, se non con i pestaggi, è preoccupante. Un membro del Parlamento che si permette di dire «affondiamo la nave»… sono cose che erano impensabili alcuni anni fa. Però io non credo che tutto questo sia il sentire degli italiani.
Quindi sei ottimista?
Io vedo un Paese dove c’è molta solidarietà. Un Paese dove ci sono migliaia di organizzazioni, di associazioni, piccole o grandi o medie che siano, che si danno da fare comunque per migliorare la vita delle persone. Questa cosa è incompatibile con la politica attuale. Se pensassi che veramente gli italiani la pensano come Salvini dovrei concludere da medico che ci sia stato un cambiamento genetico e antropologico degli italiani. Tutta questa società civile, una volta si chiamava così, credo che vorrebbe un mondo diverso, più equilibrato, più giusto, più sereno, meno carico di odio. Credo che questa sia una brezza che c’è già e che spero diventi vento forte.
Un fischio?
Sì. Non c’è bisogno che urli una bufera però, insomma…
Però è vero che sembra che questa parte d’Italia non trovi da una parte una rappresentanza politica e dall’altra una narrazione sui media aderente alla realtà…
Questo è sicuro. Basti pensare che qualche giorno fa l’ex ministro della Difesa (Pinotti, Pd, ndr) ha emesso un comunicato di solidarietà alla Guardia di finanza e questa dovrebbe essere l’opposizione. Poi si chiedono perché perdono i voti. Ma questi sono loro. Non c’è dubbio che ci sia bisogno di un nuovo soggetto politico, non ho il minimo dubbio su questo. Credo che il Pd sia morto, sepolto e purtroppo non prenderanno mai la decisione di sciogliersi che sarebbe un grande passo avanti per l’Italia. C’è bisogno di un nuovo soggetto politico che ridefinisca le regole del vivere associato. Spero che nasca.

L’intervista di Giulio Cavalli a Gino Strada è stata pubblicata su Left del 5 luglio 2019

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Le altre interviste a Gino Strada pubblicate negli anni su Left sono qui–> https://left.it/tag/gino-strada/

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La Nazionale perde e la colpa è dell’atleta nera: l’inguaribile razzismo dell’Italia peggiore

Eccoci qui, come sempre, con la solita fallocrazia condita con un po’ di razzismo e un pizzico di omofobia: la nazionale di pallavolo viene eliminata dalla Serbia alle Olimpiadi e l’occasione diventa ghiottissima per sparare a palle incatenate contro Paola Egonu, colpevole di essere donna, nera, reo confessa di avere amato una donna e per di più di essere stata scelta come portabandiera olimpica urtando la suscettibilità di chi ha il modello macho e ariano come unico orizzonte.

Si parte dal solito delirante Adinolfi che twitta compulsivo: “Sempre più convinto che la decisione di fare di Paola Egonu la vessillifera olimpica per ragioni extrasportive abbia nuociuto alle qualità sportive della 22enne. Certi onori si concedono poi, Vanessa Ferrari avrebbe meritato il riconoscimento e Egonu si sarebbe sentita meno star”.

Un capolavoro: un fallimentare politico, pessimo moralista, direttore di un giornale che non legge nessuno giudica una pallavolista pluripremiata considerata tra le giocatrici più forti del mondo. Troppo forte la tentazione di schiacciare una donna nera dopo una sconfitta, troppo incontenibile l’invidia che gocciola da ogni parola. Troppo ghiotta l’occasione di rimettere “a posto” queste donne che si permettono di essere vincenti: le nuove streghe, per i tanti Adinolfi in giro, sono le donne troppo felici e troppo vincenti.

Accanto a Adinolfi ovviamente si srotola anche tutta la truppa di chi proprio non riesce a convincersi che essere neri e italiani sia un’offesa alla loro idea di patria: per loro non ha perso Paola Egonu, hanno perso i neri, è sempre quella vecchia (e terribile) storia della superiorità della razza. Si vergognano di dirlo così (sono vigliacchi per natura) e quindi giocano di sponda usando la pallavolo.

Poi c’è il giornalismo, certo brutto giornalismo: se sono donne devono essere inevitabilmente frivole e quindi la sconfitta si scopre che è tutta colpa dei social. Che geni: se avessimo saputo che per vincere le Olimpiadi sarebbe bastato disinstallare Instagram a questo punto avremmo una sagomata di medaglie d’oro. Se perde un uomo è colpa del suo essere scarso mentre se perde una donna è colpa dei selfie: l’importante è insistere nella rappresentazione dei vezzi femminili.

Ma badate bene, qui non è una questione di tifo: qui serve una presunta lesbica nera per mandare un messaggio a tutti gli altri: avete perso, non siete degni di rappresentarci, siete altro. Le Olimpiadi e la pallavolo sono solo un’occasione per esprimere la propria pessima natura. Ancora. Ancora una volta.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Orrore in Italia: due neonati sbattuti in cella con le mamme, ora ci sentiamo tutti più sicuri…

Nei giorni scorsi in Emilia Romagna sono entrati in carcere due bambini. Uno ha 7 mesi e ha varcato le porte del carcere con la madre che doveva scontare venti (20!) giorni di pena, l’altro di 17 mesi è figlio di una donna sottoposta al carcere per un provvedimento di custodia cautelare. Nonostante la legge 62 del 21 aprile 2011 preveda l’obbligo di istituire le case famiglia protette proprio per evitare del tutto l’ingresso in carcere di bambini, in tutto il Paese solo Roma e Milano sono dotate di strutture di questo tipo: alcuni bambini continuano a vivere periodi più o meno lunghi, insieme alle loro mamme, in spazi ristretti, poveri e disfunzionali, limitati nei movimenti, nelle possibilità di sviluppo e con un sistema sano di relazioni.

«Si continua ad assumere decisioni e a valutare situazioni senza tenere ben presenti le esigenze specifiche dei bambini connesse alla loro crescita, i diritti sanciti da norme internazionali e nazionali, in particolare l’interesse superiore del fanciullo che, come indicato dall’articolo 3 della Convenzione Onu, deve orientare tutte le scelte relative alle persone di minore età», hanno rimarcato in una nota la Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Emilia Romagna, Clede Maria Garavini e il Garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli.

Maringhelli spiega a Il Riformista che «la situazione legislativa è in una situazione di attesa, un po’ lunga: la legge che istituisce le case protette per l’esecuzione è del 2011, poi abbiamo avuto un decreto attuativo nel 2013 che definisce le caratteristiche delle case protette in convenzione con gli enti territoriali».

In realtà nella previsione di bilancio c’è circa un milione e mezzo di euro che lo Stato deve distribuire alle regioni per finanziare queste iniziative ma, ci spiega Maringhelli, «mancano i decreti per la distribuzione. Era previsto un termine entro il 28 febbraio ma ancora non si vede. Anche se negli ultimi giorni si sta muovendo qualcosa».

«Tra l’altro – spiega il Garante regionale dei detenuti – non si capisce bene quale sia l’orientamento: io e la mia collega saremmo favorevoli a non pensare a strutture nuove che creano situazioni di contenimento ma utilizzare le attuali reti mamma-bambino, verificare le disponibilità garantendo le caratteristiche del ministero a tutela del bambino (come accesso alla scuola, ai servizi). Dobbiamo tenere sempre a mente che l’interesse principale è il bambino».

Eppure la condizione di bambini che si ritrovano ad affrontare l’impatto del carcere scontandone poi i traumi sembra interessare poco al dibattito pubblico e al dibattito politico: che dei bambini scontino una pena che non è la loro interessa solo agli addetti ai lavori e poco altro. Ci sono riforme che tardano ad essere applicate perché evidentemente non se ne sente l’urgenza. «Anche perché non è una cosa così costosa – spiega Maringhelli – noi abbiamo monitorato i flussi: in Emilia Romagna nel 2019 sono passati 15 bambini, nel 2020 11 e nel 2021 siamo già a 6. Presenze anche di pochi giorni. Un’accoglienza non sarebbe così difficile da realizzare. L’entrata e l’uscita dal carcere è sempre un momento traumatico. Noi ci mettiamo molta attenzione, io mi interesso di tutti i casi, abbiamo un monitoraggio in piedi, l’amministrazione penitenziaria me le comunica ma solo grazie all’impegno di direttori e funzionari si riesce a ridurre il disagio a questi bambini che entrano e escono».

La vicepresidente della Regione Emilia Romagna Elly Schlein auspica «una forte collaborazione interistituzionale che possa portare, in una Regione come la nostra in cui i comuni già collaborano con una rete di comunità di accoglienza di soggetti fragili, comprese madri con bambini, a individuare modalità che intervengano addirittura a monte, laddove la normativa vigente lo consenta, evitando lo stesso ingresso di minori nel carcere».

Poi a ben vedere ci sarebbe anche la Costituzione e la domanda su che valore rieducativo possano portare 20 giorni di pena in cella per una mamma e il suo bambino.

L’articolo Orrore in Italia: due neonati sbattuti in cella con le mamme, ora ci sentiamo tutti più sicuri… proviene da Il Riformista.

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