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joseph stiglitz

Che affare, la pandemia

La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.

Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.

Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.

Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Un mondo di pochi vincitori e molti vinti

L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza 
di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l’analisi dell’economista Joseph Stiglitz

Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più pronunciate di quanto non lo fossero 30 o 40 anni fa. È anche chiaro che non esistono eguali opportunità per tutti: le prospettive di vita dei figli di genitori ricchi e istruiti sono molto migliori di quelle di chi ha genitori poveri e meno istruiti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le prospettive di un giovane, pur figlio di una famiglia svantaggiata, che va bene a scuola sono molto meno promettenti di quelle di un figlio di famiglia benestante che, però, trascura lo studio. Fino a qualche tempo fa, gli economisti e gli altri studiosi delle scienze sociali cercavano di giustificare queste disuguaglianze con la teoria della «produttività marginale», secondo cui i redditi degli individui corrispondono al loro contributo dato alla società. Tuttavia, se guardiamo anche solo superficialmente all’evidenza dei fatti, vediamo che nessuno degli individui che hanno dato i maggiori contributi alla nostra società – per esempio, attraverso le invenzioni del laser o del transistor o della scoperta del Dna – sono tra i più ricchi. Viceversa, vediamo che tra i più ricchi vi sono molti che hanno ottenuto il loro denaro grazie allo sfruttamento del loro potere di mercato e delle loro connessioni politiche.

La situazione attuale degli Stati Uniti è un buon esempio per illustrare le questioni fondamentali di cui stiamo parlando. Il reddito medio, al netto dell’inflazione, del 90 per cento meno ricco della popolazione è stato sostanzialmente stagnante negli ultimi 42 anni. Allo stesso tempo, il reddito medio dell’1 per cento più ricco della popolazione è aumentato di 4,3 volte. Questo stesso andamento si è verificato nella maggior parte degli altri paesi, anche se in misura meno accentuata. Francia, Paesi Bassi e Svezia sono tre paesi in cui l’aumento della quota dell’1 per cento più ricco è stato più limitato, laddove la Gran Bretagna ha invece visto un aumento quasi uguale a quello degli Stati Uniti. L’Italia si trova in mezzo.

Il reddito mediano – il valore centrale della distribuzione – negli Stati Uniti è rimasto sostanzialmente stagnante nell’ultimo quarto di secolo. Ancor più impressionante (come si è visto di riflesso nella politica americana) è che il reddito mediano di un lavoratore maschio, con un lavoro a tempo pieno, è allo stesso livello di più di quattro decenni fa. Ed è sempre più difficile per questi lavoratori «nel mezzo» ottenere posti di lavoro a tempo pieno ben remunerati. Ciò è vero anche per l’Europa, come ad esempio in Spagna e in altri Paesi, dove il reddito mediano oggi è inferiore a quello prima dell’inizio della recente crisi economica. Peggiore è poi quanto è successo negli Stati Uniti ai lavoratori con i redditi più bassi, per i quali il salario reale è ancora oggi al livello di sessanta anni fa. Per questi lavoratori, però, va detto, le cose vanno un po’ meglio in Europa, dove il salario minimo è invece più alto di quello di un tempo.

Nella maggior parte dei paesi avanzati, negli ultimi decenni sono avvenuti diversi grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito: più reddito afferisce ai più ricchi; più persone sono in povertà; la classe media si è impoverita, vedendo ridurre la sua importanza relativa; il reddito mediano è rimasto stagnante e la quota di individui con un reddito attorno a quel valore è andata diminuendo. La classe media sta sparendo e un numero sempre maggiore di persone finisce nelle «code» della distribuzione.

La distribuzione del reddito viene di solito riassunta con una misura chiamata “coefficiente di Gini”: questa, nella maggior parte dei paesi, è stata costantemente in aumento negli ultimi anni, indicando un aumento della disuguaglianza. È vero che ci sono alcuni paesi che hanno resistito a questa tendenza, come la Francia e la Norvegia mentre altri, soprattutto in America Latina, hanno visto una diminuzione della disuguaglianza.
C’è quindi una lezione importante che si può trarre da tutto questo: le forze economiche in gioco in tutti i paesi avanzati sono simili, ma i risultati sono notevolmente diversi. La spiegazione di tali differenze è che Paesi diversi hanno perseguito politiche diverse. Possiamo quindi dire che la disuguaglianza è stata una scelta. Se i paesi avessero perseguito altre politiche, i risultati sarebbero stati diversi. Quelli che hanno seguito il modello anglo-americano sono finiti con più disparità.

Vi sono, poi, altre dimensioni della disuguaglianza, oltre a quella del reddito. Tuttavia, voglio sottolineare che i paesi che hanno scelto di avere più disuguaglianza non hanno avuto migliori performance economiche complessive. Come ho sottolineato nel mio libro “Il prezzo della disuguaglianza”, una società paga un prezzo elevato per la disuguaglianza, compresa una prestazione economica peggiore.

Il reddito è solo una dimensione della disuguaglianza. Altre dimensioni sono molto importanti, come ad esempio l’accesso alla giustizia, che non è uguale per tutti, o la partecipazione alle decisioni politiche, che non è la stessa per tutti. Tali dimensioni, però, sono difficili da quantificare. Ci sono invece almeno altre due dimensioni che sono facili da misurare. Una è la disuguaglianza nella salute, come risulta dalle differenze nell’aspettativa di vita. La natura stessa porta alcuni individui a vivere più a lungo di altri. Ma se alcuni individui non hanno accesso all’assistenza sanitaria o non riescono ad ottenere un’alimentazione adeguata, allora ci saranno ancora maggiori disparità nella salute. Di grande preoccupazione, ad esempio, è che una delle principali fonti di morbilità sono le “malattie sociali”, come l’alcolismo, la droga e il suicidio.

Una dimensione importantissima è l’uguaglianza nelle opportunità e qui, bisogna dire, i Paesi avanzati si differenziano notevolmente tra loro. La relazione tra uguaglianza nelle opportunità e uguaglianza mostra che i paesi con più disparità di reddito (misurata dal coefficiente Gini) hanno meno mobilità tra le generazioni – il che implica che i figli hanno meno opportunità dei genitori. I paesi con meno opportunità includono Stati Uniti, Regno Unito e Italia; mentre quelli con migliori opportunità sono i paesi scandinavi e il Canada.

Le dinamiche della disuguaglianza possono essere spiegate e non è vero che le disuguaglianze non abbiano spiegazione e che siano un risultato ineluttabile dell’operare delle forze del mercato. I cambiamenti in tali dinamiche possono essere descritti in modo semplice in termini delle forze che determinano la distribuzione del reddito e della ricchezza.

Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema educativo vede una crescente segregazione economica geografica che genera disuguaglianza nelle opportunità educative. Gli studi mostrano anche l’elevata correlazione tra opportunità educative e reddito. La riduzione della progressività del sistema delle imposte sul reddito (anzi, ora è regressivo) aumenta anche la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Una riduzione del tasso di risparmio riduce la disuguaglianza; una riduzione della dimensione familiare (media) aumenta la disuguaglianza. Un aumento della dispersione in una delle variabili rilevanti, inclusi i rendimenti a favore del lavoro o del capitale, aumenta il livello di disuguaglianza. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che il cambiamento tecnologico premia di più il lavoro qualificato, aumentando il rendimento dell’istruzione (più si studia, più si guadagna) e quindi la dispersione dei salari.

Sempre più importanti sono poi le rendite, incluse le rendite monopolistiche derivanti dalla crescente concentrazione in molte industrie. L’indebolimento delle norme anti-trust e i cambiamenti nella tecnologia, nonché i cambiamenti nella struttura dell’economia verso settori che sono naturalmente meno competitivi – pensiamo ai giganti dell’high tech – hanno sicuramente contribuito ad un aumento del “potere di mercato” medio nell’economia e quindi delle rendite monopolistiche.

Altre forze, poi, hanno portato ad un aumento dei redditi più alti: i cambiamenti nelle pratiche della corporate governance di molte società hanno permesso ai dirigenti di tenere per sé quote crescenti del reddito delle società. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, combinata con una governance aziendale più debole e una vera e propria diffusa turpitudine morale, hanno portato ad una situazione in cui molti, nel settore finanziario, sfruttano il resto dell’economia.

Allo stesso modo, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori – risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che della globalizzazione – hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori.
Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli in alto e a svantaggio di quelli in basso, aumentando la disuguaglianza. I mercati non esistono in un vuoto astratto. Vanno strutturati, regolati. Negli ultimi 30/40 anni, le regole del gioco sono state riscritte in modi che aumentano la disuguaglianza e contemporaneamente indeboliscono l’economia.

L’effetto di tutto questo è che si è aperto un enorme divario tra la crescita della produttività e la crescita delle remunerazioni del lavoro (portando ad una marcata diminuzione della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale). Prima della metà degli anni ‘70, produttività e remunerazioni si muovevano insieme, e ciò è stato vero per molti Paesi e settori per lunghi periodi di tempo, fino ad essere visto quasi come una “legge” in economia. Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate e non per via del cambiamento nella tecnologia o nella qualità della forza lavoro. Ci sono stati cambiamenti rapidi nelle regole del gioco. Questo è ciò che è successo, non altro: le regole del gioco sono cambiate a favore di alcuni e a danno di molti.

Quali rimedi possiamo invocare? Dobbiamo riscrivere le regole dell’economia di mercato, ancora una volta, fare di meglio per ridurre il potere di mercato monopolistico, l’esclusione e la discriminazione; garantendo una minore trasmissione intergenerazionale dei vantaggi acquisiti, inclusa una minore trasmissione intergenerazionale del capitale umano e finanziario, in parte migliorando l’istruzione pubblica, aumentando la tassazione sull’eredità e reintroducendo una progressività maggiore nelle imposte sul reddito.

Non è un caso che abbiamo il sistema che abbiamo, con le regole che ha. Agli “interessi particolari” piace che sia così. Potrei avere esagerato un po’, in passato, quando ho detto che gli Stati Uniti avevano un governo dell’uno per cento, per l’uno per cento e fatto dall’uno per cento, o quando ho suggerito che siamo passati da una democrazia con una-persona-un-voto ad una con un-dollaro-un-voto. Ma è chiaro che alcune delle politiche che sono state perseguite sono state fortemente svantaggiose per l’economia nel suo complesso e hanno creato, allo stesso tempo, più disuguaglianze: ci sono stati solo pochi vincitori e molti vinti.

[Ampi stralci della lecture che l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha tenuto a Bologna  nel corso della Conferenza Internazionale sulle Diseguaglianze (2-4 novembre) promossa dalla Fondazione di ricerca dell’Istituto Cattaneo. Fonte.]

Osare l’occasione. Insieme.

Perché non esistono modi banali per potersi mettere insieme. Perché questa crisi è una recessione sociale e culturale, e solo dopo economica. Perché non è credibile e non mi appartiene questo gioco banale e vuoto di infilare nel cassetto della post-ideologia qualsiasi operazione di costruzione di un pensiero comune, di una forma collettiva di azione e di pensiero che, se infastidisce chiamarla ideale o ideologia, ci basta chiamarla idea. Perché la trasparenza, la partecipazione, l’etica e la legalità sono le sentinelle di un indirizzo sociale e politico che non possono da sole bastarci come contenuto. Il momento storico del nostro Paese (e della triste ‘trasparenza’ del nostro Paese nel mondo) chiama una generazione alla responsabilità di sostituire i modi (e le persone) del fallimento ma soprattutto alla responsabilità di costruire un nuovo modello. Di raccontare un’altra direzione e declinarla ognuno nel proprio campo.

Non accetto di aspettare che il terremoto dia a me (o ai miei, come ci insegnano nella politica minuscola) l’occasione da usare. Voglio costruire la prospettiva da osare. Insieme.

Leggevo oggi Joseph Stiglitz e la sua diagnosi della crisi economica-finanziaria iniziata nel settembre del 2008 e l’interessante introduzione di Laura Pennacchi. Ne vale la pena. Il libro, edito da Donzelli, lo potete trovare qui.

LA GLOBALIZZAZIONE SECONDO STIGLITZ

di Laura Pennacchi

Per quasi trent’anni ha dominato la scena politica mondiale una potente ideologia ultraortodossa che predica un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, sostenendo che l’intervento dello Stato è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, che i governi dilapidano risorse e che ogni tentativo di ridistribuire la ricchezza dà vita a forme di perseguimento delle rendite. La predicazione di un ruolo pubblico ristretto e angusto si è basata su una visione altrettanto ristretta e angusta del rapporto tra individuo e collettività, volta a soffocare le istanze solidaristiche: l’individuo è un atomo, non esistono responsabilità collettive perché «non esiste la società», secondo il motto di Margaret Thatcher. Il legame tra ideologia «ultraortodossa» e visione «ultraindividualistica» ha motivato l’ossessiva riproposizione dello slogan della «riduzione delle tasse» – veicolo principe del ridimensionamento della presenza pubblica – e la denigrazione delle funzioni pubblico-statuali che risulta da espressioni come «lo Stato criminogeno» [1]. In effetti, il vero obiettivo delle politiche di tagli fiscali, mantra di tutti gli anni novanta e del primo decennio degli anni duemila, non era rilanciare l’economia ma ridurre il senso di responsabilità collettiva – che si esprime attraverso l’intervento pubblico – acquisendo il favore delle classi medie. Se esse, infatti, pagano molto in imposte e percepiscono molto in servizi non sosterranno una simile politica, ma se usufruiranno di minori servizi (specie in istruzione e in sanità) allora saranno indotte a ritenere che anche un più esiguo livello di tassazione sia ingiusto, trasformandosi così in sostenitrici di ulteriori riduzioni delle tasse [2].

Già nel 1989, dopo un primo decennio di questa musica, Stiglitz scriveva un libretto divenuto celebre, intitolato per l’appunto Il ruolo economico dello Stato [3], di cui i testi che qui si presentano possono essere considerati un riesame e, al tempo stesso, una continuazione. Allora, nel sottolineare gli errori sia della tesi dei conservatori (giudicante «sempre e comunque negativo per il benessere» l’intervento dello Stato) sia della tesi della sinistra (richiedente sempre e comunque «un maggior coinvolgimento dello Stato»), Stiglitz rilevava: «Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha portato a riconoscere sempre più l’inadeguatezza delle posizioni di sinistra […]. Ma ciò che temo è che l’inadeguatezza delle teorie di destra si manifesterà solo col tempo».
Così è stato, in effetti, e ancora oggi siamo impegnati nel rendere questa inadeguatezza pienamente manifesta. La virulenza delle teorie di destra, invece di diminuire, è cresciuta, concentrata nei dogmi della «razionalità efficiente» e dell’«autoregolazione» dei mercati, dogmi la cui drammatica fallacia – e fallimento – ha dovuto attendere la crisi globale esplosa nell’autunno del 2008 per venire alla luce. Una virulenza che ha seguito l’onda lunga di una globalizzazione che ha rovesciato le sue implicazioni problematiche su tutte le materie umane: il commercio, la finanza, il debito, l’ambiente, le biotecnologie, le comunicazioni, le forme e gli ambiti di esercizio della democrazia. La destra ha esteso su scala planetaria il modello di «governo minimale» che proponeva nella sfera domestica: governo minimo è stata la sua parola d’ordine.

Rispetto a tutto ciò, costituisce uno spartiacque la crisi economico-finanziaria iniziata nel settembre 2008, ma con avvisaglie di cui si sarebbe potuto cogliere il senso molto prima, se solo si avesse avuto la stessa sensibilità di Stiglitz che, con pochi altri, l’aveva prevista [4]. La crisi, ben lungi dall’essere un incidente di percorso, è strutturale, pone in atto cambiamenti epocali, imponenti processi di ristrutturazione di portata superiore a quelli avvenuti dopo la crisi del 1929 [5]. In particolare, la crisi mondiale non è solo finanziaria e non è solo regolatoria. La più grave recessione del dopoguerra, che per la prima volta, dalla Grande depressione degli anni trenta, nel 2009 ha portato il Pil mondiale a un incremento negativo, manifesta che la crisi costituisce l’esaurimento – e il fallimento – di un intero modello di sviluppo, quello che va sotto il nome di «neoliberismo» [6] e che ha marchiato irrevocabilmente la globalizzazione iniqua degli ultimi decenni [7]. Di tale modello l’esplosione delle diseguaglianze non è né un’appendice né un epifenomeno ma un elemento strutturale. Il modello di sviluppo prevalso negli ultimi decenni ha come sua componente intrinseca l’alterazione della distribuzione del reddito e l’accentuazione delle diseguaglianze proprio perché è costituito da una miscela fatta di spirito «probusiness», salari stagnanti e scarso welfare pubblico, deregolazione spinta (e cattiva regolazione), leva dei tassi di interesse, innovazione finanziaria selvaggia, economia e cultura del debito [8]. È avvenuto ciò che le analisi di Stiglitz da sempre evidenziavano: la superfetazione della finanza ha modificato la natura della finanza stessa, mentre ha distorto profondamente l’economia reale; modifiche e distorsioni che richiedono riforme finanziarie assai più drastiche (come ristabilire una distinzione e una separazione nelle banche tra attività commerciale e attività d’investimento) di quelle che si stanno mettendo in opera [9]. I problemi oggi sono immensi e riguardano sia l’inefficienza economica, sia l’ingiustizia sociale con l’esplosione della disoccupazione, sia la sostenibilità ambientale.

La persistenza della disoccupazione, anche quando nel 2011 l’economia reale riparte, dice quanto gravi siano le implicazioni generate dalla crisi. La ripresa avviene con intensità – assai modesta nei paesi sviluppati, in particolare europei, a differenza che nei paesi emergenti (Cina e India sono tornate a correre a tassi di incremento del Pil assai elevati) – e con modalità tali da non riuscire ad assorbire la mole di disoccupati creatasi: 30 milioni in tutto il mondo nei primi due anni della crisi, due terzi dei quali nei paesi sviluppati (in Italia sono 2,2 milioni i senza lavoro). Si profila unajobless recovery che le vestali della main stream economics sostengono sia la ineluttabile «nuova normalità» a cui rassegnarsi, sottovalutando che una simile prospettiva – la «crescita senza lavoro» come unico standard e paradigma – costituirebbe un colpo senza precedenti alla stessa legittimità del capitalismo, la configurazione della crisi globale come vera e propria «crisi di civilizzazione» [10].

Si afferma un nuovo drammatico paradosso: l’intervento pubblico è stato riscoperto giusto il tempo di salvare dal collasso il sistema bancario e finanziario mondiale [11] e quando il perdurare di una incredibile disoccupazione e la contrazione del tenore di vita dei ceti medi imporrebbero misure aggiuntive a sostegno dello sviluppo e degli investimenti, si pretende di tornare, specie in Europa, alla fallace ortodossia neoliberista e monetarista delle politiche restrittive e deflazionistiche, drasticamente avverse alla spesa pubblica. Poiché i debiti pubblici hanno raggiunto livelli senza precedenti in tempi di pace (dal 2009 al 2010 il debito pubblico è salito negli Usa dal 54,6 al 67,1% del Pil, nell’area dell’euro dal 79 all’84%), si dimentica quel che Stiglitz sottolinea nelle pagine che seguono, e cioè che non è il debito pubblico all’origine della crisi, è il debito privato, a sua volta dovuto al modello neoliberista, fatto di leva dei tassi di interesse, deregolamentazione finanziaria sfrenata, innovazione finanziaria spinta allo spasimo, compensazione offerta come indebitamento per salari bassi o stagnanti e per l’enorme incremento delle diseguaglianze, precarizzazione del mercato del lavoro, assorbimento di merci in eccesso tramite il credito facile e così via. Si cessa di chiedersi come e perché gli attuali livelli di deficit e debito pubblico siano stati raggiunti, si inverte il realistico rapporto di causa ed effetto, trascurando che è la crisi – in primo luogo con i salvataggi inauditi che ha imposto e con la conseguente trasformazione di un debito privato immenso in debiti pubblici altrettanto immensi – ad avere provocato la pressione al rialzo sui debiti pubblici e non viceversa.

Nei soli Stati Uniti e per i soli tre mesi dall’ottobre al dicembre 2008 la manovra di spesa pubblica è salita da 787 miliardi di dollari fino a 820 miliardi. L’Europa aveva avviato interventi più contenuti ma comunque incisivi quando è stata investita, a partire dalla Grecia nel maggio 2010, da un’ondata speculativa che ha aggredito direttamente i debiti sovrani dei paesi. Così l’Europa si è imposta, su impulso soprattutto della Germania, draconiane politiche di austerità con l’obiettivo di giungere a una drastica contrazione del settore pubblico, sulla base di una nefasta ortodossia restrittiva sostenente che indisciplina di bilancio e scarsa flessibilità sono le cause delle difficoltà dei paesi europei più deboli. Tra l’estate del 2010 e l’inverno 2011 i quattro paesi europei più grandi – Germania, Francia, Regno Unito, Spagna – adottano misure di risanamento delle finanze pubbliche ammontanti da sole a 125 miliardi di euro di tagli.

In Europa qualcosa di molto incongruo emerge a un triplice livello [12]:

1) tutti i paesi procedono simultaneamente ad adottare politiche restrittive che rischiano di aggravare i problemi di deficit pubblico – perché si risolvono in recessioni che a loro volta provocano maggiori esborsi in ammortizzatori sociali e minori entrate – nel contempo imponendo alti costi sociali soprattutto ai paesi «salvati».

2) Gli specifici global embalances europei che preesistevano alla crisi vengono rafforzati, essendo rafforzata la divaricazione tra due aree d’Europa, quella «centrale» e forte con la Germania in testa, quella «periferica» e debole sostanzialmente coincidente con i paesi mediterranei. Si dimentica che l’instabilità finanziaria dell’area euro ha alla sua base proprio la crescente divergenza delle economie reali dei vari paesi in termini di competitività. Paradossalmente lo stesso meccanismo della moneta unica accentua le divergenze: il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e basso per quelli forti che ne traggono vantaggio. La competitività della Grecia è stata più svantaggiata dal costo del lavoro salito del 9% (un incremento non trascurabile ma neppure drammatico) o da un apprezzamento dell’euro del 16%? Quando c’era il marco, l’irrefrenabile tendenza dell’economia tedesca a crescere con le esportazioni veniva frenata dalla periodica rivalutazione della moneta. Ora questo meccanismo non c’è più e ciò spiega le sbalorditive performance nel commercio estero di Germania e Olanda. Poiché gran parte dell’attivo della loro bilancia dei pagamenti corrisponde a passivi di altri paesi europei è chiaro che la Germania non è più la locomotiva d’Europa: essa utilizza la domanda interna di altri paesi europei per la propria crescita. Le politiche di austerità, lungi dal produrre effetti benefici sulla competitività, accentueranno le divergenze e per conseguenza si rifletteranno negativamente anche sulla competitività generale dell’Europa.

3) L’enfasi sull’aggiustamento deflattivo delle economie più fragili è figlia del mito – impossibile – di trasformare l’intera eurozona in una colossale Germania che esporta massicciamente in tutto il mondo. Ma la zona euro è troppo grande per poter svolgere un ruolo di questo tipo all’interno dell’economia mondiale: ammesso e non concesso che la svalutazione interna messa in atto simultaneamente da più paesi funzioni al fine del recupero di competitività, dove si dovrebbero dirigere, quale sbocco potrebbero trovare tutte queste esportazioni, visto che il resto del mondo – Usa in testa – persegue già la medesima strategia?

Le deliberazioni in materia di nuova governance economica europea prese dal Consiglio del 24-25 marzo 2011 sono emblematiche del riaffermarsi di una ortodossia monetarista e neoliberista, anche per quanto riguarda la mancata considerazione dell’interrelazione tra squilibri macroeconomici e competitività, con lo sguardo concentrato solo sulle variabili microeconomiche (come la dinamica del costo del lavoro, alla cui compressione mediante la contrazione dei salari e dei prezzi viene dato il compito di recuperare i guadagni di produttività), trascurando il peso che esercitano sulla competitività le variabili macroeconomiche (in particolare le politiche monetarie e le politiche del tasso di cambio e di gestione della bilancia dei pagamenti). Più in generale si conferma un orientamento conservatore – che connette fortissime riduzioni del rapporto debito pubblico/Pil a programmi di nuove privatizzazioni – il quale non assume come preoccupazione centrale l’aumento della disoccupazione e, allo stesso tempo, avanza imperterrito nel suggerire tagli all’istruzione e allo Stato sociale.

Un’impostazione conservatrice e monetarista in tema di debito e di equilibri di finanza pubblica resuscita una filosofia neoliberista adattata alle circostanze: del resto, il neoliberismo non è mai esistito in forme pure, ma sempre in forme spurie [13]. L’ispirazione, esplicita e implicita, a ridurre il ruolo dello Stato e a privatizzare è fortissima: l’esempio maggiore è dato dallo spostamento dell’enfasi dal deficit al debito, cioè dai flussi agli stock, con una intrinseca spinta alla privatizzazione di patrimoni e funzioni della protezione sociale. Il trinomio «meno tasse, meno regole, meno Stato» ripropone una prassi di starving the beast («affamare la bestia» e la bestia sono i governi e le istituzioni pubbliche a cui vanno sottratte risorse), la quale lascia convivere tagli selvaggi alla spesa pubblica, privatizzazioni, decisionismo statalistico neocolbertiano al servizio di un rinnovato spirito pro business, comunitarismo endogamico ed esclusivo all’insegna del «meno Stato più società civile» e della big society. La riscoperta della big society vagheggiata dai conservatori inglesi è l’unica novità rispetto al neoliberismo formato ReaganThatcher-Bush junior. Rappresenta certo un avanzamento rispetto alla negazione perfino dell’esistenza della «società» declamata da Margaret Thatcher, ma essa, in realtà, è riscoperta del neoliberismo mascherato da arcaico «comunitarismo» localistico ed entropico, tanto è vero che i tagli del Regno Unito neoconservatore alle funzioni pubbliche, al welfare, alle politiche sociali sono i più devastanti.

Il ridimensionamento del ruolo pubblico torna, dunque, a essere sostenuto con rinnovata aggressività. Negli anni novanta la tesi del trade-off tra sviluppo economico e welfare state, tra sviluppo economico e meccanismi keynesiani di regolazione dell’occupazione e del mercato del lavoro era stata sostenuta per argomentare che all’origine delle difficoltà di molti paesi (specie europei) a generare occupazione e crescita vi fosse proprio il tipo di sviluppo sociale consentito dai welfare states e dai sistemi, a essi associati, di regolazione del mercato del lavoro. Nel primo decennio del Duemila e oltre è come se un rinnovato velo ideologico – basato sulla riproposizione dell’idea di un irrimediabile trade off tra efficienza ed equità, tra competitività e diritti, tra produttività e giustizia – cadesse sugli occhi dei governanti, pronti a operare, approfittando della crisi, quel retrenchement del welfare state che non era loro riuscito nel ventennio del dogma neoliberista sostenente lo spostamento di ogni cosa – anche della sicurezza sociale – dallo Stato al mercato.

Oggi come ieri il nesso di causalità viene rovesciato: non sono i problemi della disoccupazione e della povertà ad aver indotto, storicamente, le risposte rappresentate dagli istituti del welfare, ma, al contrario, sono questi istituti e le loro ispirazioni egualitarie che generano i problemi odierni di disoccupazione. Gli imputati sono sempre gli stessi: eccesso di tassazione, invadenza del settore pubblico, sovrabbondanza di regolamentazione, peso delle organizzazioni sindacali e della concertazione. Le medesime entità considerate responsabili del freno allo sviluppo nei modelli di «crescita endogena», per i quali basta detassare, tagliare la spesa (specie quella sociale), far arretrare la presenza pubblica perché i sistemi, endogenamente cioè spontaneamente, veicolino produttività e competitività nello slancio di una maggiore crescita. Rispunta anche l’adagio secondo cui sarebbero gli stessi salariati a portare la responsabilità più grande nell’evoluzione della disoccupazione, perché «l’egoismo dei garantiti» condurrebbe a dinamiche salariali eccessive, a spese di coloro che si trovano al margine del mercato del lavoro.

Al paradosso di un intervento pubblico che – dopo aver impiegato una mole immensa di risorse per salvare il sistema bancario e finanziario mondiale – si sottrae alle proprie responsabilità in materia di occupazione e di lancio di un nuovo modello di sviluppo, si aggiunge il paradosso di un modello sociale europeo che – dopo aver dimostrato tutta la sua superiorità su quello anglosassone agli esordi della crisi e nella sua fase cruciale – viene ora posto nuovamente in discussione. Eppure, la superiorità del modello sociale europeo – con i suoi universalistici sistemi di protezione sociale offerti dal pubblico – era apparsa chiara quando, nei primissimi mesi del 2009, l’Argentina era corsa a nazionalizzare i dieci fondi pensione privati con cui nel 1994 aveva privatizzato la propria social security, trovandosi i fondi pensione argentini (con la dilapidazione del risparmio previdenziale affidato ai mercati finanziari provocata dalla crisi) nell’impossibilità di erogare persino le pensioni in essere. E la superiorità del modello europeo era stata ribadita dall’esplicita ispirazione a esso che aveva guidato Obama nel concentrare enormi sforzi, nel primo anno del suo mandato, per dotare il popolo americano di una riforma di impianto universalistico.

È indubbio che operino scarti tra garanzie e opportunità e che il welfare vada ulteriormente riformato nel senso di accentuarne gli aspetti promozionali-attivi su quelli risarcitori-passivi. Ma il ragionamento – che fa il paio con il parossismo della contrapposizione giovani/anziani sul tema cruciale dell’«equità fra generazioni» – è troppo caricaturale per essere credibile. Esso condurrebbe, peraltro, a ritenere che nelle nostre società i classici conflitti distributivi (per l’appropriazione del surplus e degli incrementi della produttività) siano scomparsi, risucchiati entro un magma in cui sarebbero distinguibili solo conflitti fra corporazioni (posti tutti sullo stesso piano di legittimità o di illegittimità), lotta fra le generazioni, guerra fra i sessi.

In tutti i casi la ricetta economico-sociale che ne discende è brutale: per avere più crescita occorre più diseguaglianza, poiché solo una maggiore diseguaglianza è in grado di imprimere il necessario dinamismo alla società14. Il presupposto è che l’accentuazione della competizione in atto a livello mondiale ponga fine alla possibilità delle imprese di lasciar dirottare una parte del loro surplus verso i settori meno produttivi e verso impieghi a fini sociali. Non ci si chiede né quanto il surplus e gli incrementi di produttività siano in realtà crescenti, oltre che persistenti, e appropriati da profitti e da utili finanziari, né quanto ciò che chiamiamo globalizzazione corrisponda davvero a un’intensificazione della concorrenza o non piuttosto a quello che de Cecco [15] definisce un «rinnovato processo di ristrutturazione oligopolistica mondiale», il quale investe in modo assai profondo il continente europeo.

Tutto ciò spiega perché la parola eguaglianza – che pure figura, insieme a libertà e a fraternità, tra le categorie chiave della modernità – sia caduta così in disuso nel lessico contemporaneo, compreso quello della sinistra. Ma spiega anche perché attorno all’intreccio di questioni che la parola eguaglianza continua a evocare si sia riacceso un grande dibattito a livello internazionale [16], proprio in relazione al riequilibrio nei rapporti tra economie intrinseco alla globalizzazione, testimoniato dal succedersi di crisi in tutto il mondo dagli anni ottanta a intervalli di tempo sempre più ravvicinati. Cacciati dalla porta, il problema «eguaglianza» e quello «povertà» – della quale si dimentica che rappresenta una forma estrema di diseguaglianza – rientrano dalla finestra, ma prepotentemente, sulla «scena pubblica». Di nuovo, nelle sedi internazionali due opinioni si fronteggiano. L’una sostiene che per combattere la diseguaglianza e la povertà l’arma esclusiva è la crescita economica, non la redistribuzione del reddito tra ricchi e poveri, la quale sarebbe anzi dannosa in quanto l’ulteriore arricchimento dei ricchi aiuta più effettivamente i poveri; dunque, le politiche da seguire debbono essere ultraortodosse: tagli alle spese pubbliche (che impoveriscono i poveri e le classi medie) e riduzioni delle tasse (che arricchiscono i ricchi). L’altra opinione considera la crescita necessaria ma insufficiente a contrastare povertà e diseguaglianze, in assenza: a) di un cambiamento degli stessi modelli di crescita, regolando, ad esempio, diversamente quella mole enorme di flussi finanziari la cui deregolamentazione indiscriminata è all’origine di tante turbolenze odierne; b) di una consapevole redistribuzione del reddito e quindi di sistemi adeguati di sicurezza sociale.

Cosa ha da dire la sinistra rispetto a tutto ciò? Le teorizzazioni sulla «terza via», specie quella di Tony Blair, si sono rivelate non all’altezza della sfida. Esse hanno riflesso, piuttosto, uno spostamento dell’asse politico verso il centro tale da snaturare la configurazione stessa della sinistra e tale da sollecitare, dopo la fase «statalistica», forme di esaltazione acritica, e ingenua, del valore del mercato, quando non addirittura una ostilità pregiudiziale verso l’intervento pubblico.

Da anni Stiglitz lavora, con altri, a un approccio – quello dell’«economia dell’informazione» e delle «imperfezioni informative» – che cerca proprio soluzioni intermedie tra i due estremi dello «statalismo pianificatore» e dell’affidamento tout court agli «automatismi» di mercato. Questo approccio, infatti, muove dalla dimostrazione che ogni volta che ci sono asimmetrie informative e/o mercati incompleti, cioè quasi sempre, allocazioni efficienti da parte del mercato non possono essere raggiunte senza intervento dello Stato. La visione standard considera i fallimenti del mercato delle eccezioni (eccezioni alla regola generale che le economie decentralizzate portano a un’allocazione efficiente delle risorse). Il nuovo indirizzo analitico fa emergere esattamente il contrario: è solo in circostanze eccezionali che il mercato è efficiente.

Ma problemi di incompletezza e di imperfezione informativa riguardano il settore pubblico almeno tanto quanto il settore privato. Dunque, la questione non è identificare i fallimenti dell’economia di mercato, essendo questi endemici, ma riconoscere quei fallimenti dell’economia di mercato per i quali interventi dello Stato consentono un miglioramento del benessere collettivo, non essendo affatto detto né che lo Stato sia esposto a minori fallimenti, né che per ogni fallimento del mercato la soluzione appropriata sia un intervento pubblico. Il punto cruciale diventa non scegliere tra «intervento pubblico» e «mercato», ma riconoscere, tra le molte varianti dell’intervento pubblico e le molte varianti del mercato, la combinazione insieme più efficiente e più equa. A cominciare dalla creazione di anticorpi per evitare la cattura delle funzioni governative da parte di interessi privati, cattura che il neoliberismo – incurante dell’incoerenza con i suoi presupposti antistatalistici – ha spesso attivamente praticato, producendo i fenomeni del Developmental State [17] o quelli, ancora peggiori, del Predator State [18].

Oggi Stiglitz riprende questa elaborazione e va oltre. In primo luogo estende al mondo globalizzato una domanda che scaturiva già anni fa del tutto naturalmente dalla sua riflessione: se problemi di incompletezza e di imperfezione informativa riguardano tanto il settore privato quanto il settore pubblico, ciò rende più difficili, ma al tempo stesso più determinanti, analisi maggiormente approfondite sul ruolo e sul funzionamento sia dello Stato sia del mercato. Il nuovo approccio, cioè, nella misura in cui scaturisce da una visione ideologica e dello Stato e del mercato, rende più necessaria una «teoria dello Stato», in fondo superflua fino a che si accetta come indiscutibile il teorema – centrale nella scienza economica standard – secondo cui i mercati portano sempre ad allocazioni efficienti e nessun governo potrebbe migliorare le cose. Una «teoria dello Stato» che potrebbe fare tesoro degli stimoli contenuti in nuovi indirizzi economici collegati all’«economia dell’informazione»: i mercati non come luoghi statici di incontro tra domanda e offerta ma come luoghi dinamici di sperimentazione e di apprendimento, i mercati non come entità naturali ma come istituzioni essi stessi, l’«economia istituzionale» più in generale, la teoria delle «agenzie» e delle authorities, la teoria dei «contratti» ecc.

Il paradosso è che questa esigenza si è manifestata con assoluta chiarezza proprio quando in tanti si sbracciavano a decretare la fine dello Stato-nazione. Ma chi se non gli Stati-nazione hanno salvato l’intero mondo dal collasso nella crisi del 2007-2008? E, più in generale, se è indubbio lo scarto crescente tra Stato nazionale e dimensioni ottimali dei mercati, è altrettanto innegabile che le nuove condizioni di competitività connesse alla globalizzazione, mentre depotenziano di strumenti e di funzioni gli Stati nazionali – deprivati di sovranità o indotti a cedere sovranità verso livelli sovranazionali, come sta accadendo in Europa –, sovraccaricano di responsabilità gli Stati nazionali stessi e tale sovraccarico non trova ancora un’adeguata tematizzazione, una «teoria» in grado di interpretarlo e di trattarlo. Quando Stiglitz insiste nel definire il processo in atto come un processo ad hoc, di global governance senza global government, è questo che intende sottolineare: le conseguenze della mancanza di istituzioni adeguate a gestire il processo di globalizzazione, anche in termini di ricaduta sugli Stati nazionali e di erraticità che tale «adhocrazia» ha su fenomeni quali deregolamentazioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, ristrutturazioni, gioco dei mercati finanziari e dei movimenti di capitale.
Seguendo le onde di questi fenomeni l’elaborazione è spinta ad arrivare al cuore dell’assetto della democrazia e delle sue imperfezioni. Stiglitz lo fa in un duplice senso. Il primo attiene alla effettività delle regole della democrazia, a partire dalla trasparenza e dalla corretta diffusione e circolazione delle informazioni, tanto più cruciali di fronte a fenomeni quali la stabilità o l’instabilità macroeconomica (e microeconomica) a livello internazionale, per cui un grande ruolo giocano gli imponenti flussi di capitale. Perché avere informazioni su alcuni movimenti di capitale e non su tutti? Perché non rendere trasparenti i centri finanziari offshore? Come possono istituzioni non trasparenti pretendere la trasparenza?

Ma l’assetto della democrazia viene interrogato anche in un senso che pone in causa i principi della giustizia. Nessuno negherebbe che di fronte a una crisi economica gravissima è prioritario salvare le banche, ma perché, nel caso della crisi del Sud-est asiatico del 1997-98, si trovarono 150 miliardi di dollari per soccorrere le banche e non si trovò un miliardo per i sussidi alimentari dei disoccupati? E perché nel caso della crisi globale esplosa nel 2008 si è impiegata una mole enorme di risorse per salvare il sistema finanziario internazionale e non se ne trova una quantità molto più modesta per combattere la jobless recovery?
Stiglitz sottolinea come i due sensi siano strettamente collegati: affinché una struttura di governo sia adeguata ad affrontare i problemi odierni, e quindi realmente democratica, deve incorporare principi di giustizia; ma i principi di giustizia richiesti dalle condizioni moderne possono essere raccolti e veicolati solo da strutture democratiche in grado di dare voce e rappresentanza, in misura eguale, a tutti gli interessi e valori in campo.

L’esplicitazione di questi interessi e di questi valori si conferma un cardine della dialettica democratica. Con ciò siamo ricondotti a interrogarci sulla fecondità – culturale e politica – dell’armamentario teorico a disposizione della sinistra. Rimane uno spazio enorme per il discorso politico, un discorso che proietti nel futuro la speranza di pensatori animati da una comune fiducia nell’energia evolutiva della democrazia, come Rawls, Dworkin, Habermas, Sen. E questo è vero soprattutto per la sinistra e il centrosinistra.
Il campo più ovvio entro cui questo discorso politico andrebbe praticato – una volta appurato che, piuttosto che la semplice dimensione quantitativa del budget statale o del personale pubblico, ciò che conta è la natura qualitativa e l’efficacia delle attività di governo – attiene a quali ruoli siano appropriati per i governi e a come si possa migliorare l’efficacia dell’azione del settore pubblico. Dall’esperienza delle riforme praticate, a partire dal reinventing government, si possono trarre vari insegnamenti. La retorica delle «reti» e del passaggio «from government to governance» e l’insistenza sulle tecniche del new management creano un più grande bisogno di coordinamento nel momento stesso in cui riducono l’abilità governativa di coordinare19. Analoghi problemi sono generati dalla «esternalizzazione» di molte funzioni dello Stato o dalla creazione di «quasi mercati», i quali peraltro hanno costi di regolazione e di «auditing» molto elevati e quasi mai chiaramente identificati.

Anche la partnership pubblico/privato non è un passepartout buono per tutte le circostanze e non di rado crea più problemi di quanti ne risolva. Il caso delle pensioni – non per nulla ad altissima reattività sociale – è emblematico. Stiglitz, nell’excursus che qui vi dedica – riprendendo quanto disse nel settembre del 1999 (alla vigilia delle sue dimissioni dalla Banca mondiale) in una critica [20], che ha fatto epoca, agli indirizzi privatistici in materia pensionistica della Banca stessa – le analizza come un esempio di lampante superiorità dell’offerta pubblica di copertura rispetto all’offerta privata, tanto sul piano dei costi finanziari quanto sul piano dell’efficacia. Pertanto, Stiglitz ce lo propone come un caso in cui va confermato il monopolio pubblico dell’offerta di protezione pensionistica di base e per il quale l’adozione di un modello a «tre pilastri» deve rafforzare il primato – quantitativo e qualitativo – del pilastro pubblico «a ripartizione» su quello privato «a capitalizzazione» (da adottare per soli motivi di ampliamento della flessibilità e delle opportunità), cosa che, invece, non avverrebbe se si effettuassero riduzioni di parti della contribuzione che oggi finanzia la previdenza pubblica (come si ostinano a proporre i governi di centrodestra) [21]. Non v’è chi non veda quale straordinaria conferma queste posizioni ricevano dalle gravissime difficoltà che la crisi economico-finanziaria del 2007-2008 ha riversato su tutte le forme di previdenza individuali, aziendali, complementari, essendo esse forme di previdenza che gestiscono il rischio non in un’arena pubblica ma nei mercati finanziari trasferendolo dalla collettività al singolo.

Fra gli argomenti utilizzati vanno segnalati i seguenti:
a) i mutamenti demografici attesi investiranno in eguale misura tanto i sistemi pubblici quanto i sistemi privati «a capitalizzazione» i quali, anzi, vedranno rafforzati i loro aspetti problematici, come la limitata indicizzazione all’inflazione, il costo in termini di maggiori contributi per avere diritto a benefici aggiuntivi, le difficoltà a svolgere funzioni redistributive e solidaristiche;
b) i vantaggi attribuiti alla capitalizzazione vanno drasticamente ridimensionati, poiché le assunzioni su elevati tassi di rendimento si confermano immotivate e irrealistiche (si pensi agli attuali andamenti di borsa), le motivazioni in termini di efficienza macroeconomica e microeconomica appaiono dubbie (anche per quanto riguarda la possibilità di elevare il tasso di risparmio e quello di accumulazione), i costi di gestione sono molto alti (fino al 40% dei benefici), così come elevati sono i rischi di «selezione avversa» e di probabilità di «soccorso pubblico» (o di preventiva garanzia pubblica, come è nella proposta di Modigliani) al settore privato, con i conseguenti ulteriori rischi di «azzardo morale».

Lo spazio del discorso politico, dunque, appare davvero molto dilatato, pervaso com’è da tensioni, contraddizioni, dilemmi che investono i fondamenti stessi della convivenza civile. È il caso del destino delle categorie fondamentali della modernità – libertà, eguaglianza, solidarietà – per le «società civili» contemporanee e per la «società civile globale», nelle quali l’affermazione del valore degli individui e delle individue e l’aspirazione alla realizzazione di sé convivono con forti tendenze alla frammentazione e alla divaricazione.
La destra contrappone la libertà all’eguaglianza e, infatti, tratta tali valori esclusivamente con la tecnica del tradeoff. La sinistra considera libertà ed eguaglianza valori interdipendenti e cerca, dietro i possibili trade-offs – non escludibili ottimisticamente a priori –, la composizione del «conflitto di giudizi di valore» sulle libertà che si ritengono importanti. La sinistra ha un’idea di libertà assai più ricca di quella della destra, non limitata alla pura e semplice facoltà di scegliere nel mercato, un’idea che la induce a parlare «delle libertà» al plurale e che la porta a mettere in rilievo un maggior numero di ostacoli, da rimuovere tramite l’azione collettiva, al loro completo dispiegamento. Infatti, se conta la libertà come strumento per raggiungere altre finalità, ma anche la libertà come valore in sé e la libertà secondo altre dimensioni, quali l’integrità e l’autonomia della persona – realizzabili grazie a «capacità», direbbe Amartya Sen –, solo l’esercizio di responsabilità collettive, e dunque pubbliche, può assicurare il perseguimento di questi tipi di libertà e del tipo di eguaglianza richiesto dalla «eguaglianza delle opportunità».

Ma è anche il caso del significato che possiamo oggi attribuire al paradigma della cittadinanza, cioè a ciò che valutiamo ci renda «cittadini» – e di che cosa – e a ciò che ci riconosciamo l’un l’altro come «concittadini»; il che fonda le relazioni appropriate tra individuo e collettività, non concretizzabili se non attraverso la mediazione di istituzioni pubbliche e statuali. La destra contrappone l’individuo allo Stato e l’iniziativa privata alla garanzia pubblica. Il centrosinistra ha una visione molto più articolata. Per esso, infatti, i governi non si limitano solo a regolare la vita delle persone. Fornendo le condizioni istituzionali senza le quali non potrebbero esistere né civilizzazione moderna né attività economica moderna, i governi sono sostanzialmente responsabili per il tipo di vita che i cittadini possono vivere. Perciò le questioni di legittimità politica si applicano a questo stesso quadro generale, oltre che al tipo di opzioni e scelte individuali che esso rende possibili.

Occorre radicalmente ripensare il rapporto pubblico/privato «nella» crisi, «dopo» la crisi. Occorre di nuovo porsi domande che sembravano superate: siamo di fronte a un’eclisse dello Stato-nazione o a un suo grande ritorno? Le disparità e l’opulenza che sono state generate sono giustificate? Quale impatto hanno, su salari e consumi, mercati del lavoro precarizzati? E un nuovo intervento pubblico può essere modellato dall’orientamento ai «beni comuni»? Possiamo pensare che i compiti immani di fronte a noi saranno affrontati, non dico dal «meno Stato e più società civile», ma anche dalla pur auspicabile polimorfia del tessuto sociale e dall’autoregolazione spontanea e molecolare di una pluralità di soggetti che pure è bene assecondare e favorire? Lungi dal rieditare versioni più meno edulcorate del neoliberismo, ci sarebbe bisogno di un grande slancio di riprogettazione innanzitutto culturale «to understand the disaster» [22], che rompa con l’inerzia della riproduzione degli stereotipi del passato e adotti a monte punti di vista alternativi, occhi e sguardi nuovi.

Oggi sono sfidati i paradigmi consolidati, a partire da quello della disciplina economica standard, se è vero che la fase che stiamo vivendo è una nuova Great Transformation analoga a quella che studiò Karl Polanyi negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali, tale da richiedere, quindi, un analogo sforzo di produzione di pensiero, di categorie, di idee. Si ha un bel dire che «è da trent’anni che gli economisti studiano i fallimenti dei mercati finanziari, le bolle speculative, le asimmetrie informative che distorcono gli incentivi dei manager e degli intermediari finanziari, le crisi di liquidità» [23[. Il punto è quello presente a Stiglitz fin dalla giovinezza: tutte queste cose dagli economisti proni all’ortodossia dominante sono state studiate come imperfezioni, frizioni, deviazioni, shock esogeni di modelli di mercato – matematizzati all’estremo –, supposti endogenamente immunizzati da incertezza e instabilità e in grado di correggersi da soli. Il punto è, quindi, che a far trovare particolarmente sguarniti alla bisogna è la più complessiva marginalizzazione di punti di vista diversi e di programmi di ricerca alternativi provocata dal dogmatismo con cui l’ideologia neoliberista si è affermata nella scienza economica standard. E questo chiama in causa le responsabilità degli economisti ben al di là delle loro incapacità di previsione [24]: gli economisti vanno accusati, assai più che per non avere previsto la crisi, per avere costruito modelli nei quali la crisi non era contemplata perché intrinsecamente impossibile e quindi a priori sterilizzata.

Quello che va ripensato è il paradigma della main stream economics, la quale si è proposta, piuttosto che come «strumento d’interpretazione della realtà», come «supporto di visioni del mondo molto orientate», offrendo «modelli macroeconomici che escludono per costruzione fenomeni significativi di squilibrio e rendono difficile la comprensione del ruolo dei meccanismi finanziari» [25], modelli in cui i mercati sono supposti intrinsecamente stabili, con deviazioni solo temporanee, e in cui gli agenti economici agiscono come omogenei Robinson Crusoe, ignari tanto della profonda instabilità, quanto della larga eterogeneità e della estesa interazione tra attori proprie del mondo economico reale. Un gruppo di economisti niente affatto «bolscevichi» [26] lancia un manifesto di denunzia dell’irresponsabilità anche etica che nasce dalla pre-analytic belief in simili assunzioni e propone un riorientamento verso nuovi programmi di ricerca, differenziati perfino dal punto di vista epistemologico. In questione, infatti, è anche la metodologia – tutto tranne che umanistica – della dottrina economica standard, così basata su una matematizzazione puramente quantitativa e sul ricorso esasperato all’econometria da far tornare in mente il monito lanciato da Amartya Sen [27] già negli anni settanta del secolo scorso, sui pericoli della ipostatizzazione dello «sciocco razionale», in definitiva un «idiota sociale». Si rivela fallace il disegno di trasformare l’economia da «scienza sociale» in «scienza della natura», recidendo i legami che alle sue origini essa aveva con l’etica: dopotutto Adam Smith era un docente di filosofia morale.

Le questioni a cui bisogna offrire risposta – e che non ne troveranno con le politiche economiche di austerità – sono enormi: combattere la jobless recovery e dare vita a un nuovo ciclo di «piena e buona occupazione»; orientare la crescita verso un nuovo modello di sviluppo, il che vuol dire rilanciare la crescita, sì, ma anche cambiarne natura e struttura, riequilibrando verso la domanda interna e i consumi collettivi sistemi produttivi troppo export-led e concentrati sui consumi individuali [28].
Il modello di sviluppo neoliberista del recente passato si è basato su un vertiginoso incremento dei consumi individuali trainato da una crescita esponenziale dell’indebitamento. Il nuovo modello di sviluppo dovrà basarsi su un grande rilancio degli investimenti in due direzioni: a) riqualificazione ambientale dell’apparato produttivo; b) beni pubblici e beni comuni. Tutto ciò rende oggi centrale la problematica degli investimenti, specialmente sistemici e di lungo termine. Il che richiederà una nuova fase di «socializzazione» dell’investimento, lungo la linea di cui sono clamorosi esempi la Banca pubblica per le infrastrutture creata da Obama e le ben tre banche pubbliche a cui hanno dato vita nel Regno Unito i successori della Thatcher.

L’aspetto cruciale è che abbiamo bisogno di un nuovo intervento pubblico e che troppe poche energie sono dedicate a ridefinirlo. Si trascura che esso dovrà comunque configurarsi come mediazione istituzionale complessa, architettura ramificata, dilatazione e approfondimento della «sfera pubblica» alla Hannah Arendt. Sulle funzioni dello Stato ci si limita a sottolineare quelle di «regolazione», quando, invece, il suo ruolo modernizzante non potrà essere solo regolatorio, posto che le sue funzioni dovranno essere molteplici: presidiare la presenza riequilibratrice dei soggetti pubblici in economia, far valere gli interessi pubblici su quelli costituiti e delle élites, guidare attivamente ed efficientemente una estesa rete di rapporti e di istituzioni della società e dell’economia globalizzata, progettare, promuovere, indirizzare, controllare. Dovrebbe essere fortissima l’ispirazione alla creatività istituzionale che fu propria del New Deal di Roosevelt, alla sua capacità di mettere in gioco una pluralità di attori e di modalità: governo federale, governi locali, agenzie pubbliche, organizzazioni non governative, associazionismo.

Emerge, infatti, la necessità di spostare la composizione della domanda dai consumi individuali ai consumi collettivi. Ma emerge anche l’insufficienza di politiche della domanda – da sole – a rilanciare la crescita in fase di depressione e quando l’economia è segnata da squilibri nelle capacità produttive (in alcuni settori pari al 70% della capacità installata), a loro volta segnali di squilibri negli investimenti, e l’esigenza primaria consiste nel trasformare radicalmente il modello di sviluppo. Per questo occorrono sia politiche della domanda che politiche dell’offerta, le une e le altre volte ad alimentare la domanda interna, gli investimenti, l’innovazione.

La crisi economico-finanziaria non è un incidente di percorso: essa rimette in discussione un intero modello di sviluppo che con la crisi deflagra, e attizza il fuoco sotto problematiche che da tempo la globalizzazione rende esplosive, dalla crescita delle diseguaglianze agli squilibri territoriali, al depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni infrastrutturali, alla dequalificazione dei sistemi educativi e delle strutture di welfare, al riscaldamento climatico e alle questioni ambientali generali. Si pongono problemi sia di domanda sia di offerta, e per ambedue i tipi di quesiti – i primi attinenti al cambiamento dei modelli di consumo, i secondi riguardanti le implicazioni in termini di trasformazioni tecnologiche – sono richieste misure non tradizionali. Green economy, beni sociali, «beni comuni» possono essere l’orizzonte strategico complessivo, i contenuti generali che sostanziano le singole politiche da adottare e verso cui veicolare l’innovazione, la ricerca scientifica, il progresso tecnologico. Green economy significa trasformare in mezzi con cui promuovere la crescita la riduzione dell’inquinamento e dell’emissione di gas nocivi, la lotta agli sprechi e all’uso inefficiente e ingiusto delle risorse naturali, il mantenimento della biodiversità, la riduzione della dipendenza energetica dai fossili e il rafforzamento delle fonti alternative. Beni sociali e «beni comuni» significano fare di spazi urbani, salute, intrattenimento, cura di sé, stimolo intellettuale e creatività, contatti e relazioni, benessere familiare, i campi di valorizzazione di una cospicua forza-lavoro sempre più qualificata, il cui apporto può rivelarsi fondamentale per lo sviluppo e per la crescita.

Dunque, la gamma degli interventi pubblici adeguata a sostenere appropriate responsabilità individuali e collettive è molto ampia e riguarda, in modo inestricabile, sia la sfera economica sia la sfera sociale. Essa, infatti, va dal sostenere una cittadinanza condivisa al promuovere un’istruzione permanente e assicurare buone condizioni di salute, ma coinvolge compiti come lo sviluppo delle tecnologie, la creazione e la regolamentazione dei mercati finanziari e così via. In definitiva, una gamma da cui risulta rafforzata la convinzione che non basta reclamare generici adeguamenti e ammodernamenti dei governi e delle amministrazioni: è sempre più importante riferire tali adeguamenti-ammodernamenti a idee forti delle funzioni pubbliche, volte a riproporsi la sinergia – oltre che il contemperamento – tra la difesa delle libertà economiche e l’approfondimento e l’estensione dei diritti, e dei doveri, di una cittadinanza anch’essa ormai sollecitata a ridefinirsi su scala globale.

NOTE

1 Cfr. G. Tremonti, Lo Stato criminogeno. La fine dello Stato giacobino, Laterza, Roma-Bari 1998. In La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla (Mondadori, Milano 2008) Tremonti condisce l’avversione all’esercizio della responsabilità collettiva con neocolbertismo, decisionismo, comunitarismo.
2 Per vigorose argomentazioni in questo senso confronta P. Krugman, Meno tasse per tutti? Dagli Usa all’Italia: chi ci guadagna e chi ci perde, trad. it. di G. Barile, Garzanti, Milano 2001. Sulla tassazione si veda anche L. Pennacchi, L’eguaglianza e le tasse. Fisco, mercato, governo e libertà, Donzelli, Roma 2004.
3 J. E. Stiglitz, Il ruolo economico dello Stato. Un saggio, trad. it. di M. Da Rin, il Mulino, Bologna 1992. Qui Stiglitz sintetizza una produzione molto vasta che, ovviamente, sarà sviluppato anche dopo.
4 J. E. Stiglitz, I ruggenti anni novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia, trad. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2004.
5 B. Eichengreen K. H. O’Rourke, A Tale of Two Depressions, Advisor Perspectives, 21 aprile 2009.
6 Per una ricostruzione generale si veda L. Pennacchi (a cura di), Pubblico, privato, comune. Lezioni dalla crisi globale, Ediesse, Roma 2010.
7 A. Glyn, Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività e welfare, Brioschi, Milano 2007.
8 R. P. Dore, Finanza Pigliatutto. Attendendo la rivincita dell’economia reale, il Mulino, Bologna 2009.
9 J. E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, trad. it. di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2011.
10 L. Gallino, The Economic Crisis as a Crisis of Civilisation (Consiglio d’Europa, «Trends in social cohesion», 2011, 22).
11 Vale la pena ricordare che agli inizi della crisi, nell’autunno del 2008, Stiglitz (con Roubini, Krugman e altri) sostenne che Obama non dovesse procedere con il piano Paulson di salvataggio ereditato dall’amministrazione Bush, ma nazionalizzare le banche in dissesto. Se questa strada fosse stata seguita oggi non ci troveremmo in una situazione in cui la finanza ha ripreso il suo business as usual e i titoli over the counter – il cui valore è pari a 12 volte il Pil mondiale – sono risaliti ai livelli del 2008.
12 J. P. Fitoussi F. Saraceno, Europe. How Deep Is a Crisis? Policy Responses and Structural Factors Behind Diverging Performances, in «Journal of Globalization and Development», 2010, 1.
13 Si veda L. Pennacchi, La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista, Donzelli, Roma 2008.
14 Per critiche, sia teoriche sia empiriche, si veda, fra gli altri, A. Atkinson, The Changing Distribution of Earnings in Oecd Countries, Oxford University Press, Oxford 2008.
15 M. de Cecco, L’oro d’Europa. Monete, economia e politica nei nuovi scenari mondiali, Donzelli, Roma 1998.
16 Si veda Pennacchi, La moralità del welfare cit.
17 Si veda F. Block, Swimming Against the Current. The Rise of a Hidden Developmental State in the United States, in «Politics & Society», 2008, 2.
18 Si veda J. K. Galbraith, The Predator State. How Conservatives Abandoned the Free Market and why Liberals Should too, Free Press, New York 2008.
19 Una critica ante litteram molto circostanziata è in R. A. W. Rhodes, The Governance Narrative, Economic & Social Research Council, mimeo, London 1999.
20 Questa critica è stata pubblicata in M. L. Mirabile L. Pennacchi, Il pilastro debole. I sistemi previdenziali misti, Ediesse, Roma 2001; si veda, nel volume, oltre ai saggi di Barr, Burtless e altri, L. Pennacchi, Dietro la tirannia dei luoghi comuni: previdenza a ripartizione e previdenza a capitalizzazione a confronto.
21 Tali riduzioni provocherebbero: a) vuoti di gettito contributivo per pagare le prestazioni pensionistiche in essere (e, quindi, costi aggiuntivi per la finanza pubblica); b) contrazione delle prestazioni di coloro che andranno in pensione in futuro. Questi ultimi, in particolare, per avere la stessa prestazione finale totale (somma della componente a ripartizione e della componente a capitalizzazione) dovrebbero pagare gli stessi ammontari o come contribuzione pubblica o come premio agli intermediari privati (o come combinazione dell’una e dell’altro).
22 R. M. Solow, How to Understand the Disaster, in «The New York Review of Books», LVI, 2009, 8.
23 G. Tabellini, Il mondo ritorna a correre, l’Italia non si fermi, in «Il Sole 24 Ore», 24 giugno 2010.
24 A. Leijonhufvud (Out of the Corridor. Keynes and the Crisis, in «Cambridge Journal of Economics», 2009, 33) considera la Old Neoclassical Synthesis, la New Neoclassical Synthesis, la Dynamic Stocastic General Equilibrium Theory altrettante «frodi intellettuali la cui ampia accettazione ha inibito per decenni la ricerca sull’instabilità sistemica».
25 R. Artoni, Poco scientifici e molto dogmatici, in «Il Sole 24 Ore», 26 novembre 2008.
26 D. Colander, H. Follmer, M. Goldberg, A. Haas. K. Juselius, A. Kirman, T. Lux, B. Sloth, The Financial Crisis and the Systemic Failure of Academic Economics, mimeo, 2009.
27 Si veda A. K. Sen, Rational Fools. A Critique of the Behavioural Foundation of Economic Theory, in «Philosophy and Public Affairs»,
1977, 6 (Scelta, benessere, equità, trad. it. di F. Delbono, a cura di S. Zamagni, il Mulino, Bologna 1986).
28 R. Skidelsky, Interesse privato e bene pubblico. Capitalismo e moralità, in «Micromega», 2009, 1.