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legge elettorale

Sottosegretari horror: la “cultura” leghista e quella classe politica che ci meritiamo 

C’è una frase di Matteo Salvini che ieri è sfuggita ai più: un giornalista gli chiede, mentre stava presentando i suoi sottosegretari appena nominati, se questo di Draghi sia davvero il “governo dei migliori”, Salvini sorride tutto soddisfatto e dice che sì, che “questi (riferendosi alla squadra di governo leghista nda) sono sicuramente i migliori, ma noi della Lega ne avremmo altri trenta se servono”.

Non ha torto: i nomi che in queste ore vengono derisi per le loro pessime referenze sono davvero considerati l’eccellenza leghista dal segretario e dai loro elettori, sono le facce più presentabili di un Parlamento che è infarcito di ignoranti fieri, complottisti spregiudicati, mentitori seriali, inadeguati senza coscienza, ripetitori ossessivi di slogan vuoti, servitori del proprio leader, gente senza arte né parte che non troverebbe mai uno sbocco professionale.

Perché è vero che fa schifo avere come sottosegretaria alla Cultura una Borgonzoni che fiera ci ha raccontato di avere letto un libro in tre anni, ma è anche vero che Lucia Borgonzoni ha preso 1.01.672 voti alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna con il 43,63% e, volendo ben vedere, è vero che un italiano su due non legge nemmeno un libro all’anno.

È vero che Borgonzoni non sapeva che la sua regione non confinasse con il Trentino ma è anche vero che una buona fetta di italiani non ritiene la cultura (nemmeno quella di base, quella generale) un requisito per un buon politico.

Così com’è vero che fa schifo che la sottosegretaria alla Difesa Stefania Pucciarelli abbia appoggiato l’idea di mettere i migranti nei forni ma è vero che troppi italiani, di cui molti suoi elettori, sono d’accordo con lei e lo scrivono sui propri profili. Ed è vero che fa schifo che un sottosegretario all’Istruzione come Rossano Sasso abbia ingiustamente accusato uno straniero che poi si è rivelato innocente, ma lo stesso atteggiamento lo ritroviamo in autorevoli editoriali di quotidiani nazionali.

Anche l’ignoranza con cui Sasso ha scambiato Topolino per Dante è qualcosa che spesso suscita addirittura “simpatia”, tra molti. E se qualcuno si stupisce che il nuovo sottosegretario dell’Interno Molteni rivendichi i decreti sicurezza del primo governo Conte, beh, la pensano così tutti gli elettori della Lega, e non solo.

Insomma, non stiamo parlando di casi sporadici ma di genuini interpreti del salvinismo concimato in tutti questi anni e questi sono i frutti. A proposito: non “li hanno votati”, con questa legge elettorale li hanno nominati le segreterie di partito.

Leggi anche: 1. Parla il padre di Lucia Borgonzoni: “Deve ricordare che la cultura è il contrario della xenofobia” / 2. Ruspe ai rom, forni per i migranti: la nuova sottosegretaria alla Difesa è la leghista Stefania Pucciarelli / 3. Crede di citare Dante, in realtà è Topolino: la gaffe del neo sottosegretario leghista all’Istruzione

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Il governo “tecnico” non esiste

La definizione di “governo tecnico” è una truffa: è una locuzione che si ritira fuori ogni volta che non si ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità

Per disinfettare la scarsa credibilità che sono riusciti ad accumulare in questi anni i partiti (praticamente quasi tutti) si sono accodati alla narrazione fallace del “governo tecnico”, della “responsabilità”, al feticcio “dell’alto profilo” e al “governo voluto dal Presidente”. Vorrebbero convincerci quindi che siano in pratica “costretti” a partecipare al governo Draghi per condonare qualsiasi azione venga compiuta nei prossimi mesi, in caso di insediamento del governo, e poter poi ricominciare a sparare a palle incatenate contro Draghi l’uomo solo al comando che ritornerà utile abbattere quando calerà il consenso popolare di questo o di quel leader.

La definizione di “governo tecnico” è una truffa: è una locuzione che si ritira fuori ogni volta che non si ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e viene spalmata da certi giornaloni nella speranza di “sospendere la politica” in un liberi tutti che sospenda ogni giudizio. Eppure il prossimo governo Draghi, com’è giusto che sia, sarà un governo politicissimo: cosa c’è di più politico di decidere una maggioranza in Parlamento che si prenda la responsabilità di guidare un Paese in piena pandemia? Non è politica prendersi la responsabilità di scrivere una legge elettorale? Non è politica l’elezione prossima del Presidente della Repubblica? Non è politica decidere le priorità nella spesa dei soldi che arrivano dall’Europa? Non è politica decidere come e quanto ristorare un Paese in piena crisi occupazionale a causa del virus? Non è politica decidere come provare a fare ripartire un Paese?

Dai, non prendiamoci in giro, su. Questa smania di queste ore che ha colpito taluni capi di partito mentre si mettono in disparte in nome del culto di Draghi come se fosse un Babbo Natale da aspettare solo strizzando gli occhi e sperando di sentire il tintinnio delle renne non ha niente a che vedere con quel senso di responsabilità che viene sventolato in queste ore da tutte le parti. Non si appoggia Draghi perché “calcia le punizioni come Baggio” o perché è un “Ronaldo che non può stare in panchina” (a proposito: avrebbe dovuto essere l’inizio di una politica alta ma il livello dell’analisi è puro bar sport) ma ci si prende la responsabilità di ascoltare e porre i propri temi.

I temi, appunto: la scomparsa dei punti programmatici che fino a qualche giorno fa sembravano imprescindibili dimostra un primo preoccupante effetto Draghi che era facilmente immaginabile ovvero la tentazione dei partiti di nascondersi sotto la sua ombra per poi accoltellarlo alle prossime idi. Se davvero è il momento della serietà allora che si faccia i seri e che questo giro di consultazioni apra un dibattito vero su quali siano gli eventuali punti d’intesa di una maggioranza che potrebbe mettere insieme formazioni politiche inconciliabili fino all’altro ieri.

Perché più continueranno le iperboli sul nome di Draghi senza scendere nella discussione dei punti e più si sente l’odore della truffa. Fingono di prendersi Draghi a scatola chiusa perché sognano di rivendercelo, a scatola chiusa.

Buon venerdì.

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Partoriranno il topolino

Rimarrà (a noi) il dubbio che per risolvere la crisi sarebbe bastato (a loro) parlarsi, di persona, senza spararsi palle incatenate sui giornali e in televisione

Se le cose andranno come sembra che potrebbero andare qualcuno dovrà rispondere dell’avere provocato una crisi politica che è solo un rimpasto travestito da duello finale tanto per aggiungere pathos e meritarsi un po’ di visibilità. Anche perché di pathos, quello vero, quello ruvido che sanguina e che strozza la gola, qui intorno ce n’è già parecchio e non avevamo proprio bisogno di aggiungerci una montagna che partorisce un topolino e che sta tenendo tutto sospeso e tutto bloccato per svolgere una trattativa politica che una politica seria, quella che tende più alla politica che allo spettacolo, avrebbe risolto come le risolvono le maggioranze responsabili.

Anche perché se si annusano gli ultimi venti di questa aria che tira intorno al governo che non c’è sembra che si assisterà all’ennesima trasformazione di una metamorfosi da cui ne escono tutti peggiori. Si è partiti con un presidente del Consiglio che teneva insieme il M5S (quelli che avevano spergiurato di non allearsi mai con nessuno) e Salvini e tutti a braccetto ci dicevano che erano fieri di essere populisti e di essere sovranisti. Quel primo Conte addirittura rivendicava la presenza del sovranismo all’interno della Costituzione e si prendeva scroscianti applausi. Dall’altra parte il Partito democratico ripeteva come un mantra che non si sarebbe mai alleato con il M5S, mai e poi mai, mentre il M5S diceva del Partito democratico che erano un partito di gaglioffi, di pedofili, che rapivano i bambini e che erano il peggio del peggio che si fosse mai visto. Fino a quando il Pd e il M5S (quello che aveva spergiurato di non allearsi mai con nessuno) non si sono presi a braccetto e hanno rinnovato il primo Conte che è diventato il secondo Conte trascinando con loro anche Matteo Renzi che ce l’aveva a morte con chi esce dal Pd per farsi il proprio partito e si è fatto il suo partito e ce l’aveva a morte con i «partitini che provocano la crisi» e ha provocato la crisi. Ora siamo agli stessi attori in campo (più qualche transfugo che avrebbero chiamato «traditore» e che invece ora è diventato «responsabile e costruttore») che vorrebbero fare un governo, loro, per arginare il populismo e il sovranismo.

Ieri hanno discusso di un programma scritto che però hanno deciso di non scrivere. Renzi ha alzato la posta (ma va?) chiedendo più soldi sulle infrastrutture e visto che ci sono hanno anche chiesto il ministero. Poi hanno parlato del Mes, non riescono a mettersi d’accordo sul Mes ma fanno filtrare che sono stati fatti “passi avanti”. Poi hanno parlato di legge elettorale. Eh sì, la legge elettorale: ricordate che avevano rassicurato tutti dopo il taglio dei parlamentari dicendo che era urgente pensare una buona legge elettorale che garantisse l’equilibrio di rappresentanza? Si erano scordati. Ieri al tavolo delle trattative gli è tornata in mente. Poi, siccome dovrebbero essere l’argine di Salvini e dei populisti che vorrebbero governare con l’emotività spicciola, Matteo Renzi ha pensato bene di sparare un tweet che dice così: «A quelli che dicono: “Ma che bisogno c’era di fare la crisi adesso?” Rispondete mostrando una foto dei vostri bambini che giocano in un asilo. Noi oggi stiamo decidendo il loro futuro, i loro debiti». A proposito di bambini e di emotività spicciola. Il più lucido alla fine è parso Tabacci (eh sì, il M5S è stato con Salvini, con Zingaretti, con Renzi e ora anche con Tabacci) che ha fatto notare che forse il programma si dovrebbe discutere con un presidente del Consiglio che per ora non c’è. Pensa te.

Potrebbe finire insomma che si spartiscano le poltrone. Ve lo ricordate quello che all’inizio di tutta questa crisi diceva che non sarebbe finita così? Ecco, sta finendo più o meno così. E se la soluzione sarà questa rimarrà il dubbio che sarebbe bastato parlarsi, di persona, senza spararsi palle incatenate sui giornali e in televisione. Ma vuoi mettere come si sono divertiti? Loro.

Buon martedì.

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Referendum, Nespolo (Anpi) a TPI: “Tagliare i parlamentari per risparmiare? No, si riducano gli stipendi”

Carla Federica Nespolo, 77 anni, ex parlamentare del Pci e del Pds, è la prima donna a presiedere l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Con lei discutiamo del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, in calendario il 20 e 21 settembre. L’Anpi si è schierata per il No.
Nespolo, come risponde al movimento anti-casta, secondo cui il No è la posizione dell’arroccamento?
Più che di “movimento anti-casta” io parlerei esplicitamente e francamente di pensiero populista. Al fondo del quale, inutile girarci attorno, c’è il rifiuto della democrazia come partecipazione e diritto del popolo a scegliersi i propri rappresentanti. Se per “uomini rinchiusi nei palazzi” i fautori del Sì intendono anche i 183 costituzionalisti italiani che si sono dichiarati per il No, dimostrano di non aver capito nulla di quello che, nel colpevole silenzio di tanti, oggi è in gioco.

Cosa c’è in gioco?
Si tratta, sostanzialmente, di un attacco alla democrazia rappresentativa. Non dimentichiamoci che uno dei primi atti del Governo, dopo il 25 Aprile 1945, fu quello di dare a tutti (uomini e donne) il diritto di voto. E dopo 75 anni si vorrebbe tornare indietro e privare persino alcune Regioni del diritto di essere pienamente rappresentate in Parlamento? Inaccettabile. Altro che “casta”: la “casta” è proprio dei “notabili” di partito che, non a caso, sembrano tutti uniti  – ma con molti problemi interni – a votare Sì.

I motivi principali per cui l’Anpi ha deciso di esprimersi per il No: quali sono i valori da difendere?
La difesa della democrazia per cui, 75 anni fa, un’intera generazione si è sacrificata, ha combattuto e vinto. E oggi troppi se ne dimenticano. Mi lasci citare un terribile verso di Giorgio Caproni: “I morti per la Libertà, chi l’avrebbe mai detto, i morti. Per la Libertà, Sono tutti sepolti”. Ecco. L’Anpi è in campo per questo. Perché la democrazia, che tanto sacrificio e tante lotte è costata, non venga oscurata e vilipesa da chi la considera un ostacolo alla propria ascesa politica.

Si insiste molto sul risparmio dei costi, come già avvenuto nell’ultimo referendum costituzionale. Non teme che questo argomento possa essere una spinta difficile da arginare?
Quella dei costi è una sciocchezza che non merita neppure una risposta. Vogliono davvero ridurre i costi del Parlamento? I parlamentari si riducano lo stipendio. Punto e basta. Ma non possiamo nasconderci che questo tema ne nasconde un altro. E cioè la poca stima che l’opinione pubblica ha verso un certo ceto politico. In questo senso condivido la frase del comandante De Falco: “Non voglio essere rappresentato meno, voglio essere rappresentato meglio”.

Il Pd sembra non volersi esprimere o esprimersi molto blandamente a proposito di questo referendum. Che consiglio darebbe al partito di governo?
Non è compito dell’Anpi dare un consiglio ad alcun partito. E tanto meno al Pd. Certo la contraddizione tra aver votato per tre volte contro e ora votare a favore è lampante. Insomma, non sempre sacrificare sull’altare della governabilità la propria coerenza è un buon calcolo. Comunque ho grande rispetto per il travaglio che sta attraversando il Pd. Ma non è un tema che ci vede protagonisti.

In questi giorni circola molto un’intervista in cui Nilde Iotti dichiara che il numero dei parlamentari italiani è eccessivo e dal fronte del Sì sono in molti a ripetere che la riduzione del numero dei parlamentari sia una battaglia storica della sinistra. Come risponde?
Alla citazione di Luigi Di Maio rispetto alla posizione di Nilde Iotti ha già risposto esaurientemente Livia Turco, presidente della Fondazione Iotti. Quello che la presidente Iotti proponeva era un intero nuovo impianto istituzionale, a cominciare da una nuova legge elettorale. Separare la rappresentanza dalla sua funzione è quanto di più volgarmente tattico si possa fare. Mai la presidente Iotti lo avrebbe affermato.

Come ha intenzione l’Anpi di occuparsi di questa campagna referendaria? Con quali mezzi? Come arrivare a più gente possibile, tra l’altro in un periodo difficile come questo in piena pandemia?
L’Anpi sta facendo il suo dovere. Le nostre sezioni territoriali stanno illustrando in ogni parte d’Italia le nostre ragioni e il 10 settembre alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma, faremo il punto con importanti giuristi sulle ragioni del nostro No. Prevediamo anche un intervento di un rappresentante delle Sardine. Inoltre, siamo e saremo attivi anche sui social network. Invitiamo tutti ad andare a votare No. E mi lasci chiudere con una nota di ottimismo.
Prego.
Ce l’abbiamo fatta nel 2016. Ce la faremo anche nel 2020.

Leggi anche:  1. Taglio parlamentari, il costituzionalista Ceccanti a TPI: “Chi votò Sì alla riforma Renzi dovrebbe rifarlo oggi. Ma preferisce attaccare il M5s” / 2. La politologa Urbinati a TPI: “Taglio dei parlamentari? Così il M5S favorisce la casta” / 3. Taglio dei parlamentari: ecco cosa prevede la riforma e come funziona il referendum

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La parità degenere

In Puglia l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia ha impedito che la doppia preferenza di genere fosse inserita nella legge elettorale, come previsto da una norma nazionale del 2016. Così il governo ha dovuto metterci una pezza

Che gran brutta figura che ha rimediato il Consiglio regionale della Puglia. La notizia è passata sottobraccio eppure è una notizia di portata storica perché vede il governo, con il presidente Conte, intervenire per decreto lì dove i consiglieri regionali sono riusciti a dare il peggio di se stessi.

Partiamo dall’inizio: il Consiglio regionale pugliese nell’ultima occasione utile non riesce a introdurre la doppia preferenze di genere così come stabilito dalla legge nazionale, la n.20 del 2016, riuscendo addirittura a farsi bloccare da qualche migliaio di emendamenti da parte di Fratelli d’Italia, quelli della famiglia tradizionale che evidentemente le donne le vorrebbero vedere solo a casa a stirare e accudire i bambini. Che una Regione non riesca a mettersi in regola, dopo oltre quattro anni, con una legge così importante e non riesca a garantire la parità di genere e soprattutto per fare qualcosa di concreto per la partecipazione politica delle donne è la fotografia di un Paese in cui l’autopreservazione (degli uomini) è e rimane uno degli ostacoli principali.

Il governo ha provato a richiamare i consiglieri regionali alle loro responsabilità ma l’invito è caduto nel vuoto: la brama di qualche maschietto di non perdere il posto alle prossime elezioni evidentemente ha contato di più di principi che vengono annunciati e poi mai messi in pratica. Così alla fine è dovuto intervenire il presidente Conte con una mossa che ha qualcosa di storico: il governo ha nominato il prefetto di Bari Antonia Bellomo commissario straordinario con la funzione di provvedere «agli adempimenti strettamente conseguenti per l’attuazione del decreto sulla doppia preferenza di genere nelle Regionali in Puglia». Poche ore dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge.

Ha ragione la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti quando scrive: «Affermiamo così che la parità di genere è un principio da tutelare in tutto il Paese, in maniera uniforme, perché in maniera uniforme va tutelato il diritto alle pari opportunità. Avevo anticipato negli scorsi giorni la volontà di utilizzare questo strumento inusuale, sperando tuttavia che le istituzioni pugliesi si adeguassero autonomamente. Non avendolo fatto, non abbiamo avuto altra scelta che questa per garantire i diritti e la legalità. Ho chiesto e insistito per un commissario straordinario che sia garante della piena applicazione del decreto e lo abbiamo individuato nella persona del Prefetto di Bari».

È un gesto enorme. E giusto. E dimostra invece la parità degenere della politica quando si occupa solo di sopravvivere.

Ben fatto.

Buon lunedì.

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Berlusconi ha già cominciato la campagna acquisti. Il prossimo centrodestra è già putrido

“Non si dice mai di no a chi dice ‘Sottoscrivo il vostro programma’. Noi saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare interamente l’indennità parlamentare”: la frase è stata pronunciata da Silvio Berlusconi durante un’intervista al Corriere della Sera e i “loro” di cui parla sono i transfughi del Movimento 5 Stelle che, nonostante siano stati “espulsi” dal Movimento, saranno eletti (per merito di una pessima legge elettorale, giova ricordarlo) e andranno a rimpinguare un Gruppo misto che si preannuncia già folto fin dall’inizio della legislatura.

Stiamo parlando (per ora) di sei persone coinvolte nel cosiddetto caso “rimborsopoli”: Maurizio Buccarella, in lista al secondo posto per il Senato nel collegio Puglia 2; Carlo Martelli, al primo posto per il Senato nel collegio Piemonte 2; Elisa Bulgarelli, al terzo posto nel collegio Emilia Romagna 1 per il Senato; Andrea Cecconi, al primo posto per il collegio Marche 2 per la Camera; Silvia Benedetti, al primo posto in un collegio veneto per la Camera; Emanuele Cozzolino, al terzo posto in un altro collegio veneto sempre per Montecitorio; dei quattro candidati “massoni” (Piero Landi, candidato a Lucca; Catello Vitiello a Castellammare di Stabia, David Zanforlin a Ravenna e Bruno Azzerboni a Reggio Calabria), di Emanuele Dessì (amico del clan Spada e in affitto in una casa popolare a 7 euro al mese e candidato al Senato nel collegio Lazio 3, al secondo posto).

Ma non è questione solo di candidature sbagliate: qui si tratta di un recidivo (Berlusconi) che sfrontatamente dichiara di avere aperto la campagna acquisti per ambire a un gruppo parlamentare già dopato indipendentemente dal risultato elettorale. È il solito Berlusconi, quello pessimo a cui la storia ci ha abituato, quello che la Lorenzin e la Bonino da sinistra dichiarano come prossimo alleato naturale in nome della responsabilità. È lo stesso disco. Rotto. Vecchio. E quasi nessuno si indigna.

Buon mercoledì.

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Non funziona nemmeno, questa legge elettorale

Lo spiega bene Alessandro Gilioli:

 

Un Renzi ottimista, ad esempio, oggi dice che la sua coalizione (compresa Ap, una lista alla sua sinistra e qualche altra cosa tipo la possibile lista radical-ulivista di cui si vagheggia in questi giorni) potrebbe arrivare a 200 seggi alla Camera, 110 presi con il proporzionale e 90 con il maggioritario.

Immaginiamo anche che sia vero (sebbene i sondaggi siano parecchio più bassi). Per arrivare alla maggioranza mancano 140 seggi.

E qui entra in gioco Forza Italia con i suoi satelliti, tipo i barboncini della Brambilla. Nel proporzionale (sempre a star larghi) Berlusconi e amici porteranno a casa un 60-65 seggi. Nel maggioritario dipende. Dipende tutto dalla trattativa con la Lega e (probabilmente) Fratelli d’Italia. Poniamo anche che Berlusconi riesca a strappare un 50 per cento dei suoi (e non è detto): ciò vuol dire (sempre stando larghi) che arriveranno alla Camera altri 50-55 berlusconiani. Gli altri saranno di Lega e Fdi. In tutto fa 110-120 di Forza Italia e dintorni.

Insomma, nella più rosea (per loro) delle ipotesi, messi insieme Pd più satelliti e Forza Italia più satelliti avranno 310-320 seggi alla Camera. Siamo sul filo del rasoio, ed è – ripeto – una simulazione molto “ottimista” per entrambe le forze, sebbene proprio questo sia il loro obiettivo politico nel far passare il Rosatellum.

In ogni caso: anche se arrivasse a 320 seggi sarebbe una maggioranza fragilissima, instabile, in mano a cacicchi con straordinaria forza di ricatto, probabilmente costretta a imbarcare qualche voltagabbana, oltre che basata su una piccola truffa agli elettori di centrodestra (dato che la loro coalizione nasce per raccattare voti e dividersi subito dopo). Il tutto tralasciando che con ogni probabilità non corrisponderebbe a una maggioranza tra gli elettori.

Se invece (come appare più probabile, numeri attuali alla mano) le larghe intese restano sotto i 315 seggi, la situazione si complica ancora di più. Perché vorrebbe dire che tenteranno di inglobare in questa “maggioranza-Frankenstein” o la Lega (o pezzi di Lega) o pezzi della lista di sinistra (Mdp-Si etc).

C’è poi lo scenario alternativo, ma anche questo in termini di governabilità è piuttosto nebbioso. Cioè che il M5S nonostante questa legge riesca ad avere almeno un deputato in più rispetto a entrambe le coalizioni. In questa evenienza i grillini salirebbero dal Capo dello Stato per avere l’incarico a formare un governo di minoranza (un mix di esponenti del M5S e di personalità esterne di prestigio) per presentarsi alla Camere e chiedere un voto di “responsabilità” e “governabilità” ai singoli deputati. Fantapolitica, per ora. Anche perché il Presidente della Repubblica non è comunque costretto da nessuno ad affidare il primo incarico al partito che ha preso più voti.

Insomma all’orizzonte si vede un pasticcio notevole.

Hanno appena approvato la seconda legge elettorale in due anni: non escluderei che il 2018 partorisse la terza.

“Siate liberi”

Vale la pena riportare le parole che ha pronunciato oggi in Aula Pippo Civati. Vale la pena leggerle, al di là dei legittimi schieramenti politici di ognuno. Perché le truffe hanno bisogno di lucidità per essere smontate. Ecco qui:

 

È la seconda volta che si ripropone la stessa discussione. La prima volta me la ricordo bene: era il 2015 e uscii dalla maggioranza, non potendo più accettare certe scelte e non volendo conformarmi a comportamenti contrari al mandato elettorale.

Se quella era la volta dell’arroganza, questa è la volta della disperazione. Una mossa della disperazione dopo tanti fallimenti della legislatura che non esito a definire «vergogna».

Una legislatura-vergogna nei modi e nella sostanza. Dopo cinque anni siamo arrivati a una legge elettorale che non garantisce solo i nominati, garantisce soprattutto chi li nomina.

Una legge del Cipolla potremmo dire: una legge elettorale della stupidità, autoritaria nei modi con cui viene approvata, quanto autolesionistica nei risultati.

Pensata per penalizzare gli avversari di un movimento, lo fa crescere e fa crescere anche le destre che il partito del governo dice di volere fermare, proprio le destre con le quali la minoranza di governo – perché di minoranza ormai si tratta – è alleata in quest’operazione.

Fare del male agli altri facendone però di più a se stessi e alla qualità del sistema in generale: questa legge contiene la propria condanna, perché chi di poltrona ferisce, di poltrona perisce.

Nata per tenere insieme uninominale e proporzionale, la legge non è né proporzionale, né uninominale: questa legge è solo pessima.

Sarebbe stato possibile sbloccarla, con il dibattito e con il voto dell’aula, questa legge, possibile e necessario. Con due schede, il voto disgiunto, l’abolizione delle coalizionila soglia unica e più consistente, la libera scelta dei candidati nella quota proporzionale.

Invece ci ritroviamo con un trucco, con un uninominale a grappolo in cui il voto non è libero e c’è di fatto un’unica lista bloccata in cui si vede bene il candidato del collegio, abbastanza bene il simbolo e molto poco le liste bloccate che sono ad essi collegate.

Ci ritroviamo con coalizioni fittizie, coalizioni che peraltro esistono solo in Italia, coalizioni precarie, temporanee: coalizioni della domenica. Ci si allea con qualcuno sapendo che poi ci si alleerà con qualcun altro. Coalizioni fedifraghe.

Anche in questo caso la legge fregherà chi si vuol far fregare: Giorgia Meloni lo ha capito, Matteo Salvini – corso in soccorso dell’omonimo – pare proprio di no.

Ci ritroviamo poi con una legge piena di clausole e di eccezioni e non a caso prevede un bugiardino (absit) sulla scheda, cosa più unica che rara.

All’insegna di una certa cultura politica – o, forse, meglio: una sottocultura politicasi rivendica con orgoglio il precedente della “legge truffa” del 1953: segnalo che fu una discussione tormentata e combattutissima, che finì con Andreotti con il cestino sulla testa, Ingrao ferito in piazza, il Presidente della Camera ferocemente contestato, le dimissioni del Presidente del Senato e con una profezia che nemmeno Fassino: perché la legge non raggiunse il suo scopo e fu abrogata l’anno dopo. E quella fiducia non portò certo fortuna a chi la pose, com’è accaduto anche con l’Italicum, peraltro, che qui fu votato.

L’ex premier – il vero franco tiratore di questa storia – impone e forza, com’è suo costume, e Gentiloni obbedisce: ecco non siate troppo gentili con il Capo, siate costituzionali, perché questo è un disastro che provoca sfiducia, non fiducia. È la legge della sfiducia: anche il vostro nume tutelare Giorgio Napolitano vi ha abbandonato.

Volenti non fit iniuria: siccome il voto dei cittadini non potrà essere libero e consapevole in questo marchingegno volutamente complicato e pensato da menti ossessionate dal potere a tutti i costi, lo sia il vostro.

Care colleghe, cari colleghi, almeno una volta in questa legislatura, siate liberi.

Una pessima legge elettorale. Un pessimo silenzio tutto intorno. E una petizione.

È una pessima legge elettorale. L’ennesima legge elettorale di nominati in cui la fedeltà al proprio capo garantisce l’elezione più di una reale connessione con i propri elettori. Essere servi conterà più dell’avere voti. Sul perché ne ho scritto (qui, qui e qui) ma sarebbe utile e curioso anche riflettere sul perché a molti vada bene così.

E qui, di solito, si colgono alcune giustificazioni abbastanza ridicole. C’è chi dice che l’importante è votare per rinnovare il Parlamento (giuro) come se il compito della politica non fosse quello di costruire modelli e meccanismi ma semplicemente un gioco puerile di figurine in cui la presunta superiorità etica delle persone (e non dello Stato e del suo funzionamento) sia una garanzia. Che, in fondo, è la stessa favola che ci hanno propinato negli ultimi anni.

Poi c’è chi dice “tanto noi facciamo le primarie” (che siano fisiche o di click) e poi sono quelli che hanno portato al governo tutti i loro concittadini oppure hanno segato candidati sindaci vincitori delle primarie per volere del capo.

Poi ci sono quelli che cadono nel tranello: se ci dicono che è una buona legge elettorale allora gli credo perché lo dice il mio leader.

E infine, permettetemelo, ci sono quelli che hanno lottato per difendere la Costituzione e poi chissà perché non alzano la voce contro una legge elettorale che di spirito costituzionale ne ha proprio poco.

Intanto c’è una petizione che forse vale la pena firmare. Qui.

“In Parlamento andranno solo i nominati e le liste bloccate saranno addirittura due”

(Andrea Pertici intervistato da Antonella Mascali per Il Fatto Quotidiano)

Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?

Nulla, tranne la soglia di sbarramento del 5%, se rimane. Mentre in Germania chi vince nel collegio uninominale viene eletto in Parlamento, nel caso italiano i candidati dell’uninominale non fanno altro che mettersi in fila per essere tra gli eletti del loro partito. E non sono neppure tra i primi. La priorità spetta al capolista del listino bloccato poi, eventualmente, il candidato arrivato primo nel collegio uninominale, seguono gli altri della lista bloccata, infine, se il partito ha ancora diritto a ulteriori seggi, passano i candidati dei collegi uninominali che non sono arrivati primi.

Quindi, come con il Porcellum e con l’Italicum, abbiamo sempre dei nominati in Parlamento?

Esattamente. Sono tutti nominati e le liste bloccate sono addirittura due. Una evidente, che compare sulla scheda, cioè il listino, e l’altra formata dai candidati della lista per i collegi uninominali, all’interno di una circoscrizione.

Dunque, per il meccanismo che ci ha spiegato, le segreterie scelgono anche i numeri uno dei collegi uninominali, per controllare chi sarà eletto?

I primi di cui hanno cura sono i capilista del listino bloccato: anche se vanno in vacanza senza fare campagna elettorale, saranno eletti. Seguiranno i numeri 1 della parte uninominale, anche questi indicati dalle segreterie di partito.

Ma gli elettori cosa scelgono?

Scelgono il partito. Accanto al suo simbolo c’è il candidato uninominale, che cambia di collegio in collegio, dall’altra parte del simbolo c’è il listino bloccato uguale per tutta la circoscrizione.

Il Porcellum è stato bocciato dalla Consulta, l’Italicum idem. E il Tedeschellum ha recepito o ignorato quanto indicato dalla Corte costituzionale?

La cosa positiva è l’eliminazione dei premi di maggioranza, che la Consulta non reputa di per sé incostituzionale, ma sono a forte rischio quando assicurano sempre e comunque una maggioranza. Viceversa, è stata aggirata la necessità di non avere lunghe liste bloccate e di consentire agli elettori di scegliere gli eletti. Tanto è vero che perfino il candidato nel collegio uninominale anche se vince non ha certezza di entrare in Parlamento.

Dunque, ci risiamo? Si va di nuovo davanti ai giudici costituzionali?

Sulla incostituzionalità avrei qualche dubbio in più, il sistema valorizza molto poco il voto dell’elettore ma certamente dal punto di vista formale non c’è un’unica lunga lista bloccata ma una evidente e un’altra occulta, più corta.

Lei è stato chiamato alle audizioni parlamentari. Cosa aveva suggerito?

Un compromesso per valorizzare la rappresentanza e tenere ferma l’esigenza di stabilità di governo. In sostanza un sistema misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale, che sembrava il preferito. Era venuto fuori il cosiddetto Rosatellum, non congegnato benissimo ma si poteva lavorare per perfezionarlo. Invece, si è abbandonato e si è intrapresa questa strada, sicuramente peggiore.

Qual è secondo lei la ratio di questa scelta?

La volontà di trovare una legge che passi rapidamente per assecondare una spinta al voto anticipato di cui non si comprende l’esigenza a questo punto, quasi finale, della legislatura.

E la fretta non porta a nulla di buono…

Mai. È una legge non in linea con il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani hanno ribadito che vogliono scegliere direttamente i propri rappresentanti.