Vai al contenuto

libri

“Sono imparziali solo quelli che confermano le mie idee”

Proviamo per una volta, con calma, a non azzuffarci per partito preso e a non lasciarci rapire dal tifo. Partiamo dalla fine: il can can che si è sviluppato in questi ultimi giorni sulla proposta di nomina di Marcello Foa a presidente della Rai è lo specchio di un momento che dura da molto di più di questo ultimo governo.

Foa innanzitutto: il 6 dicembre dell’anno scorso su Pandora TV dichiarava di avere parlato con dei medici (non si sa bene chi, non si sa bene dove, non si sa bene come) che gli avevano assicurato che i vaccini “creino shock al corpo del bambino molto forte che rischia di danneggiare il suo normale equilibrio”. Prove? zero. Nomi? Zero. In compenso c’è una sentenza della Cassazione che, volendo vedere, scrive proprio di una certa faciloneria che porta consenso a chi rumoreggia sul tema.

Poi, il 26 luglio twitta “Paradossi: Salvini propone di rendere obbligatorio il crocifisso ma lo paragona a Satana. Qualcosa non torna. O sbaglio?”. Sbagli. Perché il mondo, per fortuna, non funziona come una banale do ut des: se strumentalizzo una lisciata al tuo mondo non mi compro l’indulgenza per compiere cazzate.

Poi. Sempre il 26 luglio (che giornata di fuoco per il presidente in pectore della Rai) Foa ritwitta DefenseEurope. Ve li ricordate? Sono quelli della barchetta fascistella che avrebbe dovuto presidiare il Mediterraneo e invece, come tutti i fascisti, ha collezionato una vigliacchetta figura barbina. Uno dice: sarà un caso.

Andiamo avanti. Il 13 agosto dell’anno scorso Foa retwitta un articolo in cui si dice che gli immigrati sono dediti al cannibalismo.

Poi. Sempre il 13 agosto dell’anno scorso Foa retwitta un inconsueto assioma per cui Medici Senza Frontiere sarebbero i veri colpevoli della guerra in Iraq.

Il 15 agosto del 2017 propaga la notizia di un piano di sostituzione etnica voluto dalla Boldrina. Scritto proprio Boldrina.

Poi c’è tutta una letteratura contro le ONG. Poi c’è una elegante critica al giornalista di Repubblica Zucconi accusato di demenza senile. Una fulminante battuta sul primo arrestato per la legge Fiano a Predappio per avere fatto di tutta l’erba un fascio. Poi i rifugiati chiamati risorse. Poi Grasso che per ordini dall’alto apre ai migranti e li mantiene. Poi un denso tweet sul movimento #metoo in cui un utente conferma che lo sapevano tutti che il cinema è un gran bordello. Poi un meraviglioso retweet di quel fascistello di Casapound che definisce Mattarella blasfemo. ignobile, anticostituzionale. Poi una battuta sulle labbra di Lilli Gruber. Poi decine di tweet di incoraggiamento a Salvini. Poi un tweet contro Di Maio quando non voleva accordarsi con Salvini.

E questo è niente: basta spulciare i social di Foa per toccare con mano cosa sia la comunicazione (banale, tronfia e talvolta falsa) di questa nuova misera destra muscolare.

Si alzano giustamente voci di protesta.

Lui ringrazia per la fiducia bipartisan, sbagliando ancora una volta vocabolario. Bipartisan non significa le due metà del potere, caro Foa, tutt’altro: bipartisan significa ben voluto da tutti. E no. Tu no. Ciao.

Andiamo avanti: qualcuno fa notare che la lottizzazione della Rai è roba vecchia, che anche quelli prima hanno fatto lo stesso se non peggio. Vero.

Qualcuno però sottolinea come il cambiamento sia appunto una rivoluzione nelle pratiche. Altrimenti si chiamerebbe semplicemente meno peggio. Ma a questo non rispondono.

Forse la soluzione, semplice semplice, è un’altra: il potere (ma mica solo il potere, anche molti commentatori social, ad esempio) si sono convinti nel tempo che i bravi giornalisti siano quelli che riescono meravigliosamente a confermare le nostre tesi, anche le più disparate, magari addirittura con termini e ragionamenti più evoluti dei nostri. Il dubbio è un disturbo da scansare.

Allora il prossimo presidente della Rai davvero si potrebbe semplicemente sorteggiare tra i vostri amici, quelli che vi conoscono bene, che sanno sempre la parola giusta da dirvi al momento giusto. No?

Buon lunedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/07/30/i-pessimi-governanti-hanno-da-sempre-il-vizio-di-chiamare-giornalisti-i-signorsi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Facevano già schifo ventisei anni fa

“Fino a ieri “terroni go home” l’avevano scritto solo con le bombolette spray, sui muri all’ingresso delle città o sui cartelli delle autostrade. Mani anonime che nella notte lanciavano urbi et orbi il loro sfratto ai meridionali, urla senza volto dietro le quali poteva esserci uno, nessuno o centomila. Fino a ieri. Perché da sabato scorso l’invito agli italiani del Sud a tornarsene a casa, a lasciare i territori del Nord, è scritto nero su bianco su un grande manifesto che campeggia sui muri di molte città, dall’Emilia rossa al Trentino bianco, dall’opulenta Lombardia al candido Veneto.

Cosa c’è scritto, su quel manifesto? C’è un segnale d’allarme, messo lì a motivare quel che segue: “Emergenza!”. E c’ è un invito cortese e ipocrita: “Onesti e bravi siciliani, calabresi, campani e sardi, fate un atto di coraggio: tornate a casa”. Il tutto condito dalla seguente argomentazione: “La criminalità organizzata e protetta si è impadronita delle vostre terre e quella povera gente ha bisogno di voi. I nostri figli ci sono già andati e sono stati accolti a fucilate. In una terra ostile, dove il razzismo e la criminalità dilagano e la presenza degli alpini e di tutti i nostri giovani soldati è osteggiata, vogliamo ritorni la civiltà”. E chi può portarcela, la civiltà, meglio di quei meridionali che l’hanno conosciuta al Nord? Nessuno. Dunque facciano le valige, lascino pure ai settentrionali le loro case e i loro posti di lavoro, e vadano a sbrogliare quella matassa insanguinata che si chiama mafia.

La novità, dicevamo, è la firma. “I giovani del Nord”, che sarebbe l’organizzazione giovanile della Lega di Bossi. E così accanto al federalismo e alla rivolta fiscale, in attesa di una improbabile marcia su Roma, i leghisti puntano verso il Sud un missile che somiglia molto a quella pulizia etnica che sembrava sepolta nei libri di storia e invece è riemersa tra le macerie dell’ex Jugoslavia. Le case di Zafferana. Evidentemente, più la crisi avanza, più la politica va in cancrena e più si fa strada quella sorda insofferenza che sette anni fa, quando il vulcano minacciava le case di Zafferana, si manifestò in Veneto con le scritte sui ponti dell’ autostrada: “Forza Etna!”. Fuori i sudisti dal Nord?

A Trento, appena il manifesto è apparso sui muri della città, un commerciante di origini calabresi ha alzato il telefono e ha chiamato, allarmatissimo, il centralino dell’Adige. Il giornale ha aperto il caso e il leader dei giovani dc del Trentino, Maurizio Roat, ha subito lanciato l’allarme: “Questo genere di inviti evoca sinistri ricordi del passato, e propone scenari jugoslavi. I giovani della Lega vogliono forse promuovere l’epurazione etnica?”. Luca Matteja, il segretario dei “Giovani del Nord”, ha dato una risposta debole ed evasiva: “Il vero razzismo è continuare a opprimere la gente onesta e sana del Sud con il modo di governare della Dc”. Non ha detto che lui non intende affatto rimandare a casa i meridionali. Né l’ha detto il capogruppo della Lega a Montecitorio, Marco Formentini, subito intervenuto per tentare di sgombrare il campo dagli imbarazzanti sospetti avanzati dal giovane democristiano.

Quel manifesto, sostiene l’onorevole Formentini, “era stato fatto nel mese di agosto, in occasione delle tensioni scoppiate tra i nostri militari e alcuni individui faziosi”. Roba vecchia, scaduta. E come la mettiamo con l’invito ai meridionali a tornarsene a casa? Qui il capogruppo si arrampica un po’ sugli specchi, spiegando che l’intenzione era quella di invitare “gli altri giovani di ogni regione d’ Italia, ad impegnarsi nella lotta alla criminalità e per il riscatto della gente onesta”. Chi parla di “epurazione etnica” conclude Formentini, non ha capito nulla. Anzi, compie un’operazione “tendenziosa e in malafede”. Una smentita a metà, come si vede. Che non fuga per niente il dubbio che la Lega intenda alla fine cavalcare quell’inconfessabile sentimento popolare che vorrebbe rispedire al Sud i terùn, gli emigranti brutti sporchi e cattivi venuti a rubare il lavoro ai figli della Padania”.

L’articolo che avete appena letto risale al 28 ottobre del 1992 (che anno, quel ’92, in cui la Lega era il governo del cambiamento con tutti quei corrotti), è stato pubblicato in quell’anno su Repubblica e racconta perfettamente il periodo che stiamo vivendo e soprattutto la natura della Lega di Salvini (o Lega Nord, o Lega Lombarda o come si è chiamata in tutti questi anni passati) che da sempre ha avuto bisogno di individuare dei pericolosi ultimi per accendere gli animi e rimestare nella merda. Ma questa volta, nel buongiorno di oggi, non c’è nemmeno bisogno di leggere altro: leggete questo pezzo di ventisei anni fa, stampatelo, giratelo via mail agli amici. Ecco quello che siamo stati senza imparare la lezione.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/06/20/facevano-gia-schifo-ventisei-anni-fa/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Tra tutti, l’amico più interessante di Philip Roth

Philip Roth aveva amici importanti e famosi, questo lo si sa: era amico di John Updike, che vedeva poco ma sentiva spesso, di Mia Farrow ed era particolarmente legato a Norman Manea, lo scrittore romeno. A due settimane della sua morte, però, è saltata fuori una storia di cui prima si sapeva ben poco: Roth era anche amico del proprietario di una bancarella di libri, che ha frequentato negli ultimi suoi trent’anni di vita, e che ha aiutato firmando, ogni volta, decine di copie di libri, che questi rivendeva senza sovrapprezzo. La storia è stata raccontata qualche giorno fa da Spectrum News NY1, il sito legato alla televisione locale newyorchese.

Enrico Adelman, questo il nome dell’amico di Roth, gestisce da decenni una bancarella di libri nell’Upper West Side, non lontano da Zabar’s, lo storico negozio gourmet. Nel 1989, si ferma davanti alla sua bancarella un tizio che somigliava incredibilmente a Philip Roth: infatti era Philip Roth. I due si rincontrarono qualche giorno dopo a una festa, iniziarono a chiacchierare e divennero amici. Adelman gli chiese di firmare qualche decina di copie, che avrebbe poi venduto alla sua bancarella: lo scrittore acconsentì e, da allora, divenne una tradizione tra i due.

Ogni volta che Roth pubblicava un libro, Adelman gli faceva firmare svariate copie: le vendeva al prezzo standard, ma pubblicizzando bene che alla sua bancarella si trovavano i libri firmati dal celebre autore. Ogni tanto, sostiene New York One, i due pranzavano anche insieme. L’ultima volta che si sono visti era lo scorso aprile, quando il libraio andò a casa dello scrittore con trecento volumi da firmare. L’ultima volta che si sono sentiti è stato lo scorso 18 maggio, quando Roth ha mandato ad Adelman un messaggio al cellulare: «Sono in ospedale». Quattro giorni dopo, è morto. Adelman ha partecipato al funerale.

(fonte)

Perché la Casa internazionale delle donne andrebbe difesa (anche) dagli uomini

È un episodio singolo ma è anche il paradigma di una deriva. Che Virginia Raggi, con l’appoggio del suo consiglio comunale, voglia chiudere la Casa internazionale della donne a Roma facendo leva sull’affitto (esoso) non interamente pagato è roba che dovrebbe interessare tutti coloro che hanno a cuore diritti, cultura e l’ecologia sociale di una città.

Non funziona nemmeno l’articolato equilibrismo della sindaca che dichiara di «non voler chiudere la Casa delle Donne» ma semplicemente «farla tornare nelle mani dell’amministrazione comunale». La frase, pur funzionale dal punto di vista della propaganda e della difesa politica, non ha nessun senso: la Casa nasce come spazio autonomo e ha la sua storia (e la sua forza) proprio nell’indipendenza di pensiero e di azione rispetto alla politica circostante: la Casa non può tornare nelle mani dell’amministrazione semplicemente perché non ci è mai stata e perché proprio nella sua distanza dalla politica ha trovato la forza di farsi rifugio e accoglienza per molte donne che nel corso degli anni hanno dovuto affrontare benpensanti, democristianismi, bigotti e tutto il resto.

Preoccupa ancora di più che la politica (in questo caso di tratta di Roma ma il discorso è molto più ampio e pariteticamente molto più trasversale) si metta a fare una sommaria relazione sull’attività pluriennale della Casa definendo l’attività fallimentare per gli ammanchi economici nei confronti della pubblica amministrazione: la Casa internazionale delle donne (così come capita per molte realtà associazionistiche) ha sostituito lo Stato lì dove lo Stato non ha avuto il coraggio (o la voglia, o il guadagno in termini di consenso) di arrivare. Se dovessimo stilare un bilancio totale le attività di formazione, di costruzione di coscienza civica, di informazione sui diritti, di consultorio e di appoggio credo che dovrebbe essere il comune di Roma a risultare terribilmente creditore.

Ma la battaglia della Casa internazionale delle donne concede a noi uomini un’altra occasione: difendere quello spazio senza volerselo mangiare e senza intestarsi una lotta. Interessarsi dei diritti degli altri: i diritti, del resto, sono quasi sempre quelli degli altri, come diceva Pasolini.

Perché oggi tocca a loro ma domani sarà un altro luogo, di diritti e di cultura, ad essere pesato per il bilancio piuttosto che per l’attività ed è bene che questi capiscano il prima possibile che il business dei diritti non funziona, non ha mai funzionato, se non per riempire la bocca di qualche becera uscita elettorale.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/25/perche-la-casa-internazionale-delle-donne-andrebbe-difesa-anche-dagli-uomini/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Confermare la collocazione europea»: ciao ciao sovranisti salvinisti

Uno degli scotti da pagare nello spararle grosse in campagna elettorale è che poi, soprattutto in caso di vittoria, arriva la resa dei conti e diventa tutto terribilmente difficile. Provate a ripensare ai politici che si sono avviati spediti a governare sull’onda di un’immagine convincente per poi schiantarsi miseramente. Solo Berlusconi, forse, è riuscito a durare abbastanza a lungo da essere considerato un’anomalia. Lui e Andreotti. Sulle affinità elettorali (più che elettive) tra i due ci sono due belle pubblicazioni da leggere: la sentenza Andreotti (non il bigino di Vespa) e quella Dell’Utri.

Così succede che ora che Giuseppe Conte si prepara a essere presidente del consiglio sono bastate quattro parole quattro (tre più un articolo determinativo) per spegnere gli intestini che Matteo Salvini si è divertito a stuzzicare famelicamente in campagna elettorale in cambio di un pugno di voti: Conte ha esordito sottolineando la “necessità di confermare la collocazione europea“. Il turbosovranismo leghista in salsa elettorale è già svanito. Pluff.

In Europa si va a chiedere di cambiare le regole d’ingaggio (e sarebbe ora) ma la politica internazionale è qualcosa di più complesso di un cliccatissimo post su Facebook. Il governo deve ancora partire ma l’uscita dall’Euro e il tripudio degli aspiranti Farage è già spento prima di iniziare.

E i prossimi mesi saranno così: un equilibrio difficile tra ciò che si è promesso e ciò che si riuscirà davvero a mantenere. Con una differenza che però è sostanziale: se è vero che con Di Maio il Movimento 5 Stelle già da tempo ha limato le proprie posizioni cercando una quadratura del cerchio dall’altra parte Salvini ha giocato a fare l’incendiario senza mai pensare al piano b. E ogni volta che dovrà scendere a compromessi ritirerà fuori il democristianesimo di Di Maio accendendo senza remore il conflitto interno. Ha appena sciolto la coalizione con cui si è presentato alle elezioni. Ricordate?

Buon giovedì.

(A proposito, consiglio non richiesto all’opposizione che vuole costituirsi parte civile: augurare a Conte di fallire significa augurare al Paese di fallire. Non è una grande idea. Così, per dire. Proposte, piuttosto. Proposte.)

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/24/confermare-la-collocazione-europea-ciao-ciao-sovranisti-salvinisti/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Eletto dal popolo

Movimento 5 Stelle e Lega Nord hanno corso alle ultime elezioni da avversari. Se le sono date di santa ragione, anche. E se due partiti se le danno si santa ragione, inevitabilmente, significa che in quel momento sono convinti di avere differenze irredimibili di programma e, in questo caso, di valori etici. I leghisti dicevano descrivevano i grillini come impreparati, fanfaroni, non credibili; i grillini descrivevano i leghisti come ladri, servi di Berlusconi, pericolosi e molto altro.

Non solo: il Movimento 5 Stelle ha sempre detto di non volere nemmeno immaginare un accordo con i partiti. La diversità del Movimento stava proprio nel ritenere tutti uguali gli altri, inconciliabili con i valori del Movimento. La Lega, dall’altra parte, rivendicava l’appartenenza alla coalizione di centrodestra (ricordate? Salvini voleva esserne il leader, fin dalla campagna elettorale). In sostanza si sono presentati agli elettori così.

Poi: la contestazione fatta al Partito democratico nel corso degli ultimi governi (con tutte quelle che invece nel merito si sarebbero potute fare) fu di avere messo alla presidenza del consiglio Matteo Renzi che alle elezioni non si era nemmeno presentato come semplice parlamentare. Dissero (sia Salvini che di Maio) che un governo non uscito dalle urne è una forzatura del presidente della Repubblica. Inaccettabile, dicevano.

Ancora: tra le diverse contestazioni fatte al governo Renzi ci fu quella di essere avvenuto quando gli equilibri politici erano ormai cambiati. In sostanza l’accusa era di essersi presentati alle elezioni da alleati con la sinistra e poi avere cambiato gli equilibri.

Bene. Facciamo un patto. Quello che sta accadendo ora (e non si dica del contratto di governo perché ogni governo nel momento in cui chiede la fiducia al Parlamento ovviamente illustra un programma, senza bisogno della metafora berlusconiana del contratto) è politica. Mettiamoci d’accordo: o quelli di prima erano pessimi e quindi sono pessimi anche questi, oppure semplicemente la politica e le mediazioni funzionano così, come stabilito nei termini della Costituzione. Almeno questo, prima di partire.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/22/eletto-dal-popolo/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Resistere oggi è (anche) non permettere di intossicare la Storia

Piuttosto che scrivere sul 25 aprile oggi, di questi tempi varrebbe la pena leggere, studiare, ostinatamente ricordare, ricordare ad alta voce, resistere all’intossicazione che qualcuno insiste nel propagare per rammollire la Storia e così anche i valori di quella Storia e della Resistenza.

Nel 2004 Giorgio Bocca scriveva:

«C’è da mesi una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall’alto, coltivata dai cortigiani. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l’uso dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell’accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che evidentemente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l’armistizio, hanno chiuso decine di migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena. L’argomento delle nostre deportazioni è talmente poco conosciuto che il presidente del consiglio Berlusconi può permettersi di parlare di un Mussolini che «mandava gli antifascisti in vacanza sulle isole». L’uso dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni si equivalgono a quelle per cui morirono gli altri è inaccettabile. La pietà per i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a piangerli, ma non è dei morti che si giudica, ma di quando erano vivi e stavano al fianco degli sterminatori nazisti. Ricostruiamo l’unità della patria, dicono, dimentichiamo la guerra civile, sostituiamo alle fazioni la unità della democrazia. Ma la democrazia dov’è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro Paese? Ai suoi sostenitori basta che il governo non apra i suoi lager, che non fucili gli oppositori, che non soffochi tutte le voci critiche per gridare che la democrazia è salva. Ma la mutazione autoritaria è sotto gli occhi di tutti, anche dei rassegnati o indifferenti: i personaggi della televisione invisi al potere cacciati o tacitati, gli autori di libri all’indice berlusconiano esclusi dalla televisione e ignorati dai giornali (…). E anche la corruzione più pesante e sfacciata, i prestiti bancari, i ricatti della pubblicità, le concorrenze mafiose».

Lo scriveva 14 anni fa. Se notate che sia ancora terribilmente attuale avete il senso di quanto ciò che abbiamo fatto non sia abbastanza.

Buon 25 aprile.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/04/25/resistere-oggi-e-anche-non-permettere-di-intossicare-la-storia/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Una battaglia (politica) per la lettura. Anzi: un piano nazionale per la lettura.

Abbiamo una classe dirigente estranea ai valori della cultura, dunque perchè stupirci se viene fatto poco per promuovere la lettura?”: la domanda l’ha posta a gennaio di quest’anno Giovanni Solimine, presidente onorario del Forum del Libro e della Fondazione Bellonci che organizza il premio Strega. Solimine (che i libri li legge, oltre che parlarne) nella sua intervista propone anche alcune possibili soluzioni:

«“Lo sgravio fiscale per l’acquisto dei libri e un impegno sul territorio per librerie scuole, biblioteche. Soprattutto nelle periferie urbane o in alcuni paesi del SUd, dove i dati di lettura sono molto al di sotto del pur basso 40% della media nazionale”.»

Proprio su un piano nazionale della lettura (e il deprimente disinteresse della politica) Nicola Lagioia aveva scritto un prezioso articolo per Repubblica (che trovate riportato da Minimaetmoralia qui) in cui scriveva:

«Com’è ovvio la questione del reddito è centrale: chi ha più soldi in tasca compra più libri – se confrontate la classifica delle regioni italiane per libri letti con quella del reddito pro capite, le posizioni coincidono quasi tutte. A parte questo, per il libro sono almeno cinque i punti chiave da cui iniziare la partita: scuole, librerie, biblioteche, comparto editoriale, promozione. Prima di addentrarci nel discorso, una premessa. La filiera del libro in Italia è piena di professionisti di valore. In particolare nelle case editrici (veniamo da una grande tradizione, siamo il paese di Aldo Manuzio) ci sono eccellenze che è difficile trovare anche nei paesi dove si legge più che da noi. Non ho invece mai visto niente di più avvilente dei nostri uomini politici – la maggior parte di essi – quando parlano con enfasi di editoria e promozione della lettura convinti di sapere ciò che dicono. Il mio consiglio a chi ci rappresenta è dunque: siate umili, per una volta fate prevalere l’ascolto sull’ansia di protagonismo. Il vostro compito è favorire il lavoro di chi sa farlo già egregiamente in un contesto ostile.

Cominciamo dalle scuole. Le biblioteche scolastiche sarebbero i luoghi perfetti per la promozione della lettura, se solo fossero sufficientemente attrezzate, se fossero attive (in molte scuole ci sono biblioteche dove in un anno non entra un libro), e soprattutto se ci fosse un bibliotecario, cioè una persona il cui compito è promuovere la lettura tra gli studenti, con strategie che variano a seconda del contesto in cui si trova. Attualmente nelle scuole le biblioteche sono affidate al buon cuore dei docenti che se ne occupano tra mille altre cose. La figura del bibliotecario scolastico – presente in quasi tutti i paesi europei – in Italia esiste solo nella provincia autonoma di Bolzano, non a caso una delle zone in cui in Italia si legge di più. Anche prevedere più tempo per la lettura ad alta voce potrebbe essere un’idea. È importante leggere un testo critico sui Fratelli Karamazov, ma se questo impedisce agli studenti anche solo di iniziare a leggere il capolavoro di Dostoevskij, c’è un problema.

Nei luoghi dove ci sono più librerie e più biblioteche pubbliche si legge di più. Non è solo la domanda che genera l’offerta: spesso accade il contrario. In paesi come la Francia o la Germania ci sono misure a sostegno delle librerie meritevoli (la manovra di dicembre introduce il credito d’imposta, ma è solo un inizio, bisogna fare decisamente di più) che ne fanno dei modelli esemplari. Per ciò che riguarda le biblioteche: esclusi i casi virtuosi (uno su tutti: la Sala Borsa di Bologna) le biblioteche oggi occupano uno spazio marginale nelle pratiche culturali degli italiani – prive di mezzi, drasticamente sotto organico, specie al sud, sono il settore per la promozione della lettura dove il margine di miglioramento è maggiore.

L’editoria italiana è dinamica e altrettanto audace. Non è infrequente che grandi autori stranieri vengano scoperti da noi prima che altrove, e non è raro che gli autori italiani abbiano un certo successo all’estero. A differenza di altri settori (come il cinema o il teatro) l’editoria libraria si autosostiene. Da una parte è un bene (la mancanza di assistenza pubblica costringe a innovare di continuo), ma questo non significa che una buona cornice normativa non possa rinvigorire un settore meritorio. Dai contributi alle traduzioni, a quelli per la vendita all’estero dei diritti d’autore di libri italiani, a un più vasto ed efficace piano di agevolazioni fiscali per chi acquista libri, anche qui, trarre ispirazione da ciò che accade in paesi più evoluti non fa male.

Qualche tempo fa, nel corso di fortunati incontri pubblici che chi ha visto ricorda, la pubblicitaria Annamaria Testa metteva a confronto le nostre campagne istituzionali di promozione alla lettura con quelle di altri paesi. Il paragone era imbarazzante. Di come una campagna di comunicazione istituzionale possa coprirsi di ridicolo ne abbiamo avuto dimostrazione con il Fertility Day. In questo caso il margine di miglioramento non esiste perché bisognerebbe proprio cambiare paradigma.»

In un periodo storico in cui qualcuno si è rimesso a bruciare i libri e in cui più in generale il sapere è trattato come un fastidio (dai “professoroni” ai “radical chic”) impegnarsi per un piano nazionale per la lettura è una rivoluzione culturali. E pensate come suonerebbe bene un’evoluzione in tempi di involuzioni continue. Ecco un impegno da prendere.

“Respingiamoli”: LEFT, cosa ci abbiamo messo dentro

Il fronte neoliberista e anti migranti non è mai stato così unito.
La destra minaccia espulsioni di massa. Il centrosinistra “celebra” un anno dal decreto Minniti.
Ecco gli effetti di una partita elettorale giocata sulla negazione dei diritti umani

COPERTINA

Fuggi dalla guerra? Peggio per te

di Leonardo Filippi

Il racconto dei migranti: «Non sapevo che la neve bruciasse»

di Claudio Geymonat e Federica Tourn

Vivere, lavorare e morire ai tempi della ghetto economy

di Giulio Cavalli

Storia di Topu, cinque lingue, due lavori e un sogno

di Amarilda Dhrami

Oltre le barriere della Fortezza Europa

di Simona Maggiorelli

L’esercito delle colf in fuga dalla Moldavia

di Yurii Colombo

Amnesty: questo non è un pianeta per donne e bambini

di Luca Leone

Protezione dei minori, Italia in grave ritardo

di Letizia Magnani


Gaetano Azzariti: Prima i diritti poi i vincoli di bilancio

di Donatella Coccoli

L’Eni e il risiko del gas in Medioriente

di Roberto Prinzi


Momentum, terrore delle destre

di Domenico Cerabona

Liam Young (Labour): Una rivoluzione tra i giovani

di Bethan Bowett-Jones e Giuliano Granato

La ricetta di Barcellona: democratizzare la cultura

di Steven Forti


Come impoverire una lingua millenaria

di Alessandra Colarizi

Il suono e il potere della scrittura

di Federico Masini

La trappola letale degli psicofarmaci

di Maria Gabriella Gatti

Via la parola razza dalla politica

di Pietro Greco

47Soul, l’arabic sound alla conquista di Londra

di Lorenzo Fargnoli


le rubriche

Left Quote

di Massimo Fagioli

Editoriale

di Simona Maggiorelli

Vaurandom

di Vauro

Temperature

di Fabio Magnasciutti

Libri

di Filippo La Porta

Cinema

di Daniela Ceselli

Tempo liberato

Community

(lo trovate in edicola o in digitale qui)

Piccolo manuale per una pessima campagna elettorale

Non vale la pena buttarsi sul pensiero, sulle idee e tanto peggio sugli idealismi. Fate una campagna elettorale sul presente. Anzi, meglio ancora: sulla cronaca. Per essere perfetti: sulla cronaca nera. C’è l’ammazzamento, il sangue, la sofferenza, l’empatia, un cattivo ancora tutto insanguinato e un morto con tutti i parenti piangenti intorno. Non hanno bisogno di grandi interpretazioni, i fatti di cronaca: irrorano tutti i nostri strati primitivi. Va bene così.

Prendete uno spicchio del fatto di cronaca scelta e trasformatelo nel paradigma dello stato attuale delle cose. Gli elettori ve ne saranno grati: la soddisfazione di avere capito perfettamente è il modo migliore per meritarsi il voto e la fedeltà di chi ha sempre vissuto il sapere e la complessità come barbosi ostacoli alla propria realizzazione. Quel manico di pugnale ritrovato sotto una siepe a pochi metri dal delitto è tutto il vostro programma elettorale.

Cercate spasmodicamente altri fatti (di cronaca nera, ovviamente, semplici semplici) che confermino il vostro programma elettorale, che rafforzino le emergenze che sventolate. Basta che ci sia anche solo un lontanissimo elemento in comune: una cuginanza di quinto grado tra due passanti, una stessa scarpa slacciata tra i due assassini oppure una comoda rappresentazione del “noi” e “loro”. Mi raccomando: “loro” sono quelli che mettono in pericolo “noi” e quindi dovranno votare “noi” così ci vendichiamo e mettiamo in pericolo “loro”.

Se non trovate altri fatti di cronaca inventateli. L’importante è che siano verosimili, mica veri.

Create unanimità. Ma non sprecate tempo cercando di mettere tutti d’accordo: l’unanimità ormai è come l’emergenza, basta percepirla.

Se gli altri vi pongono altre domande non rispondete. Anzi, indignatevi, ditegli che è una provocazione.

Se vi portano statistiche per smentirvi ripetetelo con forza: ce ne fottiamo dei libri, dei professori, dei numeri. Noi siamo fieri di non saperle leggere, le statistiche.

Se qualcuno vi accusa di essere violenti dichiaratevi violentati.

Se qualcuno vi chiede di approfondire voi ditegli che l’emergenza non permette troppo di approfondire. Inventatevi un fatto verosimile, se serve.

Poi passate all’incasso. Fine.

Buon martedì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/02/13/piccolo-manuale-per-una-pessima-campagna-elettorale/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.