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libri

Devo darvi una notizia che una notizia non lo è: sono fatto così.

Faccio un mestiere particolare, io: troppi. Nasco stando sui palchi a limare le risate contro il prepotere dei prepotenti e per quello mi sono ritrovato in qualcosa di pauroso e pesantissimo per le persone che mi stanno intorno: a forza di affilare monologhi sono finito costretto a guardarmi le spalle. Era una cosa che faceva impazzire dal ridere Dario Fo, ogni volta che ci capitava di parlarne.

Poi non riesco a non mettermi a scrivere ogni volta che trovo una storia che non sia stata raccontata abbastanza: mi chiamano giornalista ma in realtà sono un cantastorie che in mancanza di palchi si butta sulla carta e la penna perché non sopporto che le storie rimangano sepolte dalle porte chiuse e dalle finestre abbassate. Mi chiamano giornalista ma forse sono semplicemente uno spazzacamino che stura le notizie che a qualcuno rimangono in gola.

Mi occupo di mafie. Sì. Senza aver mai pensato di esserne né l’antieroe né il nemico numero uno ma con la consapevolezza che le mafie, sì, mi hanno cambiato la vita. In peggio. La mia e quella dei miei figli. Perché in questo la mafia è come la politica: tu puoi non occuparti di loro ma loro si occupano di te. E in tutti questi anni passati ad attraversare l’Italia ho scoperto eroi quotidiani e silenziosi che mi hanno insegnato più dei saggi: tra le vittime di mafia, tra i loro famigliari e tra le centinaia di persone che dell’antimafia ne hanno fatto davvero una professione (nel senso rotondo e pulitissimo di “professare” i propri valori)  ho incontrato persone che mi hanno insegnato la virtù della schiena dritta, delle scelte difficili e ho respirato il “profumo della libertà” contro “il puzzo del compromesso”. Sarebbero quasi da ringraziare, quegli stronzi che pensavano di intimorirmi.

Poi ho i libri. I miei libri. Che alla fine sono un distillato di me. Un pinta di Giulio, per dire. E ho la fortuna di avere editori che hanno creduto in me e lettori che mi scrivono lettere che sono più belle dei miei capitoli.

Poi ho la politica. Sì. Che è una passionaccia che coltivo e che auguro ai miei figli di coltivare. In Regione insieme a Pippo Civati abbiamo raccontato le mafie e il formigonismo quando ne parlavano in pochissimi. L’ho fatto lì, in faccia a Formigoni e in faccia agli stessi politici che con la ‘ndrangheta stabilivano le cordate elettorali. Faccio politica ogni volta che scrivo, recito e presento un libro: ogni volta che qualcuno tenta di colpirmi dicendomi “sei troppo politicizzato” lo prendo come un complimento da mettere nel cassetto degli attacchi che mi fanno piacere. Mi auguro un Paese politicissimo, aborro l’apolitica (e l’antipolitica) che ha sempre aperto la strada alle truffe e agli imbonitori.

Eccolo il mio mestiere, pieno di rivoli. E ogni volta ne pago volentieri il prezzo. Per questo quando Liberi e Uguali mi ha chiesto di candidarmi alla Camera, nella mia Lombardia, ho pensato che ci vuole fegato a candidare un rompicoglioni come me, critico per indole e di natura avverso alle servitù di scuderia (nonostante il cognome), ma credo che la sinistra (sì, la sinistra, anche se qualcuno vorrebbe farla passare di moda) ogni tanto tocchi anche costruirla con qualcosa in più degli editoriali. E ho accettato. Sono candidato a Monza nel collegio plurinominale alla Camera. Sarà un mese bellissimo.

Su Pier Vittorio Tondelli

All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono  è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona.

Pier Vittorio Tondelli

Ecco la postfazione
(Bompiani/Giunti editore 2018)

di Enrico Palandri

È forse ancora presto per dare una definitiva sistemazione storica del lavoro di Pier Vittorio Tondelli, cercando di giudicare il valore letterario dei suoi libri o il significato della sua vera e propria campagna, per lo più vincente, per un rinnovamento del pubblico e della scena letteraria in Italia negli anni ottanta. Il guaio dei contemporanei, e più ancora degli amici o dei parenti, è di avere molte informazioni che farebbero venire l’acquolina in bocca al filologo di una prossima generazione, ma di non saperle leggere. Se il giovane Gioberti poteva vedere in Leopardi la straordinaria luminosità delle sue qualità dopo un viaggio in carrozza, poco o nulla ne capirono i suoi genitori, poco, tutto sommato, anche i fratelli, pochissimo le donne che amò e poco, in generale, i contemporanei, fatta eccezione per Giordani che del resto, come gli altri, non seppe superare gli ostacoli della difficile dimestichezza con lui per leggere, come leggiamo noi oggi, attraverso la sua poesia, un mondo di straordinarie, profondissime intuizioni. Se queste difficoltà fossero dovute al carattere o al fatto che puzzava, secondo la celebre risposta della Fanny Targioni Tozzetti a Matilde Serao, o piuttosto alla miopia fin troppo pia dei sodali, a cominciare da Ranieri, è difficile dirlo.

Nel caso di Leopardi, come ha raccontato René de Ceccatty in un bel libro pubblicato in Italia da Archinto (Amicizia e passione, 2014), sono stati si direbbe i tormenti di una sottomissione a portare Ranieri a ricostruirne il lavoro, pubblicarne e promuoverne le opere, fino al gesto ostile, quando ormai era vecchio, del brutto libro sui sette anni di sodalizio. Anche per Tondelli molto è indubbiamente dovuto alla fiducia e alla tenacia di Fulvio Panzeri, che non solo ne ha curato l’opera per Bompiani, ma è stato in questi anni un promotore di iniziative, come il seminario che si tiene annualmente a Correggio. Sono stati appuntamenti importanti, ne sono nate tesi di laurea e di dottorato e il lavoro di Pier Vittorio Tondelli è stato guardato con attenzione e vivacità non solo dai coetanei, ma da molti più giovani di lui. Gianni Celati una volta disse che sembrava ci fosse un partito intorno a Tondelli. Questa osservazione, per quanto ironica, è piuttosto appropriata. Intorno a Tondelli si sono raccolti le attenzioni e gli affetti di chi, attraverso di lui, voleva promuovere un nuovo orizzonte di relazioni umane, e questo è in gran parte avvenuto.

pier vittorio tondelli

Per l’Italia e non solo per la letteratura, e soprattutto per le persone che attraverso il suo lavoro hanno vissuto l’emancipazione della propria vita emotiva dall’ambito ristretto e provinciale così finemente descritto in Camere separate a una dimensione più aperta e consapevole, questo vale molto più della letteratura. Le conquiste ottenute non solo dalle organizzazioni per i diritti civili degli omosessuali ma più in generale da chi cercava di dare cittadinanza a nuove forme di solidarietà che nella società affiancavano la famiglia, sembrano la risposta ad alcune pagine, belle e politiche, dove il protagonista Leo immagina un mondo futuro che sia in grado di accogliere il suo lutto per la scomparsa del compagno Thomas. In diverse occasioni pubbliche, a Correggio e a Reggio Emilia, mi sono sentito chiedere se questa attenzione di cui ho sempre cercato di parlare in modo concreto e non sentimentale, costruisca valore letterario, se insomma Tondelli andrà oltre il suo tempo e se con lui ci andremo noi che abbiamo amato i suoi libri. È una domanda a cui ovviamente non sono in grado di rispondere: deve farsi silenzio intorno al lavoro di uno scrittore che in un certo modo è il contrario del dolce rumore della vita, come lo chiama Sandro Penna in un celebre verso, perché le opere ci parlino con il timbro indistinguibile di una voce. Devono farsi obsolete le opinioni politiche, i manierismi delle cricche letterarie e sociali, deve morire il rumore del mondo perché riemerga il timbro con cui un autore ha affermato il proprio contrasto con la sua epoca. Pier è stato importante per ragioni troppo diverse, nella nostra generazione, perché si possa riuscire ad ascoltare la sua voce senza distrazioni, anche quando non si pretende di dare un giudizio ma semplicemente di chiarire alcuni contenuti. È proprio quello che fa, in parte, questo bel saggio di Roberto Carnero, ripercorrere le tappe; pur sentendomi incapace di dire cose utili, sapendo di essere io il contemporaneo che non capisce perché troppo condivide e quindi non può che accennare a ciò che ha intensamente avvertito intorno al lavoro e all’amicizia di Pier, non voglio neppure sottrarmi alla richiesta di Carnero e voglio dire quello che posso su di lui. Paolo Di Stefano, recensendo sul Corriere della Sera il numero di “Panta” che dedicammo a Pier dopo la morte, citò qualche mia frase accusandomi di non riuscire a vedere se le qualità che attribuivo a Pier si facessero davvero letteratura. Aveva probabilmente ragione, ma anche oggi, a distanza di tanti anni, non saprei cosa aggiungere a quanto dissi allora. Ho anzi la sensazione che se qualcosa resterà non è per quel che lui o altri hanno aggiunto, ma se mai sottratto. In questo Tondelli non è stato aiutato dal giornalismo. Non solo nel Weekend postmoderno, ma in molti punti cruciali dei romanzi, si vede Pier così radicato nel proprio mondo che è difficile farglielo trascendere. Ma se anche il contesto è mutato, il Weekend resta per tanti aspetti un libro che trovo interessantissimo, proprio per il modo in cui Pier interloquisce, da giornalista culturale, con la variegata realtà che ha attorno. Accade anche al Pasolini che io preferisco, quello degli Scritti corsari, che oggi avrebbero bisogno di un vero apparato di note per essere comprensibili. Ma anche questa mia difficoltà interloquisce appunto con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, e, per quanto mi riguarda, è vero che non posso promuovere Pier nel Parnaso, per i miei innumerevoli limiti e, di fronte a Pier, anche per l’amicizia che, con la sua morte, è diventata ancora più complessa per l’impegno della memoria.
Sebbene io non abbia fatto quasi altro, nella vita, che scrivere e pensare ai libri, la letteratura non è mai stata la cosa più importante; sono state e sono infinitamente più ricche di influenze le persone che ho incontrato, e tra queste ci sono certo, accanto agli amici e alle amiche con cui ho condiviso la conversazione e le stagioni, poeti, musicisti e scrittori che non ho conosciuto personalmente. Ci sono i miei familiari, con cui oltre che alle stagioni abbiamo vissuto una transtoricità che è arbitraria e al tempo stesso fondante del nostro stare al mondo.
Gli autori che ho amato sono per me sempre usciti dalla letteratura per entrare a far parte, con le loro preoccupazioni, dell’orizzonte confuso e innamorato della mia vita di ogni giorno. La loro corrispondenza, o persino, negli anni per me più duri economicamente, una forma di solidarietà con la povertà di alcuni di loro che me li affraternava, ha accompagnato non solo la lettura, ma certi ritorni a casa notturni, solitari, dopo una notte amorosa (e poco conta se d’amore corrisposto o deluso), certi vagabondaggi per le strade d’una città, il nascere d’una amicizia o il compiersi di un addio. Non ho mai interpretato quel che facevo scrivendo e leggendo come la santificazione di una sensibilità superiore, che così spesso mi ricorda la giustificazione di un privilegio sociale, ma come il mio modo di stare nelle cose ed è lì, non nella letteratura, che ho incontrato Pier, e se qualcuno torce il naso perché così non si passa un esame critico, forse avrà pure ragione, ma l’odore che c’è qua fuori è così buono e intenso che io non ho nessuna intenzione di lasciarlo per ottenere diplomi. È nell’odore del mondo, tra le voci che si caricano di sensazioni, che ha le sue radici la scelta di Pier e in questo le sue scelte estetiche le sento fraterne. Ogni suo libro è un po’ come una lettera, un lungo biglietto agli amici, scritto da un certo punto nella vita a chi lo segue e ascolta. Certo non a chi si sente seduto sullo scranno di un’anonima letteratura italiana e fa il vaglio di quel che va bene e quel che va male, come se potesse davvero prendersi sul serio uno scranno del genere.
Messe le mani avanti, c’è da aggiungere che alle mie difficoltà personali se ne sommano altre meno soggettive: non solo troppo poco tempo è trascorso dalla morte di Pier per mettersi a fare dei bilanci, ma il fatto che sia morto così giovane fa sì che la sua influenza, il modo in cui aveva percepito l’evolversi di certe trame, sia ancora vitalissima, come dimostrano i tanti che scrivendo sentono di riconoscergli un ruolo.
I due versanti della sua attività di scrittore, quello delle opere letterarie e quello dell’attività editoriale, sono ancora discorsi aperti e a me sembra che si possa solo indicare gli elementi che in questi ambiti sono in movimento.
Mi sembra innanzitutto utile ricostruire il quadro in cui apparvero i suoi libri, per spiegare tra quali spinte si inseriva, chi reagì e come, cosa ne fece il pubblico. C’è in primo luogo una barriera generazionale molto netta: Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e per quelli più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio. Io reagii, magari anche scompostamente, a una pagina di Alberto Arbasino su “Repubblica” quando Pier morì, forse perché sapevo quanta ammirazione e affetto aveva Pier per lui. Il tono un po’ liquidatorio con cui Arbasino, che pure ne piangeva la morte, parlava del contesto in cui era cresciuto Pier, mi sembrò allora ingiusto. Così pure Goffredo Fofi e il gruppo di “Linea d’ombra”, sempre un po’ troppo compatto, mantenne per tutti gli anni ottanta un tono piuttosto sufficiente nei suoi confronti. Per non parlare di Angelo Guglielmi o dei tanti altri che ostentarono una superiorità in nome di un’idea di letteratura che, a così pochi anni di distanza, è di una straordinaria eloquenza sulla propria miopia.
Questa sufficienza, il senso di superiorità, lo ritrovo spesso quando, in dibattiti o in interviste, mi si invita a liquidare a mia volta il lavoro di Pier come fosse uno scrittore sopravvalutato di cui bisogna riprendere, anzi restringere, le misure.
Eppure se c’è una sopravvalutazione non è certo reperibile nel mondo della critica o della letteratura. Pier non ha mai vinto un premio e non mi sembra sia stato il darling di nessuna delle nostre scuole letterarie; non è insomma la critica, che non lo ha mai molto lodato, a dover restringere le misure. Piuttosto si dovrebbe allargare il discorso, e in questo il lavoro di Carnero non può che essere prezioso. Tuttavia Carnero testimonia bene l’attenzione per il lavoro di Pier, ma è già un suo postero.
Può essere utile, invece, ricordare l’attrito che la pubblicazione dei suoi libri provocò nell’Italia di allora, nominare alcune delle resistenze con cui vennero accolti. La diversa valutazione di Tondelli rispetto a quella che ne offrì la critica a lui contemporanea non è data dalle vendite e neppure da una riconsiderazione critica, ma piuttosto dalla scia che si allarga dietro di lui, che comprende molti nuovi autori, che testimonia una trasformazione della società italiana avvenuta nel corso degli anni settanta e che, nel momento di passaggio, tra il ’79 e l’82, mostrava molti dei suoi elementi vitali. A questa centralità di Pier Vittorio per i più giovani non si può che dare il benvenuto, ma si rischia di non vedere la solitudine di Pier e degli altri, le ragioni della non integrazione di una generazione intera con l’Italia di quegli anni. Si rischia di non vedere la furibonda omofobia di quegli anni.
Finiva, negli anni settanta, una fase iperpoliticizzata, chiusa in una visione piuttosto asfissiante, tra ortodossie ed eterodossie marxiste, militanze cattoliche e organizzazioni fasciste; la società adulta era del tutto inadeguata ad accogliere e articolare le curiosità e gli interessi di chi come Pier aveva modelli letterari poco nazionali. Non è solo lo spirito di Autobahn a guardare al Nordeuropa, ma un po’ l’aria che si respira in tutto il suo lavoro, così lontana dai calligrafismi delle avanguardie letterarie e dagli impegni subordinati alla politica dei marxisti, a evadere dalla nostra tradizione. Il benvenuto che lui dà alla moda e in generale alla stravaganza degli anni ottanta è la ragione principale della disapprovazione di “Linea d’ombra”.
Credo che lo abbiano trovato un confusionario; a me pare che senza attraversare la confusione di Pier si rimane un po’ al di qua di una frontiera, nelle ortodossie che poi inevitabilmente si trasformano, in un quadro ideologico frammentario come il nostro, in autoritarismi un po’ velleitari e giudizi allegramente arbitrari.
“Linea d’ombra” è nata con un progetto importante grazie a un’intuizione significativa di Fofi: è vero che una linea d’ombra fosse passata allora attraverso la letteratura facendole abbandonare temporaneamente la politica, ma le difficoltà che hanno continuamente contrapposto il nucleo di origine ideologica della rivista agli autori con cui via via si è incontrata e poi scontrata (Claudio Piersanti e Giorgio Van Straten, per fare qualche nome, ma ce ne sono altri), e l’aver così poco capito Pier Vittorio, segnano un po’ il limite dell’esperienza della rivista piuttosto che quello di Tondelli. Le poesie e la letteratura non salvano nessuno, non vogliono essere votate né da una giuria né dal popolo per ottenere un mandato, non promettono nulla.

Gli autori si mettono in ascolto della realtà in un suo punto sensibile, questo è tutto. Non possono organizzarsi e non possono venire organizzati. C’è probabilmente una componente di narcisismo e megalomania (ma davvero solo negli artisti?), che però può aiutare a riflettere su altre cose, sull’amore e la morte e certo, anche sulla giustizia, ma non per prospettare una trasformazione, solo per raccontare, come hanno sempre fatto gli scrittori, da Dante a Primo Levi. Persino l’ingiustizia sociale, per uno scrittore, finisce con l’essere elemento di un libro. In quanto cittadino, chi scrive è sottoposto come tutti ai casi della storia e può aderirvi o meno, ma in quanto scrittore, proprio come Pier, è interessato a trasformare il mondo che ha di fronte in tessuto del suo racconto; non può mettersi a suonare nessun piffero e se lo fa, prima o poi sceglierà (e può essere una scelta eticamente più alta) la politica, l’agire tra gli altri e il capitanare le loro scelte. Ma questo è diverso dall’ascoltare il mondo, che vuol dire ascoltare le invenzioni fantastiche di Boiardo, Ariosto, Calvino mentre naturalmente, come sempre, intorno a noi c’è anche la fame e la guerra. Questo non significa che la realtà venga estetizzata o che vi sia una rinuncia morale; la buona letteratura si tiene alla larga da entrambi questi pericoli, ma il suo rigore è diverso dall’organizzazione, dal volontariato, anzi diffida intimamente dell’agire, perché non ha nel cuore la salvezza dell’umanità, ma il capire gli uomini.
Per “Linea d’ombra” ciò che davvero irritava di Pier, e di numerosi altri, era l’irriducibilità del suo innegabile impegno a un impegno politico, e in questo è il primo autore che ci ha portato oltre la contestazione. Senza banalizzare, in forza di una diversità generazionale.
Il dissenso di Arbasino, e dietro di lui di Guglielmi e un po’ di tutti quelli legati alla Neoavanguardia, è più complesso. Pier aveva studiato al DAMS, che in quegli anni era una roccaforte del Gruppo 63. Vi insegnavano, tra gli altri, Eco, Celati, Barilli, Giuliani. Il contributo più importante del Gruppo 63, soprattutto nella sua fase originaria, fu lo scontro, che non si è mai veramente concluso, con una certa idea di cultura. Le belle pagine di Apocalittici e integrati in cui Eco descrive la funzione quasi sacerdotale di certi letterati nell’accogliere o respingere gli autori in un’idea di cultura alta, spesso superficialmente pomposa e retorica, lasciano intuire i problemi che dovette affrontare da giovane con la sua generazione. Tra i protagonisti del Gruppo 63 c’era certo anche gente più vicina ai modelli di Pier: non erano ripiegati su una tradizione nazionale ma avevano visto un po’ d’Europa e di America, sapevano cosa fosse un’industria culturale e quanto l’idea di cultura alta, ancorata ai licei classici e condannata a nutrirsi di sensiblerie, avesse fatto il suo tempo. Al di là dei modi poco cortesi, a parer mio, con cui attaccarono personalmente autori significativi (ma la scortesia, anzi un tono astioso e meschino, è grave anche nei confronti di quelli meno significativi ed è rimasta una venatura purtroppo profonda, caratterizzante, anche negli anni successivi, per alcuni di loro), c’era una battaglia da combattere, che per una parte del gruppo trovò il suo sbocco naturale nel Sessantotto e per altri seguì altre vie. Sicuramente, però, le battaglie del Gruppo 63 contribuirono ai profondi cambiamenti della società italiana da cui venne fuori Pier Vittorio. Adesso bisogna chiedersi se gli strali retorici lanciati da giovani e da una rivista come “Il Verri” contro l’establishment, non cambino di segno quando vengono lanciati, a un’altra età e dai quotidiani e settimanali più venduti del paese, contro i più giovani. Se insomma, detronizzati i vecchi satrapi della cultura italiana, molti di loro non si siano ritrovati seduti, non so quanto involontariamente, sugli stessi scranni, solo più incattiviti e acidi.
Cosa non si perdona a Pier da parte di quell’ambito è abbastanza evidente: lo stile, le scelte ideologiche, tutto nei libri di Pier è straordinariamente indisciplinato e non offre nessun ossequioso omaggio ai protagonisti del Gruppo. L’ammirazione per Arbasino ha in alcuni punti della sua produzione una influenza riconoscibile, ma in generale Pier è di un’altra razza. Inoltre è ingrato. Si trova in un certo senso il pranzo pronto e non sa riconoscere chi l’ha cucinato. Gli interessa andare oltre, non continuare una scuola. La libertà nelle scelte letterarie, come nei comportamenti, è figlia da un lato della battaglia del Gruppo 63 e dall’altra dei movimenti degli anni settanta. L’abisso, per esempio, che c’è tra la sua omosessualità,  tutto sommato serena, come mostra bene Carnero, comunque non più impugnata come elemento di scontro con la norma, e quella sofferta di un Comisso o quella politicamente aggressiva di un Pasolini, si deve alle coraggiose battaglie civili del FUORI e più in generale alle aperture di quegli anni.
Quando poi, all’inizio degli anni ottanta, con la sconfitta della sinistra radicale, riapparvero abitudini nel mondo della cultura che nel decennio precedente o erano state sospese o avevano perso influenza, perché il dibattito culturale non era avvenuto all’interno delle istituzioni ma tra le istituzioni e un mondo giovanile sempre più disgregato e ribelle, il ruolo di questi intellettuali mutò notevolmente. Se negli anni settanta non si pubblicava nulla di giovane perché con quel mondo c’era una guerra (non solo quella delle Brigate rosse, ma una guerra a tutto campo che nell’editoria implicava o la scelta di una strada militante, assai poco adatta alla letteratura, o scarsissime possibilità di pubblicare), negli anni ottanta anche i grandi editori iniziarono ad accogliere nuovi autori; la generazione del Gruppo 63 riprese la sua battaglia, ma da una posizione sostanzialmente nuova. La mancata maturazione di molti dei suoi esponenti portò a ridurre, in modo irritante, concetti duttili, impugnati con fantasia nella passata stagione, a luoghi comuni svuotati. Che Susanna Tamaro vada bene perché scrive con frasette brevi e un altro invece non vada bene perché usa frasi troppo lunghe ha qualcosa di ridicolo. È a ben altro che bisogna guardare e se di stile si vuole parlare non ci si può ridurre a formulette tanto banali. I progetti e le utopie che in un’epoca diversa avevano avuto una funzione, si sono degradati a feticismo linguistico, al tentativo di reperire nel nuovo le tracce di quel che si era, perdendo completamente di vista la complessità dei significati. Umberto Eco, che è l’unico ad avere avuto una comprensione significativa dei problemi della linguistica, non si è mai azzardato a farne l’uso balordo che ha invece caratterizzato altri nel Gruppo 63. C’è poi qualcosa di paradossale nel celebrare i quarant’anni o i cinquanta di un’avanguardia, che nasce – se è autentica – da una frattura nella storia, e non si mantiene in aeternum con i sussidi di un assessorato.
Era ormai un’altra età, l’invettiva aveva perso la sprovveduta freschezza di chi opera in un cambiamento e aveva invece inevitabilmente costruito una complessa genealogia; la prosa di molti ex membri del gruppo era diventata opaca, rancorosa, e soprattutto parlava a un’Italia completamente diversa. Arbasino pubblicò feroci stroncature collettive, Guglielmi continuò i suoi poco invidiabili anni d’intolleranza, Giuliani stroncò per l’ennesima volta la Morante, insomma si scatenò una polemica ininterrotta e a trecentosessanta gradi che diede un doloroso segnale di quanto faticoso fosse stato anche per loro vivere le trasformazioni di quegli anni. Gadda, innalzato come un vessillo (e quindi travisato, enfatizzando gli aspetti stilistici e comprendendo poco quelli psicologico-contenutistici), non veniva più letto; ancora oggi dalle schiere della ex neoavanguardia salta fuori ogni tanto qualcuno che si mette a fare strampalati confronti tra quello che loro vedevano annunciato in Gadda come futuro della letteratura e quello che oggi si scrive. La conclusione che forse si dovrebbe umilmente trarre è che non erano in grado, nel caldo della polemica, di elaborare un canone alternativo. Come ho detto, non voglio certo essere io a proporne uno nuovo e tantomeno a restaurarne uno precedente. Vorrei che il campo fosse aperto, ecco tutto.
Era proprio la questione dello stile, così centrale per quella generazione, a essere estranea ai nuovi autori, almeno nei termini in cui era stata posta. Pier, con l’energia che lo ha sempre caratterizzato, avvertiva con urgenza la necessità di aprire la letteratura alla contaminazione con il cinema, la musica, la pittura, la moda. Una scrittura troppo sofisticata, dove se non era l’abolizione della punteggiatura era l’uso spregiudicato degli anacoluti, non avrebbe avuto alcuna speranza di entrare nei consumi culturali di una nuova generazione. Pier voleva partecipare di un mondo che premeva da fuori della letteratura e inevitabilmente, difendendo la propria visione, il Gruppo 63 aveva finito con l’arroccarsi entro una serie di parole d’ordine. Con Il nome della rosa, con cui Eco voltò pagina, divenne evidente che i talenti più significativi del gruppo originario (Vassalli, Celati) avevano fatto ormai molta strada per conto proprio, erano diventati come tutti persone che cambiano modo di vivere, di vedere le cose. Con questi il confronto è rimasto aperto e in Pier Vittorio si trovano numerose tracce riconducibili a Eco o a Celati. Altri hanno invece continuato a ribadire un ripudio, ora articolato, ora generico, che al di là delle opere si rivolgeva in realtà alla generazione. Sul valore delle opere di Pier, come dicevo, è comunque presto, almeno per me, per esprimere un giudizio definitivo. Quello che a me pare più interessante, in una produzione così eterogenea, è la libertà che ha sentito nel fare le proprie scelte, e la capacità di rinnovarsi che ha mostrato soprattutto in Camere separate. Ho scritto in un’altra occasione (Altra Italia, “Panta”, 9, 1992) cosa trovo particolarmente significativo, soprattutto nel racconto Postoristoro che apre il suo primo libro e in Camere separate. Non voglio tuttavia sovrappormi, a questo proposito, all’attenta ricostruzione del percorso letterario di Pier Vittorio fatta da Carnero, che offre una prospettiva decisamente diversa dalle due a cui ho fatto cenno, quella politica e quella della Neoavanguardia, e che sono state per così dire quel che c’era a monte di Pier. Carnero invece è a valle, sembra fortunatamente oltre le difficili battaglie che Pier ha dovuto sostenere, fuori dai gruppi come tutti noi, per esprimere il suo mondo poetico.

A proposito dell’Italia che legge poco

Vale la pena riflettere sul pensiero di Christian Raimo:

In Italia si legge poco, sempre meno, ma questo non sembra essere un dato allarmante. Nella conferenza stampa di fine anno – e fine legislatura – il presidente del consiglio Paolo Gentiloni non ha fatto nemmeno cenno ai temi culturali.

Eppure il rapporto dell’Istat uscito il 27 dicembre è pieno di cattive notizie. Si dice che i “lettori sono passati dal 42 per cento della popolazione di 6 anni e più nel 2015, al 40,5 per cento nel 2016. Si tratta di circa 23 milioni di persone che dichiarano di aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali”: il che vuol dire che ci sono circa trenta milioni di persone alfabetizzate che non leggono nemmeno un libro all’anno.

Leggono più le femmine che i maschi: 47,1 per cento contro il 33,5 per cento. Si legge più al nord che al sud: 48,7 per cento contro il 27,5 per cento. Nel 2010 la percentuale dei lettori era del 46,8 per cento. In sei anni si sono persi tre milioni e mezzo di lettori. Cosa ha determinato questo crollo? “Nell’opinione degli editori”, dice sempre il rapporto, “i principali fattori che determinano la modesta propensione alla lettura in Italia sono il basso livello culturale della popolazione(39,7 per cento delle risposte) e la mancanza di efficaci politiche scolastiche di educazione alla lettura (37,7 per cento)”.

Il dato più significativo e preoccupante è infatti il calo di lettori tra i 15 e i 17 anni: dal 53,9 del 2015 per cento al 47,1 per cento al 2016. Praticamente meno della metà degli studenti italiani acquisisce l’abitudine a leggere libri.

Quello che si sta facendo per la promozione della lettura è poco e forse anche sbagliato
Se si vuole fare un confronto di massima con gli altri paesi europei si possono prendere i dati della recente ricerca curata dal Forum del libro – l’associazione che da anni cerca diportare al centro del dibattito pubblico e politico questi temi: la percentuale dei lettori è superiore al 75 per cento nella maggior parte dei paesi del centro e del nord dell’Europa occidentale: Svezia (89 per cento, il dato più alto), Danimarca, Finlandia, Estonia, Olanda, Lussemburgo, Germania,Regno Unito. Mentre è inferiore al 60 per cento in Portogallo (il dato europeo più basso: meno del 40 per cento), Cipro, Romania,Ungheria, Grecia. E Italia.

La reazione che in genere suscitano questi rapporti Istat è una lamentela diffusa che dura al massimo una settimana, accompagnata magari dall’elenco di quello che invece in Italia tutti i giorni insegnanti, bibliotecari, librai, editori, genitori di buona volontà fanno per contrastare questa tendenza a diventare un paese che non legge.

(continua su Internazionale qui)

Gli immorali che ci fanno la morale: Marina Berlusconi e il pericolo dei “giganti del web”

Che Paese grottesco che siamo, qui da noi, dove Marina Berlusconi riesce a dare un’intervista a cui basterebbe sostituire qualche parola per trasformarla in un lucido j’accuse contro proprio quello che la sua famiglia è stata per l’Italia. Qui da noi, dove basta cercare profitto con libri e giornali per spacciarsi per editore o addirittura maître à penser, intellettuale di risulta.

Così Marina Berlusconi dice: «Non discuto capacità imprenditoriali, lungimiranza e coraggio di coloro che questi giganti hanno fondato e sviluppato, personaggi che segneranno la storia. Ma se oggi i Cinque Grandi del web sono le maggiori società mondiali per valore di Borsa è anche perché hanno potuto operare in un contesto del tutto privo di regole». Dimentica, sbadata, di essere a capo di un impero che il padre ha costruito proprio grazie alle regole “pro domo sua” che certa politica (anche a sinistra) gli ha concesso con tanta generosità.

Poi: «Mi pare si continuino a sottovalutare le implicazioni economiche, politiche e sociali, di cui fatico perfino a immaginare la portata. È un mondo che va governato, prima che tanta potenza ci sfugga di mano». E fa niente che proprio un grande gruppo editoriale e televisivo (di cui porta il cognome) abbia “governato” senza controllo gli impulsi peggiori di una propaganda che oggi è marcita per diventare ciò che è. Chissà se non fosse stato il caso di governare quell’esercito di reti televisive e testate giornalistiche che potentissimo ha avvelenato la politica italiana. Già. Chissà.

Poi parla di tasse. E dice: «Ma le pare accettabile che l’anno scorso Amazon abbia versato al fisco italiano 2,5 milioni di euro e Facebook neppure 300mila? E poi ci sono i comportamenti “disinvolti” delle multinazionali del web, sanzionati da multe miliardarie, ci sono le decine di cause – in Italia Mediaset ha fatto da apripista – sull’utilizzo di contenuti e copyright». Il che, sia chiaro, è un discorso giustissimo se non fosse che cotanta figlia sia figlia di cotanto padre che proprio sul versante fiscale (condito con qualche corruzione qua e là) ha dato il peggio di sé. Magari un testimonial più credibile contro l’elusione fiscale dei giganti del web si sarebbe potuto trovare in giro, no?

E poi la chicca: «Che fine farebbero tutti i sacrosanti discorsi su autonomia editoriale, pluralismo delle voci, libertà degli autori?». Già.

Del resto da noi va sempre così: gli immorali ci fanno la morale, i truffatori si propongono come numi tutelari, i sempiterni ci danno lezioni di rinnovamento, i fascisti ci spiegano la democrazie. Avanti così.

Buon martedì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/05/gli-immorali-che-ci-fanno-la-morale-marina-berlusconi-e-il-pericolo-dei-giganti-del-web/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Perché E/O (l’editore di Elena Ferrante) ha detto no a Amazon

La lettera con cui le Edizioni E/O dicono no a Amazon non è solo una questione editoriale ma pone interrogativi ben più ampi. Per questo vale la pena leggerla. E discuterne. Eccola qui:

Da anni ormai Amazon è diventato il più grande negozio on-line di libri (e non solo) nel mondo. Ovunque tende al monopolio e in alcuni paesi già controlla la maggior parte del mercato. Ha creato occupazione, ma ha costretto alla chiusura tantissime librerie (con conseguente perdita di posti di lavoro). Numerose testimonianze giornalistiche documentano le cattive condizioni di lavoro nei magazzini del colosso on-line. Attualmente è in corso un’agitazione sindacale nel magazzino di Piacenza a causa delle condizioni di lavoro che i sindacati definiscono “insostenibili” e Amazon non si è neppure presentata all’incontro di mediazione convocato in Prefettura.

La chiusura delle librerie causata dalla concorrenza spietata di Amazon significa anche impoverimento economico e culturale del territorio: vengono a mancare essenziali luoghi di ritrovo e di cultura. Molti consumatori però accettano Amazon per i suoi prezzi (in genere più scontati quando le leggi nazionali lo consentono) e per l’efficienza. Abbiamo visto con quali conseguenze per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti e per l’impoverimento del territorio, Amazon riesce a ottenere questa efficienza.

I suoi prezzi spesso vantaggiosi sono il risultato di una politica che a volte è arrivata ai limiti del dumping (vendere a prezzo minore o pari a quello d’acquisto dai fornitori); di una frequente elusione delle tasse (nell’ottobre 2017 Amazon è stata condannata dalla Commissione Europea a pagare alla UE 250 milioni di tasse non versate; “¾ dei suoi profitti non sono stati tassati”, ha denunciato la Commissione); di condizioni economiche inaccettabili richieste agli editori.

Noi siamo appena stati oggetto di tali richieste. Ci è stato richiesto uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro “quota” del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice. Di fronte al nostro rifiuto, Amazon ha sospeso l’acquisto di tutti i nostri libri e ha reso quelli che aveva in magazzino. (Attualmente sul loro sito i libri E/O cartacei sono in vendita solo attraverso soggetti terzi, quindi a condizioni più sfavorevoli per tempi di consegna e per costi di spedizione addebitati al cliente).

A questo punto i consumatori potrebbero dire che si tratta di negoziazioni tra imprese e che a loro interessa solo avere un buon prezzo e un servizio efficiente. Il nostro punto di vista è che siamo in presenza di un’azienda che tende pericolosamente e con parziale successo ad avere una posizione dominante nel mercato del libro, sicuramente per quanto riguarda il settore dell’e-commerce. Quindi non un’azienda qualsiasi, ma QUELLA che potrebbe in futuro essere l’unica (o quasi) venditrice di libri. È evidente che il pericolo per la libertà di espressione è reale, costante e quotidiano. Inoltre le case editrici hanno bisogno di margini economici sufficienti per investire nella ricerca di nuovi autori e di nuove proposte. Se questi margini vengono troppo erosi, le case editrici rischiano di sparire (assieme alle librerie, agli autori e a tutto il mondo del libro).

Per questo abbiamo detto NO. Per questo chiediamo il vostro sostegno di lettori, di cittadini che non possono ridursi a essere solamente consumatori ma sono consapevoli di essere anche parte di un territorio (che non può essere desertificato), lavoratori e soggetti degni e liberi di una comunità plurale.

Sandro Ferri, Sandra Ozzola
Fondatori delle Edizioni E/O

(fonte)

A proposito della fallocrazia di Enrico Brignano: risponde Falvia Piccinni

Flavia Piccini (scrittrice, gradita compagna di scuderia in Fandango Libri) risponde all’intervista di Brignano. E vale la pena leggerla.

 

Leggendo la spiacevole, e a tratti imbarazzante, intervista di Enrico Brignano al Corriere della Sera, non emerge soltanto una straordinaria dose di radicato maschilismo:

Allora anche io ho molestato delle ragazze: in discoteca, avevo 14 anni. Ci provavo e loro non volevano, eddai, dammi un bacetto, eddai. Una l’ho molestata talmente tanto che si è fidanzata con me. E da ragazzino ho anche palpeggiato, facendo la mano morta

– e di incapacità oggettiva di valutare le situazioni –

Bisogna stare attenti a catalogare tutto come molestia, sennò anche io vengo sempre molestato. Mi chiedono di fare delle foto e non voglio. Ma le faccio, perché se no chissà cosa dicono…” – o, meglio – “(Brizzi, ndr) è un intellettuale, gli piace parlare, sedurre. Ha sedotto anche sua moglie così. È già successo: Sofia Loren ha sposato un produttore, Anna Magnani un regista…

Emerge qualcosa che dovrebbe riguardare tutte e tutti noi: una serie di domande.

Qual è (sempre che esista) il confine che una giornalista deve mantenere nel diffondere, attraverso un’intervista, un punto di vista così espressamente maschilista? È lecito sostenere (perché la divulgazione è un sostegno) il ragionamento (che francamente trovo inaccettabile) “A lui piacciono le donne, come a me. Le stesse donne che ora si lamentano spesso, dicendo che agli uomini piacciono sempre meno, la famosa crisi dell’uomo…”? Abbiamo dei mezzi per limitare atteggiamenti così marcatamente patriarcali? Quali sono gli strumenti che abbiamo per mostrare il nostro dissenso? Può bastare boicottare un film? Può bastare boicottare un personaggio in tutte le sue attività? Può bastare scrivere un post o un articolo? Può bastare organizzare dei gruppi che collettivamente diffondano delle notizie avverse e mirino a boicottare i suddetti personaggi? Non diventeremmo forse anche noi, puntando il dito e non aprendo un ragionamento, magari con la furia della (necessaria) rabbia e del (dovuto) disgusto, ugualmente colpevoli di un qualunquismo altrettanto controproducente e dannoso? Non è forse un obbligo morale provare a elaborare dei toni e delle strategie di confronto, e non “macchine del fango” fini a se stesse (anche se, il caso Brizzi, ci mostra come le gogne mediatiche – sulla cui correttezza potremmo disquisire per ore – hanno un reale effetto sulla vita dei diretti interessati e non solo)?

Una risposta trasversale mi viene fornita da un libro che andrebbe sempre tenuto sul comodino: “Lessico familiare” di Chiara Cretella e Inma Mora Sànchez (Settenove, pp. 192). Alla voce “maschilità” si legge:

La costruzione sociale della maschilità è stata fondamentale nell’organizzazione sociale patriarcale. Contrariamente a quello che si può pensare, anche gli uomini possono essere vittime di stereotipi di genere: l’immaginario comune li vuole forti, rudi, muscolosi, aggressivi, devono avere potere, non piangere, non chiedere mai aiuto, non dimostrare debolezza o omosessualità. Anche un certo tipo di relazione con le donne è passato in maniera stereotipica per esempio nel trattarle male e sottometterle, anche a livello sessuale, convinti che in fondo a loro piace (in questo senso si richiama il concetto di vis grata puellae, un verso di Ovidio chiamato in causa anche dal nostro diritto penale riguardo lo stupro). Chi storicamente si è sottratto da questi cliché è stato sanzionato e punito socialmente, perché lo stereotipo maschile è forte quanto quello che investe il femminile (…). Diventa quindi fondamentale comprendere le rappresentazioni del maschile nell’immaginario culturale/mediatico e la loro relazione con le pratiche, le esistenze reali tra i generi in un determinato periodo storico.

Il ragionamento si apre dunque al radicato e ostentato maschilismo moderno, di cui oggi Enrico Brignano si mostra (più o meno consapevolmente) membro inserendosi con orgoglio, appunto, nel concetto di vis grata puellae. E non solo.

 

(fonte)

«È dura, ma ora so come si fa»: Wondy che non se n’è mai andata davvero

(Alessandro e Wondy sono una coppia da tenere nel cassetto delle cose belle. Ne avevo scritto qui, un anno fa. Alessandro riscrive a Wondy un anno dopo. Ed è una lettera d’amore. Amore.)

 

Cara Franci,
Niente, è finita, inutile mentire oltre. Angelica e Mattia si sono fatti grandicelli. È toccato a Angie farsi avanti: «Papà, tanto lo sappiamo che Babbo Natale sei tu». Ci hanno beccati.

Così quest’anno la loro lista dei desideri si è fatta più aggressiva: «un Ipad tutto per me per chattare, un computer, un telefono».

«No no no» ho fatto con il ditino, e nell’oppormi ero così orgoglioso pensando a te: so che apprezzerai questa mia fermezza. «Magari un gioco al Nintendo, poi se volete libri, ve ne compro a volontà».

Sono passate quattro stagioni, il gelo è alle spalle, per la verità anche il tepore è lontano. Ci manchi. Mi manchi. Manchi a tanti di noi.

Però stiamo bene: io talvolta faccio i pancake, Angelica le torte, Mattia la piadina. Litighiamo, ci abbracciamo, sbuffiamo, ci facciamo il solletico.

Viviamo.

Dieci giorni fa Angelica ha finito di leggere Mia figlia è una iena. Sai i timori che avevi? Che magari si sarebbe arrabbiata per il titolo e per come l’hai descritta? Beh, l’ho sbirciata mentre leggeva: rideva, ma talmente tanto che le spalle si alzavano e abbassavano in sussulti.

Mattia invece mi ha chiesto di iniziare La vita è un cactus. Così, ogni tanto, li metto a nanna, gliene leggo un paio di pagine, come se fosse una favola. Sì, ecco, magari quando si parla di sesso svicolo, concedimi questa piccola deroga.

I libri. I tuoi sono tutti lì, come volevi.

D’altronde un libro è stato l’ultimo regalo che mi hai fatto, il giorno del mio compleanno. Il ricatto di John Grisham, quello passava la libreria dell’ospedale. È sul mio comodino, per poterlo sfiorare o annusare se serve.

Ogni tanto vorrei vederti, almeno in sogno, ma non mi è ancora capitato. Dicono sia normale, ma a me spiace tantissimo questa rimozione. Sono successe tante cose, in un anno, e ne accadranno ancora diverse. Abbiamo fatto un viaggio, alle Maldive, presto ne faremo un altro.

Mi applico, vedi?

Quando giro per l’Italia percepisco, nei volti e negli occhi di tante donne e tanti uomini che incontro, il profumo che hai lasciato. Mi stringono la mano, mi dicono «grazie», ma io non ho fatto nulla. Ringraziano te.

In quei momenti, capisco quanto hai seminato, e quanto hai lasciato: di pienezza negli altri, di vuoto in me.

Non avrei pensato di farcela. Invece Angelica ha finito le elementari e ha iniziato una nuova avventura, Mattia continua a giocare a basket. Crescono, tra speranze, sogni e disavventure.

Io, il più delle volte, sorrido. E non spreco più un solo secondo di tempo.

Sto imparando tantissimo.

È dura, ma ora so come si fa. Perché continui a vivermi dentro.

Tuo, Ale

«Per questo scrivo. Trovo delle cose che trovano me.» di Tuomas Kyrö

Che meraviglia il discorso inaugurale di Tuomas Kyrö al Pisa Book Festival sulle motivazioni del suo scrivere. Eccolo qui:

 

Mia madre era bibliotecaria e scrittrice. Mio padre faceva il drammaturgo. Tutti e due lavoravano con la matita, con la macchina da scrivere, con la macchina da scrivere elettrica e da ultimo con i programmi per la videoscrittura.

All’età di 10 anni sapevo con certezza che quei mestieri non facevano per me. Lavoro noioso, mal pagato; troppe borse a tracolla, giacche di velluto e pile di manoscritti. Gente instabile, vino rosso, sigarette di poco prezzo. Tanto, troppo tempo dedicato a faccende come l’analisi del testo e la questione dell’ego che non portavano da nessuna parte.

La mia ambizione era diversa: volevo diventare un criminale professionista. Avevo appena visto Il Padrino e lì mi sembrava di aver trovato il metodo per una sicura crescita, personale ed economica.

Il mio progetto di carriera fallì all’età di 11 anni, quando compresi che per poter entrare nella società rappresentata da Don Corleone, avrei dovuto essere siciliano di nascita, disperato, ardito e avventato allo stesso tempo.

Invece ero finlandese di nascita, della periferia di Helsinki. Inoltre ero figlio di una bibliotecaria e di un drammaturgo. La prospettiva di diventare un mafioso importante fallì miseramente.  Sarei forse riuscito a diventare un piccolo delinquente che vende canne di cattiva qualità nei sottopassaggi, ma in questa visione mancava del tutto quel discorso elevato sull’onore di cui era fatto per me il mondo del Padrino.

Perché la criminalità organizzata piuttosto che la drammaturgia?

Perché è una storia migliore. La saga familiare e la vita del protagonista in sole tre ore. Una storia fatta di rapporti di famiglia difficili, di aspirazioni nel mondo di lavoro, di cambi generazionali. Sacrifici, tradimenti, pranzi e cene abbondanti davanti a pentole profumate. Fratellanza, rapporto di coppia, morale e onore. La figura femminile e il suo ruolo nella comunità familiare iper-patriarcale.

Perché davanti alle scelte di Don Corleone potevo riflettere sulle mie scelte. L’unità della famiglia mi sembrava una cosa desiderabile mentre l’idea di una sua divisione mi dava brividi. Cercavo le connessioni fra il mondo reale e quello immaginario, fra me stesso e i miei genitori, la mia famiglia e le relazioni fra parenti.

Perché parlava delle cose che non pensavo di pensare a quell’età. Il racconto immaginario sulla nascita del capitalismo, l’immigrazione e la famiglia creato intorno a Don Corleone era più efficace che il discorso dell’élite di sinistra sul eurocomunismo oppure le nuove tendenze della psicoanalisi individualista.

Perché da scrittore parlo qui di questi temi?  Il senso delle cose si capisce solo dopo.

A 10 anni non mi rendevo conto che la storia di Vito Andolini che parte da Corleone non esisterebbe senza lo scrittore e il film non esisterebbe senza il drammaturgo. La storia è un’invenzione di chi l’ha creata, ma non è la verità.

La vita reale non scorre mai così gustosamente come una storia fittizia. Una storia scritta e riscritta, sintetizzata e limata è molto più interessante di 85 anni di risvegli e addormentamenti, e di tutto quello che succede nel mezzo della vita prima della morte.

Dopotutto ho fatto la scelta sulla carriera in base al film. Nell’ambito di questo lavoro tratto tutti i temi che ho trovato nel Padrino. Al centro c’è sempre l’individuo, poi la famiglia, poi i mezzi di sopravvivenza, poi le conseguenze delle azioni. Intorno la cornice storica, che provoca azioni negli individui e che viene modificata dalle loro azioni.

A 10 anni volevo diventare un criminale di professione. A 20 anni volevo essere uno scrittore importante. Mancava solo di scriverli quei libri importanti. A 27 anni avevo interrotto gli studi universitari, ero disoccupato, ero un ex-stampatore ed ex-addetto alla posta. La mia carriera di accademico e di criminale e anche quella di uno che vive alle spalle dello stato erano finite in niente. Dovevo fare qualcosa della mia vita.

Dovevo scrivere.

Nel 2001 ho firmato il contratto di edizione per il mio primo romanzo e ho capito di avere un mestiere. Avevo trovato un lavoro e un modo per mantenermi. Potevo avere stima di me stesso, bastava posizionarmi nello spazio tra il mio cervello e il computer. Tutto doveva accadere in quello spazio.

Per questo scrivo.

Il mio lavoro non si svolge nelle strade di New York al crepuscolo o nel deserto del Nevada. Essenzialmente tutto avviene in fredde stanze accanto al mio garage nella campagna finlandese. Tutto avviene soprattutto  nella mia testa.

È andata proprio così?

Lo scrittore racconta storie e una delle storie più importanti è sempre la storia di se stesso. Come tutto quello che ho raccontato fino ad adesso.

Il mio viaggio per diventare scrittore non è andato proprio così. È andato più o meno così. Se domandate alla bibliotecaria o al drammaturgo, vi racconteranno qualcosa di diverso.

Nella storia c’è sempre un principio, un mezzo e una fine. Punti di svolta, un po’ di comicità, un po’ di tragicità, un po’ di qualcosa che dipinge il tempo e le circostanze. Un’idea e finalmente il raggiungimento della meta. L’eroe ha completato il suo viaggio e diventato saggio, oppure si è rovinato.

La specie umana capisce la propria mortalità e per questo ha bisogno di storie che si muovono avanti e indietro. Le storie ci tengono uniti e ci dividono. Il globo terrestre e le sfere superiori si riempiono di dei onniscienti, personaggi animati e giovani donne e uomini che soffrono per mancanza di amore. Tutte storie, sempre storie.

Vivere la vita degli altri invece della propria è più gradevole. È la realtà originale che si espande. Vediamo il mondo con gli occhi di un altro, viviamo le sue esperienze e sentiamo le sue emozioni.

Ancora un’altra ragione del perché scrivo.

Negli ultimi anni ho fatto lavori di ristrutturazione alla casa estiva che apparteneva ai miei nonni.

O meglio.

In realtà il carpentiere ha ristrutturato e io ho spostato con la carriola le macerie del suo lavoro.

La creatività è risolvere problemi.

Un buon carpentiere fa stanze e realizza dettagli di cui io non sapevo di aver bisogno.

Adesso mi sono indispensabili .

Lo scrittore scrive frasi e pensieri di cui il lettore non sa di avere bisogno, ma che diventano indispensabili. Forse per un breve momento, forse per tutta la vita.

Il carpentiere ha detto che costruisce perché lo sa fare maledettamente bene.

E io scrivo, perché lo so fare maledettamente bene.

Perché non dovrei scrivere?

Gioco. Racconto. Godo. Lavoro assiduamente, mi affaccendo, mi irrito, mi spazientisco.

Ogni libro sceglie da solo il suo stile.

L’anno del coniglio è una satira leggera perché l’alternativa sarebbe stata una pesante tragedia che sa di chiuso. Il tema del libro era così serio che doveva arrivare al lettore di nascosto, con una nave chiamata Umorismo. In Finlandia una mia serie di romanzi “Mielensäpahoittaja”, uno che ci rimane male, ha riscosso un grande successo. Racconta di un vecchio che è rimasto solo e si lamenta di tutto.

I lettori lo trovano molto divertente.

Per questo scrivo.

Trovo delle cose che trovano me.

Perché scrivo?

Devo pagare il mutuo della casa.

Una frase alla volta.

I paesi sono diversi, le lingue sono diverse. I sistemi economici sono diversi. Il cibo è diverso. In Italia buono, in Finlandia meno buono.

Ma l’essere umano è uguale. È fatto di sogni, paure, delusioni, fantasie, soddisfazioni e desideri che non si realizzano.

Quello che resta è materia per le storie, e il romanzo è una sottospecie.

Scrivo.

Perché qualcuno si interessi di qualcos’altro che non sia se stesso. Vivere da soli non ha senso.

Il libro è come un dispositivo per localizzare. Vedi da dove vieni, chi sei, dove stai andando, qual’è il tuo posto in questo mondo, quanto dista la prossima uscita e quando sei arrivato alla meta.

Ti identifichi. Ti estranii.

Ridi. Piangi.

Nel mondo dove i presidenti fanno grande impressione con la stupidità, lo scrittore deve fare grande impressione… con la sua capacità di comprendere.

 

Tuomas Kyrö ha scritto questo discorso in occasione del Pisa Book Festival 2017, dove la Finlandia è stata Paese Ospite. Il testo è stato tradotto da Hilla Okkonnen e Linda Jonkela.

Biotestamento, la figlia dell’allievo di don Milani: “Il suo urlo di dolore aspetta una risposta da politici. Per lo Stato è dovere”

(da Il Fatto Quotidiano, fonte)

 

L’urlo di dolore di mio padre, che è lo stesso di molti altri che non sanno emetterlo, aspetta una risposta dalla politica e dallo Stato”. Chi parla è Sandra, la figlia di Michele Gesualdi, l’ex allievo di don Lorenzo Milani, ad una settimana dalla pubblicazione della lettera che il babbo, il 13 marzo scorso, ha inviato ai presidenti della Camera e del Senato e ai capigruppo parlamentari per affrettare l’approvazione della legge sul testamento biologico. Sandra Gesualdi, giornalista, da mesi dà voce al padre che l’ha persa a causa della terribile malattia che l’ha colpito da tre anni, la Sla, girando per tutta la penisola a presentare il libro del padre, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, edito da San Paolo.

Lei è diventata la voce del padre, presenta i suoi libri: perché?
Perché sono sua figlia, semplice. Non conosco altri modi per aiutarlo e stargli vicino se non quello di farmi tramite di idee e pensieri suoi. Credo in questo di essere privilegiata, gli assisto la sua parte raziocinante e questo permette di ampliare e irrobustire la mia. Giorno dopo giorno le nostre radici si intrecciano.

Veniamo alla lettera. Che cosa ha spinto suo padre a scrivere la lettera sul testamento biologico?
Quella lettera è un grido di dolore che non ammette strumentalizzazioni o fraintendimenti. Intimo e acuto, di una persona lucida, consapevole e profondamente cattolica che mette a disposizione una situazione privata per cambiare la situazione a favore di molti. Michele vorrebbe una legge che renda pacifico il rispetto della sua volontà di malato terminale e della sua dignità che è anche quella di tanti malati come lui. La legge offre a tutti pari opportunità e fa sentire i suoi cittadini e le loro famiglie meno soli di fronte a decisioni difficilissime che creano turbamento, dubbio e lacerazione. Questo è un dovere dello Stato, sostenere e dar certezza, in ugual misura, a ogni suo cittadino. Soprattutto a quelli più fragili.

Le reazioni dei parlamentari a cui è indirizzata?
Al momento hanno risposto, tramite twitter, solo Grasso e Boldrini. Poi molti messaggi privati dalla società civile e da sacerdoti amici. La sensazione è che l’appello abbia ridato impulso a un dibattito che tocca molti, moltissimi. Un impulso a pensare.

Perché la Chiesa tace?
La Chiesa è una realtà composita. Non prese posizione neppure nel 1965 per la vicenda dei cappellani militari. Non condannò quel gruppo di cappellani che avevano dichiarato l’obiezione di coscienza espressione di viltà ed estranea al comandamento cristiano dell’amore. Non prese posizione a favore di don Milani quando scrisse le due bellissime lettere ai cappellani e ai giudici, tutte concentrate sul primato della coscienza e che hanno contribuito a far approvare la legge sull’obiezione. Veri e propri documenti sociali e civili.

Il silenzio della Chiesa preoccupa suo padre?
Nel suo ultimo libro Michele lo dice chiaramente e mette “due Chiese a confronto”: una in linea con gli interessi costituiti, l’altra quella schierata con gli ultimi e gli emarginati che lotta contro le ingiustizie sociali. E conclude che la Chiesa cammina lentamente ma prima o poi arriva. Nel frattempo, aggiungo io, dovrebbe dare conforto alle sue creature sofferenti.

Suo padre ha parlato con il Papa della malattia quando, il 20 giugno, ha fatto visita a Barbiana?
E’ stato un incontro privato e in quanto tale vorrei rimanesse. Francesco nella cucina povera di Barbiana era atteso come un padre che conforta, accoglie e protegge. E  non era atteso solo da mio padre.. Profonda tenerezza, commozione e naturalezza hanno fatto da cornice a quei minuti. Il tempo si è fermato e riavvolto.

Di cosa ha più paura suo padre in questo suo calvario?
Le rispondo direttamente con le sue parole (intervista a Radio Radicale del 29/10/17) e anche in questa occasione adempio al mio compito.. “Oggi mi fa un po’ paura non sapere cosa si trova nel mondo sconosciuto, ma ho anche molta speranza. Mi fa poi paura sapere la sofferenza che questo mio stato dà alle persone che amo. Per quanto riguarda  il mondo conosciuto ho  paura  che si costruiscano muri per chiudersi nel proprio egoismo anziché  ponti che aprono le braccia e i cuori alla umanità sofferente”.

Don Milani avrebbe apprezzato  la lettera di Michele?
Credo che don Lorenzo gli abbia insegnato a trattenere il respiro quando gli ha insegnato a guardare e riconoscere il cielo le notti d’estate a Barbiana. Lo ha corredato di saggezza, rabbia, giustizia e tenera ruvidezza. Mi risponda lei. Se suo figlio mettesse a disposizione la sua sofferenza per migliorare il mondo in cui viviamo, lei sarebbe contento?

La parte più bella del mio libro sono i miei lettori #Santamamma

Mi chiedono “perché scrivi”? Perché altrimenti come potrei ricevere lettere belle così:

 

“Caro Giulio, A pranzo, oggi, appena sono entrata a casa mia c’era odore di vaniglia: un profumo fantastico. Ero tutta sporca della “polverina che si crea quando graffi con la carta rossa contro un muro” insomma quella cosa lì. Mi chiamo xxxx, per gli amici semplicemente Bri. Faccio il primo superiore, sono piccolina insomma. Partecipo a Leggo Quindi Sono e mi è capitato di avere tra le mie mani il suo libro. Le dico la verità: a me piace leggere e quindi ho detto alle altre che prendevo l’ultimo libro, “quello che non voleva nessuno”. Semplicemente il suo libro dalla copertina e dal titolo non ispirava nessuno. Molti dei miei amici si sono pentiti dei libri presi perché “senza senso”. Io non ho mai letto un libro che non mi è piaciuto, ci sono solo libri che ti appassionano più di altri; non credo nei libri “cattivi”. Fatto sta che ho letto il vostro libro, che mi ha colpito dalla prima all’ultima pagina. So di essere un po’ piccola e che quindi, magari il suo libro non l’ho capito davvero. Ma ci ho provato. L’ho interpretato a modo mio e l’ho adattato alla mia vita. E quindi le dico grazie, perché mi ha svegliato da un letargo durato troppo per i miei gusti. Ha cambiato col suo libro un po’ della mia realtà. Mi ha permesso di vivere tutte le sue parole. E quindi le dico grazie. Questo 2017 è stato un anno duro per me. Potevo perdere mio padre, ho combinato tanti casini agli scout e a scuola non ne parliamo. Sono sempre stata una ragazza sveglia e solare, cantavo sempre (anche se sono stonata) e non mi abbattevo mai. Quella era una sera abituale, come tutte le altre. Giocavamo a carte in sede, tra una risata e l’altra; ma qualcosa era diverso, c’eravamo noi: il nostro gruppo. Che poi ora si è molto aperto, siamo diventati tantissimi:17. Quella sera eravamo forse in 7 o poco più e c’era aria di cambiamenti: ero scesa per parlare con un ragazzo che mi piaceva molto ed ero finita a ridere col suo migliore amico innamorato di me. Credo che se fosse stato in un altro momento adesso staremmo insieme, ma non posso saperlo. In realtà il cambiamento è stato tutt’altro che in amore. Insomma si è rotto un vetro e la nostra amica poteva farsi molto male: la sera prima che stava per partire per la Spagna. Dopo quella sera ci hanno cacciato dagli scout, avevano tanti motivi. Non siamo mai stati cattivi, solo pasticcioni. Facevamo di tutto. Lo scoutismo per noi era tutto. Dopo quella sera siamo tutti cambiati: uno di noi ha smesso d’impegnarsi e di far ridere (durante le scenette avevamo occhi solo per lui, ci faceva troppo ridere),  un altro ha smesso di corteggiare la mia amica, una di noi rischiava di rimanere incinta. Io beh, io mi sono spenta. Ci siamo spenti tutti. Abbiamo perso la voglia di fare. E ormai non sapevamo più perché continuavamo ad andare in associazione. Dopo quella sera per me, si è aperta una grande parentesi col fumo, che però si è chiusa, poi. Dopo quella sera abbiamo perso tutto. Non ne ho fatto un dramma all’inizio, poi ho letto il suo libro. Poi ho capito che l’inizio della fine è stato quel vetro. Il suo libro mi ha svegliato da un letargo durato mesi. Il suo libro mi ha fatto capire che è stato inverno per troppo tempo. Ho ritrovato la voglia, lo spirito e ho ritrovato il perché di me stessa. Ho iniziato a cercare un modo per trascinare anche gli altri,per svegliarli e ci riuscirò. Ne siamo usciti cambiati quest’anno. Io soprattutto. Ho conosciuto la luce e il buio e me ne sono innamorata. So che nessuna delle due potrebbe esistere senza l’altra. Oggi c’erano altre due del reparto che aggiustavano un tavolo in sede, e le ho aiutate. Mi sono fermata a pensare e…Oggi appena sono entrata a casa e c’era odore di vaniglia avevo voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa che facesse la differenza. Così ho tagliato i capelli e le ho scritto per dirle grazie. Ho pensato ad un piano. Poi mi vedo con quei vecchi amici e gli invoglio. E poi ritroviamo il senso. Faremo qualcosa. Io faccio qualcosa. Ci riusciremo. Sono una persona sensibile e spesso è di difficile esprimermi, spero che lei mi capisca. Quel buco, l’ho sentito anch’io un po’. Ma mi impegno a non sprecare la mia vita, partendo da oggi. Le dico grazie perché forse senza di lei non avrei mai capito qual era il problema è adesso non starei cercando di risolverlo. Mi sento in debito verso di lei, ecco perché le ho scritto,come se lei mi avesse un po’ salvato. Beh lo ha fatto. Le scrivo di getto e col cuore in mano. Non avrei mai creduto che un libro così brutto all’apparenza potesse diventare la risposta che cercavo. L’aiuto che cercavo. I grandi non capiscono queste cose e non posso aiutarti quando sei triste e non vuoi mangiare, ma i libri si. Potrei scriverci un libro su ma sarebbe scontato no? Non ho detto tutto quello che volevo in questo messaggio, semplicemente perché non ne sono ancora capace oppure non ho abbastanza tempo, comunque la ringrazio, col cuore

P.S. darle del lei mi fa sembrare una bimba piccola e stupida”