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La lezione di Thuram: «Quelli che usano Anna Frank per insultare, sanno esattamente cos’è il fascismo»

«Giusta la mobilitazione contro l’antisemitismo negli stadi, a costo di rischiare i fischi e nuovi insulti. Non fare niente sarebbe la scelta peggiore». Lilian Thuram è stato il grande difensore della Francia campione del mondo nel 1998 e d’Europa nel 2000, del Parma e della Juventus. Poi ha creato la sua Fondazione contro il razzismo, e il suo impegno continua con i libri «Le mie stelle nere» e «Per l’uguaglianza» (editi in Italia da Add). Ha seguito lo scandalo degli adesivi con Anna Frank degli ultrà della Lazio, e lancia un appello perché tutti, non solo le società di calcio, reagiscano.

Oggi nei stadi italiani si è tornato a giocare, prima delle partite sono stati letti brani del Diario di Anna Frank. È una reazione efficace secondo lei?
«Tutte le iniziative in questa direzione sono importanti, non c’è altra scelta. Quando succedono situazioni così gravi non si può fare finta di niente. Bisogna fare qualsiasi cosa per fare capire che non ci si comporta così. Qualche giorno fa ho parlato con una persona, un tifoso della Lazio, qua a Parigi. Eravamo un gruppo di amici, tutti stupiti e indignati, ma la cosa strana è che lui ha detto subito ”ehi, guardate che succede anche nelle curve delle altre squadre, non è solo un problema della Lazio”. Gli ho risposto che da tifoso della Lazio per prima cosa avrebbe dovuto riconoscere che gli autori degli adesivi con Anna Frank in maglia giallorossa avevano sbagliato, non provare ad attenuare le colpe dicendo ”ma lo fanno anche gli altri”. Quando ci si sente attaccati si reagisce ma non sempre nel modo giusto. È molto importante combattere l’ideologia che invoca la morte e isolare quelli che fanno gesti così stupidi».

Quando lei giocava in Italia succedevano cose simili?
«Sì, già alla mia epoca mi ricordo degli episodi di questo tipo. E siamo di nuovo a parlarne. C’è da chiedersi che cosa hanno fatto e fanno le società, la federazione, il governo, per togliere queste manifestazioni di odio dagli stadi».

Il presidente della Lazio, Claudio Lotito, dice di avere emarginato i tifosi violenti e razzisti tanto da subire minacce e da essere costretto a vivere con la scorta.
«Io comunque da ex calciatore e da tifoso di calcio mi chiedo come sia possibile non riuscire a cambiare le cose. Non ho la risposta, però mi sembra incredibile».

La magistratura ordinaria dovrebbe intervenire in modo più efficace?
«Non so dirlo. Mi chiedo se c’è una vera volontà politica di smetterla con l’odio. Certo che se tra 10 o 20 anni ci ritroveremo a fare gli stessi discorsi sarà un vero peccato, sarà grave per la società civile e per lo sport».

Nell’ambiente del calcio la storia di Anna Frank è conosciuta? O è anche una questione di ignoranza?
«Basta dire che i razzisti sono stupidi. Difendono una idea di società dove si sentono superiori. Stiamo parlando di adulti, almeno in maggioranza. Quelli che usano Anna Frank per insultare, sanno esattamente cos’è il fascismo».

In Francia esiste lo stesso problema?
«No. Il che non vuole dire che dentro gli stadi non ci siano antisemiti, attenzione. Però nessun gruppo potrebbe dare una dimostrazione così sfacciata davanti a tutti. Non so se sia per maggiori controlli o per altri motivi, non sono in grado di identificare esattamente le cause. Però in Francia una cosa simile negli stadi è impossibile. Perché i politici, i media e la società in generale sarebbero così sconvolti che non potrebbe succedere una seconda volta».

Rispetto ad altri sport il calcio è più colpito?
«Il calcio è lo sport più seguito al mondo. Gli stadi sono immensi. Qualcuno lì dentro ha l’impressione di perdersi nella folla, di potere fare qualsiasi cosa senza essere individuato. Negli altri sport non c’è la politica dentro le curve e il rapporto tra le gli ultrà e le società è meno stretto. Però lo stadio è lo specchio della società. Se in curva troviamo l’antisemitismo e il razzismo è perché esistono prima di tutto fuori».

Quindi la reazione deve cominciare fuori degli stadi?
«Io penso che ci debba essere ovunque una educazione intransigente contro l’antisemitismo e il razzismo. Noi tutti non dovremmo fare passare niente, nella vita di tutti i giorni. Se tu senti un tuo amico che dice qualcosa di sbagliato su un gruppo di persone, devi avere il coraggio di dirgli “guarda che non si fa, non puoi dire questo”. È un compito che abbiamo tutti. Quante volte c’è qualcuno che fa una battuta sugli omosessuali, per esempio, e quelli che gli stanno intorno si mettono a ridere anche se sanno benissimo che non è giusto? È lo stesso meccanismo. Chi non reagisce, di fatto, accetta».

Questa vicenda è stata seguita all’estero?
«Sì, e mi dispiace perché dà un’immagine sbagliata, negativa dell’Italia. Anche per questo dico che le persone di buona volontà devono prendere le distanze e denunciare questi fatti».

(fonte)

“Gli italiani non muoiono mai”. Ma il giornalismo spesso. Più volte al giorno.

Roberto Basso, sul suo blog, racconta di come una notizia (falsa) diventi una notizia ripetuta e accreditata per vera.

Scrive  Roberto:

«La vittoria della Brexit, la campagna di Trump contro Hillary Clinton, gli accessi alle mail di Macron per favorire una vittoria di Marine Le Pen. Tre casi di consultazione elettorale per i quali si è evocato il rischio di manipolazione dell’opinione pubblicaanche per mano di “potenze straniere”. L’arma di manipolazione di massa sarebbero le vituperate fake news prodotte grazie al lavoro di hacker e di specialisti della propagazione di notizie false in Internet.

Ma siamo sicuri che il nemico della democrazia occidentale sia oltre il confine di quella che per anni è stata la cortina di ferro? In molti casi non sembra necessario ricorrere al “nemico esterno” per spiegare la diffusione di notizie false e la manipolazione della percezione da parte di frange più o meno ampie dell’opinione pubblica. Esistono evidenze dell’intreccio di mezzi di informazione tradizionali, siti di pseudo-informazione, social media, politica. Proviamo qui a raccontarne una.»

Anche questa volta si tratta (indovinate un po’) si tratta di una prima pagina di Libero. Questa:

 

Racconta, Roberto Basso:

«Martedì 17 ottobre il Ministro dell’economia e delle finanze Pier Carlo Padoan ha illustrato i principi generali del disegno di legge di bilancio per il 2018 a Radio Anch’io, storica trasmissione di RadioUno Rai. Un ascoltatore ha posto una domanda sulle pensioni: in particolare sulla possibilità di interrompere l’adeguamento automatico dell’età di accesso alla pensione all’aspettativa di vita della popolazione. Il ministro ha risposto che il meccanismo di adeguamento serve a tenere in equilibrio i conti della previdenza sociale nella prospettiva che la vita media si allunghi.

Le agenzie di stampa riportano la risposta fedelmente, con sfumature leggermente diverse. L’Ansa (ore 8:56): “’C’è una legge concordata in sede Ue che tiene conto dell’allungamento delle aspettative di età’, ma ci sono anche ‘molti meccanismi introdotti per affrontare la questione, come per i lavoratori usuranti che hanno diritto ad andare in pensione prima’”. La Presse (ore 9:06): “’E’ una legge concordata in sede europea che tiene conto dell’aspettativa di vita, un meccanismo che ha a che fare con la demografia’. Secondo il ministro ‘il nostro sistema è uno dei più equi d’Europa e l’equità e l’inclusione sono rafforzati. Abbiamo messo risorse per una crescita inclusiva, per vaste e crescenti zone della popolazione’”. Italpress (ore 9:16): “’Per quanto riguarda l’età pensionabile, è una legge concordata in sede europea che tiene conto dell’allungamento dell’aspettativa di età’”. ADNKronos (ore 9:36): “E’ una legge già applicata, concordata in sede Ue, che ha a che fare con l’aspettativa di vita e la demografia’”. Chiaro, no?

Ebbene, ecco il titolo di apertura di Libero il giorno dopo:

“Gli italiani non muoiono mai”

tra virgolette (che dovrebbero indicare la riproduzione letterale di quanto pronunciato) e preceduto dall’occhiello “Il disappunto di Padoan”»

A proposito di democrazia e verità.

Il post di Basso è qui.

Hate speech. Laura Boldrini: «Non mi faccio intimidire»

Raggiungo la presidente della Camera Laura Boldrini di ritorno da un incontro con un liceo a Trieste,“rigenerata”, come dice lei stessa, dalla passione dei “tanti giovani presenti”. “Ho avuto la possibilità di parlare al liceo di Giulio Regeni ed è stata una bella mattinata: mi hanno regalato una Costituzione trascritta a mano da loro, in segno di vicinanza per le battaglie che porto avanti. Dicendomi che non me l’hanno regalato come Presidente della Camera ma come Laura Boldrini perché mi hanno detto che non devo sentirmi sola. Ed è una grande soddisfazione”.

Allora, Presidente, non resta che aspettare che diventino loro classe dirigente…

Gli ho detto proprio questo: devono mettere in atto il cambiamento che vorrebbero vedere e quindi partecipare, dare corpo alla Costituzione. Non possono rimanere passivi: devono essere capaci di determinare il loro presente e il loro futuro. Serve un orizzonte alto per cui vivere, altrimenti la vita è una miseria.

A proposito di diritti e orizzonti: ha destato molto scalpore la sentenza del Tribunale di Torino che ha assolto un uomo accusato di stalking grazie alla sua “condotta riparatoria” e ai 1500 euro che ha versato alla vittima. Partendo da qui, come giudica l’attenzione della politica per la violenza sulle donne (in tutte le sue forme)?

Intanto mi faccia dire che quella sentenza ha messo in evidenza una falla che è riconducibile alla riforma penale: lo stalking non doveva essere tra i reati estinguibili con l’equo indennizzo. Capisco bene perché questa ragazza abbia rifiutato il denaro: è umiliante anche la sola idea. Uno che ti stalkerizza è uno che ti rovina l’esistenza, che provoca ansia, angoscia, controllo e tutto questo non si cancella con il denaro; qui serve giustizia. Io penso che si debba rimediare il prima possibile: già due settimane fa, sulla scia degli ultimi femminicidi e stupri avevo sentito il dovere di rivolgermi alle forze politiche per colmare le lacune che erano emerse nelle recenti norme contro la violenza. Evidentemente se le donne continuano a morire per mano di uomini che erano già stati denunciati c’è qualcosa che non va.

Ci sono state risposte?

La gran parte dei partiti ha risposto. Ma c’è un ma: hanno risposto solo le deputate, come se la violenza sulle donne non fosse un gigantesco problema maschile. Io non mi capacito sul perché i politici uomini non sentano il bisogno di fare proprio questo tema. Delegano alle donne, eppure il problema è tutto maschile. Dovrebbero essere loro in prima linea. Questo è il cambiamento che mi attendo che avvenga nel nostro Paese.

Anche perché sembra che il problema delle donne in questo Paese non si riduca solo alla violenza, no?

Certo. Pensiamo alle donne sul lavoro: il 49% delle donne ha un lavoro ma l’altro 51% non è che non lo vorrebbe, non riesce ad ottenerlo. Poi, il Fondo Monetario Internazionale – non stiamo parlando di una Og di attiviste – dice che se le donne lavorano la produttività aumenta e dice che l’Italia perde svariati punti di Pil perché non stimola il lavoro femminile. E anche di questo non si parla. Noi siamo a crescita demografica sotto zero perché le donne se non lavorano non fanno figli. E poi c’è la rappresentazione mediatica della donna nella nostra società, che è quantomeno imbarazzante rispetto agli altri Paesi europei: spesso le ragazze per apparire in Tv devono essere seminude e mute, come se non avessimo giovani scienziate, matematiche, fisiche letterate o artiste. Anche questo è un grande tema politico. E poi c’è la questione della rappresentanza politica: in Italia a differenza che in Germania e nel Regno Unito ad esempio, non ci sono leader donne, tranne il caso di Giorgia Meloni. E questo lo dico soprattutto alla sinistra. Negli ultimi tempi ci sono stati incontri, vertici e fotografie con la pressoché totale assenza di donne. Ho lavorato per 25 anni in ambito internazionale e la parità di genere era un criterio tenuto in gran considerazione, anche nei convegni una delle prime cose di cui ci si preoccupava era l’equilibrio tra il numero di relatrici e relatori.

A proposito di violenze, ha fatto molto rumore la sua campagna contro l’hate speech in rete e la sua decisione di ribellarsi agli odiatori seriali. Quali sono i risultati? Quali sono le iniziative che dovrebbero intraprendere Facebook e simili?

Innanzitutto mi faccia dire che i risultati sono molto buoni. Io ho pensato a lungo all’opportunità di denunciare, l’ho maturata con il tempo perché vedevo che non farlo era come autorizzare il peggio: i cattivi maestri non si stancavano di fomentare l’odio e quindi a un certo punto ho pensato che fosse mio dovere – non solo diritto – denunciare. E da quando ho iniziato a farlo – perché in uno Stato di diritto non si risponde all’odio con l’odio ma lo si fa con la legge e i social media non sono al di fuori della legge – è crollato il numero delle sconcezze, delle volgarità e delle minacce. Io non abbasserò mai la testa, mai. Ora gli haters sono in ritirata, questa gentaglia può essere rimessa al proprio posto: continuo a firmare tantissime querele con mia grande soddisfazione.

Ma esiste un problema di comportamenti sulla rete?

La rete è uno spazio troppo importante per lasciarlo in mano ai violenti. Ognuno di noi deve assumersi la propria responsabilità. I grandi social dovrebbero fare di più, almeno per essere coerenti con quello che dicono. E invece nel nostro Paese lesinano risorse e presenza fisica: laddove non c’è un investimento in risorse umane non c’è nemmeno la possibilità di intervenire prontamente di fronte all’odio, di cancellare i messaggi, di fare azioni di contrasto. Io rimprovero a Facebook e agli altri di non investire: fanno un sacco di soldi, noi in Italia abbiamo 30 milioni di utenti, e cosa aspettano ad aprire un ufficio qui? Oltre al fatto che dovrebbero cominciare a pagare le tasse nei Paesi in cui fanno business: è inaccettabile una situazione di questo genere ed è una scorrettezza nei confronti delle aziende tradizionali che invece pagano le tasse dove fatturano. È una questione di giustizia sociale. Alla base imponibile mancano tra i 30 e i 32 miliardi di euro. Vale a dire circa 5/6 miliardi di tasse. Questi soldi potrebbero essere utilizzati per aumentare il numero di famiglie che hanno diritto al reddito di inclusione. Bisogna essere più esigenti con i giganti del web.

Nelle nostre interviste spesso ci interroghiamo sul fatto che “essere buoni” (meglio: buonisti) sia diventato terribilmente fuori moda come se la solidarietà, la bontà e la gentilezza siano “debolezze” imperdonabili. Che ne pensa?

Rivendico la centralità di questi valori perché sono gli unici che garantiscono a una società di reggersi. Da anni stiamo assistendo all’esproprio del senso profondo delle parole. C’è chi cerca di alternare il significato per proporre un modello improntato alla ferocia, all’ostilità reciproca. Tutto questo viene fatto senza che nessuno si opponga: addirittura quel modello lo si acquisisce. Una vera debacle politico-culturale. Che il termine buonista rappresenti un disvalore ne è la conferma. Mi chiedo: si vivrebbe forse meglio in una società cattiva e egoista? Essere buonista non significa essere fesso o voler far del male ai propri simili a vantaggio di altri. Questo è sbagliato, un’alterazione di senso. Bisogna essere più assertivi, respingere queste interpretazioni linguistiche e rivendicare certi valori con forza e a testa alta.

Possiamo dire che la sinistra ha le sue responsabilità da questo punto di vista?

Certo! Possiamo dirlo. Il linguista statunitense Lakoff dice di “non rincorrere l’elefante”, e lo dice ai democratici per invitarli a non rincorrere i repubblicani: quello che sta accadendo è proprio questo ed è un grande errore politico.

Ma su questo non crede che si senta anche la mancanza di intellettuali?

È una categoria che forse ha un po’ “mollato” dal punto di vista dell’influenza politica, come se si fosse rotto un patto, come se ci fosse uno scollamento. La politica invece ha bisogno della cultura, delle idee e delle prospettive. Ed è per questo che ho aperto Montecitorio a tante iniziative culturali.

Lei è quotidianamente bersaglio di un certo giornalismo che la “usa” per improbabili tesi di “sostituzione etnica” e altro. Gli attacchi, spesso, sono sul suo essere donna piuttosto che sulle sue tesi politiche. Come convive con questo stillicidio? Crede che l’Ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire più duramente?

Cerco di non farmi rovinare la giornata da tutto questo né tantomeno mi faccio intimidire. Ma qui non siamo nel giornalismo: siamo nell’ambito molto torbido del fango e dell’invenzione che ha come obiettivo quello di rovinare la reputazione delle persone. Sono imprenditori della disinformazione, sono specialisti dell’imbroglio. In un Paese normale tutto questo non dovrebbe andare sotto l’egida del giornalismo. L’Ordine dovrebbe almeno tutelare la categoria che rappresenta dai mistificatori di professione. Perché le falsità e le invenzioni contro di me non dovrebbero essere solo un mio problema, ma di tutti. C’è un inquinamento dell’intero sistema mediatico e a rimetterci sono i cittadini e il loro diritto a una corretta informazione.

Diceva Pasolini che i diritti sono quasi sempre quelli degli altri. Forse la disperazione del momento sta spingendo molti a credere che i diritti degli altri debbano per forza incidere sui propri. Così anche la battaglia per lo Ius soli è diventata una narrazione tutta fondata sulla paura. Come invertire la rotta?

Intanto la definizione di Ius Soli è già un equivoco. Non si tratta di questo. Nella legge esiste una serie di condizioni che devono essere rispettate: è una legge equilibrata, fatta a tappe. Dovrebbe essere vista come il giusto compromesso di esigenze diverse. E invece passa la narrazione fuorviante che tutti quelli che arrivano in Italia diventano italiani. La si racconta per creare paura. Io penso che bisogna spiegare questo provvedimento attraverso i principi e i valori che contiene: solo così si capirebbe che è una questione di giustizia. Parliamo di figli che vanno a scuola con i nostri figli, che conoscono l’italiano come noi e che considerano questo Paese il loro Paese. Come si rende una persona capace di dare il meglio? Quando la si include. Quando la si rende parte di una comunità. E quindi, se la politica è l’arte del futuro, questa legge s’ha da fare.

(continua su Left)

Dove sono questa settimana: dalle parti di Bergamo a presentare Santamamma e a leggere Sciascia. E lunedì in scena a Pavia.

Questo fine settimana, se vi va, mi tocca fare cose molto interessanti, se vi va di venire con me.

 

Sabato 14 ottobre per la decima edizione di “Presente Prossimo” presento il mio romanzo Santamamma alle 18 alla biblioteca di Albino (BG). L’evento è qui.

 

Domenica 15 ottobre per la bellissima rassegna “Fiato ai libri” leggo “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia a Montello (BG) presso l’auditorium comunale. Mi accompagna alla fisarmonica l’insostituibile Guido Baldoni. E c’è bisogno di Sciascia, di questi tempi. L’evento è qui.

 

Lunedì si torna in scena. Con “Mafie maschere e cornuti” sono a Pavia per la XIII edizione del ciclo di conferenze “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi e riguardante i temi della lotta alla MAFIA. Ci vediamo in Università, aula del ‘400. Ingresso gratuito.

 

Tutti i miei appuntamenti li trovate qui.

“I montanari possono assomigliare ai marinai: fanno un lungo giro per il mondo e poi tornano a casa”: l’intervista a Guccini

(fonte)

 

L’addio che l’ha fatto più soffrire l’ha dato alla sigaretta: “Ho smesso di cantare in maniera naturale, senza patemi: sentivo che con la musica non avevo più niente da dire e l’ho piantata. Finirla con il fumo, invece, mi sta facendo penare: è da un mese e dieci giorni che non ne accendo più una e mi manca, accidenti se mi manca”. Da sedici anni e nove mesi Francesco Guccini ha lasciato Bologna e vive a Pàvana, un borgo a quattrocento novantuno metri sopra il livello del mare, in pieno Appennino tosco-emiliano, vicino a quello che alla fine della Seconda Guerra Mondiale era il confine che separava l’Italia liberata dall’Italia occupata dai nazisti, la linea gotica.

Guccini ha scritto canzoni che si vorrebbero far studiare a scuola, o forse si studiano già. Quando capita che le passino alla radio – scriveva Edmondo Berselli – può venir voglia di cambiare stazione: si ha l’impressione di averle ascoltate abbastanza, di conoscerle tutte, di conoscerle troppo, con quell’erre moscia, i ritornelli brevi e le strofe lunghissime, le locomotive, gli eskimo, gli incontri, le incazzature, le bottiglie di vino. Poi, però, le si ascolta ancora e non suonano come ci si aspettava. Stupiscono, come se avessero il potere di rinascere.

“Ho scoperto – dice Guccini – che i montanari possono assomigliare ai marinai: fanno un lungo giro per il mondo e poi tornano a casa. A me è successo. Qui a Pàvana sono cresciuto con i miei nonni quando non c’era l’acqua corrente, era da poco arrivata l’elettricità e alla sera ci scaldavamo al fuoco del camino. La vita mi ha riportato nello stesso posto quando a scuola hanno accettato la richiesta di trasferimento di mia moglie, nel 2001. Non abbiamo pensato: ‘Adesso cambiamo vita’. È successo. Ho lasciato Bologna e oggi non so più cosa sia. La città che ho abitato è scomparsa. Non ci vado più volentieri. Non sopporto il traffico, le distanze da percorrere. Una volta uscivo di casa a mezzanotte e mezza. Oggi a quell’ora sono a letto da un pezzo. È cambiata Bologna. Sono cambiato io”.

Qualcosa è rimasto uguale?

Il desiderio di scrivere. L’unico periodo della mia via in cui non ho scritto è stato durante il servizio militare. Per il resto, ho sempre scarabocchiato ovunque. Quando facevo il giornalista alla ‘Gazzetta di Modena’ mi precipitavo alla macchina da scrivere ogni volta che avevo un attimo libero. Abbozzavo racconti, cominciavo romanzi, anche storie di fantascienza – poi, perdevo i fogli per strada. Il computer è stato la svolta. Da quando l’hanno inventato, ho iniziato a scrivere e a sapere dove ritrovare quel che avevo scritto.

Lo fa ogni giorno?

Scrivo solo quando mi vien voglia. Un’ora, un’ora e mezza. A volte niente. Appena mi stanco, smetto. Era così anche con le canzoni. Quando volevano uscire, venivan fuori da sole. Non mi sono mai obbligato a comporle.

Era quello che voleva fare da piccolo?

Da ragazzino, non mi è mai passato per la mente di fare il cantautore. Non sentivo di appartenere al mondo delle canzoni. Ero convinto che avrei fatto lo scrittore. Leggevo così tanto che mi veniva naturale crederlo.

Cosa leggeva?

Tutto quello che mi capitava per le mani. Alla fine dell’estate, quando i villeggianti se ne andavano dalle case che avevano affittato, andavo e razzolavo quello che avevano lasciato dentro. Spesso erano gialli. E in quelle settimane che precedevano il ritorno a scuola, al pomeriggio, li leggevo uno dopo l’altro.

L’altra letteratura quando è arrivata?

Più tardi conobbi gli americani. Era una moda leggere gli scrittori statunitensi del secondo dopoguerra. Lo facevano tutti, l’ho fatto anch’io. Poi all’università conobbi Dickens e più in là gli italiani: Calvino, Pavese, Fenoglio, Pratolini e Manzoni.

I russi?

Li ho letti con gran fatica, mi confondevo con i nomi, quei nomi incredibili che avevano, Andrej, Sergey, Anatole, Petja, alcuni mi sembravano cambiassero tre o quattro volte durante il romanzo. Mi disorientavano.

Ha appena scritto, con Loriano Macchiavelli, “Il tempo degli elfi” (Giunti): il titolo è un tributo a Tolkien?

Una ragazza americana, intorno al sessantanove, mi regalò “Lo Hobbit” in un’edizione paperback. Entrai in quel mondo magico e poi in quello de “Il Signore degli anelli”. Mi travolse.

Era considerata una lettura di destra, allora. Provava imbarazzo?

Tolkien era ambivalente: in Italia lo avevano adottato i gruppi di destra, ma in America erano gli studenti americani di sinistra e gli hippie a ispirarsi a lui. Vedevano dentro i suoi libri un inno al ritorno alla natura, a un’idea di vita essenziale, lontana dalla società. Lo stesso principio che ha mosso i primi ripopolatori dei nostri Appennini, per lo più anarchici che – dopo gli anni di piombo, per paura di finire nei guai – salirono su queste montagne a fondare le loro comunità. Quelle degli elfi, appunto: che sono dei personaggi del romanzo mio e di Loriano.

(Un giallo ambientato nei boschi, tra ispettori della forestale, lupi, un omicidio, capre tibetane e una certa caducità dell’idealismo)

Lei coltiva la stessa utopia della natura?

Io non coltivo alcuna utopia, non l’ho fatto mai: sopravvivo abbastanza tranquillamente senza. Non credo che sia necessario privarsi di tutto – elettricità, riscaldamento, acqua calda e fredda – per tornare alla purezza originaria. Né sono come chi è convinto che basti andare a funghi nel fine settimana per ristabilire l’armonia dell’uomo con ciò che lo circonda.

In passato era più facile questo rapporto?

Il contadino aveva un po’ di terra, una mucca in stalla, qualche gallina, magari un maiale. Non si poneva il problema del rapporto con la natura. Sopravviveva, facendo una vita durissima. Al punto che il lavoro in fabbrica – magari meno umano, ma di certo più riposante – gli appariva lieve.

Oggi com’è vivere in montagna?

L’Appennino è in completa decadenza. I boschi sono abbandonati. Le foglie che cadono ogni anno dai castagneti si accumulano a quelle che sono cadute l’anno precedente. Nessuno se ne prende più cura.

Si sente lontano dal mondo?

Non sono un eremita, mi sento dentro il mondo. Ne avverto le tensioni e i conflitti.

Cosa la preoccupa di più?

Quello tra Trump e Kim, due matti che non si da bene come reagiranno alle follie che l’uno farà all’altro.

E l’Italia?

Parlo di politica solo ogni tanto con gli amici. Non sento di appartenere a nulla, se non a me stesso.

Dario Fo però scrisse che lei era la voce del movimento. Oggi il movimento è quello a 5 Stelle.

Dario si era innamorato della figura del giullare fino al punto di avvicinarsi a quella di Beppe Grillo. L’ultima volta che lo vidi, poco prima che morisse, parlammo d’altro – non gli ho mai chiesto il perché di quella scelta. Certo, anche a me piacciono i giullari. Ma non in politica.

Cos’hanno di diverso questi ragazzi dei 5 Stelle da quelli del vostro movimento?

Noi allora non desideravamo far carriera: volevamo cambiare il mondo. Forse, nemmeno i 5 Stelle desiderano il potere. Alcuni di loro però se lo stanno prendendo. Vogliono scalare le posizioni di comando, occuparle, contare. Noi eravamo anarcoidi, più istintivi. Loro si danno da fare. Tutto sommato, sono dei professorini.

Le piacerebbe essere riconosciuto nella letteratura come è successo a Bob Dylan?

Ho molto invidiato Dylan per il premio Nobel. E non spetta a me stabilire se ho avuto o non ho avuto un ruolo nella letteratura italiana. Ma, se dovesse accadere, mi gratificherebbe molto.

“Qualche volta nel cuore abbiamo spazio per più di una persona”: l’intervista a Max Lobe

Una bella intervista de Il Libraio allo scrittore Max Love, da leggere (fonte):

 

Ci tolga una curiosità: la Svizzera è davvero il paese civile che ci aspettiamo. O c’è razzismo?
“Non direi, ma non mi piace usare la parola razzismo. Se voglio crescere, ed evolvere come persona, non ci devo pensare: il problema non è mio, ma di chi ha atteggiamenti razzisti e discriminatori”.

Tuttavia non può negare che in alcuni casi può essere difficile passarci sopra…
“Sono arrivato in Svizzera quattordici anni fa per frequentare l’Università e riunirmi con parte della mia famiglia. Si è trattato di un inizio difficile, è vero: ero l’unico nero nel mio corso di studi a Lugano. In quel momento mi sono reso davvero conto di essere nero. In Camerun si può essere di etnie diverse, ma il colore della pelle è lo stesso. In Svizzera mi sono sentito diverso”.

Nei suoi libri mantiene un contatto con l’Africa?
“Il mio primo libro, ancora inedito in Italia, parla del traffico delle donne che dall’Africa arrivano in Europa con false promesse di lavoro e poi si ritrovano sfruttate dal racket della prostituzione. Si intitola 39 Rue de Berne, che è un indirizzo vicino a dove abito, in un quartiere che si potrebbe definire a luci rosse. La Trinità bantu, invece, l’ho scritto piangendo, perché prende spunto da un momento molto triste”.

Ce lo può raccontare?
“Mia madre era malata di cancro alla gola e dal Camerun è venuta in Svizzera per farsi curare. In pratica è quello che accade anche alla madre del protagonista del romanzo. Mi capita spesso di prendere spunto da avvenimenti che sono realmente accaduti. Ne La trinità bantu, in particolare, ho voluto raccontare un periodo difficile che ho provato sulla mia pelle”.

Oltre che di malattia, nel libro si parla anche di razzismo e disoccupazione…
“La disoccupazione l’ho sperimentata dopo l’Università; nonostante un master, per quasi un anno non ho trovato lavoro. In un paese come la Svizzera, dove il tasso di disoccupazione è bassissimo, essere tra i pochi senza un lavoro è davvero dura. Ancora di più se avviene in un contesto in cui non ci si sente supportati; nel caso del mio romanzo, in un momento in cui si fanno sentire intolleranza e razzismo. Ecco, ho voluto unire tre diversi tipi di cancro: la malattia, la disoccupazione e l’estremismo di destra”.

Parlando di estremismo di destra, proprio in questi giorni in Germania l’AfD si è confermata terza forza politica del paese: in Svizzera potrebbe accadere qualcosa di simile?
“Il sistema politico elvetico è differente, quindi è molto difficile che un personaggio à la Marine Le Pen salga al potere. Tuttavia è anche vero che nel 2007 c’è veramente stata una campagna promossa dall’estrema destra in cui le ‘pecore nere’ venivano cacciate da quelle bianche (episodio ripreso anche ne La trinità bantu, ndr) e che anche in questo caso abbiamo avuto un politico abbastanza controverso come Christoph Blocher”.

Su scala mondiale, infatti, i movimenti di estrema destra avanzano…
“La ripartizione della ricchezza sproporzionata tra nord e sud del mondo è alla base di questa tendenza: chi è ricco ha paura di perdere i propri privilegi e quindi, di fronte all’immigrazione, vede negli estremismi la soluzione più semplice. In realtà c’è bisogno di riflettere e trovare altre risposte: per fortuna molta gente lo sa e per questo mantiene una posizione più moderata”.

Tornando al romanzo, c’è un altro tema di cui non abbiamo ancora discusso: l’omosessualità. Cosa significa essere africano e gay?
“In Camerun è illegale essere gay. Ma fin dal mio primo romanzo, 39 Rue de Berne, ho scelto un protagonista omosessuale e africano. Ho voluto rivendicare quello che sono e dimostrare che è normale, è parte della vita. Ne La trinità bantu ho perfino creato una relazione a tre: qualche volta nel cuore abbiamo spazio per più di una persona”.

Ebbene sì: anche Salvini e Maroni hanno usato i soldi rubati da Bossi

(un pezzo da leggere con attenzione e ritagliare di Giovanni Tizian e Stefano Vergine per l’Espresso)

 

Cinque anni fa, quando tutto ebbe inizio, Umberto Bossi usò un’immagine biblica per spiegare il suo intento. «Ho fatto come Salomone: non ho voluto tagliare a metà il bambino», disse mentre si apprestava a lasciare le redini del partito a Roberto Maroni.

Erano i giorni in cui i giornali pubblicavano le prime notizie sullo scandalo dei rimborsi elettorali leghisti, quelli incassati gonfiando i bilanci e usati per pagare le spese personali del Capo e della sua famiglia, come la laurea in Albania del figlio Renzo o le multe del primogenito Riccardo.

Il senso della metafora bossiana era chiaro: piuttosto di dividere la Lega tra chi sta con me e chi contro di me, il Senatùr si diceva pronto a lasciare pacificamente il potere al suo storico rivale. Da allora in poi l’intento di chi è succeduto a Bossi, prima Maroni e oggi Salvini, è sempre stato quello di differenziarsi, di creare compartimenti stagni tra il partito dell’Umberto e quello di oggi, tanto che all’ultimo raduno di Pontida al fondatore non è stato nemmeno concesso il tradizionale discorso dal palco.

Gli immigrati al posto dei meridionali, il nazionalismo in sostituzione del secessionismo. Pure un nuovo marchio, Noi con Salvini, dotato di satelliti sparsi dal Centro al Sud e rappresentato da personaggi della destra, come in Calabria, o vecchi democristiani votati all’autonomia, come in Sicilia. Nuovi volti (per modo di dire) e nuovi ideali sostenuti con forza proporzionale all’incedere delle inchieste giudiziarie sui fondi elettorali.

Se è vero che negli ultimi anni molto è in effetti cambiato all’interno del Carroccio, c’è qualcosa che è rimasto segretamente invariato. Roberto Maroni preferisce non dirlo, Matteo Salvini lo nega categoricamente. Insomma, gli eredi del Senatùr sostengono di non aver visto un euro di quegli oltre 48 milioni rubati da Bossi e Belsito. «Sono soldi che non ho mai visto», ha scandito di recente l’attuale segretario federale commentando la decisione del Tribunale di Genova di sequestrare i conti correnti del partito dopo la condanna per truffa di Bossi.

I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano però che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati.

Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.

A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’attuale governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie. Da qui in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento.

A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato.

Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Perché allora il segretario della Lega e aspirante candidato premier per il centro-destra continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E se li ha visti, come poteva non sapere che erano frutto di truffa?

Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010.

La sostanza però non cambia. Sono denari ottenuti con la rendicontazione gonfiata firmata da Belsito. Fatto di cui a quel punto è dichiaratamente convinto anche Salvini. Il quale, due giorni dopo l’ultimo prelievo, riceve persino una lettera dallo storico avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.

Il denaro, più che l’ideologia, è dunque il collante tra l’epoca di Bossi, l’interregno di Maroni e il presente firmato Salvini. Le tre età del partito della Padania intrecciate attorno a una vicenda che tutti vogliono dimenticare in fretta. Talmente in fretta da ritirare persino la costituzione di parte civile davanti al giudice.

Già, perché solo un mese dopo essersi dichiarato vittima della truffa targata Bossi-Belsito, Salvini fa marcia indietro. Come a dire: chiudiamola qua, scordiamoci il passato e andiamo avanti. Una scelta travagliata, non da tutti condivisa. All’interno della Lega, infatti, nei primi mesi del 2014, c’era chi voleva mostrare pubblicamente la rottura col passato. Altri, invece, parteggiavano per la politica della rimozione. In questo contesto matura l’accordo di conciliazione”con l’avvocato di Bossi, nel quale la Lega rinuncia a costituirsi parte civile. A un patto però: il legale di fiducia del Senatùr avrebbe dovuto accantonare ogni pretesa di denaro che il partito gli doveva, circa 6 milioni di euro. Infine, a Bossi sarebbe andato un lauto vitalizio.

Tutto risolto, dunque? Macché. Salvini e Maroni vengono meno al patto. E danno mandato all’avvocato Domenico Aiello, legale del governatore lombardo, di procedere con la costituzione di parte civile. Uno smacco al vecchio amico Bossi, a cui poco dopo segue un altro colpo di scena. A novembre durante l’udienza preliminare contro B&B, Aiello ritira l’atto di costituzione. In pratica la Lega non chiede più i danni per la truffa. Un’idea di Salvini, motivazione ufficiale: «Non abbiamo né tempo né soldi per cercare di recuperare soldi che certa gente non ha», spiegò l’europarlamentare appena eletto segretario del Carroccio. Una mossa che sorprese persino il governatore della Lombardia, Maroni, che con Aiello aveva fatto il possibile per chiedere i danni agli imputati leghisti.

La sensazione di chi il partito lo frequenta da venti e passa anni è che sia stata una ritirata strategica, per rappacificare le opposte fazioni ed evitare rivelazioni scomode. Soprattutto in merito ai soldi lasciati in cassa da Bossi, quelli finiti al centro delle inchieste di tre procure.

I bilanci della Lega raccontano, infatti, meglio di qualsiasi dichiarazione politica che cosa è successo in questi anni ai soldi dei Lumbard, o meglio di tutti i contribuenti italiani. Il primo dato evidente è che le cose andavano molto meglio, almeno dal punto di vista finanziario, quando sulla plancia di comando c’era Bossi. Con lui al vertice i bilanci degli ultimi anni si sono infatti chiusi sempre in positivo. Le cose cambiano nel 2012, quando arriva Maroni: per la prima volta la Lega chiude i conti in rosso, con una perdita di 10,7 milioni di euro. L’anno seguente, il primo interamente firmato da Bobo, le cose vanno persino peggio: il bilancio evidenzia una perdita di 14,4 milioni. Colpa della diminuzione dei rimborsi elettorali e del calo delle donazioni private, si legge nei resoconti padani. Ma non è solo questo.

Nonostante i dipendenti diminuiscano, i costi sostenuti dalla Lega aumentano. In particolare alcune voci, come quella denominata “spese legali”, per cui il partito arriva a sborsare oltre 4,3 milioni di euro tra il 2012 e il 2014. Un bella somma, oltretutto senza neppure essersi costituita parte civile nel processo contro Bossi e Belsito.

Com’è possibile allora aver speso tutti quei soldi in avvocati? I bilanci non lo spiegano, ma un documento ottenuto da L’Espresso aiuta a capire meglio come sono andate le cose. È un contratto datato 18 aprile 2012. Bossi si è dimesso da due settimane e il Carroccio è retto dal triumvirato Maroni-Dal Lago-Calderoli. Sono loro ad affidare la consulenza legale allo studio Ab di Domenico Aiello, già avvocato personale di Maroni e in ottimi rapporti con il magistrato milanese che sta seguendo l’inchiesta, Alfredo Robledo. Nel contratto si specifica che la consulenza riguarderà proprio i procedimenti penali che coinvolgono Bossi e i rimborsi truccati. Si tratta delle indagini in corso a Milano, Napoli, Genova e Reggio Calabria, ciascuna segnalata con il relativo numero di fascicolo.

Un lavoro ben pagato: per Aiello la tariffa sarà di 450 euro all’ora, costo che sale a oltre 650 euro se si aggiungono – come da prassi – spese generali, contributi previdenziali e imposte. Insomma non male per l’avvocato calabrese che, qualche anno dopo, Maroni piazzerà nel consiglio d’amministrazione di Expo, mentre la moglie, Anna Tavano, finirà per un periodo in Infrastrutture Lombarde, società controllata direttamente dalla Regione.

Va detto che Aiello, così come la moglie, ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi clienti più celebri, oltre a Bobo Maroni spicca l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Poi ci sono gli incarichi negli organismi di vigilanza: Consip, Siemens, Conbipel, Veolia e la Sparkasse di Bolzano. In quest’ultima banca il presidente del Consiglio di amministrazione si chiama Gerhard Brandstätter. Brillante avvocato del Sudtirolo, che con Aiello, nel 2011, ha fondato lo studio associato AB, lo stesso scelto dalla Lega.

Con Maroni traghettatore, le camice verdi apriranno anche un conto “easy business” e un conto deposito presso la banca altoatesina, depositando in totale qualche milioncino. È il periodo in cui si tentava di mettere al sicuro il patrimonio del partito, dalle cordate bossiane e forse anche dai giudici. Matura così l’idea, poi tramontata, di creare un trust in Sparkasse per blindare quasi 20 milioni.

I bilanci non confermano solo questo. Spiegano anche perché oggi i conti del partito sono a secco. E quale la strategia scelta per evitare il sequestro effettivo dei soldi. Nel 2015, quando è Salvini a comandare, la ricchezza della Lega cala, infatti, vistosamente. Il patrimonio netto passa da 13,1 milioni dell’anno precedente a 6,7 milioni. Il motivo è spiegato chiaramente nella relazione sulla gestione finanziaria: i soldi del partito sono stati trasferiti alle sezioni locali, 13 in tutto, dotate nel frattempo di codici fiscali autonomi.

È così ad esempio che due giorni prima di Natale la sezione Lombardia, fino ad allora sprovvista di risorse finanziarie, diventa titolare di un patrimonio da 2,9 milioni di euro. Custoditi per lo più su conti correnti bancari e postali. Una partita di giro, insomma. Il risultato? Al termine del 2016 la Lega aveva una disponibilità liquida di soli 165mila euro, mentre le sue 13 sezioni locali messe insieme registravano somme per 4,3 milioni. La nuova architettura finanziaria non ha però impedito ai magistrati di sequestrare le ricchezze del Carroccio. Come ha dichiarato lo stesso Salvini, al momento non è stato bloccato il conto corrente della Lega nazionale, ma quelli delle sezioni locali. «Un punto su cui daremo battaglia in sede legale», assicura una fonte del Carroccio che non vuole essere nominata.

C’è però ancora una questione da risolvere. Il tribunale di Genova, nei giorni scorsi, ha deciso di bloccare il sequestro. I giudici hanno annunciato di aver congelato poco meno di 2 milioni. Eppure, come detto, alla fine dell’anno scorso sui conti della Lega c’erano 4,3 milioni. Mancano dunque all’appello oltre 2 milioni. Possibile che la Lega li abbia spesi in questo 2017. O anche che siano stati trasferiti su altri conti. Un’ipotesi, questa, impossibile da verificare. Perché “Noi con Salvini”, il movimento creato tre anni fa dal nuovo leader del Carroccio per conquistare il Centro-Sud, non ha mai pubblicato un bilancio.

Dubbi e interrogativi sollevati dai nemici interni del leader in felpa. Salvini potrà dire che a lui certe questioni “politichesi” non interessano e che preferisce parlare di immigrazione, euro, lavoro. Ma all’interno del suo partito i bossiani non dimenticano. E i mal di pancia iniziano a diventare veri e propri tumulti silenziosi. Pare che siano persino pronti a muoversi autonomamente per le prossime elezioni politiche. Una forza che ruberebbe al Capitano il 2-3 per cento.

Del resto non è facile disfarsi del Senatur, fu il primo a dare avvio a una tipica usanza leghista: scaricare i compagni di partito che osavano mettere in dubbio la sua autorità. Bossi fece così con l’ideologo della secessione Gianfranco Miglio. Con la stessa moneta lo hanno ripagato Maroni e Salvini. E ora sotto a chi tocca.

Le vittime che insegnano a giornali e politici la giustizia piuttosto che la vendetta

“Ma quali torture e pena di morte, noi vogliamo solo che li arrestino e che quelle belve paghino per quello che hanno fatto. Per poi tornare a Rimini da turisti qualunque”. A dirlo è la turista polacca vittima dell’orrendo stupro di Rimini. Forse in giro questa frase l’avete letta poco, troppo poco. Molti quotidiani erano troppo concentrati a raccontarvi i particolari sessuali per acchiappare qualche clic. Questa frase che invece è aria fresca in questo momento così buio ha trovato poco spazio: del resto una donna ferita dallo stupro che dimostra più equilibrio di qualche segretario capopopolo di partito e di qualche direttore di giornale è una lezione che svela la loro grettezza morale.

Come ha detto la ragazza, dal suo letto di ospedale: “Le solite strumentalizzazioni politiche, da questo punto di vista la Polonia non è diversa dall’Italia”. E ha aggiunto: “Ora noi vogliamo solo voltare pagina, tornare alla normalità, al nostro lavoro, alla nostra vita quotidiana. E magari, tra qualche tempo, tornare in questa città meravigliosa”. Ecco, appunto.

Così anche il nonno di Sofia (la piccola deceduta all’ospedale di Trento per la malaria) ieri ha detto: “non accusate le bimbe africane”. E poi, con una misura superiore a tanti editorialisti indegni di appartenere alla categoria dei giornalisti, ha aggiunto: “Noi non accusiamo nessuno. Tocca ai medici dirci come e perché Sofia è stata uccisa dalla malaria. Forse però negli ospedali qualcosa va aggiornato”.

Ecco: siamo in un punto talmente basso che i sopravvissuti, ancora immersi nelle loro ferite, sono i portatori della analisi più lucide. Perché, ricordiamocelo, a questi non interessano le vittime: hanno solo un disperato bisogno di creare nemici per dare un senso al proprio abbaiare. Poi, davanti a un pensiero compiuto, si sciolgono.

Buon venerdì.

(p.s: Dei carabinieri sono stati accusati di stupro a Firenze. Usarli contro Salvini e compagnia è una vendetta, mica giustizia. Non diventiamo come loro)

(continua su Left)

Ghosh accusa “Noi, carnefici incoscienti del pianeta”

da Repubblica, 14 settembre 2017. «Per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà». Intervista ad Amitav Gosh, autore di “La grande cecità

 

Siamo tutti vittime e colpevoli, dice Amitav Ghosh. Pare di riascoltare le parole dell’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini. Altra epoca, altro «gioco al massacro ». Ma il finale è lo stesso. Siamo tutti «deboli e vittime» del cambiamento climatico, perché ne subiamo le spietate conseguenze. Ma siamo anche tutti colpevoli perché, dice lo scrittore indiano, «il silenzio e l’indifferenza verso la più grande e imminente catastrofe del presente umano è di tutti. Non solo dei politici, ma anche di scrittori e intellettuali, che si occupano raramente di questo problema, e dei cittadini, che oramai dimenticano le sempre più frequenti catastrofi naturali, da Livorno ai Caraibi, dall’India a Houston».
Benvenuti dunque nell’epoca della “Grande cecità”, dove un cavalluccio marino nuota con un cotton fioc e dove neanche l’occhio di Irma, il più terribile uragano della storia recente degli Stati Uniti, ci illumina la vista, né «smuove le coscienze. O meglio, la nostra incoscienza», racconta affranto Ghosh, autore, tra le altre cose, de Il paese delle maree e della Trilogia dell’Ibis. La Grande Cecità
che ha annebbiato il nostro immaginario e l’istinto ecologico, è anche il nome dell’ultimo saggio di Ghosh, edito da Neri Pozza (pagg. 284, euro 18). Sottotitolo «il cambiamento climatico e l’impensabile». Impensabile, spiega lo scrittore, «è l’autocensura del termine climate change, che compare raramente in libri e media, nonostante la gravità del problema. È una questione di narrativa, di immaginazione».
E perché capita questo, Ghosh?
«Alla base c’è sicuramente una colpa dei politici e della inerme comunità mondiale. È una cosa scandalosa, ma in fondo la capisco. Oggi i politici hanno mandati di 4-5 anni in media ed è impossibile limitare una piaga così ampia e a lungo termine come il cambiamento climatico in tempi così brevi. Gli accordi di Parigi, già rinnegati da Trump, sono stati importanti ma si tratta di un passo minuscolo verso una soluzione del problema».
Come mai?
«Innanzitutto perché ne affrontavano una parte piccolissima, concentrandosi solo sulle emissioni e non su agricoltura, acqua e altri aspetti cruciali. Più in generale, per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà. I politici lo sanno ma non lo ammetteranno mai, altrimenti si brucerebbero la carriera. Invece continueranno a ripetere “crescita, crescita, crescita”. Così i disastri e il calore cresceranno sempre di più, oramai l’aria condizionata la usano anche a Seattle, saranno necessari energia e fondi sempre maggiori, e continueremo a morderci la coda fino al prossimo disastro».
Cosa bisogna fare secondo lei?
«Limitare l’uso di energia, e ricalibrare quest’ultima sul consumo pulito. Ridefinire il modello economico e la globalizzazione. Così non si può andare avanti. Il Pakistan per sopravvivere deve esportare sempre più cotone, ma per farlo crescere ci vuole tanta acqua, e così prosciuga le sue riserve. Lo stesso accade in India per la canna da zucchero. Ma la crisi idrica è una delle tante conseguenze di questo sistema insostenibile. E nessuno ne parla seriamente ».

Nella “Grande Cecità” lei affronta proprio questo problema. Quali sono le cause?
«La cultura è connessa al mondo della produzione di merci e ne induce i desideri. Inoltre, non c’è istruzione né educazione su ambiente e cambiamento climatico, né da piccoli, né da grandi. Perciò, al cinema o nei romanzi, un tema del genere non viene ancora considerato realistico, ma surreale, o “fantascienza”. Eppure il disastro è qui, imminente, intorno a noi. La cosa più deprimente è la glaciale insensibilità che persino i cittadini, ormai, mostrano senza ritegno».
Ma perché abbiamo smarrito quest’anima ambientalista? Del resto, anche in Europa, per esempio, i partiti verdi ed ecologisti hanno perso moltissimo consenso.
«È vero ed è sconfortante. La nostra assuefazione emotiva nei confronti dei disastri naturali e del cambiamento climatico si è fortificata parecchio negli ultimi decenni. Quasi non ci spaventano più, ma soprattutto non ci fanno più pensare alle loro conseguenze e, quindi, al nostro futuro. L’attuale modello di vita estremamente materiale, individuale e schiacciato su una singola esistenza influisce profondamente su qualsiasi domanda sul nostro destino e sul futuro del mondo. Non che avessero fondamento scientifico, ma almeno in passato, quando le religioni avevano molto più seguito, le catastrofi naturali ci inducevano a riflettere sulle loro cause, sul perché di quella “punizione divina”. Era un ragionamento errato, ma almeno si rifletteva. Oggi abbiamo rinunciato anche a questo. Paradossalmente, nell’era della globalizzazione, non abbiamo più quello spirito globale nell’avversità. Per questo si tratta di un problema soprattutto culturale».

E, conseguentemente, molto spesso non si fa nulla neanche per la prevenzione dei disastri.
«Difatti sono rimasto sconvolto da quello che è successo a Livorno qualche giorno fa. È incredibile che in un paese come l’Italia possano accadere drammi simili senza alcuna protezione pregressa, date anche le condizioni particolarmente ostiche del territorio italiano. Persino le Mauritius hanno un ottimo sistema di allerta anti cicloni, per esempio. Anche la vituperata Cina sta facendo molto rispetto al passato. Ma nemmeno questo oramai mi stupisce più. Le grandi nazioni occidentali, nonostante la facciata, sono paradossalmente quelle che fanno meno per risolvere il problema. Non solo Trump, ma anche uno come il premier canadese Justin Trudeau, icona dei liberal e della sinistra nel mondo, sta facendo poco per l’ambiente. L’influenza della cultura economica, estrattiva e coloniale del mondo anglosassone non si è indebolita nei decenni. Eppure affrontare il cambiamento climatico risolverebbe tanti problemi dell’Occidente, anche quelli migratori. E invece… Con questo assordante silenzio intorno, è impossibile essere ottimisti».

(il libro di Ghosh si può acquistare qui)

Ci vorrebbero intelletuali riluttanti

di Pier Aldo Rovatti

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 8 settembre 2017]

 

Che fine hanno fatto gli intellettuali? Il termine stesso sembra ormai vecchio, quasi estinto. Eppure, quando lamentiamo la crisi di un ceto politico all’altezza degli attuali problemi sociali e dunque capace di governare, ci appelliamo anche a quelle figure pubbliche di intellettuali di cui sentiamo la mancanza.

In realtà siamo preoccupati che stiano scomparendo dalla scena non gli intellettuali che dicono di sì ai dispositivi che oggi agiscono in modo più o meno visibile, i quali continuano a proliferare producendo vernici ideologiche anche silenziose, ma i portatori di un pensiero critico in grado di discutere, scalfire e possibilmente correggere, se non proprio trasformare, le rigidità e le microviolenze dei dispositivi stessi. Capaci, appunto, di esercitare un’effettiva azione politica.

Sembrano in via di estinzione i luoghi di formazione della coscienza critica a cominciare dalla stessa scuola pubblica, che in proposito non risulta certo una “buona” scuola: essa, nel suo insieme, dà l’impressione di arrancare nel tentativo di limitare il gap tra studio e lavoro e nei fatti produce un esercito di giovani scontenti ma anche disponibili al consenso purché si aprano per loro prospettive concrete di occupazione.

Propongo di adottare la parola “riluttante” per caratterizzare il tipo di intellettuale critico e autocritico che sta venendo a mancare e di cui avremmo, invece, un gran bisogno. Intendo una figura intellettuale che si collochi all’interno dei dispositivi di potere e vi svolga – per dir così – un lavoro ai fianchi denunciando le chiusure senza mai gettare la spugna: una condizione non facile ma sostenibile, che ritengo assolutamente necessaria nel grigiore che sta dominando, caratterizzato prevalentemente dalla rassegnazione e da un consenso quasi automatico. La voglia che prevale è quella di congedarsi, ritirarsi nella propria solitudine, tanto grande è il senso di frustrazione e di sfiducia. Uscire, magari anche scappar via il prima possibile da una condizione che pare ormai bloccata e comunque sterile.

Allora, l’intellettuale riluttante è quello che non accetta questo gioco di rassegnazione, che riesce a non cedere alle sirene neocapitalistiche che lo esortano a far da sé, e che decide che la propria battaglia è quella di stare nelle istituzioni, scomode e perfino orribili che siano, e lì resistere, opporsi, dire di no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e alle sue eventuali competenze privilegiate. Il che significa non piegarsi a troppi compromessi pur di vivere tranquilli facendo finta di non vedere le costrizioni e le rinunce etiche cui si viene sottoposti quotidianamente. C’è una bella differenza tra il diventare “imprenditori di se stessi”, come ci spinge a essere l’ideologia oggi prevalente, e assumere il proprio ruolo, qualunque sia, in una maniera radicalmente autocritica, senza illusioni vuote e accettando il rischio di mettersi davvero a repentaglio.

Una simile resistenza si può tentare ovunque, come insegnanti nella scuola, medici nelle strutture sanitarie, come amministratori locali e anche come politici, fino a quello spazio microfisico ma decisivo che è la famiglia con i suoi schemi parentali bloccati e la violenza sottile che spesso li attraversa. Insomma, agendo su una quantità di schemi irrigiditi che non possiamo negare ma ai quali potremmo opporre dei no e dei rifiuti, cosa che normalmente non facciamo per paura o a difesa di una condizione supposta privilegiata.

Devo questa caratterizzazione di “riluttante” ai libri dello psichiatra Piero Cipriano (l’ultimo si intitola La società dei devianti ed è pubblicato come gli altri dalle edizioni elèuthera): e lui la ha ricavata soprattutto dal suo lavoro di resistente in un “Diagnosi e cura” di Roma, a stretto contatto quotidiano con i “trattamenti obbligatori” e tutte le implicazioni che essi possono avere in un reparto dalle porte chiuse. Se il nome nasce in un luogo che dovrebbe essere di cura e che invece si caratterizza piuttosto come di contenzione (quarant’anni dopo Basaglia!), non me ne vorrà Cipriano se lo estendo qui a una condizione intellettuale che dovremmo impegnarci tutti a costruire.

L’intellettuale universale, quello che pensava e parlava a nome dell’umanità, è ormai morto e sepolto. L’intellettuale “organico”, di gramsciana memoria, mi pare oggi sempre di più privo di fondamenti (che erano le idee di classe operaia, popolo ed egemonia). Resta l’intellettuale specifico, che è diventato inevitabilmente un tecnico o un politico del sapere. Al confronto, quella dell’intellettuale riluttante potrebbe essere un’ipotesi più critica e meno pretenziosa, molto più calata nella realtà comune e quindi – forse – più utile.