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Bisogno di una dichiarazione inopportuna? Citofonare Nardella.

Dunque: a Firenze si indaga su un caso di stupro che vede coinvolte due ragazze statunitensi e due carabinieri. Forse (siamo in fase d’indagine, tutto è abbastanza confuso) le due turiste erano ubriache.

Che dice il sindaco di Firenze?

Ecco qua:

“È importante che gli studenti americani imparino, anche con l’aiuto delle università e delle nostre istituzioni, che Firenze non è la città dello sballo. È una città vivace, accogliente, plurale, ricca di opportunità culturali e di svago, ma credo che dal punto di vista delle regole e del buon comportamento non abbia niente di diverso da tante città americane. Questo ovviamente al netto del gravissimo episodio di cui stiamo parlando, perché il fatto ha riacceso i riflettori anche sul modo con cui i giovani studenti stranieri vivono la nostra città. Mi piacerebbe che fossero più integrati nella vita culturale e collettiva, e non considerassero Firenze soltanto una Disneyland dello sballo.”

E uno pensa: si sarà sbagliato, si è spiegato male. Invece Nardella viene intervistato da La Stampa e dice:

“Sui ragazzi che devono prendere questa esperienza di studio non come un’occasione di sballo. Con il Console generale Benjamin Wohlauer parleremo con gli studenti per invitarli a vivere con equilibrio la loro permanenza a Firenze. Questo li aiuterà a godere meglio della città e a essere sempre in condizioni meno vulnerabili. L’anno scorso abbiamo avuto più di trecento ricoveri per abuso di alcolici e la maggior parte erano stranieri. Ripeto, che sia chiaro, nessuna giustificazione, anzi, aggravante per chi approfitta di chi non può difendersi.”

Del resto è il solito Nardella, quello che ha sfasciato la verità sugli scontri a Firenze (qui), quello che urla “Allah akbar! Allah akbar!” e poi ride come un cretinetto (qui) e molto altro. Uno che non farebbe nemmeno il rappresentante di classe, se non fosse che è protetto dal bullo della scuola.

#Left: cosa ci abbiamo messo dentro

DIRITTI MINORI

Dalla parte dei bambini e degli adolescenti – L’editoriale di Simona Maggiorelli

Minori non accompagnati che finiscono nel quadro normativo del ministero della giustizia, dopo aver rischiato la vita in mare per arrivare in Italia. Bambini contesi e usati come arma di ricatto dai propri genitori nelle cause di divorzio. Ragazzini usati come manovalanza di strada dalla criminalità organizzata. Realtà molto diverse fra loro. Ma tutte, in vario modo, li espongono a traumi e lesioni psichiche, in un momento delicato e cruciale del loro sviluppo. Accade in nome di una cultura politica che li considera “adulti in miniatura”, negando le loro esigenze affettive e di crescita. È questa idea di giustizia punitiva, che impone la pena come espiazione di una colpa, a innervare la proposta riforma della giustizia minorile ora al vaglio del Senato in commissione Giustizia. Nata per rendere più efficiente e meno dispendioso il processo civile prevede l’inserimento dei tribunali minorili nei tribunali ordinari (con una sezione speciale dedicata ai minori.) E si può facilmente immaginare quanto, nel quadro di una giustizia ingolfata come quella italiana, i minori possano trovare un valido ascolto. Dopo l’alzata di scudi di Magistratura democratica e di moltissime altre organizzazioni di operatori e associazioni di tutela dei minori, il ministro Andrea Orlando ha promesso di stralciare dalla riforma la norma relativa alla revisione del ruolo delle corti di giustizia dedicate ai minorenni, «in attesa di una riflessione più approfondita sul tema». Con questa storia di copertina intitolata “Diritti minori” vorremmo dare anche noi un contributo sottolineando l’urgenza di un cambio di paradigma nella cultura giuridica che sempre più deve mettere al centro l’interesse del bambino, liberandosi da una millenaria negazione della sua realtà e identità che affonda le radici nel pensiero greco-romano e cristiano.

copertina
Figli di uno Stato minore

di Donatella Coccoli

«Il giudice mi ha ridato il futuro»

di don. coc.

Minori non accompagnati, la legge c’è solo sulla carta

di Leonardo Filippi

Compiere diciotto anni ed essere lasciato per strada

di Giulio Cavalli

Quando l’orco è un leader di Comunione e liberazione

di Federico Tulli

Reati minorili, sintomi da curare non da punire

di Maria Gabriella Gatti


Politica
Il Pd si è perso l’antifascismo per strada

di leo. fil.

Medio Oriente
Il popolo invisibile degli arabi israeliani

di Umberto De Giovannangeli

Medio Oriente
Un conflitto tra identità diverse

di Chiara Cruciati

Chiesa cattolica
Le spine del cardinale Pell

di Elena Basso

L’inchiesta
Indottrinati dall’Isis bambini vittime due volte

di Michela AG Iaccarino

Cina
Lo stile neocoloniale di Pechino

di Andrea Pira

Il caso
Da Telemaco a Candide. Miller vs Recalcati

di Domenico Fargnoli

Patrimonio archeologico
Quer pasticciaccio brutto dell’arena der Colosseo

di Simona Maggiorelli

Arte e Scienza
Così Galileo migliorò la qualità del suono

di Pietro Greco

Cinema
I nuovi zombie sono i razzisti

di ele. bas.

Musica
Valelapena ascoltare il nuovo Roy Paci

di Alessandra Grimaldi


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Il Paese che è Stato

Non c’è nemmeno bisogno di scrivere commenti. Basta citare quello che c’è nell’inchiesta. Così, semplicemente. Si tratta dell’ordinanza che ieri ha portato all’arresto di Santo Filippone e Giuseppe Graviano in cui (per l’ennesima volta, anche se tutto fingono che sia una novità) emerge che le mafie si sono “federate” per mettere in crisi lo Stato.

Ecco qui:

“Che la ‘ndrangheta non sia coinvolta nelle logica delle stragi voluta da Toto Riina – ha detto Lombardo – è solo falsa politica. Numerose dichiarazioni che abbiamo riscontrato di collaboratori calabresi e siciliani, che erano disperse in decine di inchieste separate, ci hanno permesso di ricostruire un mosaico che dà dignità a questa inchiesta e spiega i motivi che hanno portato all’attacco all’Arma dei carabinieri e ad altri rappresentanti dello Stato”.

“Il disegno terroristico e mafioso servente rispetto ad una finalità più alta, che prevedeva la sostituzione di una vecchia classe politica con una nuova, diretta espressione degli interessi mafiosi”, ha detto il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. “Dopo il tramonto della Prima Repubblica e la lunga scia di sangue che ne ha segnato il trapasso – ha aggiunto il numero uno di via Giulia – ‘ndrangheta e Cosa nostra volevano mantenere il controllo assoluto sulla classe politica, proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si andava delineando. In questo quadro rientrava anche la decisione delle mafie di fare un attentato dinamitardo con un’autobomba nella terza decade del mese di gennaio del 1994 allo stadio Olimpico contro i carabinieri che avrebbe provocato, secondo chi lo aveva organizzato, almeno cento morti tra gli uomini dell’Arma, con effetti destabilizzanti per la democrazia”.

“In numerose azioni tra cui il duplice omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e l’assassinio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, viene usata dagli assassini la rivendicazione Falange armata la stessa che viene usata anche per gli attentati a Roma ed a Firenze. Fu proprio Riina, come ci è stato riferito da Leonardo Messina e da altri importantissimi collaboratori, per il loro ruolo in Cosa nostra, collaboratori di giustizia siciliani, che nell’estate del 1991 ad Enna, dove aveva riunito i vertici di cosa nostra siciliana, spinse ulteriormente l’organizzazione criminale a ‘rompere le corna allo Stato’ utilizzando la sigla Falange armata”.

“È di questo periodo, anche se numerosi riscontri datano tempi precedenti che si infittiscono i rapporti ed aumentano le pressioni di cosa nostra stragista sui vertici delle cosche più rappresentative della ‘ndrangheta calabrese ai quali viene chiesto, in alcune riunione svoltesi a Nicotera (Vibo Valentia), Lamezia Terme e Milano, l’esplicita adesione al programma autonomista e stragista cui il capo corleonese voleva dare corso. A questa richiesta aderirono i De Stefano, i Libri, i Tegano di Reggio Calabria, i Coco Trovato e i Papalia di Platì creando un asse operativo con quello che appare sempre di più un grumo di interessi politici ed economici attorno a cui ruotano servizi segreti deviati, massoni vicini a Gelli e organizzazioni criminali”.

La strategia stragista “si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la ‘ndrangheta ed altre organizzazioni criminali come la camorra e la Sacra Corona Unita trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi”.

Ecco. Serve altro?

Buon venerdì.

(continua su Left)

Così i centri di accoglienza sono serbatoi di nuovi schiavi

Seguite terrelibere.org, comprate i loro libri. Perché di questi tempi la realtà raccontata con lealtà diventa rivoluzionaria e perché sono bravi e seri. E scrivono inchieste così, come questa del bravissimo Antonello Mangano:

I centri di accoglienza? Hotel dove migranti nullafacenti intascano 35 euro. È il luogo comune più diffuso tra gli italiani. Che si arrabbiano parlando di parassiti che mangiano e dormono. Di proteste per il wi-fi. Di soldi rubati ai bisognosi italiani.

Ma è davvero così? Un pezzo di realtà è rimasto nascosto. Troppi centri di accoglienza sono diventati serbatoi di manodopera a costo zero. Il fenomeno coinvolge tutta la penisola. Dalla Toscana alla Sicilia.

Il vino del Chianti

“Due profughi, ospiti nel centro di accoglienza, hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, assistiti dagli operatori che per primi si sono accorti delle anomalie e hanno dato il là alle indagini”, si legge nelle cronache locali di Prato. “I punti di raccolta dei braccianti, a decine ogni giorno, erano i giardini di via Marx. Da lì, ogni mattina all’alba, partivano furgoni e camion carichi di persone”.

L’inchiesta si chiama “Numbar Dar” e risale al settembre del 2016. È importante perché spiega che nel Chianti – tra fattorie storiche nate negli anni ’20, vigneti verdeggianti e dolci colline – le aziende ricorrevano alla manodopera a basso costo disponibile.

centri di accoglienza
Colline del Chianti @Alessandro Valli © Flickr CC

 

Quella dei centri di accoglienza, con i richiedenti asilo subsahariani in attesa dei documenti. Quella dei migranti già presenti sul territorio, che avevano bisogno di un contratto fittizio per non perderli, i documenti.

Era un sistema a stradi. Il caporale pachistano, i consulenti di Prato – abili a falsificare buste paga – e i titolari delle aziende vinicole, definiti dalla Procura “protagonisti e mandanti del sistema di reclutamento”.

Le vittime erano centinaia di migranti erano vittime del sistema. Lavoravano fino a dodici ore al giorno per 4 euro l’ora e venivano spesso picchiati.

Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare alla giornata anche richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi e trattamenti discriminatori. Ai “negri” – così venivano chiamati – non si dava da bere e li si lasciava lavorare a piedi nudi nei campi.

Il “capo villaggio” era richiesto da aziende nate negli anni ’20 nelle famose colline del Chianti

Il “capo” sarebbe un trentottenne pachistano che procurava la manodopera, gestendo ben 161 persone, quasi tutti connazionali, che risultavano alle dipendenze delle ditte aperte dal caporale. Le assunzioni fittizie erano comunicate a Inail e Inps, in modo da evitare i controlli.

Nella realtà, però, i miseri compensi erano pagati in nero. Tasse e contributi venivano evasi sistematicamente. I caporali inviavano subito in Pakistan i guadagni, per decine di migliaia di euro al mese. Non avevano alcun bene “aggredibile” dal fisco italiano, con l’eccezione di un’auto.

Per le aziende, però, erano la più efficiente delle agenzie interinali. Un bacino di manodopera inesauribile a prezzi stracciati. Pronto per l’uso.

Le pecore della Sila

Come si comportano i responsabili dei centri di accoglienza quando vedono movimenti strani intorno ai loro ospiti? Alcuni favoriscono le denunce. Altri fanno finta di niente. Altri ancora sono i caporali stessi.

Una trentina di ragazzi – senegalesi, nigeriani e somali – sono riconosciuti come rifugiati. A questo punto devono essere inseriti nella società italiana. Invece erano impiegati come braccianti e pastori nei pressi di Camigliatello Silano, provincia di Cosenza.

Dovevano inserirsi nella società. Invece facevano i pastori sugli altopiani calabresi

“Vestiti in maniera approssimativa nonostante il freddo inverno silano, i ragazzi erano obbligati a lavorare per oltre dieci ore al giorno nei campi di patate o di fragole come braccianti, o come pastori incaricati di badare agli animali al pascolo sull’altopiano silano. Un lavoro duro, pesante e retribuito meno di 15-20 euro al giorno”, scrive Alessia Candito su Repubblica dello scorso 5 maggio.

centri di accoglienza
L’ingresso del Cara di Mineo

 

“Formalmente, i ragazzi risultavano regolarmente presenti nei due centri di accoglienza, dove – recitano le carte – si svolgevano tutte le attività previste dai programmi di assistenza ai rifugiati. Ma era solo una menzogna. I ragazzi venivano di fatto doppiamente sfruttati. Come manodopera a basso costo nei campi e come pretesto per ottenere finanziamenti”.

Le arance dell’Etna

L’ex dittatore del Gambia ha praticamente evacuato il paese. Per anni la popolazione ha lasciato in massa uno tra i peggiori regimi africani. Dal 1994, Yahya Jammeh ha lasciato una lunga scia di cadaveri. All’inizio aveva 29 anni e la passione del wrestling. Poi decise di combattere l’omosessualità “come fosse la malaria” e affermava di aver trovato rimedi contro l’asma e l’Aids.

Marcus, lo chiameremo così, come tanti suoi connazionali ha deciso di lasciare il dittatore al suo destino di sangue. Il suo sogno non era l’Europa, ma la Libia.

centri di accoglienza

“Mi hanno detto che lì c’era lavoro ovunque, mentre la guerra era solo in zone circoscritte”. La prima notizia era vera, la seconda no. La guerra è ovunque, così come il razzismo. E anche sul piano del lavoro le cose non vanno bene. “I libici ti prendono per fare dei lavori ma alla fine non ti pagano, e se ti ribelli, ti puntano un’arma e ti minacciano”.

Tornare in Gambia è impossibile. L’unica via di fuga è l’Italia. Arriva a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Giorni ad aspettare, poi deve lasciare le impronte. Un gesto che lo costringerà a rimanere in Italia.

Mi hanno detto che in Libia c’era lavoro e che non c’era la guerra

Lo portano a Mineo. Qui inizia la lunga attesa. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione. Poche persone che decideranno del tuo destino.

I giorni passano sempre uguali. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. “Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati”, dice Marcus.

Tutti i migranti del centro hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Per avere una risposta possono servire anche due anni. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Che fare durante tutto questo tempo? Dopo pochi mesi un richiedente asilo può avere un permesso temporaneo e lavorare regolarmente. Ma chi assume, in Sicilia, un africano che rischia l’espulsione?

Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Durante la raccolta, tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo.

Ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro

“Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le otto. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata”, si legge nel rapporto “FilieraSporca 2016”. I padroni dei campi di arance cercano manodopera a costo zero. Gente ricattabile, che non ha documenti o ha documenti precari. E che ha bisogno di soldi.

centri di accoglienza
Recinzioni nei pressi del Cara di Mineo

 

Le condizioni di lavoro sono durissime. Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?

Accanto al Cara ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo.

Tra le arance che finiscono nel normale circuito distributivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara? “Diciamo che può essere una realtà”, dice il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente”.

Il pomodoro del ragusano

Nel giugno 2017 la polizia arresta alcuni imprenditori di Vittoria che utilizzavano operai gravemente sfruttati: 19 richiedenti asilo, 2 tunisini e 5 romeni. Questi ultimi vivevano in abitazioni fatiscenti nei pressi dell’azienda, 40mila metri quadri di coltivazioni. Si tratta di uno dei primi provvedimenti nati dalla nuova legge “anti-caporalato”.

Ma i segnali erano tanti. Basta girare per le campagne all’ora del tramonto per vedere decine di richiedenti asilo africani che tornano ai centri di accoglienza. È lì che è nato negli ultimi anni un nuovo caporalato. Il CAS (centro di accoglienza straordinaria) può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso anche quattro.

C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, c’è chi ha perso l’equilibrio mentale

In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi – si parla di un centinaio di persone – ma hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro.

centri di accoglienza
Migranti tornano dal lavoro nel ragusano

 

“Tanto hai da mangiare e da dormire”, dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano 50 euro al giorno, oggi siamo arrivati a 7-10 con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete.

In tutta Italia, ci sono centri di accoglienza gestiti bene, da gente che ci crede. In ogni caso, i centri ospitano migranti arrivati in Europa per mandare soldi a casa. Subito. Così, chi si trova in città, a volte finisce per chiedere l’elemosina di fronte al supermercato. Chi viene sbattuto in campagna, facilmente diventa vittima dei caporali. In attesa di un pezzo di carta, di documenti che possano portare a riprendere in mano la tua vita e a giocarti le tue opportunità.

Tra Facebook e lo champagne: ecco la seconda generazione dei mafiosi su al Nord

(Un bel pezzo di Giuseppe Legato per La Stampa)

«Ci sono i ragazzi fuori, ma non bisogna bruciarli. Sennò la musica è finita». Il superstite della vecchia batteria criminale è in un bar dell’hinterland di Torino. Spiega ai presenti quali sono i nuovi equilibri delle cosche nel Nord Ovest: i «vecchi» sono in galera, ma i figli no. Sono loro oggi a guidare. Ma bisogna tenere il profilo basso, per non rovinarli. È uno dei segreti del perenne rigenerarsi delle ’ndrine: il ricambio familiare.

Dopo 9 processi in Piemonte dal 2006 ad oggi e 1.090 anni di carcere inflitti a boss e picciotti, la ‘ndrangheta non muore grazie – anche – a una struttura familiare che perpetua gli interregni di casati storici. È la seconda generazione «che si è ben calata nella realtà del Nord perché qui è nata» racconta il magistrato della Dda Monica Abbatecola. «Ciò non vuol dire – precisa – che le colpe dei padri ricadano sui figli, ma si tratta comunque di un dato processuale ormai acquisito».

E il blitz dell’altroieri nel Torinese è l’ennesima conferma. Tra gli undici arresti ci sono le giovani leve di vecchie famiglie «azzoppate» da inchieste del passato. Che cercano di farsi largo «nel vuoto lasciato dalla maxi operazione Minotauro (150 arresti nel 2011) – sostiene il colonnello Emanuele De Santis, comandante dei carabinieri di Torino – coniugando le vecchie regole della ‘ndrangheta arcaica con l’approccio moderno più vicino al contesto del Nord. È una dinamica che seguiamo con attenzione» spiega.

Ritornano i cognomi di Gioffrè e Ilacqua, due «brand» che evocano una stagione di droga e sangue. Stavolta sono i figli e i nipoti. E questo è già successo in una delle famiglie più potenti del Nord Italia: gli Agresta di Volpiano. I grandi – Saverio e Antonio – si sono fatti il carcere. Sui giovani ci sono già processi – non definiti in giudicato – che li dipingono come presunti eredi. «Vengono scelti i figli – spiega Marco Martino, capo della squadra Mobile di Torino – perché per vincolo familiare sono soggetti di massima fiducia».

Facebook e discoteche

E sono anche prudenti. Rigano dritto le nuove leve dei «calabresi» al Nord. Pare che parlino pochissimo al telefono, si incontrino solo all’aperto e ogni tre mesi – ma questo vale in generale – bonifichino le auto a caccia di microspie ambientali. Whatsapp e Signal sono gli unici canali di comunicazione.

Anche per questo le indagini si sono fatte più complesse di qualche anno fa. Ma ci sono. E registrano una calma apparente che è propria di un processo di riorganizzazione in cui – anche i ragazzi – aspettano i nuovi ordini dalla Calabria. Dopo le maxi operazioni Crimine (Reggio Calabria), Infinito (Milano) e Minotauro (Torino), attendono istruzioni su come muoversi, svela un investigatore.

Nel frattempo vestono Moncler, gestiscono palestre, hanno profili Facebook in cui ricordano i padri in galera con post inequivocabili: «Onore ai carcerati, peste agli infami». Di notte, frequentano le discoteche e si confondono tra i ragazzi «normali».

Lo faceva anche Luigi Crea, un giovane di 22 anni, figlio del capo dei capi di Torino, Adolfo. Una nuova leva. Da quando il padre fu recluso in carcere nel 2011, aveva preso le redini della famiglia rispettando gli ordini del genitore. Una delle sue ultime foto postate lo ritrae in un club della Torino da bere. Ha due bottiglie in mano e sorride. Un anno fa è finito in manette per mafia ed estorsioni. Si è bruciato.

E per evitare che ciò accada ci sono anche i consigli paterni. Anno 2009, carcere di Rebibbia. Nella sala colloqui un boss del Piemonte redarguisce il nipote allora diciottenne, oggi sorvegliato speciale: «Hai comprato una macchina costosa. Non dovevi farlo. Sono stato giovane anche io, ti pare che non capisco? I carabinieri a quest’ora hanno già scritto. Quelli vedono tutto». Un manuale di sociologia mafiosa.

Il passaggio di eredità

Dai processi emergono giovani assi criminali legati soprattutto a Platì: Agresta, Marando, Barbaro a Torino. Che sono poi primi cugini delle famiglie di Milano stanziali a Buccinasco e Corsico: Sergi e Papalia in testa. «Comandano ancora loro» si dice nei corridoi delle caserme accreditando una tesi di continuità generazionale che è stata ripercorsa a grandi linee da un giovane pentito, Domenico Agresta, 29 anni: «Noi siamo una sola famiglia – ha detto in aula al processo Caccia a Milano – siamo sempre gli stessi: a Platì, a Milano e a Torino». Un cognome, un destino.

Conservare il capitale

Ma da solo questo non basta per spiegare la continua rigenerazione delle famiglie e delle strutture. «Al netto del vincolo familiare c’è un capitale sociale, politico ed economico che rende la ‘ndrangheta difficile da sconfiggere nonostante le grandi inchieste fin qui fatte. Se non si abbattono quei legami politici ed economici non sarà possibile sconfiggerla soprattutto al Nord» spiega Rocco Sciarrone, docente di sociologia dell’Università di Torino. Quale sarebbe poi questo capitale sociale che i giovani devono mantenere vivo in assenza dei padri è noto dagli atti recenti di inchieste: la ‘ndrangheta si è infiltrata – secondo un’indagine della Dia – nella costruzione delle opere Olimpiche di Torino 2006 (Villaggio ex Moi, Palavela, Media Village), e mirava ai lavori preliminari della Tav. Tutto per riciclare milioni di euro del narcotraffico, il vero business dell’associazione che importa tonnellate di cocaina. I principali broker che riforniscono le famiglie e le piazze di Milano e Torino si chiamano Nicola e Patrick Assisi, oggi latitanti inseguiti dalla polizia di mezza Europa. E guarda caso sono padre e figlio, anche loro.

Il “grande affare” Pedemontana ora è un quasi fallimento

Ah, la “Lombardia che produce”. Ne scrive il Sole 24 ore:

La Procura di Milano chiede il fallimento della società autostradale Pedemontana. Il documento, dove sono stati spiegati i presupposti della richiesta, è stato inviato due giorni fa al Tribunale di Milano, chiamato ad esprimersi. Pedemontana era già sotto inchiesta (ipotesi di falso bilancio); ora i pm Roberto Pellicano, Giovanni Polizzi e Paolo Filippini chiedono a giudici di verificare se «la società Apl (Autostrada Pedemontana lombarda) si trovi «nelle condizioni previste dalla legge fallimentare».

Controllata dalla società autostradale Serravalle (finita a sua volta sotto il controllo della Regione Lombardia con il passaggio dalla Provincia di Milano alla città Metropolitana) e partecipata da Intesa sanpaolo, Unione di banche italiane e, in piccolissima quota, da Bau Holding Beteiligugs, la Pedemontana ha una lunga e controversa storia. Si tratta di una strada di 68 km (più due tangenziali più piccole a Como e Varese) che dovrebbe collegare la provincia di Varese con quella di Bergamo, e che aspetta di essere costruita da 20 anni. Per ora siamo ad un terzo dell’opera e se la Provincia di Milano non è stata in grado di ricapitalizzare la società, con il nuovo azionista Regione Lombardia i vertici di Serravalle stavano lavorando ad un progetto di parziale privatizzazione per trovare capitale fresco.

Si tratterebbe del project financing più grande d’Italia: il valore dell’opera è di 5 miliardi inclusi gli oneri finanziari. Al momento ci sono 1,2 miliardi di contributi pubblici (di cui 800 già utilizzati), 450 milioni tra equity e prestito subordinato, 200 milioni di prestito ponte. Il secondo lotto è stato aggiudicato all’austriaca Strabag, con cui la società ha avviato peraltro un contenzioso sulla richiesta di extracosti. La concessionaria Cal ha affidato a Pedemontana la progettazione, realizzazione e gestione della società e il piano finanziario è stato approvato dal Cipe il 6 novembre 2009.

Ritardi e conti per la Procura

Ricordano i procuratori che «i bilanci evidenziano uno squilibrio finanziario della società che risulta sovraccaricata, quantomeno dal 2012, del peso dell’indebitamento, in particolare nei confronti degli istituti di credito e dei fornitori che rappresentano il 66-72% del totale fonti di finanziamento».

Il documento ricorda anche la natura del prestito ponte «con un pool di banche cui venne attribuito parallelamente l’incarico di arrangers in relazione alla strutturazione del prestito project da circa 32 miliardi…è oggetto di continue proroghe. Altri debiti di rilievo sono nei confronti dei debitori per le tratte dei lavori in costruzione e per gli espropri».

Un’altra passività, si ricorda, è anche «il finanziamento fruttifero erogato dalla controllante Milano Serravalle… che dopo l’ultimo finanziamento pari a 50 milioni, oggi è arrivato a 150 milioni». La procura elenca poi le perdite: nel 2013 15 milioni; nel 2014 7 milioni e oltre 22 milioni nel 2015. Nella semestrale del giugno 2016 si registra un’ulteriore perdita di oltre 6 milioni. Il bilancio 2016 era stato firmato dal presidente Antonio Di Pietro, rimasto in carica un anno. «Non è ragionevole prevedere che lo stato di insolvenza possa recedere», conclude la procura, che sottolinea: «l’eventuale sperpero d denaro di pubblica provenienza può risultare anche penalmente rilevante». La relazione da cui prende avvio la richiesta è stata firmata dal consulente Roberto Pireddu.

La reazione
Nelle casse di Pedemontana ci sono 50 milioni e nessun creditore ha fatto richiesta di risarcimento. Questa la reazione della società, che punta il dito anche contro un’analisi della procura che si è fermata al 2015. Nel 2016 infatti il bilancio, firmato da Di Pietro, aveva garantito la continuità aziendale. Regione Lombardia sottolinea il suo impegno a voler proseguire l’opera e a presentare le controdeduzioni nell’udienza del 24 luglio.

Lettera di una madre al figlio bocciato

La pubblica il Giornale di Brescia. Ed è una buona lettura mattutina, credo:

Figlio mio, stamattina mi ha chiamato la scuola per dirmi che non ce l’hai fatta. Dovrai ripetere l’anno. Il tuo professore era afflitto, mai quanto me che ho dovuto sentire le sue parole. Volevo dirgli che hai combattuto fino all’ultima ora dell’ultimo giorno, poi ho pensato che a cose fatte era una precisazione inutile. Io lo so e me lo ricorderò. Ho passato mezz’ora fissando il vuoto pensando a come dirtelo. Tu hai lottato fino all’ultimo.

Hai persino preso otto nella verifica di storia il penultimo giorno di scuola. Ma non è bastato, perché sei stato un disastro in matematica, fisica e persino in italiano, per via di quattro impreparati in batteria. E poi latino così così, scienze non recuperato il primo quadrimestre. Perché adesso conta anche quello, accidenti.

Sono entrata nella tua stanza, te l’ho detto e tu non ci credevi. Hai pensato a uno scherzo. Ovvio che non lo era. Ho visto la tua espressione che da attonita è diventata sconfitta. Hai perso la tua battaglia perché hai creduto di poter fare ciò che non è sempre scontato: ottenere risultati impegnandosi solo all’ultimo momento, inventando un miracolo. Si può e a volte riesce, ma anche per fare i miracoli servono basi di credibilità. Adesso lo sai.

Alla tua generazione è chiesta l’eccellenza. Voi dovete essere perfetti, perché siete pochi e crescete nell’idea che credere in se stessi in modo acritico funzioni sempre. E che essere incredibili sia la risposta.
Da oggi sai che non è così. Essere persone straordinarie è uno status che si acquisisce con le vittorie, ma soprattutto con le sconfitte. Hai sottovalutato le implicazioni, hai creduto di poterti permettere di non fare il tuo dovere e alla fine hai sperato che il poco che hai fatto andasse bene a tutti. No, ciò che hai fatto come vedi non è bastato.

Eri convinto, ma il colpo di genio non sempre paga. Il colpo di genio l’hai avuto in qualche materia che non ti costava troppa fatica, mentre le altre le hai date per perse. Il colpo di genio usato così funziona una volta: si ripete soltanto quando hai speso un gran tempo nell’esercizio. Quando hai abbastanza scritto, suonato, cantato, letto, contato fino a rovinarti occhi, dita, gola. Quando hai imparato tutto quello che serve, anche se non ti sembra possa risultare minimamente utile al tuo scopo. Sai perché? Perché non hai ancora trovato il tuo scopo.
Ti sei trovato a maggio a dover recuperare ciò che ritenevi di poter fare in un attimo e che in un attimo fare non si può. Ti sei illuso che tutto potesse essere fatto senza sforzo o con moderata fatica.
Oggi hai scoperto che non funziona così. Che puoi raccontarti di essere bravo (e lo sei), ma per essere davvero bravi bisogna avere l’umiltà di aprire i libri e studiare cose noiosissime ogni giorno. Le dimenticherai dopo, non prima: questo è il segreto. Quello che ti resterà sarà parte di te, diventerà ciò che sarai. E quando le saprai tutte, le cose che chiede la scuola, ancora non basterà. Ma questo lo sai già, perché tu sei la nuova generazione. Lo sa bene anche la vecchia, se ciò ti può in qualche modo consolare.

Alighieri Dante, il tizio che non hai studiato, ha dovuto subire umiliazioni peggiori delle tue. Cacciato da casa e dal suo paese, ha supplicato ospitalità, è morto da solo e nessuno si è ricordato di lui per almeno trecento anni. Oggi è lo scrittore di maggior successo al mondo. Questa è una sua celebre terzina.
«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.»

È giunto il tempo che tu impari ad affrontare quelle scale. Queste scale sono le tue. Raccogli l’anima da terra e sali quei gradini, uno per uno. Fagliela vedere.
Non ti ho mai amato così tanto come oggi che ti vedo perdere.

L’inglese sui musulmani a Londra è semplicemente un terrorista. Collega dei terroristi

Non sono molto d’accordo con chi in queste ore sta sventolando Darren Osborne, il quarantasettenne di Cardiff che ha investito a Londra un gruppo di fedeli musulmani all’uscita di una moschea a Finsbury Park uccidendone uno e lasciandone per terra feriti una decina, come “piccola vendetta” contro l’islamofobia che sta attraversando l’Europa. Non trovo nemmeno molto intelligente provare a raccontare che questa vicenda dimostri che “tutto è terrorismo” e quindi “niente è terrorismo”.

Il terrorismo e il terrore, in generale, sono temi troppo importanti per cadere nella tentazione di usare una tragedia a parti invertite come sponda per attaccare i fanatici al contrario: Darren Osborne è un terrorista. Ne ha tutti i connotati:

È un disperato. Innanzitutto. Preso dalla disperazione che rende ciechi e violenti. Come tutti i disperati odia il nemico che gli viene più facile.

È un ignorante. Convinto, come tutti gli ignoranti, che una fede o una razza o una provenienza sia una matrice umana. Il nemico è l’Islam, pensa a una moschea, si lancia contro gente sul marciapiede. Vive nella convinzione delle sue facili (e false) generalizzazioni che gli rendono semplice il quadro dei buoni e dei cattivi. Ed è una visione così squinternata che convinto di essere dalla parte del bene diventa una bestia che imita le modalità del male.

Crede di essere un simbolo. Nella sua pazzia ha pensato che il suo gesto avesse un significato universale, allo stesso modo di come quegli altri imprecano contro l’Occidente lui ha urlato contro i musulmani. Chissà come reagirà quando scoprirà (ma lo saprà mai?) di essere solo un criminale.

Crede in leggi al di sopra della legge. È rimasto talmente affogato nella melma dei suoi ideali da convincersi di avere un ruolo divino per imporre la propria idea di giustizia.

È stato “salvato” dai suoi nemici. Anche lui si è trovato di fronte a vittime che hanno avuto l’equilibrio e l’intelligenza di rispondergli con la violenza. L’imam Mohammed Mahmoud ha evitato che l’uomo venisse linciato a morte dalla folla inferocita. Ha tentato di distruggere una comunità che l’ha trattato nel rispetto della legge dimostrandosi migliore di lui.

Colleghi. Semplicemente.

Buon martedì.

(continua su Left)

Mangialibri recensisce ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

Non è facile vivere in un paese come Mondragone senza “sporcarsi” la coscienza e diventare omertosi. Il silenzio e la cecità sono due condizioni indispensabili per vivere con tranquillità. Ma per Michele, orfano di genitori e che vive con il nonno, non è così normale. Per lui vivere in paese senza per forza asservirsi o entrare nelle grazie della famiglia Torre, che tutto comanda e dirige, è un obbiettivo. Finita la scuola, ha trovato lavoro presso una vineria e lì, onestamente, si guadagna da vivere tenendosi lontano dai giri sbagliati, con la sola compagnia del goffo Massimiliano, del nonno e della bella Rosalba detta “la silenziosa”. Gli anni trascorrono in fretta, il nonno, che ha sempre cercato di insegnargli la prudenza e il basso profilo, muore lasciandolo solo, mentre a Mondragone si continua a cadere sparati con la famiglia Torre che comanda e detta la propria legge su un paese sopra il quale regna il silenzio. Sono passati quarant’anni e Michele è diventato un uomo anziano, prossimo alla pensione. Ora lavora in un’agenzia di vigilanza: da quando la vineria è stata acquistata dai Torre lui è stato uno dei primi ad andarsene. Ha quattro figli, una nipotina che adora e Rosalba è sempre al suo fianco. Orgoglioso per non essersi mai sporcato le mani, attende l’ultimo giorno di lavoro per godersi la nipotina. Il suo sogno di vivere felice, in una casa con un bel giardino e in compagnia della sua famiglia è quasi raggiunto, ma a tormentalo ci sono i ricordi di Massimiliano, morto ammazzato per aver parlato apertamente, e del nonno, “certificato di quella terra: così ammaestrata e schiava, sempre omertosa e, in più, fiera di aver imparato così bene a essere omertosa e schiava”…

“Bisogna essere responsabili verso le persone che si amano” diceva il vecchio prima di morire. Dopo una vita spesa ad evitare di sporcarsi le mani, Michele si rende conto di essere diventato come suo nonno, ora che anche lui ha una nipotina da far crescere. A volte ci vuole una vita intera per capire certe cose, ma l’importante è arrivare a comprenderle. Allora il tempo speso per la comprensione si rivela utile, non importa la quantità. Non sempre basta essere integerrimi ed evitare i pericoli per essere giusti. Ciò che si chiede è la partecipazione e la chiara dichiarazione del proprio essere contro. Contro la mafia, contro gli abusi, contro chi usa la violenza per dettare la legge. Michele, saldo nei suoi principi, decide di resistere e non abbandonare un paese il cui destino appare segnato. La sola residenza a Mondragone basta a contagiare i suoi abitanti, che diventano ciechi e sordi, pur di non interferire con la famiglia Torre. Giulio Cavalli, con un racconto che vale come una piccola epopea famigliare e che dal 2007 vive sotto scorta a causa del suo impegno contro le mafie, ci racconta una storia che è anche una piccola battaglia personale, di civiltà ed eroismo. Non è eclatante, non è un gesto su larga scala e che avrà risonanza, ma la vita di Michele, nei suoi ultimi anni, alla fine diventa una testimonianza di coraggio. L’uomo che vede, che ragiona con la propria testa e che prende una decisione. Persino il dolore trova posto in una famiglia che si ritrova a tavola in un’ultima struggente immagine e che resta unita: una piccola comunità salda nei suoi sani principi che figli e nipoti porteranno avanti.

(fonte)