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“Il governo dà i soldi a Barbareschi e dimentica gli altri teatri”: la lettera del Teatro di Roma

Questa è la lettera che hanno scritto il presidente Emanuele Bevilacqua e il direttore Antonio Calbi del Teatro di Roma sulla vicenda degli 8 milioni al Teatro Eliseo

Illustre Presidente Gentiloni,
Illustri Presidenti Boldrini e Grasso,

come sapete, lunedì 29 maggio scorso, alla Camera dei Deputati, è stato approvato un emendamento inserito nella “manovra correttiva” della Legge Finanziaria che regala ben 8 milioni di euro in 2 anni al Teatro Eliseo di Roma, un contributo pubblico concesso fuori da ogni regola e contro il parere del Ministro del Bilancio Padoan e del Ministro della Cultura Franceschini. Ciò che è accaduto è un vero e proprio atto di “sfascismo”, permetteteci il neologismo, uno sfregio nei confronti della nostra già fragile Democrazia. Garantendo una cifra così cospicua di danaro pubblico, in modo del tutto discrezionale, a un teatro privato e che oggi, dopo un cruento cambio di gestione, continua nella sua forma giuridica a essere un’impresa privata (e che a sua volta gestisce un teatro di proprietà privata), gli Onorevoli Deputati hanno: 1. inferto un colpo ferale alla regola dell’equità di trattamento delle diverse istituzioni culturali del Paese; 2. messo in luce la mancanza di visione complessiva del sistema teatrale della Nazione; 3. vilipeso il Decreto Franceschini, che dal luglio 2014 regola il settore dello spettacolo dal vivo. Disorienta il fatto che gli Onorevoli Deputati si siano lasciati irretire, con colpevole superficialità, da due loro colleghi, uno del Pd e uno di Forza Italia, firmatari di un provvedimento ad personam, destinato prima che a un’istituzione di interesse culturale, a un impresario privato, che non deve rispondere se non a se stesso, a differenza delle istituzione culturali pubbliche.
Il sostegno e il soccorso alla cultura è doveroso e necessario ma deve rispettare leggi e regolamenti. Nel caso specifico l’iter adottato viola palesemente tutto questo e risulta del tutto forzato: inserirlo nella manovra correttiva, che in Senato sarà verosimilmente approvata con la fiducia, ne garantisce il buon esito. Il quantum, poi, è vergognosamente fuori scala per un teatro la cui nuova gestione è partita soltanto a fine 2015 ed è già in affanno. La tragica commedia che si è consumata alla Camera ha hypocrites di professione e comparse ingenue: la garanzia della copertura in bilancio assicurata dal viceministro all’Economia è verosimilmente stata interpretata dagli Onorevoli Deputati come un via libera all’avallo del contributo straordinario rivendicato dal nuovo patron del Teatro Eliseo. Il risultato è un puro utilizzo privato del potere pubblico. Vi domandiamo se gli Onorevoli Parlamentari abbiano contezza delle numerose istituzioni e imprese culturali in stato di sofferenza del Paese, chiuse o sull’orlo del fallimento? Sanno gli Onorevoli, che un Teatro Pubblico come lo Stabile di Catania è praticamente fallito? Che il Teatro Valle, il più antico teatro della Capitale (1727), di proprietà pubblica, a oggi può contare su un quarto del fabbisogno economico necessario al suo restauro? Sanno che Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, non ha un teatro agibile e le altre infrastrutture necessarie a non sfigurare a livello internazionale, a un anno e mezzo dall’evento? Sanno che il Teatro di via Nazionale a Roma, rivendica un contributo pubblico annuo per la sua gestione, oltre agli 8 milioni straordinari per ripianare i debiti, assai superiore a quello che ricevono molti teatri pubblici, i quali continuano a perseguire le proprie missioni, rispettando, con ardito sforzo, i parametri fissati per loro dalla legge?
Ogni museo, auditorium, cinema, teatro, biblioteca che chiude è un colpo inferto alla nostra civiltà, che della cultura ha fatto un valore e un bene imprescindibile. Nell’aiuto di Stato a un singolo teatro, a vocazione privata, non c’è alcun eroismo perché con esso vengono lese equità, trasparenza, equilibri, dando un nuovo esempio di cattiva politica, di subalternità al richiedente di turno travestito da guascone. Non si creda, dunque, di aver onorato l’Articolo 9 della nostra Costituzione: al contrario, con lo strabico voto alla Camera esso è stato reso vacuo, perché, oggi, ognuno è legittimato a rivendicare qualsiasi cosa, ad agire in ordine sparso, ricorrendo a scorciatoie e stratagemmi, ad appoggi e conoscenze dirette, pur di ottenere l’ingiusto a fini squisitamente personali. Magari per acquistare un teatro privato da privato cittadino, senza dover dar conto a chicchessia. Ma con fondi pubblici.
Quante altre imprese culturali private sono in difficoltà e non beneficiano di aiuti di Stato elargiti “fuori sacco”? Perché un intervento ad hoc per il Teatro Eliseo e per gli altri no? Perché cedere alle lusinghe furiose di un ex parlamentare – trasformatosi ora anche in direttore di teatro, accanto alle attività di produttore per la tv e il cinema, e che bene conosce non solo i corridoi e le stanze dei poteri ma anche le pieghe di un bilancio di Stato -, e non avere orecchi per altri? In Europa si tratterebbe di concorrenza sleale, di posizione di vantaggio, mentre da noi è pratica spudoratamente resa lecita. A furia di procedere a colpi di emendamenti, di Milleproroghe (un nome, un programma!), di manovre correttive, si delegittima la linearità della politica: sono strumenti col tempo distorti e abusati al limite della costituzionalità e dove possono esservi nascosti, in modo opaco o occultati fra infiniti altri emendamenti, interventi che scompaginano un intero sistema, incentivano al non rispetto delle leggi, invitano a usare il ricatto e l’urlo. L’emendamento pro Eliseo ha tutta l’aura dell’abuso di potere, di ruolo, di spreco di danaro pubblico: chi garantisce che l’investimento vada a buon fine? E qual è il fine ultimo?
Con questo gesto iniquo si è inoltre svilito il ruolo e il lavoro delle associazioni di categoria, Agis, Federvivo, Platea. E non ci si risponda che ora, grazie a questo emendamento ad aziendam, tutte le imprese culturali e artistiche del Paese potranno ricorrere agli stessi aiuti straordinari perché sappiamo bene che questa via non è praticabile, sia sul piano economico sia sul piano giuridico. La regola civile insegna ad agire in lealtà e nel rispetto delle regole, sale primo di una società democratica. Noi, nonostante tutto, ci crediamo ancora e vogliamo continuare a onorare la nostra personale e comune etica. L’amarezza è tanta, ma anche la certezza che urge voltare pagina una volta per tutte, con una legge, in fase di elaborazione, che contempli e regoli anche il soccorso alle imprese in difficoltà. Vi chiediamo, dunque, alla luce di quanto accaduto, di vigilare ancora più serratamente sui meccanismi che regolano il lavoro del Parlamento, e di ricondurre a rigore, trasparenza, equità, legittimità le azioni degli Onorevoli Deputati e Senatori, da tutti noi eletti nostri rappresentanti.

Emanuele Bevilacqua, presidente
Antonio Calbi, direttore
Teatro di Roma Teatro Nazionale

Preso: arrestato il latitante Vincenzo Macrì

Viveva tranquillo a Caracas grazie ad una falsa identità, ma quando si è presentato all’aeroporto internazionale di Guarulhos a San Paolo del Brasile, quei documenti non lo hanno salvato. Dopo anni di latitanza è finito in manette Vincenzo Macrì, uno dei principali broker della cocaina del clan Commisso, incaricato di tessere e gestire le rotte del narcotraffico tra Europa e America Latina per la ‘ndrangheta della zona jonica reggina.

L’uomo, che si presentava come l’italo-venezuelano Angelo Di Giacomo, è stato fermato dagli uomini della Policia Federal brasiliana e dell’Interpol, all’esito di un’indagine della Squadra Mobile di Reggio Calabria e dello Sco di Roma, coordinata dalla Dda guidata da Federico Cafiero de Raho. L’annuncio è stato dato dalla Policia Federal con un tweet e in mattinata confermata dagli inquirenti italiani. Macrì stava tentando di tornare a Caracas, che secondo gli investigatori è stata negli ultimi anni la sua base operative.

Nome noto nel mondo del traffico di droga, Macrì non è solo uno dei “logisti” della droga dei clan. Cinquantadue anni, di cui 13 passati in carcere negli Stati Uniti per traffico di stupefacenti, Vincenzo Macrì è il figlio di Antonio, il “boss dei due mondi” che per decenni ha governato sulla ‘ndrangheta tutta, prima di essere spodestato e ucciso dalla prima guerra fra clan. Considerato dai pentiti il “capo dei capi” con in mano “le ‘chiavi’ per entrare negli Usa, in Canada e in Australia’’, u “Zi Ntoni Macrì” è stato ucciso a 73 anni a colpi di mitra, mentre giocava a bocce, da un commando formato dagli esponenti dei clan più importanti del reggino. Ma quella tranquilla attività da anziano non dà il metro del regno criminale di Macrì.

Vero ideatore del cartello della droga Siderno Group, insieme ai boss di Cosa Nostra americana Frank Costello e Albert Anastacia, Antonio Macrì ha scritto di proprio pugno la storia del narcotraffico internazionale. E nonostante la morte violenta e le avverse fortune del suo clan, il figlio Vincenzo ha ereditato un ruolo di vertice nel settore. E non solo. Per anni residente fisso ad Aalsmeer (Olanda), insieme al cognato Vincenzo Crupi, arrestato circa un anno fa, Vincenzo Macrì ufficialmente lavorava solo nel commercio di fiori. In realtà, è da lì che per anni ha curato la spedizione e l’arrivo in Europa di innumerevoli container pieni di cocaina. Ma non solo. Dall’Europa, Macrì ha continuato a monitorare con attenzione gli equilibri criminali delle famiglie stabilmente residenti in Canada e direttamente collegate ai clan di Siderno, soprattutto in seguito all’omicidio del boss Carmine Verduci, assassinato a Woodbrige, in Ontario, il 25 aprile 2014. Una “responsabilità” ereditata dal padre ‘Ntoni e che Macrì divideva con esponenti di primo piano della ‘ndrangheta di Siderno, come Cosimo e Angelo Figliomeni, formalmente residenti in Canada ma di fatto latitanti, e Giuseppe e Antonio Coluccio, entrambi arrestati e finiti in carcere negli anni scorsi.

Quando anche per Crupi l’aria si è fatta “pesante” e il boss ha iniziato a sentire che gli investigatori gli stavano con il fiato sul collo, avrebbe trasferito la propria base oltreoceano. Nuovo continente, nuovo paese, nuova identità, ma medesimo settore di business. Secondo gli investigatori, da Caracas Macrì avrebbe continuato a coordinare acquisti, traffici e logistica non solo per il suo clan, ma per tutte le famiglie di ‘ndrangheta decise ad “investire” nel settore. Per gli investigatori infatti, era lui che insieme a Giuseppe Coluccio, Antonio Stefano, Nicola Tassone, Antonio Coluccio e Alfonso Condino decideva presso quali canali di approvvigionamento procurarsi la droga e le località in cui consegnare lo stupefacente, nonché le modalità di ripartizione degli utili.

(fonte)

A proposito di patti di governo: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Stragi ’93? Non era la mafia” dice Graviano in carcere

Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. La voce del boss Giuseppe Graviano irrompe nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ore e ore di intercettazioni in cui il padrino di Brancaccio parla della Trattativa per alleggerire le condizioni carcerarie dei detenuti mafiosi, tirando in ballo direttamente  Silvio Berlusconi, al quale sembra sembra voler attribuire il ruolo di mandante delle stragi del 1993.  “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi, lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”, dice intercettato nel carcere di Ascoli il 10 aprile del 2016, mentre parla col compagno di ora d’aria, Umberto Adinolfi, camorrista di San Marzano sul Sarno.

Anche Graviano indagato – Trentadue conversazioni, registrate durante le ore di socialità condivise dai due detenuti nel carcere marchigiano tra il marzo 2016  e l’aprile del 2017 che adesso sono finite agli atti del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. A depositarle il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, che hanno iscritto il nome del boss di Brancaccio nel registro degli indagati con le accuse di minaccia a corpo politico dello Stato in concorso con altri boss. È lo stesso reato contestato ai dieci imputati del processo sulla Trattativa. Secondo gli inquirenti le parole di Graviano rappresentano un elemento di prova nel procedimento attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Durante la sua ora di socialità, infatti, il boss di Brancaccio parla delle stragi del 1993, del 41 bis, dei dialoghi con le istituzioni. Ma soprattutto parla di una persona, parla di Silvio Berlusconi.

“La cortesia al Berlusca” – “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia: per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“, dice Graviano: per i pm allude all’intenzione di Berlusconi di entrare in politica già nel  1992. Una frase che sempre gli investigatori interpretano come la necessità di un gesto forte in grado di sovvertire l’ordine del Paese. Come una strage appunto. Impossibile infatti non ricollegare quella “cortesia” fatta con “urgenza” al “colpetto” che secondo il pentito Gaspare Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti dei socialisti”.

Il colpetto in via Veneto – A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia“. Il riferimento è all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che gestiscono il servizio d’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio ma fortunatamente alla fine era saltata a causa di un guasto al telecomando collegato all’autobomba. È quella la “cortesia” che Graviano sostiene di avere fatto a Berlusconi? Impossibile dirlo. È un fatto però che nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, Marcello Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney di via Veneto: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto e secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo di Dell’Utri in albergo è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utri negli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza?

“Silvio traditore: gli faccio fare una mala vecchiaia” – Di sicuro c’è solo che pochi giorni dopo – il 27 gennaio del 1994 –  il boss di Brancaccio viene arrestato a Milano. Intercettato in carcere Graviano oggi prova sentimenti di vendetta nei confronti dell’ex cavaliere.  “Berlusconi – dice – quando ha iniziato negli anni ’70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è. Quando lui si è ritrovato un partito così nel ’94 si è ubriacato e ha detto: Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore“. Un concetto – quello del tradimento – sul quale Graviano torna più volte. “Venticinque anni mi sono seduto con te, giusto? – dice in un altro passaggio delle intercettazioni – Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere. Perché tu lo sai che io mi sto facendo, mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta e senza soldi: alle buttane  glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso perché ho 54 anni, i giorni passano, gli anni passano, io sto invecchiando e tu mi stai facendo morire in galera“. Quindi il mafioso stragista continua:  “Al Signor Crasto (cornuto, ndr) gli faccio fare la mala vecchiaia. Pezzo di crasto che non sei altro, ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste“.

“Stragi ’93 non erano mafiose” – Già le cose vergognose. Graviano parla anche di quelle. “Poi nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia. Allora il governo ha deciso di allentare il 41 bis, poi è la situazione che hanno levato pure i 450″, dice il boss intercettato. Per i pm è un passaggio che dimostra come tra gli oggetti della cosiddetta Trattativa ci fosse l’allentamento del carcere duro: in cambio Cosa nostra avrebbe fatto cessare le stragi. E a questo proposito il boss ricorda il suo soggiorno nel supercarcere di Pianosa. “Pure che stavi morendo dovevi uscire e c’era un cordone, tu dovevi passare nel mezzo e correre. Loro buttavano acqua e sapone”. Una condizione che in passato era stata alleggerita. “Andavano alleggerendo del tutto il 41 bis – dice il boss – Se non succedeva più niente, non ti toccavano, nel ’93 le cose migliorarono tutto di un colpo”.

“Non avrebbero resistito a colpo di Stato” – “Graviano commenta anche quanto accaduto la notte del 27 luglio 1993, cioè la notte degli attentati contemporanei al Padiglione di arte contemporanea di Milano e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, a Roma. Si temette un golpe anche perché i telefoni di Palazzo Chigi rimasero del tutto isolati per alcune ore. “Quella notte si sono spaventati, un colpo di Stato, il colpo di Stato e Ciampi è andato subito a Palazzo Chigi assieme ai suoi vertici, fanno il colpo di Stato. Loro, loro hanno voluto nemmeno la resistenza, non volevano nemmeno resistere. Avevano deciso già… In quel periodo il 41 bis è stato modificato e 300 di loro…”. Nel novembre del ’93, in effetti, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso decise di non prorogare il ‘carcere durò per oltre 300 detenuti, quelli indicati dal boss Graviano nella intercettazione con Adinolfi.

“Ho messo incinta mia moglie al 41 bis” – Ma in carcere il boss parla anche di altro. Si lascia andare a confidenze e persino a vanterie. Come quando sostiene di avere messo incinta la moglie durante la detenzione al carcere duro. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nell’istituto di pena e stare col marito. È lo stesso Graviano a raccontarlo a un compagno di detenzione.”Dormivamo nella cella assieme“, dice Graviano.”Mio figlio è nato nel ’97 – racconta Graviano – ed io nel ’96 ero in mano loro, i Gom (gli agenti di polizia penitenziaria ndr)”.  “Ti debbo fare una confidenza – prosegue il boss – prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…nascosta poi ad un certo punto … nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”. Ufficialmente per la verità il figlio di Graviano sarebbe nato in provetta. Nel 1996 Giuseppe e Filippo Graviano  – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. Le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di un mese l’uno dall’altro. Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano.

Graviano ai pm: “Non rispondo però vi verrò a cercare”- Il 28 marzo scorso, i pm della procura di Palermo sono andati a interrogare Graviano in carcere per contestargli le parole intercettate durante le due ore di socialità. “Quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarci e a chiarire alcune cose che mi avete detto”, ha detto il boss che si è avvalso della facoltà di non rispondere a causa delle sue “condizioni di salute che oggi non mi consentono di potere sostenere un interrogatorio così importante ed anche a causa del mio stato psicologico derivante dalle condizioni carcerarie che mi trovo costretto a vivere”. “Io – ha detto Graviano ai pm – sono distrutto psicologicamente e fisicamente con tutte le malattie che ho, perché da 24 anni subisco vessazioni denunciate alle procure e le procure niente. Da quando mi è arrivato questo avviso di garanzia, entrano in stanza, mi mettono tutto sottosopra. I documenti processuali sono strappati. Mi hanno fatto la risonanza magnetica perché mentre cammino perdo l’equilibrio e hanno trovato una patologia che mi porterà a perdere la memoria, sarà tra cinque o dieci anni. Io assumo ogni giorno cinque capsule di antidepressivi, solo di antidepressivi e subisco vessazioni dalla mattina alla sera. Entrano in stanza e mi fanno tre perquisizioni a settimana”.

Ghedini: “Parole destituite di fondamento” – Alle intercettazioni di Graviano replica l’avvocato Niccolò Ghedini, legale dell’ex cavaliere. “Dalle intercettazioni ambientali di Giuseppe Graviano –  dice l’avvocato –  depositate dalla Procura di Palermo, composte da migliaia di pagine, corrispondenti a centinaia di ore di captazioni, vengono enucleate poche parole decontestualizzate che si riferirebbero asseritamente a Berlusconi. Tale interpretazione è destituita di ogni fondamento non avendo mai avuto alcun contatto il Presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano”.

(fonte)

Perchè Reggio è una polveriera e la guerra di mafia potrebbe non essere lontana

Alessia Candito è una giornalista che non sta sulla bocca di tutti ma scrive e osserva come i giornalisti-giornalisti. Ed è lei a raccontare come Reggio Calabria rischi di diventare la miccia di una guerra che si propagherebbe in brevissimo tempo anche lì nelle regioni dove la ‘Ndrangheta non esiste. E poi faranno finta di non sapere. Leggetela, vi farà bene:

GUERRA AD ARCHI «Chisti sunnu pacci, non sentunu a nuddu» si dice con preoccupazione nei bar dei ben informati. E ad Archi, Gallico, Santa Caterina, San Brunello, Tremulini, tutti cantano la stessa impaurita canzone. Perché la bomba –  mormorano – sta deflagrando all’interno di due clan che da tempo sono una cosa sola. Fra i De Stefano e i Tegano da qualche tempo sembra esserci più di un problema.

VUOTI DI POTERE Quelli che gli inquirenti considerano gli strateghi e i riservati del clan che fu di don Paolino negli ultimi anni sono rimasti impigliati, uno dopo l’altro, nelle maglie delle inchieste. E arresti, processi e condanne hanno da tempo fatto piazza pulita dei capi operativi in grado di far mordere il freno a giovani e scalpitanti nuove leve. Ecco perché c’è chi parla di un nuovo 2008, quando la crescente tensione fra le due storiche famiglie di ‘ndrangheta, costata omicidi, gambizzazioni e danneggiamenti, si è placata solo dopo la “scomparsa” del rampante Paolo Schimizzi. Troppo rampante secondo alcuni. E forse troppo vicino ai De Stefano.

GLI ASPIRANTI BOSS Oggi – dicono i ben informati – sulla piazza non ci sono uomini della sua caratura criminale. Tanto meno soggetti che abbiano la medesima visione strategica. Ma ci sono una serie di “giovanotti”. Affamati di gloria e potere. Anzi – dicono in molti – uno in particolare. E con Giovanni De Stefano, Paolo Rosario De Stefano e soprattutto Vincenzino Zappia, il delegato unico del capocrimine Giuseppe De Stefano, dietro le sbarre, il “ragazzino” ha iniziato a pretendere spazio e ruolo. Magari, in nome di un casato mafioso di cui porta orgogliosamente il nome. E in forza di un gruppo di giovani e feroci accoliti, magari galvanizzati da due “botte di bianca”, che non hanno timore a pretenderlo. Anche con le bombe.

ESCALATION Ne ha parlato il pentito Mario Gennaro nel corso di un interrogatorio, durante il quale ha ricordato come quel giovane figlio di boss non abbia esitato a far saltare un centro scommesse di fronte a un bar frequentatissimo e in un orario in cui poteva provocare una strage. Ne hanno parlato i lavoratori e gli habitué della movida notturna estiva, che due anni fa hanno assistito e subito più volte i raid nei locali portati a termine dal branco capeggiato dal piccolo boss, faccia pulita, mente feroce. Per quell’estate di terrore, in carcere sono finiti i buttafuori clandestini che sui lidi imponevano la guardiania del clan Condello, ma i blitz dei Tegano – che con i Condello, dalla fine della guerra sono sempre andati a braccetto – sembrano al momento estranei dal contesto di indagine. «Sono tutti in giro – dice chi lavora di notte e chi frequenta i locali – e continuano a fare danni».

TRACCE E FIRME Nessuno parla, nessuno si esprime. Ma se si fa attenzione ai sussurri, Reggio sa e mormora. E sono in molti ad avere il sospetto che vada cercato fra gli “arcoti” il misterioso uomo col volto nascosto dal passamontagna, che a due giorni dall’operazione Eracle ha seminato il terrore nella nota cremeria Sottozero, sparando contro il bancone, solo per distruggere tutte le bottiglie. Anche la tensione che si registra da tempo in zona Tremulini non è passata inosservata ai più. In quel quartiere termometro, negli ultimi mesi un negozio di alimentari è saltato in aria, le fiamme hanno divorato la veranda esterna di un bar e un’auto è stata fatta saltare in pieno giorno accanto alla sede operativa dei carabinieri forestali. Se si tratti di episodi isolati o rispondano ad un’unica strategia, non è dato sapere. Tanto meno si sa a chi attribuirli. Almeno per adesso. Anche perchè ci sono altri dettagli che alla città non sfuggono.

IL RAMPOLLO DEL NORD «Perché, secondo te, quegli altri stanno a guardare? Sono “ttaccati”, ma mica tutti» si dice con certezza in un bar di zona Nord. E secondo fonti investigative è plausibile. Se ad Archi i giovani del clan Tegano alzano la cresta e pretendono acqua in cui nuotare, i segnali che i De Stefano si stiano riorganizzando non mancano. «Non hai visto chi c’è?» commenta, con fare di chi sa, un avventore. In città, da qualche tempo è tornato a farsi vedere uno dei rampolli del clan, qualche anno fa mandato a svernare al Nord, perché troppo e troppo presto si era fatto notare dagli investigatori. E il suo ritorno non è stato nascosto. Al contrario. Ha accompagnato la moglie di un boss da tutti riconosciuto alla lettura del dispositivo di una sentenza fondamentale – e devastante – per i clan reggini. A nessuno la cosa è sembrata una casualità.

L’OMBRA DI CARMINE Della stessa opinione sembrano essere gli inquirenti, che con l’operazione Trash e l’arresto di Paolo Rosario e Orazio De Stefano pare abbiano voluto disinnescare il conflitto al momento strisciante, prima di una potenziale, devastante, degenerazione. A breve uscirà dal carcere Carmine De Stefano, figlio di don Paolino, fratello del capocrimine Peppe, ma soprattutto – dice chi su di lui ha investigato – l’unico capo dotato di lucida follia criminale sufficiente a scatenare una guerra. E dotato dell’autorità criminale per farlo. Le armi – hanno dimostrato gli ultimi sequestri – non mancano.

ARRESTO FORTUNATO Non più tardi di qualche settimana fa, quattro persone considerate a vario titolo legate all’entourage destefaniano – Gianfranco Musarella, Antonio Marra, Giovanni Marra e Alessandro Marra – sono state fermate per l’estorsione continuata ai danni di una pizzeria. Nel corso delle perquisizioni seguite all’arresto, gli investigatori hanno trovato un vero e proprio arsenale.

L’ARSENALE Un fucile mitragliatore kalashnikov Ak 47, una mitragliatrice modello Uzi cal. 9×19, privo di matricola, una pistola semiautomatica marca Beretta cal. 9 parabellum, con matricola obliterata, un revolver cal.32, con matricola obliterata, una pistola semiautomatica marca Beretta cal. 9 corto; una pistola a salve cal. 8, priva di tappo rosso, con evidenti segni di manomissione; quattro fucili cal. 12, di cui 3 con matricola abrasa; due carabine, più un’altra ad aria compressa, varie parti di arma per uso da caccia, quattro 4 silenziatori, varie cartucce cal. 9 parabellum, calibro 12, 7,65 e 7.62×39, varie divise di una ditta di vigilanza, passamontagna, guanti, caschi ed attrezzi da scasso. «Non sono armi che servono per fare una rapina – dice un investigatore di lungo corso – con le mitragliette si ammazza».  Dopo settimane di silenzio, uno degli indagati nel corso di un interrogatorio, ha provato a sostenere di averle trovate casualmente, seguendo uno sconosciuto che le avrebbe depositate e abbandonate, giusto un paio di giorni prima dell’arresto.

ARMI E ANCORA ARMI Altre armi sembra fossero nella disponibilità di Cocò Morelli, uomo della comunità rom di Arghillà “battezzato” ‘ndranghetista dal boss Rugolino in persona, arrestato solo qualche settimana fa. Dalle carte dell’inchiesta che lo ha portato in carcere, emergono decine di conversazioni che riguardano pistole e fucili da prestare o smerciare. E più volte, carabinieri e polizia hanno trovato armi e proiettili nascosti ad Arghillà o in zone limitrofe. Solo sei giorni fa invece, altre armi – un fucile semiautomatico con canna mozzata e matricola abrasa e un revolver cal.352 magnum con 6 bossoli nel tamburo – sono state trovate in un rudere abbandonato a San Cristoforo, insieme a un ciclomotore privo di targa, che dagli accertamenti effettuati è risultato rubato nel giugno del 2015, ed una targa di ciclomotore rubata lo scorso mese di aprile.

INCOGNITA LIBRI «Zona dei Libri» si sentenzia nei soliti bar. E proprio i Libri rimangono la grande incognita del prossimo periodo. Lo storico casato di ‘ndrangheta che la seconda guerra ha incoronato “custode delle regole”, con la morte degli anziani capobastone ha visto offuscata la propria stella. Ma non ha mai rinunciato alle antiche pretese di gloria. Magari da avanzare, come in passato, per interposta persona.

(l’articolo completo è qui)

«L’austerity in Italia non è mai esistita»: lo dice Roberto Perotti, ex consigliere del presidente del Consiglio dei ministri per la spesa pubblica

La spesa pubblica è sulla bocca di tutti e sarà sempre peggio con l’avvicinarsi delle elezioni. Il debito pubblico invece, quello no, di quello non ne parla più nessuno perché lo “storytelling” prevede l’obbligo (politicamente amorale) di essere “positivi” come se la gestione del Paese sia una merce da vendere al pari di una confezione di biscottini o una nuova marca di shampoo. E allora vale la pena di leggersi attentamente tutta questa intervista a Roberto Perotti che proprio per i “tagli di Stato” era stato chiamato al fianco dell’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi. E poi allontanato. Eccola qui:

La spesa pubblica al netto degli interessi ha continuato a salire dal 2014, i numeri dello stesso Def sono chiari”. Peggio: “La revisione della spesa pubblica è morta, ma il debito pubblico è un problema reale non una fisima degli economisti”. Roberto Perotti, professore dell’Università Bocconi ed ex consigliere del presidente del Consiglio dei ministri per la spesa pubblica, non usa mezzi termini parlando a margine dell’incontro di presentazione del suo libro ‘Status quo: perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo)’, organizzato presso la sede di Arca Fondi Sgr dall’Associazione Civicum. “Per fare la revisione della spesa serve la volontà politica – dice Perotti – e l’iniziativa dovrebbe partire dai Ministri. Ma i direttori generali, i capi di gabinetto dei ministeri non hanno alcun interesse a toccare lo status quo, si tratta di persone che sono lì a volte da 20-30 anni, spesso trascorsi a guardare il proprio ombelico e senza esperienze di fuori dall’ambiente romano e a volte senza nessuna competenza“. I problemi sono molteplici, dalla “pigrizia intellettuale” alla mancanza di voglia “di mettersi a guardare e studiare i numeri”. A questo si aggiunga una buona dose di incompetenza nell’analizzare “i problemi e vedere quello che può andare storto” come accaduto per la riforma della Pubblica amministrazione “assegnata a un ministro (Marianna Madia, ndr) che non aveva le competenze necessarie per intervenire” o quella delle pensioni targata Fornero con il dramma degli esodati.

Il governo sostiene che più di così sia impossibile tagliare, ma è un’affermazione a cui è difficile credere a fronte di una spesa pubblica complessiva di oltre 800 miliardi di euro l’anno.

Capisco i problemi politici, ma ci sono ampi margini di tagli possibili senza dover toccare pensioni, sanità e stipendi pubblici che – tuttavia – non sono certo voci incomprimibili. Probabilmente al loro posto mi comporterei allo stesso modo, ma deve essere chiaro che sono le pubbliche amministrazioni il primo freno ai tagli. Insieme agli stessi politici che non hanno tempo e voglia di mettersi a capire le cose.

Cioè?

Non hanno una visione di insieme della spesa pubblica e nessun dirigente mostra loro i tanti capitoli di spesa che potrebbero essere ridotti. Quindi i politici si convincono che la spesa sia incomprimibile.

A parole le intenzioni del governo erano di ridurre la spesa.

Il vento è cambiato. Il segnale più chiaro è la frase che Renzi ha pronunciato recentemente su Padoan, che diceva pressapoco così: “E’ un bravissimo tecnico, ma non si rende conto che il mondo è diverso da quello che ha studiato sui libri”. Di fronte alle difficoltà di tagliare la spesa, i politici si sono auto-convinti che per ridurre le tasse non sia necessario ridurre la spesa: il modo migliore di ridurre la pressione fiscale, dicono i politici, è aumentare il Pil attraverso aumenti di spesa. Questa è una favola a cui i politici vogliono credere per evitare di fare scelte difficili. Così come vogliono credere alla favola che i tagli di tasse si autofinanzino con l’aumento del Pil che essi indurrebbero.

La revisione della spesa è davvero morta?

Non so se sia mai stata viva, ma oggi è sicuramente morta. Sia perché ormai siamo in campagna elettorale e si sentono più forti le pressioni per aumentare la spesa; sia perché c’è aria di proporzionale, e il proporzionale rende più difficile controllare la spesa; sia perché, oggettivamente, il governo deve respingere l’assalto di forse populiste all’opposizione, che unanimemente attaccano l’austerity, anche se da noi non è mai esistita.

Anche i tedeschi rinfacciano all’Italia di non aver fatto austerity.

Che l’austerità fiscale non ci sia mai stata è un fatto. L’unica forte riduzione del disavanzo c’è stata con Monti, che però agì quasi esclusivamente sul lato degli aumenti di tasse. Poi l’avanzo primario ha continuato a scendere e la spesa primaria ad aumentare. I numeri sono chiari, chi dice il contrario fa solo propaganda. Non suggerisco di tagliare la spesa in modo drastico: sarebbe rischioso, ma gli aggiustamenti graduali sono sempre possibili. Per esempio una revisione di 3-4 miliardi non avrebbe impatti sulla sanità o sulle pensioni. Ma è evidente che qualcosa in cambio bisogna dare.

Che cosa intende?

Intendo dire che bisogna far capire alle persone che non si vuole tagliare a caso, ma che l’obiettivo è quello di risanare il Paese. Serve un segnale forte soprattutto per rispondere alle pressioni populiste, che peraltro in alcuni casi sono perfettamente giustificate. Penso alla riduzione dei vitalizi dei politici e degli stipendi per le figure apicali della pubblica amministrazione: guadagnano molto più rispetto ai loro pari grado di altri Paesi, mentre ai livelli più bassi i dipendenti pubblici hanno stipendi inferiori ai colleghi europei. Ridurre il vitalizio ai senatori, per esempio, sarebbe stato un volano politico pazzesco. E contrariamente a quanto si vuole far credere, probabilmente questa volta la Corte Costituzionale non si sarebbe opposta. Se non tagli in alto diventa politicamente impossibile tagliare altrove, ed è comprensibile. E quando si arriva a parlare solo di patrimoniali e lotta all’evasione fiscale è evidente che le idee siano finite.

L’eccesso di debito pubblico è davvero un problema?

Lo ripeto, il taglio del debito non è una fisima degli economisti come sostengono i politici. Certo nessuno saprà mai se con il 133% di debito/pil si possa sopravvivere, ma è sicuramente vero che non si possono fare interventi straordinari quando si presenta un’emergenza. L’Irlanda è riuscita a salvare le sue banche dopo la crisi del 2008 perché partiva con un debito al 30% del Pil, l’Italia, al contrario, non aveva un euro. E questo al netto di tutti gli attacchi all’Europa che secondo i politici italiani avrebbe impedito l’intervento pubblico. Se avessimo avuto un debito come quello irlandese avremmo potuto affrontare prima il problema dei crediti deteriorati, invece di farlo diventare un bubbone. I crediti deteriorati restano uno dei principali problemi di questo paese: per anni abbiamo messo la testa sotto la sabbia e poi ci abbiamo messo altri anni per cominciare a gestirlo in modo non dilettantesco.

(fonte)

«Dobbiamo credere nell’utopia dell’uguaglianza», parola di Luciano Canfora

(una gran bella intervista da Micromega)

«Come osservò Tocqueville la libertà è un ideale intermittente, l’uguaglianza invece è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame». Luciano Canfora, classe ’42, è professore emerito dell’Università di Bari, storico, filologo classico e saggista. Per ultimo, ha scritto per Il Mulino “La schiavitù del Capitale” (112 pp., 12 euro) nel quale sottolinea, con un pizzico di ottimismo, come il capitalismo abbia vinto «ma forse è solo un tornante della storia». Insomma, la partita sarebbe tutt’altro che chiusa: «L’Occidente si trova di fronte a controspinte molteplici, tutte gravide di conflitti e di tensioni e daccapo ha perso l’offensiva. Più sfida il mondo (per usare la terminologia di Toynbee) e più aspra è la risposta».

Professor Canfora, per lei campeggiano due utopie al mondo: l’utopia della fratellanza e quella dell’egoismo. Non trova che quest’ultima stia stravincendo a livello globale?

Ha quasi sempre vinto sul breve periodo: l’utopia dell’egoismo nella storia ha giocato all’attacco. Come scrive Lucrezio nel quinto libro del De rerum natura essa inizia quando l’uomo scoprì l’oro e la proprietà privata. Il moderno profitto ne è l’equivalente monetario; è connaturato da una spinta biologica. Ma, attenzione, questa egemonia ha la strada in salita, la storia ci ha anche dimostrato che prima o poi all’utopia dell’egoismo si contrappone una reazione. Gli anticorpi consistono nella spinta all’uguaglianza che mette in discussione la supremazia dell’egoismo proiettato verso il profitto. La storia non ha ancora dato la vittoria a nessuno.

Sono più pessimista: come reazione alle politiche dell’Occidente abbiamo il fanatismo religioso dove – lo dimostra il caso della banlieus parigine – gli emarginati ormai scelgono l’integralismo islamico come via di riscatto dall’esclusione sociale. Prima della caduta del Muro di Berlino, in Occidente chi si opponeva allo status quo optava per la “via socialista” mentre ora si iscrive direttamente alle milizie del Califfato?

Nel Novecento pur di sconfiggere il vacillante “socialismo realizzato”, l’Occidente ha preferito armare il peggior fondamentalismo islamico, ad esempio i Talebani in Afghanistan. Così sulle ceneri del socialismo – pensiamo anche alle varie esperienze nel mondo arabo con il partito Baath e alle forme laiche di antimperialismo in Medioriente – si è imposta la barbarie dell’integralismo religioso con la sua escalation di terrore. Anche qui la storia ci può essere d’aiuto: ucciso Robespierre, dopo anni, quel pensiero si è palesato nuovamente, ma in forma ancor più violenta, sotto le sembianze di Stalin. I vuoti vengono riempiti, con modalità sempre più cruente. L’Islam di oggi, comunque, non è surrogato del mondo socialista ma, come dimostra un recente studio di un ex diplomatico USA, pubblicato dall’editore Kopp, è uno dei prodotti della guerra globale della Cia.

Mi sta dicendo che sono “giocattoli” scappati di mano?

L’Isis si muove in modo unitario, come una grande potenza. Il capitalismo è quel titanico stregone che unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Pensiamo al rapporto con l’Arabia Saudita wahabita, per gli Usa il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio.

Sicuramente l’Occidente avrà le sue responsabilità, intanto in Europa resta il problema degli attentati…

Bisogna dirsi le verità scomode: da un lato abbiamo la barbarie, dall’altro non ha senso schierarsi con le nostre guerre umanitarie. Siamo dentro una spirale guerra/terrorismo. L’Occidente detiene la ricchezza, le armi, la cultura ed ha in mano le principali carte del gioco. Ha tutto l’interesse, economico e politico, ad alimentare odi e violenza per smerciare le armi che produce. Tra l’altro costruisce l’immaginario e le narrazioni con morti di serie A e morti di serie B: gli attentati in Occidente vengono deprecati col massimo della solennità, mentre le azioni terroristiche che da 14 anni insanguinano l’Iraq dopo la proditoria cacciata di Saddam ottengono un trafiletto sui giornali. Nel luglio 2016 due centri commerciali a Baghdad vengono distrutti da un attentato suicida dell’Isis, le dimensioni dell’enorme carneficina vennero rese note col contagocce. In Occidente utilizziamo due pesi e due misure.

Nella prima parte de La schiavitù del Capitale Lei compie una ri- o de-costruzione storica della categoria di “Occidente”. Non è quindi un blocco unitario come troppo spesso crediamo?

L’ingresso degli Usa negli equilibri europei nel 1917, nella I guerra mondiale, cambia gli scenari. Per Oswald Spengler, in quella data, ha inizio il declino dell’Occidente. Dopo il 1917 il concetto di Occidente prende le sembianze degli Usa: non è un giudizio di valore il mio ma una fotografia dei rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Torniamo all’utopia della fratellanza, come uscire da questo capitalismo che ha ripristinato forme di dipendenza di tipo schiavile?

La crisi non scoppierà ai margini, nelle periferie metropolitane, ma scoppierà dentro il cuore del sistema. Mi spiego meglio: la crisi si produrrà al suo interno, tra le sue classi dirigenti tecnicamente attrezzate ma non dominanti. All’orizzonte non intravedo organizzazioni di qualche peso capaci di contrapporsi – e a livello globale le soluzioni non passano per l’Isis o per la Corea del Nord – soltanto la critica può salvare l’Occidente da se stesso. Il potere finanziario si fonda anche su ceti acculturati i quali non sono complici del profitto, o lo sono in misura marginale rispetto ai veri detentori della ricchezza. Sono questi ceti che vanno scossi tramite l’arma della critica. Consentimi una battuta: una rivista come MicroMega ha più responsabilità di quanto si pensi!

Alla fine del libro, come appendice, c’è un intervento di Alexis Tsipras del giugno 2015 nel quale invita i greci a ribellarsi ai diktat della Troika parlando di recupero della democrazia e di sovranità popolare. Non crede che in Grecia abbiamo visto il vero volto criminale delle Istituzioni? Alla fine il governo ellenico è stato costretto a capitolare accettando i vari memorandum…

Quando ho deciso di inserire questa parte, ero consapevole del fatto che, alla fine, Alexis Tsipras fosse stato costretto alla resa e ad andare contro il suo popolo. Ma quel discorso è di grande importanza simbolica perché mise in crisi il sistema UE. Mi ricordo i giornali dell’epoca che criticarono la scelta del referendum: come aveva osato Tsipras dare la parola ai cittadini disobbedendo alla Troika?

Poi, purtroppo, col coltello puntato alla gola è stato costretto a cedere alle pressioni dell’Eurogruppo. Ma nella sua lotta era isolato ed è stato abbandonato, dal governo spagnolo e dal nostro. Adesso Renzi dice di voler sbattere i pugni a Bruxelles contro Junker, con quale credibilità essendo stato il pugnalatore della Grecia? L’Italia poteva fare fronte con la Grecia e chiedere alla Troika di rinegoziare un debito pubblico assurdo e una serie di parametri di Maastricht. Si poteva venire a patti. Invece… è andata come è andata.

Anche la Francia di Hollande in realtà non si spese molto per la Grecia, non trova?

Certo, è complice in primis. Fa ribrezzo la politica dei socialisti francesi: calpestano i vari parametri europei ma essendo soci di serie A, nessuno gli dirà mai nulla. Un milieu ripugnante.

Rimaniamo in Francia. Adesso in Europa, come si evidenzia dalle elezioni di domenica con il duello tra Le Pen e Macron, lo scontro è tra un nuovo populismo xenofobo e l’ultraliberismo?

Innanzitutto, sarei meno succube della propaganda nostrana che descrive i fenomeni populisti con caratteristiche di fascismo. Andrei più cauto nell’affibbiare etichette. Gli stessi media che per anni hanno accusato la sinistra di utilizzare con troppa leggerezza il termine “fascismo”, vedi la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, adesso utilizzano tale categoria con disinvoltura. La storia va analizzata bene: quando Charles De Gaulle prospettò l’Europa delle patrie, dall’Atlantico agli Urali, qualcuno pensò di definirlo fascista? O un sovranista? Potremmo davvero definirlo tale? Direi piuttosto che il gollismo è un fenomeno specifico, con le sue proprie caratteristiche, circoscritto alla storia francese.

Professore, mi sta dicendo che Marine Le Pen non incarna un nuovo fascismo? È sicuro di ciò che sostiene?

È una definizione grossolana. Ha degli elementi in comune con il fascismo ma anche aspetti diversi: per esempio la capacità di intercettare un malcontento sociale della classe operaia francese. Cosa che non fu per il fascismo al suo sorgere: Mussolini, appoggiato dalla Corona, vinse contro la classe operaia. La situazione era diversa. Non vengo intimidito dalle formule dei giornaloni e dico che il lepenismo è una specifica realtà francese che dà voce ad una parte dei francesi che verrà calpestata da Macron e dalle sue banche.

Sì, ma fomenta razzismo e guerra tra poveri. Prende i voti della classe operai al grido «prima i francesi»…

Se l’Europa dei Macron fosse in grado di salvaguardare il welfare, e anzi fosse in grado di estenderlo alle masse impoverite che vengono dai barconi, sarei il primo a dire «viva la Bce». Ma non avviene questo. In Italia abbiamo visto come Renzi col Jobs Act ha destrutturato lo Stato Sociale per poi tacciare di populismo chi invece vuole difenderlo. L’uguaglianza è come la fame, è un bisogno permanente. E Marine Le Pen si rivolge a quelle classi subalterne abbandonate dalla sinistra.

In realtà in Francia il candidato Melenchon ha ottenuto al primo turno il 17% prendendo i voti, in primis, dei ceti sociali più deboli. Non crede possa esistere una terza via, tra i Macron e i Le Pen?

L’unica speranza è questa. E devo dire che, per fortuna, in Europa esistono alcune forze di sinistra alternativa. Ad esempio si parla troppo poco della Linke in Germania, è un modello molto interessante.

Beh, penso a Podemos e al suo “populismo di sinistra”. Così è stato bollato anche Melenchon. Su questo che idea si è fatto?

Respingo in toto la categoria del populismo. È ridicola dal punto di vista lessicale e non ha alcun valore concettuale né pratico. Populisti sarebbero tutti quelli che si richiamano al popolo, e allora lo sono tutti a partire da Giuseppe Mazzini? Altrimenti chi sono? Castro era populista? Il partito popolare, che parlava di “popolo” e rifiutava la nozione di “lotta di classe”, era populista? Lenin era populista? Salvini è populista? Dunque Garibaldi, Lenin, Sturzo tutti populisti? È un termine che viene utilizzato per squalificare coloro che non sono d’accordo col sistema dominante vigente: uno strumento volgare di lotta contro qualcuno.

Champagne e pasticcini per il ritorno del boss: Papalia arriva a Buccinasco

Ne scrive Cesare Giuzzi per il Corriere:

Via Nearco è un budello a senso unico. È una strada quasi insignificante, specie con questa pioggia fastidiosa. E non c’è neppure parcheggio anche se è sabato pomeriggio, ma sembra l’ora di punta, di un giorno di punta.

Eppure è qui, in un seminterrato al civico 6 con la porta blindata dalla quale escono voci di grandi e bambini, segnali di giochi e di festeggiamenti, che passano oggi i più delicati equilibri criminali del Nord Italia. E forse dell’Italia intera. Perché Nginu Rocco, Rocco Papalia, 66 anni, è tornato a casa. Dopo cinque lustri di carcere, dopo aver retto insieme ai fratelli Domenico e Antonio, il governo della ‘ndrangheta in Lombardia negli anni Novanta.

E non importa se quella casa Nginu neppure l’aveva mai vista, figuriamoci abitata. La sua, quella di via Papa Giovanni XXIII ad Assago dove viveva prima di essere arrestato nel ‘91, oggi è confiscata e affidata alla Caritas. E sul muretto esterno ha un graffito con il sorriso eterno di don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso da Cosa Nostra.

Ma Rocco è tornato, nella sua Buccinasco. E nel battito d’ali che è bastato a far scattare la serratura della sua cella, il ritorno del boss ha spazzato via anni di lotta e cultura antimafia in una cittadina che ha cercato senza riuscirci di togliersi l’etichetta di Platì del Nord. Erano i tempi dei sequestri, dei cento omicidi all’anno tra Milano e provincia, del rapimento di Cesare Casella. Erano anni sanguinari, gli anni dei Sergi, dei fratelli Papalia, dei Barbaro, dei Trimboli, dei Molluso. E di fatto, dopo il blitz Nord-Sud del 1993, qualcosa era anche cambiato a Buccinasco, a Corsico, a Cesano Boscone. Ma mai del tutto.

Era cambiata certamente una cultura della legalità che qui organizza festival, incontri, dibattiti. Che ha portato alla confisca di una parte di quella villetta di via Nearco dove oggi si festeggia il ritorno del boss scarcerato venerdì sera da Secondigliano (Napoli). Nell’ala sequestrata c’è un appartamento gestito da un’associazione che dal 2015 ospita profughi e richiedenti asilo. Era stato confiscato a Serafina Papalia, 37 anni, figlia di Rocco, e al marito Salvatore Barbaro, del ramo dei pillari, coinvolto nelle operazioni Cerberus (2008) e Parco Sud (2009). Ora i migranti si troveranno a condividere il cortile proprio con il boss Papalia. Sul cancello c’è un cartello posto dal Comune di Buccinasco con tutti i nomi delle vittime di mafia. Poco più in là sull’ingresso pedonale c’è invece la targhetta d’ottone con il nome di «Papalia Rocco» e della moglie «Feletti Adriana». È lei adesso a portare i soldi a casa: con la figlia Serafina gestisce il bar Pancaffé di via Ludovico il Moro, 159. Ieri chiuso.

Intorno alle 17.20, all’ingresso di casa Papalia citofona un ragazzo sui 30 anni arrivato a piedi dopo aver parcheggiato una Smart bianca. Sotto braccio ha una confezione gialla con una bottiglia di champagne Veuve Clicquot. Suona, entra, scende i pochi gradini e sparisce. Alle 17.05 la scena si ripete. Stavolta il ragazzo è più giovane, indossa una tuta rossa, e ha capelli rasati sui lati. Stringe tra le braccia un’altra confezione di champagne. E poi bambini e genitori, nonni con confezioni di pasticcini.

Parenti e nipotini che Rocco Papalia, tra le carceri di Badu ‘e Carros e Secondigliano, in questi 26 anni neppure ha mai visto. Sono tutti parenti i Papalia, i Sergi, i Barbaro, i Trimboli, i Perre. E quindi conta poco il fatto che il neo uomo libero Rocco Papalia non possa frequentare pregiudicati come dispone la sorveglianza speciale che durerà tre anni e che gli impedirà di lasciare Buccinasco e lo obbligherà a stare in casa di notte. Ieri il sindaco Giambattista Maiorano ha protestato, per quanto si possa protestare per un provvedimento di scarcerazione che rispetta tutti i crismi della legge, che in uno Stato democratico è un diritto. Ma di certo il ritorno di Papalia agita (e non poco) i sonni dell’Antimafia milanese. Specie se si pensa che tra un mese ci sono le elezioni comunali.

Rocco era il solo dei tre fratelli a poter sperare un giorno di uscire dal carcere. Domenico e Antonio hanno condanne all’ergastolo (ostativo). E Nginu c’era andato vicino già tre anni fa, quando avrebbe dovuto usufruire dei primi permessi. Poi era arrivata una nuova misura cautelare per l’omicidio del nomade Giuseppe De Rosa, ucciso nel ‘76 fuori dalla discoteca Skylab. Ad incastrarlo una intercettazione di due affiliati che raccontarono a oltre trent’anni di distanza di come fu proprio Papalia a sparare. Quello, secondo i giudici, fu l’omicidio che segnò l’ascesa degli uomini di Platì (Reggio Calabria) a Milano. Per tenerlo in cella era necessario arrivare a una condanna all’ergastolo. Rocco Papalia,nel complesso gioco di aggravanti e attenuanti, venne condannato a trent’anni. Troppo poco. Così, una volta alla conta dei «cumuli» di pena, Papalia è stato scarcerato. «Un provvedimento di legge, non c’è da stupirsi di nulla», commenta ora l’avvocato Ambra Giovene. I parenti lo aspettavano a casa per giugno, la notizia ha sorpreso in parte anche loro.

E adesso preoccupa gli investigatori. Perché dopo gli arresti degli anni Novanta e gli ultimi colpi tra il 2010 e il 2014, il clan più potente del Nord Italia (il fratello Antonio era «capo della Lombardia») s’era ritrovato con un vuoto di potere. Una «vacanza» colmata solo in parte dagli eredi di famiglia. Personaggi come Domenico Trimboli, alias Micu Murruni, o come Antonio Musitano, alias Toto Brustia, seppure di buon pedigree mafioso, mai avrebbero potuto portare (e sopportare) un cappello tanto grande. Lo aveva fatto Rocco Barbaro, ‘u Sparitu, che dopo la scarcerazione aveva lavorato a Buccinasco come gommista. Ma pochi mesi dopo è tornato in Calabria per poi darsi latitante, inseguito da un ordine di cattura per mafia. Ora c’è Nginu. E con Rocco Papalia libero cambia tutto.

 

«Santamamma, un libro che doveva essere scritto»: la recensione di Lara Cardella

(Lara Cardella, scrittrice, scrive di Santamamma nel suo blog, qui)

Ci sono libri che vanno al di là delle categorie del “bello” e del “brutto”, io li definisco i “libri che devono essere scritti” e, perciò, letti. “Santamamma” è uno di questi libri. L’autore, Giulio Cavalli, è noto per la sua lotta contro la mafia e, in questa veste, l’ho conosciuto. In questi abiti l’ho intervistato, anni fa, l’ho ammirato e seguito nelle sue instancabili denunce contro ogni malaffare. In questi panni, l’ho ritrovato in tutti i libri che ha scritto e che ho letto, inserendolo nel mio personale album degli “eroi”, gente profondamente onesta e coraggiosa che, in ogni loro lotta, non esitano a metterci faccia, mani, vita tutta. Ma quei vestiti sono subito risultati strettissimi quando mi sono ritrovata a leggere   “Santamamma”: lo stile è certamente il suo, inconfondibile, ma non si trattava di un saggio, era la storia di più vite. La sua, certamente. Abilmente travestita (al punto da chiederti dove arrivi la finzione letteraria), si spalanca attraverso quel dolore, quella domanda che aleggia per tutto il romanzo e che mai viene espressa:”Perché mamma non mi ha voluto? Perché mi ha abbandonato?”.

Una domanda che non appartiene soltanto a chi è stato rifiutato e costretto a crescere in un istituto, ma che può cogliere ognuno di noi in qualsiasi momento della nostra vita: di fronte a un’incomprensione, un diniego, una separazione. Il “buco” di cui Carlo, l’alter ego di Giulio, parla lo accompagna sempre, anche se viene adottato da una famiglia che lo ama, che si prende cura di lui; rimane la ferita dei “non amati”, diventa ricerca di verità, ma anche scontrosità, incapacità ad aprirsi e regalarsi le gioie semplici di una frase gentile, come se temesse di lasciare scoperta una parte di pelle dalla corazza che s’illude lo possa proteggere da nuovi abbandoni. Carlo attraversa la sua vita quasi con incoscienza, lasciando che le cose gli accadano, scegliendo solo per rifiutare: accadrà così che si troverà eroe per caso, simbolo della lotta contro la mafia, in mano ad agenti speculatori. E s’intravede tutta la stanchezza di Giulio, costretto da anni a vivere sotto scorta come Carlo; e finalmente si comprende il suo rifiuto per la retorica dell’eroe, la pesantezza di essere costretto in quei panni di cui parlavo prima: è un attacco, durissimo, alla società, a noi, a chi lo vuole identico a sé stesso e immutabile.

E’ la rivendicazione di un uomo che chiede di essere come vuole, di non assecondare nessuno, libero. E per riprendersi questo suo diritto abbandona lo show osceno di chi gioca con la sua volontà di poter essere sé stesso. Cerca le sue radici, fa i conti con quell’ombra, la mamma che tutto divora, decide di sapere. Un atto di coraggio, in ogni caso. Spogliarsi della sua veste di eroe per tornare ad essere  solo Giulio,per trovarsi e presentarsi al lettore con le proprie debolezze,fragilità, forze insospettate, scavi interiori crudeli innanzitutto verso sé stesso ché Giulio nulla si perdona. Con uno stile spezzato, frammentato, amore per la parola mai banale, Giulio Cavalli offre al pubblico un racconto in cui ogni personaggio è animato da pulsioni vere, chiede di essere letto con attenzione, perché il suo non è un libro che si fa dimenticare.

Ti accosti, allora, con pudore a questa storia, vergognandoti di quelle domande che, inevitabilmente ti si presentano (ma gli è successo davvero?), le cacci perché sai che ha già dato tutto in quel romanzo, che gli deve essere costato più di quanto si possa chiedere a qualunque autore (a cominciare dalla dedica). Ci sono libri che devono essere scritti. E, perciò, devono essere letti. Anche con dolore, ma devono essere letti.

#unlibroalgiorno l’ultimo Pennac, ovvio.

Va letto un po’ per i motivi di cui si diceva qui e poi perché basta leggerne tre righe:

«La mia sorellina minore Verdun è nata che già urlava ne La fata carabina, mio nipote È Un Angelo è nato orfano ne La prosivendola, mio figlio Signor Malaussène è nato da due madri nel romanzo che porta il suo nome e mia nipote Maracuja è nata da due padri ne La passione secondo Thérèse. E ora li ritroviamo adulti in un mondo che più esplosivo non si può, dove si mitraglia a tutto andare, dove qualcuno rapisce l’uomo d’affari Georges Lapietà, dove Polizia e Giustizia procedono mano nella mano senza perdere un’occasione per farsi lo sgambetto, dove la Regina Zabo, editrice accorta, regna sul suo gregge di scrittori fissati con la verità vera proprio quando tutti mentono a tutti.
Tutti tranne me, ovviamente. Io, tanto per cambiare, mi becco le solite mazzate.

Benjamin Malaussène»

Lo trovate qui nella nostra piccola Bottega dei Mestieri Letterari, tra i libri che vale la pena leggere. Fateci un giro.