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Pennac, gli anni novanta e noi come siamo stati

Un articolo di Rivista Studio che parla di Pennac ma soprattutto di una generazione:

Se si dovesse provare a spiegare, racconteremmo l’Italia di quegli anni così: l’Unione Sovietica era appena crollata, e la sinistra italiana si ritrovava a domandarsi quale diamine fosse la sua identità, ovvero, come si diceva allora, il suo grande album di famiglia. Dal punto di vista strettamente politico, si salvavano solo i fuoriusciti, gli esclusi: Gramsci e Guevara, poco altro. Ma, dato che a destra regnava già Silvio (identificato come una sorta di vuoto pneumatico intellettuale), e dato che molto del passato non poteva più essere utilizzato come modello, né pratico né esplicito, nacque una smania identitaria che andava a pescare da lidi curiosi. Dalla commedia all’italiana e dal teatro. Dal Piccolo Principe o da La casa degli spiriti. Dal Messico di Cacucci o da Francesco De Gregori unplugged. Dai vhs di Easy Rider e del Grande Freddo di Veltroni, e dal Gabbiano Jonathan Livingston, e dalla Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. E c’era il giallo di provincia, c’era il bar sport, l’Emilia Romagna. E Caracas. Così, per la media borghesia italiana, anche i romanzi di Daniel Pennac – un po’ come i primi Camilleri, o come la nascita del Benigni d’autore – non rappresentavano soltanto dei libri piacevolissimi, ironici, fantasiosi e garbati (questo erano, e sono), ma una questione di appartenenza, una speranza, e un manifesto. Si trattava, in sostanza, della domanda: «Chi siamo?», e la risposta solare diceva: “Lettori”. Oppure: “Fruitori culturali”. Ma vasti. Lettori contro ciò che sembrava un attacco al passato, una tabula rasa di valori, di principi, di cinquant’anni di storia d’Italia: l’uomo nuovo, la seconda Repubblica… Però lettori leggeri, minimalisti, ironici, d’intrattenimento. Non era più ai grandi ideologi che si guardava, ma ai narratori, ai giallisti, ai comici. Ecco, sì, questa era la nostra cultura. Questa la nostra identità.

Il punto non erano le opinioni politiche dei diretti interessati. Certo, gli anni Novanta (e forse i primi del Duemila) furono gli ultimi a riproporre con forza il ruolo dell’intellettuale engagé. Parlare di politica, dire la propria su Berlusconi e l’Italia, era qualcosa di richiesto a qualsiasi scrittore internazionale, dal portoghese Saramago, ai maestri francesi, cileni, tokyensi, mentre i Democratici candidavano alle europee autori come Tahar Ben Jelloun (ma perché?). Piuttosto, la cosa interessante era come la cultura fosse recepita da parte del pubblico bene e medio-intellettuale. Se analizziamo lo spirito di questo strano pantheon che si era venuto a creare, ci accorgiamo della sua contraddittorietà, della sua vaghezza, retta soltanto dalla poetica della Grande Chiesa che andava fino a Madre Teresa: l’ecumenismo, ma a vanvera. Sinistra era l’India di Siddartha. Sinistra era l’epopea familiare sudamericana. Sinistra era il realismo magico brasiliano. Sinistra era la provincia della piadina, o l’ispettore Carvalho, o la poetica della fuga in Marocco. Non aveva molto senso, ovviamente. Non poteva certo essere un manifesto programmatico: e di cosa?

(lo potete leggere intero qui)

Ma l’indignazione (giusta) per le donne dell’est dov’è finita con Dell’Utri in prima serata?

Ma tutte le voci contro Paola Perego (e i suoi autori) per quell’abominevole slide di luoghi comuni sulle donne dell’Est dove sono finite oggi dopo una delirante intervista che Sky Tg24 ha concesso a Marcello Dell’Utri (amico di mafiosi per conto terzi) permettendogli di infilare una serie di castronerie già smentite da un regolare processo e dalla Storia?

Abbiamo sopportato il figlio di Riina che ha incensato cotanto padre da un imbarazzante Bruno Vespa che si fingeva imbarazzato, un capo di governo che per anni ha attaccato i magistrati a reti unificate, un ministro che ci consigliava di “convivere” con la mafia, sindaci che ne negavano l’esistenza e tutta una serie di inesattezze, superficialità e false litanie.

Ora, di nuovo, torna Dell’Utri che dichiara impunemente: “Che io sia qui per un fatto politico mi pare che sia nelle cose. Non ho niente da spiegare, ho già detto tutto in lunghissimi interrogatori ai giudici, spiegato quale era il mio contatto con la mafia. Aver conosciuto Vittorio Mangano che poi fu fattore ad Arcore è stata la base dell’accusa per cui mi hanno ristretto qui, ma non ho niente da spiegare. È una guerra politica, non mi sento neanche un capro espiatorio. L’unico rammarico è che il processo è durato tanto, per cui sono qui in tarda età. Se fossi stato qui in età minore avrei superato meglio la detenzione”.

Ma niente sdegno stavolta. L’antimafia non è pop. I mafiosi, invece, terribilmente sì.

(per chi volesse farsi un’idea sulle mistificazioni di Marcello Dell’Utri abbiamo un libricino scritto apposta, lo trovate qui)

Buccinasco: arrestato il genero (latitante) di Papalia

Ne scrive Cesare Giuzzi per il Corriere della Sera:

Nella mafia si dice che non ci sia rifugio più sicuro che casa propria. E in effetti anche Giuseppe Grillo non era andato molto lontano. E non solo perché dalla sua casa di via Cadorna a Buccinasco al covo di via Mascagni 7, c’è poco più di un chilometro in linea d’aria. Ma perché quell’appartamento al quarto piano era stato, qualche anno prima, l’indirizzo di residenza di suo cognato, Domenico Papalia. La casa era vuota in attesa di essere venduta all’asta. Dentro solo pochi mobili: tavolo, sedie, un letto e un comodino. Sopra la copia del libro «L’invisibile» di Giacomo Di Girolamo sulla vita di Matteo Messina Denaro, l’uomo più ricercato d’Italia.

Giuseppe Grillo non è un mafioso. È nato a Locri, in provincia di Reggio Calabria, ma la sua famiglia è originaria di Platì, feudo delle cosche d’Aspromonte, regno dei Barbaro, dei Perre, dei Trimboli, degli Agresta, dei Musitano. Nel pedigree criminale di Grillo ci sono molte note e tutte di poco conto se si esclude la condanna, appunto, a 7 anni e 4 mesi rimediata in un’inchiesta antidroga dei carabinieri di Corsico che risale a dieci anni fa. La condanna è diventata definitiva a febbraio, con il rigetto da parte della Cassazione del suo ricorso, e di quello di altri trafficanti. Era da questa condanna che scappava da quasi tre mesi.

Ma la sua non è la storia di un semplice spacciatore di cocaina. Più dei precedenti (anche un’accusa di tentato furto) — secondo la polizia — conta il suo stato di famiglia. Perché dopo essersi trasferito a Buccinasco Giuseppe Grillo ha sposato Serafina Papalia, la figlia di Antonio, il boss dei sequestri degli anni Novanta. E Antonio, 63 anni, oggi all’ergastolo nel carcere di Padova dove scrive libri e viene premiato per le sue raccolte di poesie, insieme ai fratelli Domenico e Rocco è considerato uno dei padrini più importanti arrivati negli anni Settanta in Lombardia. E la famiglia Papalia è legata in modo indissolubile a tutti i rami della cosca dei Barbaro di Platì, dai nigri, ai rosi, ai potentissimi castani. E oggi condiziona anche i nuovi assetti delle cosche calabresi visto che il maggiore dei figli di Antonio, il 38enne Pasquale, ha sposato Giuseppina Pelle, la figlia di Peppe Pelle, a sua volta discendente del boss Toni Gambazza di San Luca. Il gotha della ‘ndrangheta della droga e dei sequestri riunito in una sola famiglia.

Che i matrimoni nella ‘ndrangheta siano strumento per alleanze criminali più che il coronamento di storie d’amore, lo sostengono molti investigatori e studiosi. Su tutti il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Che lo stesso valga nelle aule giudiziarie, invece, è ancora tutto da stabilire visto che proprio il processo Cerberus che vede alla sbarra i nuovi assetti dei Barbaro-Papalia è appena ricominciato (per la terza volta) in giudizio d’appello dopo il doppio rinvio della Cassazione. Perché per i giudici non basta un certificato di matrimonio a stabilire un patto tra clan o la presunta appartenenza alla ‘ndrangheta.

Per questo è impossibile sostenere che anche quello di Serafina Papalia e Giuseppe Grillo sia stato un matrimonio d’interesse. Ma sposare la figlia di un boss ergastolano come ’Ntoni Carciutu, il soprannome di Papalia, garantisce nell’ambiente criminale una sorta di aura di onnipotenza. E allora oggi a leggere i verbali dell’arresto di Grillo qualcuno potrebbe sorridere immaginando la scena di una latitanza quasi improvvisata, con la moglie pedinata mentre porta panni e spesa al marito chiuso in casa e i poliziotti della squadra Mobile nel parco che passeggiano con il cane fingendosi vicini di casa. Perché è stato davvero così, seguendo i movimenti di Serafina Papalia, che gli investigatori guidati da Lorenzo Bucossi sono arrivati a scoprire il covo del latitante e — mercoledì sera — a mettergli le manette. Lui ha detto che si sarebbe consegnato, che attendeva solo la prima comunione della figlia da qui a pochi giorni per presentarsi ai carabinieri. Tanto che ha mostrato la valigia già pronta accanto al letto. Ma le cose non sono andate proprio in maniera così artigianale. Anzi. E per gli agenti Giuseppe Grillo era pronto invece a fuggire. A cambiare covo o forse a cercare riparo nella sulle montagne di Platì, in attesa di tempi migliori. La sola certezza è che Grillo non s’è mai mosso da Buccinasco in questi tre mesi e che si sentiva sufficientemente sicuro. Almeno fino a mercoledì quando a Grillo sarebbe arrivata la soffiata che gli annunciava che sarebbero arrivate le guardie.

I poliziotti hanno seguito la moglie lungo la passeggiata Rossini, un percorso pedonale attraverso il verde che porta al complesso di via Mascagni. Poi sono riusciti a entrare nel palazzo attraverso i box e infine si sono appostati alla porta. Grillo ha cercato di rubare preziosi secondi prima di aprire la porta blindata che gli sono serviti per lanciare dal quarto piano il telefonino (un Nokia di vecchio tipo) con il quale effettuava chiamate brevissime e che accendeva solo pochi minuti al giorno. Il telefono però — a conferma della proverbiale fama dei vecchi cellulari — è rimasto intatto. E ora potrebbe svelare molti segreti sulla rete che lo ha protetto.

A Serafina Papalia gli investigatori erano arrivati durante un’indagine dell’Antirapine, il suo cellulare era in contatto con alcuni personaggi e intercettandolo i poliziotti hanno capito che era lei a fare da «vivandiera» al marito. E lo faceva stando attenda a parcheggiare lontano da via Mascagni e a raggiungere il covo solo a piedi. Lei e il marito fino allo scorso ottobre avevano gestito il bar Ritual di piazzetta San Biagio a Buccinasco. Contro l’apertura del locale si era subito schierato il Comune, poi i carabinieri della stazione di Buccinasco, guidati dal maresciallo Vincenzo Vullo, ne avevano ottenuto la chiusura dalla Prefettura. Il motivo? Ovviamente i legami con il clan di famiglia. Ora il locale, dopo una lunga chiusura, ha cambiato gestione.

#unlibroalgiorno Cosa c’entra la qualità con le motociclette

Un libro da leggere e tenere sul comodino: Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Lo trovate nello scaffale dei libri che vale la pena leggere nella nostra piccola bottega di mestieri letterari. Perché? Come scrive Filippo Belacchi qui:

Di cosa parla, poi, lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta? Delle poche cose che contano: legami, relazioni, rapporto tra padre e figlio e quanto sia dura liberarsi dell’idea che i rapporti si fondino sulla logica soggetto e oggetto (cosa o persona che sia). Ed è anche la storia della piega che prende il rapporto tra un padre e suo figlio. Il primo ha perso la voce, non riesce più a trovare il tono giusto per parlare con il figlio e quello non lo riconosce, è smarrito e molto, molto spaventato. Pirsig come esempio di relazione utilizza la motocicletta (ovviamente si può sostituire la moto con qualsiasi altra cosa: scrivere, vivere una storia, cucinare; e comunque: mai avuto una moto in vita in mia): uno la guarda e vede forme, valvole, tubi, bulloni, rondelle, come se un gigante di ghisa avesse partorito un dobermann; se poi col piede spingi una levetta, quella creatura emette un luccicante, teso grrrrrr. E se qualcosa andasse storto? Beh, non venite a dirmi di metterci le mani, perché la moto è libertà, è boooorn to be waaaaild! E non è certo stare lì a svitare, avvitare e rovistare tra le feci d’acciaio, o sa il diavolo di cosa siano fatte quelle budella dalle parti del motore.

Attenzione, però: un atteggiamento di questo tipo uno poi se lo porta sempre appresso, non solo in sella alla moto, ma anche quando sei con tua moglie, con tuo figlio, con la vita. Finché uno dà gas e quel che ti sta attorno si muove, funziona, sembra funzionare: tutto bene, ma se si rompe qualcosa, se le cose non si muovono più o si muovono malissimo, come si fa? La risposta sarà: non ditemi di metterci le mani perché avere un figlio vuol dire fare il padre: regole, affetto, consigli, e così via. E lo stesso vuol dire fare il marito, o la moglie. Ci sono dei ruoli, delle regole, lette in una specie di libretto delle istruzioni che poi è quel miscuglio di esperienze e moniti che ci sono venuti addosso fin da quando siamo nati.

È raro che si  vada a vedere se le istruzioni contenute nel libretto siano buone o meno. Ci atteniamo a quelle, anche perché solitamente siamo poco inclini a mettere in discussione noi stessi e chi ce l’ha tramandate. Io sto qui e l’oggetto sta lì. E quindi, esempio, se devo accudire un neonato il mio compito è pulirgli il sedere, sfamarlo e tenerlo caldo, right? Ma ognuno sa bene che quei gesti sono niente, anzi sono tossici se si limitano a essere semplicemente prassi, protocollo, burocrazia dell’accudimento e non sono invece mossi da qualcosa che Pirsig chiama Qualità. Tutto va a rotoli, il bambino si disintegra, non si crea quello che il Robert Pirsig della psichiatria ha chiamato Attaccamento. Cioè a dire non si crea legame, relazione, nutrimento emotivo. E quel neonato si auto annienta e quindi smette di vivere, letteralmente. O se sopravvive diventerà freddo e duro come una pietra, come Joe Pesci in Goodfellas.

Bisogna mettersi nella condizione di vederla, la moto. E per vederla devo imparare a guardare, a stare là, fermo, vivo, e cercare di sentire che ogni conduttura, ogni curvatura, ogni tubo, ogni cinghia, fascetta, vite e forma sono innanzitutto pensieri che hanno preso corpo e sono diventati oggetti.La moto è un pensiero, anzi un insieme di pensieri assemblati e tenuti assieme, e ogni più piccolo pensiero-vite è frutto di un percorso, di decisioni, responsabilità, di problemi risolti e altri risolti solo parzialmente e quindi migliorabili. La moto è quindi una cosa viva che si modifica a ogni istante. Quando la monto quella parla, comunica, si manifesta. Tutto sta nell’avere il coraggio di entrarci in relazione: averla a cura, che vuol dire averla a cuore, tenerci, con tutte le difficoltà mostruose e momenti di impasse che tenere a qualcosa significa.

Se c’è Qualità in quello che facciamo è inevitabile che le cose funzionino. Questo il pensiero proposto da Pirsig. Il guaio è che è dura da matti spremere Qualità nelle cose che facciamo. A pensarci, da consumatori incalliti, il termine “qualità” ormai fa venire in mente per lo più oggetti costosi: “vini di qualità”, sigari, auto, costruzioni, ecc. (ancora peggio se davanti alla parola “qualità” ci si mette l’aggettivo prima). Meglio pensare allora alla Qualità come l’essenza di qualcosa, come la radice quadrata di un oggetto, il suo centro, il suo spirito. Pensarla come un derivato dalla parola Quale: Qualità.

La Qualità è sostanzialmente il centro, il cuore di ogni cosa, sia questa un gesto, un discorso, la lettura o scrittura di un libro, un’azione. Ogni movimento di un individuo ha una Qualità che può essere alta o bassa. Ogni cosa, per esempio questo articolo che sto scrivendo, può avere una Qualità alta o bassa, e non mi sto riferendo alla sola e un po’ mignottesca bellezza, ma qualcosa che ha che fare con la disponibilità di contattare il centro di una cosa. Tenere gli occhi aperti e non lasciare che lo spirito sia sedotto dal rumore, mai ammutolito dalla paura, sempre diretto verso il centro, a toccare e farsi toccare.

(lo potete comprare qui)

«Scriverlo è stato salvifico»: una mia intervista su #Santamamma (e non solo)

(di Erika Pucci per VersiliaToday, fonte)

Sabato 22 Aprile lo scrittore e regista teatrale Giulio Cavalli ha incontrato i lettori alla libreria “La Vela” di Viareggio presentando per la prima volta in assoluto il suo ultimo libro “Santamamma” (Fandango, 2017). Un libro autobiografico in cui l’autore racconta la propria storia di figlio adottivo, bambino prodigio, “eroe” della legalità, gli anni della scorta fino al ritrovamento del proprio fratello. Condivisione e identità sono i due grandi temi di una storia appassionante e onesta. Il pubblico de “La Vela” ha accolto con calore, interesse e emozione l’autore. Prima dell’incontro ho rivolto a Giulio alcune domande per i lettori di Versilia Today.

Santamamma” a differenza di altri tuoi libri, ha la crudeltà dell’autobiografia. Quanto ti è costato scrivere questo libro e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a farlo?

Scrivere il libro non mi è costato, è stato salvifico, anche se sembra spigoloso e feroce per me è stato confortevole, prima di tutto. Perché sono nato come racconta storie e non come autore da inchiesta: con “Santamamma” sono tornato a fare il mio lavoro. Ho la fortuna di avere un pubblico che è molto più sensibile di me a ciò che mi riguarda, pertanto questo romanzo non è una risposta ma una domanda. Per esprimerlo con una citazione

” si vive soltanto nei momenti in cui si rivive qualcosa che si è vissuto nell’infanzia”.

Il tuo sito è uno spazio ben organizzato e efficace delle molteplici attività in cui sei impegnato, soprattutto emerge in modo deciso e convincente l’assoluta simbiosi tra parole e azioni nei vari temi in cui hai combattuto battaglie in prima linea: attraverso il tuo lavoro teatrale e di scrittore e giornalista, cosa significa impegno civile?

In un momento della mia vita mi hanno fatto credere che la mia complessità fosse un problema e io sono sempre stato innamorato della complessità. Sfogo nel giornalismo abusivo ciò che non riesco a esprimere nel palcoscenico così come nella scrittura di romanzi. Tra le azioni di cui sono fiero c’è quella di rivendicare la mia complessità. Il sito è lo spazio più libero da questo punto di vista. La scrittura è ciò che mi fa stare bene, è prendermi cura di me.

Recentemente il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, con cui avevi scritto il monologo “L’isola che c’è“, ha ricevuto il premio Unesco per la pace. Che valore ha oggi la politica dell’accoglienza, ribadita dal riconoscimento, per il nostro Paese e per l’Europa?

L’Italia avrebbe potuto essere un avamposto culturale come è stata nei secoli, il tema non è l’accoglienza ma l’ umanità, quello che ritengo prioritario è un’impermeabilizzazione morale per gli stenti di questi tempi. Un grande intellettuale del nostro tempo ebbe una grande intuizione, Vittorio Arrigoni, e mi chiedo come racconterebbe questo tempo “restando umani”? Il premio a Giusi è importante, ci dovrebbe costringere a riflettere sulla cordialità nel senso letterale del termine ossia di sentire col cuore. Giusi ne è l’ultima testimone.

A seguito del fermo in Turchia del giornalista Gabriele del Grande sei stato tra i primi a prendere una posizione netta sul tema con un articolo in cui sottolineavi che la liberazione di Gabriele e il suo lottare per essa riguarda tutti. Perché?

C’è un aspetto personale in questa mia scelta ossia l’ enorme lutto che ho vissuto per Vittorio Arrigoni, conosciuto al grande pubblico da morto e infangato. Vittorio, Gabriele sono troppo poco ottundibili: l’ho vissuto sulla mia pelle che in certe circostanze sei preda dei cannibali non per quel che sei o che hai fatto ma per quel che ti è successo. E questo capita spesso quando scrivi, lavori fuori dai circuiti “istituzionali”: da questo l’ urgenza di scrivere subito di Gabriele, scrivere significava frenare i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. Fuori dai circuiti istituzionali: l’ urgenza di scrivere significava frenare subito i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. La fidelizzazione col pubblico.

Come sai qui a Viareggio siamo a pochi passi da S. Anna di Stazzema, luogo di eccidio nazista e famosa anche per gli incartamenti finiti nell’armadio della vergogna. Sulla tua bio ti definisci “Partigiano”: cosa significa oggi per te questo?

Partigiano oggi è colui che decide esattamente da che parte stare, che è uno dei vizi che ci chiedono di non frequentare. Essere partigiani significa non pensare che esistono storie o cose su cui non abbiamo diritto di parlare. Scegliere, dire la propria significa perdere ogni volta una parte di pubblico. A seguito della scorta che mi è stata assegnata mi sono ritrovato un grande pubblico, come accadde a Saviano che stimo ma di cui non condivido le ultime scelte. La fidelizzazione del pubblico è importante per chi sceglie da che parte stare.

Fra le varie attività che porti avanti c’è l’assiduo contatto con le generazioni più giovani attraverso gli interventi nelle scuole. Di cosa hanno “fame” i ragazzi che incontri?

Hanno fame di autenticità e incontrare i ragazzi soprattutto delle scuole professionali è il modo migliore per testare te stesso. Loro non ci cascano, con loro non puoi barare. Le scuole di frontiera mi piacciono. Spesso sono frequentate da alunni provenienti da altri paesi, da altre storie e strade che credono ancora nell’istruzione perché vedono l’ usibilità del sapere, cerco, se possibile, di evitare i licei classici.

Per finire tornando al libro: “Santamamma” è edito da Fandango, che è anche una casa di produzione cinematografica importante, è previsto un film tratto dal tuo romanzo?

Il romanzo drammaturgicamente si presta a diventare un film.

Sono quasi le 18,00, l’ora di andare in libreria. Per tutto il tempo dell’intervista gli occhi di Giulio Cavalli hanno brillato di onestà a confermare con lo sguardo ogni parola detta. Per tutto il tempo dell’intervista mentre muoveva le mani nel raccontarsi le parole “Stay Human “ tatuate sul suo polso ci hanno accompagnato così come nell’intenso incontro che Giulio ha avuto col suo pubblico in libreria. Forse sono proprio quelle parole, tatuate anche oltre la pelle, che rendono i suoi libri, le sue chiacchierate, i suoi monologhi, i suoi articoli, le sue parole così penetranti e necessari.

«Straordinario»: Gabriele Ottaviani recensisce Santamamma per “Convenzionali”

di Gabriele Ottaviani (fonte)

E via. Quel pomeriggio partecipai a un convegno sull’evoluzione della figura del clown nell’impegno civile. Tairo non si reggeva in piedi e non venne nemmeno portato alla scrivania dei relatori. Io dissi dell’importanza di credere in se stessi e della forza della risata contro il potere precostituito e i prepotenti. Mi scappò anche un cenno sull’incompatibilità tra il personaggio e la persona. Cerchiamo sempre di arrivare alle persone ma poi ci lecchiamo subito il personaggio che abbiamo fatto di noi stessi, così dissi. Grandi complimenti per l’umiltà, scrissero i giornali. Il rettore dell’università di cui eravamo ospiti mi offrì di tenere un corso di sociologia e poi, preso dall’entusiasmo, mi offrì anche una laurea ad honorem. No grazie, gli risposi, senza sorriso, al massimo mi servirebbe un diploma in pianoforte, se vi avanza, da regalare a mio padre per il suo compleanno. Mi guardarono perplessi. Che matto che è Gatti. Che matto. Per forza, è un clown. Mentre autografo i libri un ragazzo in coda mi chiese che lavoro facessi. “Ora, in questo momento, lei, che lavoro fa?”, mi chiese. Non era una domanda astiosa, era proprio una curiosità. I tendini mi si fecero legno, mi sanguinava cuore dai denti. Fu qualcosa di simile a uno svenimento. “Tranquillo, signor Gatti, è una crisi di panico. Tranquillo. È normale, visto lo stress e poi la notizia della morte di Corleone, la paura. Normale crisi di panico. Senta, Gatti, mi firma anche questa copia per mia nipote? Non ci crede che lei è un mio paziente.”

Santamamma, Giulio Cavalli, Fandango. Giulio Cavalli nasce a Milano il ventisei di giugno del millenovecentosettantasette. Per brevità chiamato artista è l’enneasillabo, a voler considerare la sinalefe, che ne sottotitola il nome e ne definisce in maniera a dir poco perfetta la poliedrica personalità sin dalla homepage del suo interessantissimo sito, www.giuliocavalli.net, aggiornato con grande frequenza e attraverso il quale, persino per il tramite di una newsletter – un diario di bordo, per usare le sue parole – molto curata ed efficace, è possibile avere immediatamente una panoramica completa, ritrovarsi immersi e coinvolti nel suo mondo dai mille colori, dalle infinite sfaccettature. Un mondo nel quale rivestono un ruolo fondamentale la coscienza e la consapevolezza, nonché il concetto stesso di testimonianza, di esempio come veicolo di formazione, di educazione, di condivisione con la comunità di appartenenza, simbolo coerente di continuità fra parole e azioni. La sensibilità. La sensibilizzazione. Che è cosa simile ma non identica. L’impegno civile. La convinzione che la politica – non esistono atti umani che non siano politici, ogni azione ricade anche sugli altri – sia un alto ideale e uno strumento prezioso per il bene comune (l’uomo non è fatto per la solitudine), per la giustizia sociale, per l’equità, per la costruzione di un mondo migliore, cosicché, quando sarà il momento, possa essere riconsegnato ai suoi veri proprietari, i nostri posteri che ce l’hanno generosamente affidato in prestito in attesa del loro momento, in condizioni almeno adeguate. La certezza che attraverso l’arte e la bellezza, salvifica per antonomasia, sia possibile far sbocciare il bene, che toglie ossigeno al male. Tutte le molteplici attività di Cavalli sono connotate in maniera decisiva dalle conseguenze determinate da questa Weltanschauung propugnata con vibrante e ammirevole passione, che ha a sua volta effetti sostanziali sull’esistenza dell’attore, scrittore, regista e politico. Scrive per Left, Fanpage, L’Espresso: ha collaborato anche con Il fatto quotidiano. Sedici anni fa, giovanissimo, Cavalli, che nel giugno del duemilanove debutta addirittura al Teatro Augusteo di Napoli con L’Apocalisse rimandata Ovvero benvenuta catastrofe di Dario Fo e Franca Rame, coprodotto dal Napoli Teatro Festival Italia e con il sostegno di Next, fonda la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali: nel corso del tempo con i suoi spettacoli parla al suo pubblico, via via sempre più numeroso e coinvolto, della Resistenza, del G8 di Genova del duemilauno, durante il quale, in conseguenza dei violenti scontri che ebbero luogo nel capoluogo ligure, perse la vita Carlo Giuliani, dell’incidente aereo che nello stesso anno del summit dei potenti succitato, a Linate, costò la vita a centodiciotto persone, di turismo sessuale infantile. Soprattutto, di criminalità organizzata, del processo al senatore Giulio Andreotti per i suoi rapporti con la mafia ma non solo: prima ancora è Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, prodotto insieme dai comuni di Lodi e Gela, con la collaborazione della casa memoria “Felicia e Peppino Impastato” e del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, che vede Cavalli collaborare con Rosario Crocetta e Antonio Ingroia, a renderlo bersaglio delle cosche, in particolare di quelle che sono infiltrate da tempo nel settentrione d’Italia dove lui vive e lavora, che lo minacciano e lo costringono da anni a essere sotto scorta. Candidato come consigliere regionale indipendente nelle liste dell’Italia dei Valori – che poi lascia per SEL – per la Lombardia, viene eletto con migliaia di preferenze. Santamamma non è semplicemente un racconto in cui la dimensione narrativa si fa veicolo di istanze civili, sociali, culturali, politiche, è una narrazione solida, compiuta, compatta, intensa, emotivamente trascinante e a tratti finanche destabilizzante per la spregiudicatezza della sincerità con cui le parole non solo si manifestano con la concretezza di fatti che balzano subito dinnanzi agli occhi di chi osserva e legge, e non può nemmeno volendo ignorarli, ma instaurano immediatamente una comunione con l’altro, con chi fruisce dell’opera. E se ogni opera porta certamente in sé tracce inequivocabili del suo artefice, perché ogni prodotto umano, proprio perché umano, anche qualora sia edificato con il massimo distacco in realtà non può non testimoniare la firma del suo creatore, che ne ordina demiurgicamente a suo modo e in ossequio al suo gusto e al suo credo la materia costituente, Santamamma si spinge oltre, trascendendo la vacua tassonomia del genere, e alimentendo con nuove acque il letto dell’autobiografismo, mai in questo caso specifico retorico, egoriferito o agiografico, fornendo al lettore un compendio di temi e suggestioni che non possono lasciare indifferenti. Eppure tutto prende le mosse da qualcosa di apparentemente innocuo e insignificante, un foglio lercio che custodisce una verità, quella sulle origini di Carlo Gatti, il protagonista, che nasce con un buco e che cresce amatissimo a Tarrazza, nel Lodigiano. Carlo è un bambino adottato, lo sa, non ha foto da neonato, lo dice subito a chi legge, e chi legge si sente d’improvviso come di fronte a un bivio, senza avere la possibilità di scegliere tra le opzioni perché non conosce in merito a nessuna alcuna indicazione che possa indirizzarlo. Lo spaesamento di fronte al candore di Carlo è lo stesso che hanno la maestra e la bidella, imbrigliate nelle loro frasi di circostanza e nei loro sorrisi ricolmi di buona fede e vacuità, nello splendido e potentissimo incipit, perfettamente coerente con l’intero ritmo, preconizzato sin dalle prime battute, di un tessuto narrativo che somiglia a un’onda che si fa secondo dopo secondo più forte, più piena d’acqua prima di esplodere contro la scogliera. Carlo nel frattempo diviene pianista: ha talento, ma poi molla tutto e si fa clown, prima di assurgere, suo malgrado, quasi, mutatis mutandis, come un novello Zeno che inconsapevole fa la cosa giusta, alla notorietà e al grado d’eroe. Ma non basta ancora: è una nuova agnizione a rivelargli una volta di più quale sia la fondamentale importanza della condivisione, l’unica materia viva capace di colmare quel buco con cui è venuto al mondo, l’unica strada per tornare davvero a casa. Straordinario.

Opera, Viareggio, Milano (con Tempo di Libri): dove sono questa settimana

Fine settimana in viaggio, se abbiamo voglia di incontrarci.

Venerdì sera alle 21 sarò a Opera (CineTeatro Eduardo) per ricordare il procuratore Capo di Torino Bruno Caccia partendo dal bel libro di Paola Bellone “Tutti i nemici del Procuratore – L’omicidio di Bruno Caccia”. Ci saranno anche Jole Garuti (Associazione SAO), David Gentili (Presidente della Commissione Antimafia del Comune di MI), Mario Portanova (Giornalista vicecaporedattore de IlFattoQuotidiano.it) e Davide Foschi, Presidente del Centro Leonardo Da Vinci di Milano. Info qui.

Sabato sarò a Viareggio, alle 18 alla libreria “La Vela” per presentare il mio romanzo Santamamma. Trovate le informazioni qui.

Domenica alle 13.30 ci si vede a Tempo di libri per parlare dell’essere figli e dell’essere genitori, sempre con Santamamma tra le mani. Trovate tutte le informazioni qui.

Di libri, traduzioni e vanità

(Francesco Pacifico su Studio scrive di libri e traduzioni:)

La traduzione ha un ruolo cruciale nella vita di un romanzo. Non è solo per il fatto ovvio che senza traduzione chi non parla quella lingua non può leggerlo: è anche perché i traduttori sono i migliori editor di un libro. Le critiche più sottili e mirate a un mio romanzo le ho ricevute da chi l’ha tradotto. Nessuno legge un libro più attentamente di chi lo traduce. Lo scrittore è troppo legato al testo, e dovrebbe far passare anni prima di poterlo analizzare con la lucidità con cui fa le pulci a un libro altrui. L’editor e il redattore leggeranno il più attentamente possibile, ma non potranno mai essere diabolicamente lenti e problematici come il traduttore, che deve riflettere su ogni giro di frase, descrizione o metafora. I lettori, poi, hanno il diritto di non pensarci troppo e se criticano un romanzo lo fanno soprattutto per il gusto di farlo, non per aiutare lo scrittore a migliorare, quindi le loro critiche saranno spesso inservibili.

Sono arrivato a pensare che un romanzo non è davvero finito finché non è passato nell’ingiusto colino di un’altra lingua. Il che è davvero paradossale e dice molto del fascino ambiguo del romanzo come forma d’arte. Quando leggiamo un romanzo straniero davvero bello, in qualche misura ci dispiace non conoscere il vero sound dell’autore: “Eh ma non l’ho letto nell’originale”. Dal punto di vista del lettore, il vero suono, sapore, colore di una lingua è nell’originale, e il lettore innamorato dei libri conserverà sempre il rimpianto di non parlare il russo. Ma dal punto di vista dell’autore, la traduzione mostra la tenuta del libro. Una fazione delle guerre ideologiche sulla traduzione considera la letteratura più o meno come il cibo: che senso ha provare a cucinare un piatto in un’altra parte del mondo, dove gli ingredienti sono diversi o hanno un altro sapore? Se il romanzo fosse al cento percento paragonabile alla cucina, questa fazione avrebbe assolutamente ragione. (Per principio io non ordino mai un piatto a base di mozzarella fuori dal centro-sud Italia.)

(continua qui)

Di romanzi difficili e “pubblici da coltivare”

Definitivo Giulio Mozzi (acuti  come sempre) su letteratura e pubblico:

E poi, non posso dimenticare il giorno in cui un dirigente di Einaudi (mica di Newton Compton), alla mia disperata domanda: “Ma insomma, che cosa volete che vi proponga?”, mi rispose: “Mi dispiace dirlo, ma vorremmo dei libri non tanto grossi, con un protagonista nel quale ci si possa identificare senza indugi, una vicenda lineare, e alla fine un messaggio di conforto”.

Giulio Mozzi prova a sviscerare il senso dell’ostile nella letteratura in un post che ha aperto una bella discussione e, credetemi, vale la pena leggere. È qui.

Per me, per quel poco che conta, vale la frase di un fraterno amico direttore editoriale di un editore ultimamente in classifica che mi disse (di Mio padre in una scatola da scarpe) che era troppo “complesso” per entrare in classifica. So che sta leggendo Santamamma. Chissà che ne dice.

23 aprile, con Santamamma a Milano per Tempo di Libri

“Meraviglie di primavera”. L’ha chiamata così le foto che mi ha mandato, Claudia. Ditemi voi se non ci commuove, ad avere lettori così.

Eccoci a Milano. Il mio libro Santamamma comincia a viaggiare e io, al solito, dietro a lui. Si riattivano le vene che mi legano alle città in giro per l’Italia ed è un viaggio che avevo sperato da tempo. Senza sovrastrutture, senza croste, senza feticismi antimafiosi: con Santamamma in fondo ho la sensazione di tornare a fare il mio lavoro di dieci anni fa quando le storie da raccontare erano il punto centrale.

Basta pruriti di solidarietà: mi arrivano messaggi bellissimi di chi mi racconta quanto ci si è rivisto, di chi mi sottolinea una passaggio o un aggettivo e le osservazioni tornano a essere genuine. Non so se riesco a spiegare che con Santamamma mi scrollo questi ultimi dieci anni: questo sono io. Questo è il mio mestiere.

Nei prossimi giorni aggiorneremo il calendario delle presentazioni (lo trovate qui) ma intanto segnatevi una data: il 23 aprile sarò a Milano per Tempo di Libri, alle 13.30, Sala Tahoma del padiglione 4, alla Fiera di Milano (trovate tutto qui). Poi arriverà Napoli, poi Roma e così un po’ dappertutto. Per organizzare la presentazione vi basta scrivere a spettacoli@giuliocavalli.net.

Mi ha scritto Claudia, una lettrice:

Che dire quando alla fine di un libro lo chiudi e te lo stringi al cuore?
Un libro farcito di frasi “a forma di” sentiero sconnesso, che inciampano pensieri e liberano sospiri…
Caro Giulio, di certo non corri quel “doppio rischio” del “lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore”.
Nessuna noia a rincorrere quelle parole che si mettono in fila veloci, dando vita ad espressioni che non ti aspetti, eppure perfettamente “calzanti” all’emozione da esprimere.
È stato un piacere. Grazie!

Ed ora io che, distratta dalla mia vita, ho scoperto Giulio Cavalli da poco (mi pare proprio sia stato un regalo del Referendum Costituzionale: doppia vittoria!), dopo aver letto due libri speciali (“Mio padre in una scatola da scarpe” il 28 febbraio, d’un fiato, e “Santa Mamma” in questi giorni) resterò qui in spasmodica attesa del prossimo.

Ecco. Anch’io sono in spasmodica attesa di incontrarvi. Tutti.