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Mafia, antimafia, politica e calcetto: una mia piccola intervista

Mirco Sirignano mi ha intervistato qualche giorno fa per Italianews24. Ecco qui:

Giulio Cavalli, “per brevità chiamato artista”. È un attore, scrittore, regista, giornalista e politico, da anni impegnato soprattutto nel raccontare le mafie al nord. Dopo un suo spettacolo, nel 2009, gli viene assegnata la scorta. Ma questa per lui è solo una delle “caratteristiche meno interessanti poiché non è un pregio, non è un vizio o un difetto ma solo una conseguenza”. Ha pubblicato di recente il suo ultimo romanzo, Santamamma (Fandango Libri).

Giulio Cavalli, scrittore, attore, regista, politico impegnato soprattutto contro le mafie. Ne parla nei tuoi libri, nei suoi spettacoli. A che punto è il suo racconto?

Se parliamo di risultati, io credo che abbiamo fatto passi da gigante. Senza fare filosofia, vivo in un territorio in cui dicevano che la mafia non esistesse e finisco sotto scorta perché minacciato dalla mafia (quindi per una cosa che non c’è). Poi però, in quello stesso territorio (Lombardia, nda), mi capita spessissimo di andare nelle scuole, che ritengono l’educazione alla legalità, la conoscenza dei temi mafiosi e antimafiosi, davvero indispensabile. E quindi secondo me uno scatto c’è stato. L’aspetto triste della vicenda è che, ancora una volta, lo scatto è stato solo sociale. Tutto ciò che politicamente è stato fatto, nasce sulla spinta di un movimento sociale che ha obbligato la politica a prendere, o simulare di prendere, posizione. E questo è un pessimo segnale.

Ecco, storicamente al nord le mafie non sono percepite come un problema serio e reale. E’ cambiato il vento?

Sicuramente un’evoluzione c’è stata. Il problema è che ancora oggi il tema mafia non si riesce a declinarlo. Mi sembra incredibile che la politica non capisca che parlare di diritti significa parlare anche di mafie. E parlare di crescita economica, di sviluppo del mondo del lavoro, significa anche parlare di mafie. Invece molto spesso il tema è chiuso in un angolo. È solo una delle bandierine che tutti i movimenti politici vogliono avere.

Qual è il ruolo che gioca il teatro nel racconto delle mafie?

La politica prende decisioni quando semplicemente è troppo impopolare far finta di niente. E quindi il mio ruolo è quello di rendere pop (nel senso pulito del termine) l’indignazione e la pretesa di un’azione politica. Credo soprattutto nel mezzo teatrale, perché ci permette di avere un’attenzione di ascolto che molti altri mezzi non hanno. Oggi il teatro è lo spazio dell’approfondimento.

Già da qualche anno ha intrapreso un percorso politico. Per Lei è stato un passaggio naturale, quello dell’impegno politico, oppure è stato sofferto? Perché magari chi come Lei proviene dal mondo della cultura, sui due binari, quello della politica e quello (appunto) della cultura, si viaggia a velocità diverse.

Il mio è un lavoro molto politico. Perché alla fine, sia che avvenga su un palcoscenico, con un romanzo o con un articolo giornalistico, le mie attività auspicano sempre un cambiamento generale. E le trasformazioni sociali sono politiche. Dal punto di vista dell’esperienza istituzionale, credo di avere fatto molta più politica con la mia professione che da consigliere regionale. Ma questo perché sono convito che ci siano dei meccanismi di scelta della classe dirigente che per me non sono assolutamente potabili. Richiedono compromessi che a me risultano molto difficili. Ma l’impegno poi politico lo ritengo assolutamente indispensabile. Anche la vicinanza a Pippo (Civati, nda) e a Possibile, penso che sia naturale.

La mafia e la corruzione, in un connubio ormai indistinguibile, generano soprattutto ingiustizie e ineguaglianze. Ecco, crede che la sinistra di oggi stia facendo abbastanza?

Mi dispiace, ma sono sconvolto dalla mancanza di responsabilità da parte della sinistra. Prima di tutto perché una parte del popolo è assolutamente analfabeta del tema. Ecco, l’alfabetizzazione di fenomeni così gravi, dovrebbe essere un obbligo per i partiti. Siamo passati dall’avere partiti con una funzione anche pedagogica (Pio La Torre era quello che raccontava la mafia a contadini, questo era il PCI), a sperare che gli stessi partiti “fingano” di imparare. C’è stato un periodo storico in cui la sinistra sul tema delle mafie ha dimostrato una responsabilità superiore. Oggi invece noto un totale distacco.

Quello che sembra mancare è la credibilità. Come la sinistra (o comunque, in generale, chi governa) può essere credibile se poi quando si deve votare su particolari casi (tipo Minzolini, l’ultimo in ordine cronologico) si tirano i remi in barca? Poi le politiche nascono viziate dal pregiudizio della gente.

Esattamente. Tieni conto che essere antimafioso significa essere contro il reato di mafia. Pippo Fava lo raccontava benissimo. Il reato di mafia è sostanzialmente un grumo di egoismo che insegue degli interessi particolari, piuttosto che gli interessi generali. E per essere antimafioso bisogna essere sostanzialmente solidali. Bisogna essere disponibili anche a perdere diritti particolari, se questo permette di raggiungere una crescita dei diritti di tutti. La credibilità si costruisce così.

Manca il senso della collettività.

Certo, la cosa che mi preoccupa non è tanto il federalismo salviniano, che è pittoresco e pericolosissimo, per carità. Però mi sembra assolutamente minoritario. Quello che mi preoccupa è quel federalismo per cui anche molte persone di sinistra sono convinte di dover curare la propria sopravvivenza, di doversi adoperare per le persone più vicine a loro, piuttosto che avere una visione generale.

Mi ha fornito un assist su Salvini. Perché è come se si fosse ribaltata anche l’assunzione delle responsabilità. Parliamo di un partito che negli ultimi venti anni ha governato e tanto. Però quando scende giù a Napoli e la città protesta, Salvini rinfaccia alla gente di protestare solo contro di lui, e non contro la camorra. Quando poi è soprattutto la politica a non ritenere prioritario il contrasto alla criminalità organizzata, che è un tema sistematicamente fuori dal dibattito.

Questo perché dietro il perbenismo, molto spesso, si nascondono le proprie responsabilità. Negli ultimi anni si è abbastanza sbriciolato anche il concetto di lotta. Una parola nobilissima. La storia del movimento antimafia in Italia è una storia di lotta, di scioperi, di recriminazioni, a volte alzando la voce per affermare i propri diritti. Tutte quelle modalità che hanno spinto il movimento antimafia sono improvvisamente divenute fuori moda, se non addirittura osteggiate, anche dalla sinistra. I benpensanti ci dicono che dobbiamo essere collaborativi.

Però c’è anche da dire che negli ultimi anni il movimento antimafioso non gode proprio di ottima salute. C’è stato, forse, anche un po’ di autolesionismo? Mi viene in mente, per esempio, il caso di Maniaci. Crede ci sia, ormai, una mancanza di fiducia anche verso il movimento antimafioso?

È colpa del movimento antimafia o è colpa di un Paese che, a un certo punto, ha pensato che più lunga era la scorta e più credibile era l’antimafioso? Perché Pino Maniaci è diventato, anche a livello internazionale, il profeta unico dell’informazione antimafiosa? Di chi sono le responsabilità?

Certo è un’attitudine tutta italiana quella di delegare ai singoli le massime responsabilità. È successo più o meno lo stesso, almeno dal punto di vista mediatico, con Raffaele Cantone, divenuto ultimo baluardo per il contrasto della corruzione e del malaffare.

Personalmente vorrei un paese in cui Raffaele Cantone (in quanto “Raffaele Cantone”) non esista, ma che tutto il grumo che gli è stato caricato sulle spalle, sia condiviso con i lavoratori pubblici, impiegati bancari, tassisti, eccetera. Da questo punto di vista, a mio avviso l’antimafia ha delle grosse responsabilità. Perché a un certo punto è diventata molto televisiva, ne ha seguito i canoni della comunicazione. Si è molto “mondadorizzata”.

Per concludere, Lei di solito con chi gioca a calcetto?

(Ride)

Come ha interpretato la metafora di Poletti?

Siamo in un paese in cui alle domande “chi sei?” e “che cosa sai fare?” si è sostituita la domanda “chi ti manda?”. Ma questo ben prima di Poletti. Il ministro non è il problema, ma l’effetto. Ogni tanto qualcuno mi accusa di essere troppo vicino alla politica. E la cosa che mi fa sorridere è che sono gli stessi che poi accusano Pippo Civati di essere una percentuale infinitesima nel panorama politico. Quindi diciamo che, da amico di Pippo, da tifoso del Torino, da persona di sinistra, probabilmente ho sviluppato una affezione per l’essere “minoritario”. Per cui ho giocato a calcetto sempre nel campetto sbagliato.

Restando sempre nella metafora, quale partita sta giocando adesso il nostro Paese? Quali sono le due squadre in campo?

Secondo me in campo c’è un pezzo di politica, che nonostante i sondaggi, sta cercando di giocare con la formazione della coerenza, augurandosi che torni prepotentemente di moda. Dalla parte opposta invece centrodestra e centrosinistra giocano insieme (al massimo si dividono le fasce) con il catenaccio, per l’autopreservazione. L’arbitro di questa partita è la Costituzione. E direi che sta funzionando anche abbastanza bene, nel senso che il più grande oppositore politico dei governi degli ultimi dieci anni è stata la Carta.

Forse per questo hanno cercato di “influenzare” l’arbitro.

Che Renzi, alla Moggi, abbia cercato di chiudere nello spogliatoio la Costituzione, mi ha preoccupato fin da subito. Ma è andata bene.

Operazione “Recherche”, gli affari del clan Pesce di Rosarno. Le facce e i nomi.

(l’articolo de Il Dispaccio)

da sinistra: Armeli, Cimato, Elia, Garruzzo, Mangiaruca, Rocco Pesce, Savino Pesce, Raso, Stilo e Scordino.

Non è un caso che l’indagine messa a segno oggi, dalla Squadra Mobile della Questura reggina e dalla Dda, è stata chiamata “Recherche”. Il nome prende spunto infatti, da un’opera letteraria di Marcel Proust, scrittore e critico letterario parigino, molto amato dal boss Marcello Pesce “u ballerinu”. Quando lo catturarono nel dicembre scorso infatti, gli agenti della Mobile trovarono nel suo covo molti libri dell’autore. L’inchiesta prende proprio l’avvio dalle ricerche, degli inquirenti e degli investigatori, del boss di Rosarno che per sei anni è riuscito a darsi alla macchia. Oggi è stata quindi ricostruita la fitta rete dei presunti fiancheggiatori che hanno “aiutato” il boss a sottrarsi alla giustizia, ossia dal 2010 quando i Carabinieri eseguirono il blitz dell’operazione “All inside”. In tutto sono undici le persone fermate su ordine dei pm reggini Luca Miceli, Adriana Sciglio e Francesco Ponzetta. Un’altra, ossia Antonino Pesce, classe 1992 , è attivamente ricercata dalla Mobile. Le accuse contestate agli indagati sono, a vario titolo, quelle di associazione mafiosa, illecita concorrenza con minaccia o violenza, traffico e cessione di sostanze stupefacenti, intestazione fittizia di beni e favoreggiamento personale nei confronti del boss Marcello Pesce, arrestato nel dicembre scorso dalla Polizia. I dettagli sono stati esposti stamani presso la sala “Calipari” della Questura reggina.
“Oggi è una giornata di sole- ha affermato il Questore Raffaele Grassi. Questa operazione evidenzia, ancora una volta la forza dell’autorità giudiziaria e della Polizia nel contrasto alla ‘ndrangheta. L’attenzione degli investigatori è al massimo livello sia sulla piana di Gioia Tauro che in tutta la provincia reggina”.

Le investigazioni, per la cattura del “ballerino”, abbracciano il periodo che va dall’inizio del 2015 al giorno della cattura del latitante, sorpreso all’interno di un’abitazione nel centro del suo paese d’origine, nella disponibilità di Salvatore Figliuzzi, classe 1955 e del figlio Pasquale classe 1976, i quali, arrestati in flagranza di reato per favoreggiamento aggravato, hanno subito patteggiato la pena. Attorno all’ex latitante poi c’era un’organizzazione che non solo assisteva “moralmente” e materialmente Marcello Pesco, ma è riuscita a creare una rete di supporto e di tutela attraverso l’effettuazione delle “staffette” dirette ad evitare l’intervento delle forze dell’ordine sia all’atto dei vari spostamenti del latitante e sia quando i sodali, i familiari e altri soggetti si recavano presso i vari covi in cui Pesce si nascondeva. Inoltre, secondo l’Antimafia, i fiancheggiatori hanno garantito gli incontri tra “il ballerino” e gli altre membri della cosca.
“Pesce non era un boss “in sonno” – ha affermato il procuratore aggiunto Gaetano Paci- era attivissimo e per tutto il periodo della latitanza ha dettato regole e strategie ai sodali attraverso il figlio Rocco Pesce ossia la sua “longa manus” sul territorio. Insieme a lui altro elemento di spicco era Filippo Scordino; entrambi curavano i rapporti con gli intestatari fittizi del settore del trasporto merce su gomma e gestivano altre attività economiche, come aziende agricole e centri scommesse”.
Proprio su questo aspetto si è soffermato Federico Cafiero De Raho, Procuratore reggino. “La nostra Costituzione, ha affermato Cafiero, garantisce la libertà di iniziativa economica, ma dove c’è la ‘ndrangheta questo non è possibile. In Calabria c’è un controllo talmente capillare che le cosche effettuano un controllo asfissiante, asfissiante per la popolazione ma anche per l’economia del territorio. Abbiamo inoltre appurato, che anche le stesse “teste di legno”, che lavoravano per conto dell’organizzazione mafiosa, per commercializzare dovevano essere autorizzate dai capi e nel caso dovevano pagare, pur essendo inseriti nel contesto criminale”.

L’inchiesta “Recherche” poi, ha smantellato i traffici di droga messi in piedi dalle cosche di Rosarno. “Ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale -ha affermato il Procuratore della Dda dello Stretto- che è riuscita a spostare il proprio interessi dalla cocaina alla marijuana poiché sono risultati saldi i legami con i trafficanti della costa orientale siciliana. I Pesce al momento stavano esportando lo stupefacente sulle piazze del cosentino; in due occasioni abbiamo infatti, sequestrato carichi di hashish e marijuana per un valore di oltre 100 mila euro». Le indagini finalizzate alla cattura del latitante sono proprio partite dall’osservazione dei suoi più stretti congiunti come il figlio Rocco Pesce, classe 1988. Secondo il “rampollo” dei Pesce prendeva parte attiva all’organizzazione dedita al traffico illecito di sostanze stupefacenti.

È stata fatta luce su una serie di cessioni di droga riconducibili ad una rete di narcotrafficanti operanti in prevalenza sul territorio di Cosenza, Rosarno e nella provincia di Catania. La base di partenza dell’inchiesta era rappresentata dall’osservazione di due luoghi strategici per il gruppo criminale ossia un centro scommesse e l’azienda agricola “Le tre stagioni” all’interno della quale, il 25 febbraio dello scorso anno, è stato effettuato anche un sequestro di droga (quattro chilogrammi di “marijuana”) riferibile, secondo gli investigatori, a Rocco Pesce ed al suo gruppo da cui emergevano, anche evidenti cointeressenze tra le attività dell’indagato e soggetti del vibonese. Il secondo sequestro inoltre, è stato effettuato l’otto febbraio del 2015 quando agli imbarcaderi di Villa San Giovanni, all’interno di un camion sono stati rinvenuti 67 chili di marijuana e più di 82 mila euro euro in banconote di vario taglio. Da Rosarno la droga viaggiava verso la Sicilia.
Il pm reggini infine hanno sequestrato un imponente patrimonio aziendale riconducibile alla famiglia di Marcello Pesce, che comprende 8 società ed una consistente flotta di mezzi di notevole valore commerciale (come trattori stradali, rimorchi e semirimorchi). La cosca, ancora una volta, era “leader” nel settore del trasporto su gomma e, ancora una volta, l’Emilia Romagna rappresentava una “piazza” appetibile. Attraverso le intercettazioni effettuate a carico dei presunti componenti della cosca, fra cui diverse telematiche attive sugli smartphone, è stato smascherato il sistema dell’imposizione dei trasporti merci su gomma dalla Piana di Gioia Tauro verso diverse località del centro e nord d’Italia e del costo degli stessi.

A “gestire” questo settore, per conto della ‘ndrangheta, era Filippo Scordino, accusato di ricoprire il ruolo di direzione e capo della cosca Pesce. In stretto contatto con Marcello e il figlio Rocco Pesce, l’indagato avrebbe gestito per conto di questi l’ “Agenzia di Rosarno” ossi la propria ditta individuale e la “GETRAL”, impegnate nel campo della gestione e mediazione del trasporto merci su gomma, in regime di sostanziale monopolio a Rosarno e nel resto della Piana.

 

#unlibroalgiorno l’autismo, il cuore, la poesia

Il libro di oggi è poesia. Pura. Di un padre che nell’autismo del figlio scioglie tutto l’amore del mondo. E ce ne parla. Lo trovate nella nostra piccola Bottega dei Mestieri Letterari qui. Eccone un estratto:

Tommy mi cammina sempre davanti, cammina veloce e a volte quasi corre. Devo inseguirlo e non posso permettermi il fiato corto.

Finché un giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un vecchietto che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso pensare che sarò io.

Spero soltanto di avere il sole in faccia se mi capiterà di battere la testa sul marciapiede, non voglio immaginare di vedere Tommy perdersi sul ciglio del mio abisso.

Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di un possibile mio futuro. Non so se sarà mai possibile far capire il disorientamento di noi che viviamo alla giornata, che sgraffigniamo rapaci ogni residuo abbandonato del tempo altrui per farne la nostra festa.

Abbiamo la continua impressione di alimentarci dagli interstizi vitali lasciati incustoditi dal resto del mondo, cioè da quelli che non hanno autistici per casa, che avranno pure una serie infinita di problemi, sicuramente, ma li vivono in un tempo condiviso.

Noi siamo convinti che per gli altri ci sia sempre la possibilità di riappropriarsi di un tempo personale, di poter vivere dei periodi, dei giorni, delle ore senza dover rendere conto al fardello filiale della propria assenza.

Non è detto che sia così in assoluto, anzi mi rendo conto che quest’idea della fatale reclusione a vita sia qualcosa che lambisce il delirio. Chi invece la pensa come me sia il benvenuto; questo passa per la testa di un genitore di autistico, almeno da quando comincia a essere consapevole di essere stato contagiato da suo figlio e di non osservare più il resto del mondo con lo stesso sguardo che potrebbe avere qualsiasi altro suo simile.

Io adocchio molti miei colleghi genitori d’autistici mettere in atto strategie di difesa molto efficaci, tipo prendersi spazi di libera uscita, fisica e mentale, negoziando con il partner o chi per lui una cogestione condivisa dei turni di sentinella. Confesso d’averci provato più volte anch’io, ma di non esserci mai riuscito, almeno con soddisfacente risultato.

Tommy spesso è in grado di creare in mia temporanea assenza microcataclismi programmati con tale cronologia distruttiva che magari, appena mi siedo al tavolino di un pub e ordino una birra, lui già ha fatto in modo di agganciarsi a un filo d’ansia avvertito nella madre e allora sono costretto ad alzarmi e seguire il messaggio d’aiuto di chi sta a casa. E anche se la telefonata o l’sms di richiesta d’intervento immediato non arrivano, oramai non mi godo più nulla.

Tutto sembra troppo condizionato da circostanze imprevedibili, fino a farmi venire la tentazione d’evitare per principio qualunque attività di quelle che potrei dedicare solo al mio star meglio; parlo di cose semplicissime: una palestra, una cenetta allegra, una bella bevuta, una piccola vacanza senza pensieri di cosa si mangia, di dove si va, delle pillole da prendere sera e mattina, del fai la pipì seduto, adesso dormi, smetti di mugolare… cose che, alla fine, dirle o non dirle cambia ben poco.

Questo è alla base della distruzione progressiva di genitori, di stretti familiari, di persone che hanno un autistico tra le loro necessità quotidiane. Penso che sarebbe molto più facile per chiunque se fra le priorità legate al problema dell’autismo ci fosse anche la conquista di uno spazio temporale per i genitori. cambierebbe tutto anche per i ragazzi, che hanno una sensibilità sin troppo straordinaria per non rendersi conto che è meglio avere accanto una persona il più possibile serena piuttosto che uno spettro vagante.

Molte persone che mi frequentano in maniera più assidua hanno notato che Tommy ha cambiamenti repentini d’umore in ragione del mio stato d’animo, che è già di sua natura molto ondivago e mutevole. Per questa ragione faccio salti mortali per trovare spunti di vita che mi gratifichino: se io sono di buon umore, gestire Tommy è quasi una passeggiata.

È sempre difficile farmi capire quando parlo d’autismo: in genere intuisco che la misura dell’attenzione del mio interlocutore è vicina allo zero e, anche quando vengo ascoltato, mi resta addosso l’impressione che solo per uno scrupolo di cortesia sono stato seguito.

Alla fine, come tanti prima di me, mi stancherò di parlarne e farò definitivamente l’autistico tacendo. Sono nauseato dal pressappochismo degli improvvisati, dalla cialtroneria dei millantatori, dall’ottusità degli amministratori; assieme a molti miei colleghi genitori con la lanterna accesa cerchiamo il grande saggio che ci dia risposte sul come, sul dove, sul quando.

Tra noi genitori, i più inclini all’abbandonarsi allo sconforto decidono di studiare… E allora è finita veramente! Il genitore dotto è un genitore indottrinato, diventa il rappresentante di una categoria che fuggo all’istante, salvo rare ed eccellenti eccezioni. Così a volte, anzi spesso, mi chiedo perché io stia qui a dedicare tanta parte del mio tempo a questo tema, con la presunzione di portare alla luce una fetta grossa di umanità che tutto sommato moltissimi vorrebbero adombrata, non sofferente magari, ma lontana da chi deve correre veloce e non vuole zavorre.

Ricordo esattamente quando concepimmo Tommy. Era un pomeriggio di primavera avanzata, stavamo in una camera con le finestre sul vicolo medievale di via dei Priori, una delle volte che ero passato a trovare i miei genitori a Perugia, quando ancora sopportavo di avere una famiglia d’origine.

Filippo non c’era, forse l’avevamo lasciato dai nonni. Natalia mi disse: «Adesso facciamo il fratello»; come già era accaduto la prima volta, su precisa e ineludibile sua richiesta restò immediatamente incinta.

Nei primi anni della sua vita dedicavo il mio poco tem- po a casa ad ammaestrare Filippo, che chiamavo «il bambino cavia» perché ambivo di farne un nativo digitale prima ancora che questo termine fosse coniato.

Naturalmente è venuto fuori un poeta e studioso d’ideogrammi giapponesi, molto poco appassionato ai segreti del codice binario. Su Tommy non avevo progetti, ma nemmeno sapevo che io sarei stato il suo progetto. Così oggi amministro la mia irrituale eterna giornata di padre frammentato. Ho nostalgia di tutto e tutto allo stesso tempo mi avvelena.

Mi piacerebbe poter tornare alle belle vacanze spensierate in cui si stava un mese al mare assieme. Mi piacerebbe tornare a quei natali in cui andavo a raccogliere il muschio tra la neve strappandolo da sotto le querce imbiancate, assieme ai bambini per poi fare il presepe. Mi piacerebbe tornare a quei sabato pomeriggio ai parchi, con due tipi di pannolino nelle tasche del giubbetto per due piscioni di taglia diversa, Tommy nel passeggino e Filippo in piedi sul predellino dietro e io che spingevo e facevo il cretino con le mamme fingendomi imbranato e chiedendo istruzioni su come cambiare Tommy, in famiglia detto, meritatamente, «Spadone».

Piccole infamità innocenti per passare il tempo della fierezza, che è durato fino a che non è iniziato quello dell’angoscia, seguito da quello dell’accettazione e ora da quello della simbiosi. Le giornate sono sopportabili perché Tommy è senza dubbio la mia migliore compagnia, per il resto vedo solo macerie tenute assieme perché così si deve.

Penso che mi piacerebbe fare un viaggio con mio figlio, ma poi non so se avrei voglia di tornare nel mio paese. il Censis, nel rapporto che ho già citato, conferma quello che tutti noi sappiamo: un italiano su quattro dice di non aver mai avuto a che fare con persone disabili, che nel 2020 saranno quasi cinque milioni.

È mai possibile che cinque milioni di famiglie interessante non diano tracce evidenti della loro quotidiana sofferenza? Tra loro poi come possono sperare attenzione gli autistici, che restano pressoché invisibili? Sempre il Censis afferma che il novantotto per cento dei disabili adulti è a completo carico delle loro famiglie, non credo che per lo specifico degli autistici la statistica possa essere diversa, se non per una percentuale più alta di «inclusione a vita» nella famiglia di chi è affetto da questo problema.

Quello che avverrà poi non abbiamo voglia di dirlo, ma lo sappiamo bene noi che abbiamo figli stralunati attaccati addosso. Lo sappiamo perché ci siamo incamminati lungo una strada di cui non vediamo la fine: possiamo solo andare avanti, anche se lungo il percorso ci perdiamo le persone a cui più teniamo.

Qualcuna prende strade laterali, altre si siedono perché non ce la fanno più. Noi dobbiamo procedere senza far caso al paesaggio che cambia, al tempo che passa, ai pensieri che si dissolvono. Dobbiamo guardare avanti ed evitare gli specchi, ed è facile che un giorno potremo non riconoscere più quel volto che riflettono.

Dobbiamo camminare e sentirci forti nei muscoli, pronti sempre a combattere, voraci nel predare ogni barlume di piacere che scorgiamo lungo il nostro sentiero. Non dobbiamo pensare d’essere santi, non ci salverebbe dare un senso superiore alle nostre rinunce: dobbiamo restare arrabbiati ma sereni, tanto alla fine qualcosa ci inventeremo e riusciremo a sopravvivere a tutti quelli che oggi ci sembrano liberi, spavaldi e indifferenti.

Sarà necessario per noi restare vivi il più possibile, ce lo impone l’unico compagno con cui divideremo fino in fondo il nostro viaggio. Che, di sicuro, non ci lascerà mai soli.

Sa bene che, se smarrisse noi, sull’universo intero per lui calerebbe la tela. Alla fine, e nonostante tutto, resto convinto che avere un figlio autistico che ti cresce accanto è una delle migliori opportunità che ci possano capitare, per non annoiarsi mai. Nessuno potrebbe tenerci in allenamento a ben vivere come lui, che ci corre a fianco sempre più veloce; anche se tu senti che stai rallentando.

Sai che un giorno ti fermerai per naturale andamento delle cose, ma lui non potrà mai oltrepassarti. Quando sarai fermo lo sarà anche lui e ti aspetterà. Ti aspetterà anche se tu ti fossi fermato per sempre.

(Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

Santamamma. La recensione (bellissima) di Ilaria Bonaccorsi per Left

(pubblicato qui per Left, di Ilaria Bonaccorsi)

«Ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio».

È quasi la conclusione di Santa Mamma, il nuovo libro di Giulio Cavalli (Fandango libri). Forse la sua paura più grande. E solo oggi, solo adesso, chiuso il libro, mi rendo conto del rischio – doppio – che si è preso Giulio. Una storia di sangue e cuore la sua, una storia intima, privata a tal punto da farti vergognare mentre la leggi. Perché lo cerchi tutto il tempo, cerchi Giulio, quello che arriva in riunione di redazione e a volte ti strizza il cuore per il casino che ha dentro, altre ti riempie di parole fino a confonderti. Cerchiamo umanità insieme su Left dal 2015. “Interviste umane” le chiamiamo le sue. Quelle dove cerchi la bontà. Sono i buoni che vogliamo trovare insieme io e Giulio, anche se non vanno di moda, come mi dice sempre. La bontà non va di moda. Abbiamo firmato le copertine più assurde con Giulio Cavalli, persino una che si intitolava “Elogio della gentilezza”. Ma questo è Giulio Cavalli ed è perfetto per Left, gliel’ho sempre detto. E quando ho letto il suo libro ho capito il senso intero, quello grande, quello che gli fa cercare i buoni. Non gli eroi, i buoni, quelli che sentono il buco ma non lo hanno. E capisco, dopo aver letto Santa Mamma, quanto debba averlo sentito quel buco, e quanto abbia scavato, terrorizzato dal trovare il vuoto. E invece nessun vuoto. Al massimo un gran casino, un casino magnetico che ti fa divorare la storia di Carlo Gatti, il suo protagonista.

«Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco».

La storia di un bambino adottato all’età di tre anni, eroe per caso e poi per finta, di un fratello e di una ribellione. La sua storia? Forse. Mentre leggo mi ritrovo a pensarlo, e mi spiace spiare, ma sento il rischio.

«Sì, ma nessuno si mette a leggere i tuoi miseri vizi privati. Nessuno si prende la briga di capire i tuoi drammi così patetici. La tua grandezza era solo la grandezza dei tuoi nemici. Non del fratello matto o delle tue paturnie».

Lo dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti che l’eroe non lo vuole più fare. Lo ha pensato Giulio? Ha pensato di essere un buco grande quanto la grandezza dei suoi nemici? Forse. Conoscevo, conosco Giulio, sono due anni che scrive ogni giorno per Left, ma non mi aspettavo un libro tanto bello. Tanto perfetto. Scusatemi per la sorpresa e anche l’emozione. Ho pensato di non scriverlo, ho pensato persino di dare il libro a un mio redattore e di lasciare sgonfiare il mio cuore con calma. Ma a Giulio lo devo e forse gli devo anche delle scuse perché non ho capito subito, non ho visto subito.
Un libro buffo e uno serio. Un libro su un Matteo e un libro su se stesso. Questo aveva proposto. E la risposta è stata scontata. Su te stesso. Non restava allora che tuffarsi per lui. Senza paura? No, con la paura di annegare per «quella placenta che gli si era seccata addosso», alla nascita a lui bambino «appaltato». Dovrò fare uso di psicofarmaci, mi ha detto scherzando. E ha inalato fumo alla vaniglia dalla sua sigaretta elettronica, poi è sparito. Inutile inseguirlo, era andato nel “suo buco”. C’era solo da aspettare.

Ci sono frasi o momenti in Santa Mamma che ti straziano il cuore (ma non posso e non voglio spoilerare la storia!), ci sono espressioni che non avevo mai letto prima, come «ha due occhi che mi prendono per i capelli», c’è un modo di usare la lingua che ti tira dentro e poi ti mette fuori, a leggere soltanto quello che solo lui ti racconta.

«Ti dimenticheranno in poco tempo» dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti «nato con un buco». Invece Giulio io penso che non ti dimenticheranno in poco tempo perché il libro è indimenticabile. Mi hai fatto “scendere dal mio naso”, come scrivi di te stesso, più e più volte e mi hai portato nella tua vita. E ho pensato quello che hai scritto per tuo fratello di noi due:

«Però non ci capisce nessuno vero?». «Adesso cominciamo. Cominciamo adesso».

Io il libro di Giulio Cavalli non so raccontarvelo, posso solo pregarvi (passatemi il termine!) di leggerlo.

Santamamma, l’incipit

(Il mio libro Santamamma è in libreria per i tipi di Fandango Libri e questo è l’incipit. Buona lettura.)

Foto non ne ho

Domani portate una vostra foto da piccoli, ci aveva detto la maestra. Forse prima elementare: di solito è lì che si inizia con la perversione dell’inculcare la meraviglia per la natura col diventare grandi, con la polpa che si aggiunge a polpa e i peli che si fanno capelli. Portate una foto da piccoli, la maestra si chiamava Anna, che dobbiamo fare un lavoretto; e la classe già inebriata dal pensiero di forbici, carta a strisce e colla secca sui polsini del grembiule.

Io invece no. Io non ce l’avevo una mia foto da piccolo.

Non l’ho mai avuta perché sono stato piccolo al massimo a due anni e mezzo: prima niente foto, niente tutine, niente ciucci da tenere sotto teca e nemmeno le prime scarpine slacciughente e uncinettate. La mia prima foto sono io, verso i tre anni, seduto sui gradini di un giardino con la ghiaia al posto dell’erba mentre spingo una macchinina fuoristrada rossa con la ruota di scorta avvitata sul tetto. Indosso una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse, pantaloni rossi e lo sguardo abbacinato. Sarò stato colpito da tutto quel troppo rosso o forse dalla violenza di chi martella ruote sui tetti delle auto; mi sono dato questa spiegazione per giustificare la torvatura della faccia. Niente per cui strapparsi lacrime a inizio del capitolo, intendiamoci: la fotografia, pur tardiva, svolge serenamente la funzione delle nostre foto da piccoli e ogni sputata volta c’è qualcuno che mi trova perfettamente somigliante a uno a caso dei miei figli. Tutto a posto. Qualcuno spericolato vede anche qualcosa di spiccicato “alla mamma” e fa niente che io sia stato adottato: io e lei ci guardiamo e in silenzio ci diciamo che no, che non vale nemmeno la pena di dirglielo, e in silenzio ci diciamo che va bene così. Mica vorrai frantumargli l’eccitazione.

La foto per la maestra Anna comunque non ce l’avevo e già allora non avevo il fisico per inscenare un dramma che non mi sfiorava per niente. Piansi. Iniziai a piangere nel modo meno credibile di tutta la mia vita con un lamento bitonale come una sirena dalle batterie scariche. Per mancanza di lacrime mi misi anche le mani sulla faccia simulando una lentezza straziata e producendo singhiozzi con colpi di pancia: devo essere stato uno spettacolo orribile se è vero che la maestra Anna, con il solito fragore degli adulti che hanno paura dell’oscenità di un pianto in pubblico, si è alzata dalla cattedra per soffocarmi di consolazione.

Dovremmo essere tutti femministi

(Terrorizzato dall’idea di essere oggi l’ennesimo uomo che si infila nella retorica dell’8 marzo lascio lo spazio del mio buongiorno alle parole che la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie pronunciò nel 2013 durante una TED Talk. Molto meglio lei, credetemi.)

 

Dovremmo essere tutti femministi.

Dunque, mi piacerebbe iniziare parlandovi di uno dei miei più grandi amici, Okuloma Mmaduewesi. Okuloma viveva nella mia strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, chiedevo l’opinione di Okuloma. Okuloma è morto nel tristemente noto incidente aereo di Sosoliso, in Nigeria, nel dicembre del 2005. Esattamente quasi sette anni fa. Okuloma era una persona con cui potevo discutere, ridere e parlare apertamente. È stata anche la prima persona a chiamarmi femminista. Avevo circa quattordici anni, eravamo in casa sua, discutevamo. Entrambi infervorati con informazioni a metà prese dai libri che avevamo letto. Non mi ricordo su cosa vertesse questa discussione in particolare, ma ricordo che mentre continuavo ad argomentare, Okuloma mi guardò e disse: “Sai, tu sei una femminista.” Non era un complimento. Potevo capirlo dal suo tono, lo stesso tono che si usa per dire cose del tipo “Sei una sostenitrice del terrorismo.” Non sapevo esattamente cosa questa parola “femminista” significasse e non volevo che Okuloma capisse che non ne avevo idea. Allora l’ho messa da parte e ho continuato a discutere. E la prima cosa che avevo intenzione di fare, quando sono tornata a casa, era di cercare la parola “femminista” nel dizionario.

Ora, andando velocemente avanti, arriviamo a qualche anno più tardi. Ho scritto un romanzo su un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie e la cui storia non finisce molto bene. Mentre stavo promuovendo il romanzo in Nigeria, un giornalista, un uomo gentile, ben intenzionato, mi ha detto che voleva darmi un consiglio. E, mi rivolgo ai nigeriani qui, sono sicura che abbiamo tutti familiarità con la velocità con cui le persone forniscono consigli non richiesti. Mi disse che la gente riteneva che il mio romanzo fosse femminista e il suo consiglio per me – e stava scuotendo la testa tristemente mentre parlava – era che non mi sarei mai dovuta definire una femminista, perché le femministe sono donne infelici che non riescono a trovare marito. Così ho deciso di definirmi una “femminista felice.” Poi una docente, una donna nigeriana, mi disse che il femminismo non era la nostra cultura, che il femminismo non era l’Africa e che mi definivo una femminista perché ero stata corrotta dai libri “occidentali.” E mi ha divertito, perché un sacco della mie prime letture erano decisamente non-femministe. Penso di aver letto ogni singolo romanzo rosa della Mills & Boon prima ancora di avere sedici anni. E ogni volta che provo a leggere quei libri chiamati “classici femministi”, mi annoio e faccio davvero fatica a finirli. Ma ad ogni modo, dal momento in cui il femminismo era non-africano, ho deciso che mi sarei definita una “felice femminista africana.” Ad un certo punto ero una felice femminista africana che non odiava gli uomini, che amava i lucidalabbra e che indossava i tacchi alti per se stessa, ma non per gli uomini. Naturalmente molte di quelle cose erano ironiche, ma la parola “femminista” ha un bagaglio così pesante, un bagaglio negativo. Odiate gli uomini, odiate i reggiseni, odiate la cultura africana, quel genere di cose.

Ora, eccovi una storia della mia infanzia. Quando ero alle elementari, la mia insegnante disse all’inizio del quadrimestre che avrebbe dato alla classe un test, e chi avrebbe realizzato il punteggio più alto sarebbe diventato capoclasse. Bene, essere capoclasse era una cosa importante. Se diventavi capoclasse, dovevi scrivere i nomi di chi faceva rumore, e già soltanto questo dava un grande potere. Ma la mia insegnante dava anche un bastone da tenere in mano mentre si camminava in giro e si controllava la classe da chi faceva rumore. Ecco, naturalmente non era permesso usare il bastone, ma era una prospettiva entusiasmante per la bambina di nove anni che ero. Volevo così tanto essere capoclasse, e ottenni il punteggio più alto nel test. Poi, con mia sorpresa, la mia insegnante disse che il capoclasse doveva essere un ragazzo. Si era dimenticata di fare prima questa precisazione perché riteneva fosse ovvio. Un ragazzo aveva avuto il secondo punteggio più alto nel test e lui sarebbe diventato capoclasse. La cosa ancora più interessante di questa faccenda è che il ragazzo aveva uno spirito dolce e gentile e non aveva alcun interesse nel pattugliare la classe con un bastone. Mentre io, ero piena di ambizioni per farlo. Ma ero femmina e lui era maschio, e così divenne il capoclasse. E non ho mai dimenticato quell’episodio.

Mi capita spesso di fare l’errore di pensare che se qualcosa che è ovvio per me, lo è altrettanto per chiunque altro. Ora, prendete il mio caro amico Louis , ad esempio. Louis è brillante uomo progressista, e facevamo delle conversazioni in cui mi diceva : “Io non so cosa intendi quando dici che le cose sono diverse o più difficili per le donne. Forse in passato, ma non adesso.” E non capivo come Louis non riuscisse a vedere qualcosa che sembrava così evidente. Poi una sera, a Lagos, Louis ed io siamo usciti fuori con degli amici. E per le persone qui che non hanno familiarità con Lagos, ci sono quei meravigliosi soggetti tipici di Lagos, una manciata di uomini energici che si ritrovano fuori dagli edifici e molto platealmente vi “aiutano” a parcheggiare la vostra auto. Ero rimasta colpita dalla particolare teatralità dell’uomo che ci aveva trovato un posto auto quella sera. E così, mentre ce ne stavamo andando, ho deciso di lasciargli una mancia. Ho aperto la mia borsa, ho messo la mano dentro la mia borsa, tirato fuori i soldi che avevo guadagnato facendo il mio lavoro, e li ho dati all’uomo. E lui, quest’uomo molto riconoscente e molto felice, ha preso i soldi da me, ha guardato Louis e ha detto: ” Grazie, signore! ” Louis mi ha guardato sorpreso e ha chiesto: “Perché mi ringrazia ? Non gli ho dato io i soldi”. Poi ho visto che Louis stava cominciando a rendersi conto. L’uomo credeva che, qualsiasi soldi avessi, in fin dei conti provenissero da Louis, perché Louis è un uomo.

Ora, gli uomini e le donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, abbiamo diversi organi sessuali, abbiamo diverse abilità biologiche; le donne possono avere bambini, gli uomini non possono. Almeno, non ancora. Gli uomini hanno il testosterone, e sono in genere fisicamente più forti delle donne. Ci sono leggermente più donne che uomini nel mondo. Circa il 52% della popolazione mondiale è di sesso femminile. Ma la maggior parte delle posizioni di potere e prestigio sono occupate da uomini. La Premio Nobel per la Pace, recentemente scomparsa, Wangari Maathai, lo ha descritto in termini semplici e efficaci quando ha detto:

“Più alto si va, meno donne ci sono.”

Nelle recenti elezioni americane abbiamo sentito più volte della legge Lilly Ledbetter. E se andiamo oltre il bel nome allitterativo di questa legge, vedremmo che trattava di un uomo e una donna che fanno lo stesso lavoro, ugualmente qualificato e dove l’uomo viene pagato di più perché è un uomo. Così, in modo letterale, gli uomini governano il mondo. E questo aveva senso migliaia di anni fa. Perché gli esseri umani vivevano allora in un mondo in cui la forza fisica era l’attributo più importante per la sopravvivenza. La persona fisicamente più forte era la più adatta a comandare. E gli uomini in generale sono fisicamente più forti; naturalmente, ci sono molte eccezioni. Ma oggi viviamo in un mondo molto diverso. La persona con più probabilità di comandare non è la persona fisicamente più forte, è la persona più creativa , la persona più intelligente, la persona più innovativa, e non ci sono ormoni per questi attributi. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, di essere creativo, di essere innovativo. Ci siamo evoluti, ma mi sembra che le nostre idee sul genere non si siano evolute.

Qualche settimana fa sono entrata nella hall di uno dei migliori alberghi nigeriani. Ho pensato di dire il nome dell’hotel, ma probabilmente non dovrei. E un guardiano all’ingresso mi ha fermato e mi ha rivolto delle domande irritanti. Poiché si suppone automaticamente che se una donna nigeriana cammina in un albergo da sola, allora è una prostituta. E, a proposito, perché questi hotel si concentrano sull’apparente offerta, piuttosto che sulla domanda, di prostitute? A Lagos, non posso andare da sola in molti bar rinomati e nei club. Semplicemente non ti lasciano entrare se sei una donna sola. Devi essere accompagnata da un uomo. Ogni volta che entro in un ristorante nigeriano con un uomo, il cameriere saluta l’uomo e ignora me. E qui qualche donna avrà detto: “Sì, anch’io l’ho pensato!” I camerieri sono prodotti di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più importanti rispetto alle donne. E so che i camerieri non intendono fare uno sgarbo, ma una cosa è saperlo razionalmente, e un’altra è sentirlo emotivamente. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi sento turbata. Voglio dire loro che sono tanto umana quanto un maschio, che sono altrettanto meritevole di riconoscimento. Queste sono piccole cose, ma a volte sono le piccole cose che pungono di più.

Non molto tempo fa ho scritto un articolo su cosa significa essere una giovane ragazza a Lagos e un conoscente mi ha detto: “Era così rabbioso.” Certo che era rabbioso. Io sono arrabbiata. Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Noi tutti dovremmo essere arrabbiati. La rabbia ha una lunga storia nell’apportare un cambiamento positivo, ma oltre ad essere arrabbiata, io sono anche fiduciosa perché credo profondamente nella capacità degli esseri umani nel rinnovare se stessi per il meglio.

Il genere conta ovunque nel mondo, ma voglio concentrarmi sulla Nigeria e sull’Africa in generale, perché la conosco e perché è dove sta il mio cuore. E vorrei chiedere di cominciare adesso a fare sogni e progetti per un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini più felici e donne più felici, più onesti verso se stessi. Ed è così che bisogna iniziare. Dobbiamo crescere le nostre figlie in modo diverso. Dobbiamo crescere anche i nostri figli in modo diverso. Facciamo un pessimo lavoro con i ragazzi, nel modo in cui noi li alleviamo. Noi soffochiamo l’umanità dei ragazzi. Definiamo la virilità in modo molto limitato. La virilità diventa questa piccola gabbia rigida e noi mettiamo i ragazzi dentro la gabbia. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla paura. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla debolezza, dalla vulnerabilità. Noi gli insegniamo a mascherare la loro vera essenza, perché devono essere, come dicono in Nigeria, ” uomini duri!”.

Alle scuole superiori, se un ragazzo e una ragazza, entrambi adolescenti, entrambi con la stessa quantità di soldi, uscissero fuori, ci si aspetta che sia sempre il ragazzo a pagare, per dimostrare la sua virilità. E ancora ci chiediamo perché i ragazzi sono più propensi a rubare i soldi dai loro genitori. Che cosa accadrebbe se sia i ragazzi che le ragazze venissero educati a non collegare la virilità con i soldi? Cosa succederebbe se l’atteggiamento non fosse: “Il ragazzo deve pagare “, ma piuttosto: “Chi ha di più, dovrebbe pagare.” Ora, naturalmente a causa del vantaggio storico, sono quasi sempre gli uomini ad averne di più oggi. Ma se cominciamo a crescere i figli in modo diverso, allora in cinquant’anni, in un centinaio di anni, i ragazzi non sentiranno più la pressione di dover dimostrare questa virilità.

 

(continua su Left)

“Siate realisti: chiedete l’ impossibile”

(di Stefano Rodotà)

“Siate realisti: chiedete l’ impossibile”. Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente – e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’ unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.

È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’ attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalla procedure democratiche alla dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo. Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’ insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’ azione di una molteplicità di attori.

L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia.

Si riscopre l’”utopia concreta” di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari. Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’ abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’ impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.

Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.

In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’ impossibilità di eludere una questione che riguarda l’ antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano – qui distratto, come in troppi altri casi – dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’ esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’ iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.

Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio “diritto all’ esistenza”: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’ effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) – un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.

Un tema tanto significativo per la costruzione dell’ agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’ individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.

È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’ articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’ attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’ effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.

Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza “degna dell’ uomo”, “dignitosa”. Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento – appunto la dignità – compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’ eguaglianza, della solidarietà. Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’ evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi “dannati della terra”, come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.

(La Repubblica, 12 gennaio 2017)

«La mafia è dappertutto». Falso!

Francesco Viganò sul libro di Costantino Visconti (che trovate qui)

1. Un libricino prezioso, questo di Costantino Visconti, inserito in una bella collana di Laterza dedicata agli idòla baconiani. Ai luoghi comuni e agli slogan di cui si nutre la comunicazione politica, ai messaggi che ‘bucano’ in televisione; e alla loro discussione e confutazione con le armi della ragione.

Qui il luogo comune è la pretesa onnipotenza – pervasiva e tentacolare – della mafia nel nostro paese. Un luogo comune alimentato da una certa cultura (e una certa politica) dell’antimafia, funzionale in definitiva a legittimare sempre nuovi strappi alle regole e ai principi dello stato di diritto, in nome di una lotta senza quartiere contro avversari percepiti più come nemici dell’intero ordinamento, che non come criminali. Pericolosi quanto si vuole: ma nemmeno così straordinariamente astuti e intelligenti, come la letteratura e il cinema amano presentarceli.

 

2. L’autore ha le carte in regola per parlare non solo di mafia, ma anche di contrasto alla mafia, avendo dedicato buona parte della sua produzione scientifica a queste tematiche, da vent’anni a questa parte; e avendo, soprattutto, affrontato questi temi non già con lo sguardo asettico dello studioso puro di diritto che si limita a confrontarsi con i principi e i dati normativi, quanto piuttosto con l’avida curiosità di chi – dall’angolo visuale privilegiato di un professore non coinvolto in prima linea nella difesa di alcun imputato – vuole anzitutto comprendere la realtà: fatta di fascicoli processuali, di strategie giudiziarie (delle procure e della stessa magistratura giudicante), ma anche di vicende personali di iimputati eccellenti e di perfetti sconosciuti, di imprese colpite da interdittive antimafia o sottoposte ad amministrazioni giudiziarie, di montagne di beni confiscati e sequestrati non sempre gestiti con la doverosa dose di imparzialità da parte di chi ne aveva la responsabilità. Il tutto muovendo da un passato personale – dichiarato sin da subito al lettore – di esponente dell’antimafia civile palermitana, sin dai tempi dell’università: quando a Palermo si moriva davvero, di mafia.

 

3. Il frutto – necessariamente provvisorio – di questi anni di impegno e di studio è una riflessione disincantata, eppure ancora appassionata, sul senso della battaglia contro la mafia oggi.

Una riflessione che muove – paradossalmente, ma non troppo – dall’affermazione che l’antimafia si è fatta potere, e che come tutti i poteri anch’essa ha bisogno di controllo, e di “controcanto critico”.

Il riferimento polemico non è soltanto agli illeciti asseritamente commessi da taluno in nome dell’antimafia, illeciti contro i quali per fortuna la stessa magistratura ha mostrato di possedere tutti gli anticorpi necessari per reagire; ma è anche alla tentazione di invocare e praticare un uso sempre più massiccio dell’arsenale penalistico, o di strumenti paralleli non meno temibili – dalle misure di prevenzione alle misure amministrative antimafia, in grado di decretare la morte civile di imprese o l’azzeramento di interi corpi politici democraticamente eletti –, al di fuori di una logica di stretta necessità e proporzione rispetto alle pur sacrosante finalità perseguite.

 

4. Sul fronte propriamente penalistico, Visconti dedica speciale attenzione a questioni ben note agli studiosi e ai pratici, a cominciare dalla problematica qualificazione quali “mafiose” di associazioni criminali operanti al di fuori dei contesti territoriali tradizionali, in particolare al nord e, ora, nella stessa capitale, divenuta palcoscenico dal grande processo di “Roma capitale”; e si scaglia – non risparmiando nomi e cognomi – contro chi invoca una generalizzata e acritica applicazione in questi contesti dell’art. 416 bis c.p., e di tutto ciò che la qualificazione come “mafiosa” di questa criminalità si tira dietro, quasi che dietro le prudenze di una parte della magistratura vi fosse una sistematica e colposa sottovalutazione della criminalità mafiosa al nord e al centro della penisola.

Altre perspicue analisi sono dedicate alle strategie di contrasto contro le infiltrazioni delle mafie nelle imprese, e in generale nell’economia legale; e poi al tema spinoso degli intrecci tra mafia e politica – spesso oggetto di indagini e processi conclusisi nel nulla dopo anni di gogne mediatiche –, così come a quello della contiguità alla mafia da parte della “borghesia” rispettabile: fatta di medici, di avvocati, di consulenti commerciali, e persino di sacerdoti accusati di aver celebrato messe per i capimafia latitanti. Una contiguità che evoca naturalmente il tema del concorso esterno, cui lo stesso Visconti ha dedicato in passato una fondamentale monografia, oggi tornato sul banco degli imputati in seguito a una nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

5. Filo rosso che unisce tutte queste analisi – condotte con il linguaggio atecnico di chi vuol far cogliere la sostanza dei problemi a chi, non essendo giurista, abbia tuttavia il desiderio e la giusta pretesa di comprenderequestioni al centro del dibattito pubblico contemporaneo – è la constatazione dell’ineliminabile complessità dei problemi in discussione. 

Una complessità – ci suggerisce Visconti – che non dipende, o non dipende soltanto, dall’oscurità delle norme da applicare, né dalla loro sovrabbondanza o dal loro scarso coordinamento, come istintivamente è portato a pensare il profano, inconsciamente influenzato dall’episodio dell’Azzeccagarbugli manzoniano; ma che dipende, soprattutto, dalle ambiguità e dai chiaroscuri della realtà che quelle norme vanno a regolare.

Proprio queste ambiguità e chiaroscuri, insiste l’autore, rendono arduo il compito del diritto penale: strumento “legnoso” e “anelastico”, che non si accontenta di ombre caravaggesche, ma esige prove solari, luminose, della commissione da parte del cittadino di un “fatto riconducibile a un tipo espressamente e compiutamente descritto dalla legge”.

Quasi banale il rammentarlo: assai meno il farne tesoro nella quotidiana pratica applicativa, specie quando si vuole insistentemente concepire il diritto penale – e in generale l’assieme degli strumenti deputati al contrasto della criminalità mafiosa – come un arsenale bellico contro un nemico giurato dell’intero ordinamento.

 

6. Ma il libro di Visconti non è soltanto, e non è tanto, un libro “contro” – contro la retorica dell’antimafia, o controgli eccessi repressivi compiuti in suo nome. Il suo è anzitutto un libro che guarda agli ultimi decenni della storia italiana – dall’inizio degli anni ottanta, e poi con sempre maggiore nettezza dall’epoca delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in poi – come a un complessivo successo.

Il potere della mafia è stato sfidato seriamente attraverso uno sforzo congiunto dello Stato e della società civile in tutti questi anni, e ne è uscito fortemente indebolito. E ciò non certo per merito di magistrati pronti a sbarazzarsi della toga per improvvisarsi un futuro politico, né di “toghe telegeniche” o semplicemente chiacchierone, che scrivono libri con i materiali delle loro inchieste mentre queste sono ancora sub iudice. Il merito è stato piuttosto, osserva Visconti, di “migliaia di investigatori e agenti delle forze dell’ordine che lavorano in silenzio e colgono piccoli e grandi risultati sul campo […], scovando centinaia di latitanti e rischiando la vita”, così come di “decine e decine di pubblici ministeri che, al riparo dai riflettori, ragionano, si pongono costantemente interrogativi, studiano e al contempo guidano la polizia giudiziaria nelle indagini per poi celebrare i processi, senza parlarne prima sui giornali”; e assieme di “altrettanti giudici che in piena solitudine decidono di infliggere secoli di carcere ai mafiosi oppure di assolvere, magari con il dubbio di restituire la libertà a chi forse non lo meriterebbe ma sapendo che il diritto è e deve rimanere la loro bussola”.

 

7. Il merito forse maggiore è, però, della “marea di gente che dei mafiosi, mafiosetti e dei loro complici non ne può più”: una “minoranza vociante” trent’anni fa, divenuta oggi una “maggioranza silenziosa”.

Splendido il post-scriptum che chiude il volumetto: un piccolo spaccato di intimità domestica, con un paio di dialoghi tra l’autore e i propri figli, che considerano la mafia come qualcosa che appartiene ormai alla storia della loro città, e accusano il padre di essere ancora un “portatore sano” di quella che per loro non è che una malattia, come tutte le altre. Una malattia da conoscere e da combattere, certo; ma che le giovani generazioni sembrano concepire (finalmente!) come altro da sé, come qualcosa di estraneo alla identità palermitana, e – forse – italiana in genere.

Valuterà da sé il lettore se questa diagnosi rifletta soltanto l’inesperienza giovanile, e pecchi così di eccessivo ottimismo. Ma, se non altro, è confortante sentirci dire da un osservatore esperto come Visconti che tanti sforzi e tanto sangue non sono stati profusi e versati invano. Che ne è valsa la pena, insomma; e che ancora varrà la pena di lavorare, al riparo da impropri clamori mediatici ed eccessi repressivi, per contrastare – con le armi della civiltà e del buon senso prima ancora che dei codici – criminali pericolosi e spietati, ma per fortuna non onnipotenti né invincibili.

Il fascino discreto della gentilezza

(Un interessante pezzo Marco Belpoliti su Repubblica)

Paterson abita a Paterson ed è un autista di autobus. Scrive poesie su di un taccuino. Il protagonista dell’omonimo film di Jim Jarmusch è cortese con tutti, anche se a tratti attonito e quasi assente. Lo è con Laura, la sua compagna, con il bulldog inglese che porta a passeggio, con gli avventori del bar dove beve la birra serale, con i passeggeri del bus, con una bambina incontrata per strada. Sembra possedere quella che una psicologa, studiosa della cortesia, Giovanna Axia, ha definito la «capacità di far star bene gli altri».

Non si arrabbia neppure quando il cane fa a pezzi il taccuino delle sue poesie sbriciolandolo letteralmente. S’intristisce soltanto e va a sedersi sulla sua panchina preferita, là dove ha scritto alcune delle poesie migliori (le poesie citate nel film in realtà sono di Ron Padgett, poeta laureato americano). Su quella panchina prende posto anche un giapponese, pure lui poeta. Con la sua gentilezza il nipponico lo indurrà a ricominciare a scrivere donandogli un quaderno.

Il successo di Paterson segna il ritorno della cortesia come qualità apprezzabile? Non c’è solo questo film, ma anche un piccolo libro apparso da poco: Cortesia. Pratiche di gentilezza quotidiana.

L’ha scritto Elio Meloni (Claudiana, pagg. 104, euro 8), insegnante, pedagogista, formatore. Meloni cerca di dare voce a una celebre frase di San Paolo, che ammoniva di far uscire dalla bocca parole buone piuttosto che cattive, «parole che possono giovare a quelli che ascoltano». Una definizione indiretta di cortesia, perfettamente in linea con la cultura cristiana fondata sulla caritas, che ha trionfato per secoli, guerre a parte.

Oggi sembra prevalere l’opposto: odio, risentimento, rancore. Queste emozioni sembrano dominanti nelle nostre società, e non solo in quelle occidentali. Lo psicoanalista inglese Adam Phillips ha sostenuto in un libro pubblicato qualche tempo fa insieme con la storica Barbara Taylor, Elogio della gentilezza (Ponte alle Grazie), che a partire dal secolo XVI il comandamento cristiano «ama il prossimo tuo come te stesso» ha subito un attacco mortale da parte dell’individualismo moderno.

A partire dal Leviatano di Hobbes la generosità cristiana è stata liquidata come un assurdo psicologico, un segno di debolezza, una virtù da perdenti. Dopo due secoli siamo diventati tutti seguaci del filosofo inglese?

Lacan con il suo solito sarcasmo ha suggerito che il dettato cristiano di amare il prossimo come se stessi doveva essere ironico, dal momento che le persone odiano se stesse. Meloni nel suo volume suggerisce di compiere una serie di esercizi, che contrastano “la guerra di tutti contro tutti”; sono piccole pratiche quotidiane, alcune delle quali nel solco della tradizione buddista, proposte dal monaco zen vietnamita Thich Nhat Hanh.

La cortesia non è solo una faccenda occidentale, per quanto la parola che la definisce provenga dal mondo feudale, prima, e rinascimentale, poi: l’amor cortese dei poeti provenzali e stilnovisti e Il Cortegiano di Baldassar Castiglione. Nella filosofia confuciana c’è infatti il “li”, termine che indica buone maniere, riti e cerimonie che hanno come scopo il comportamento rispettoso. Una delle ipotesi da cui parte Axia nel suo libro ( Elogio della cortesia, il Mulino) è che la cortesia sia sociale e non morale, poiché «offre rotte sicure di navigazione nei mari sociali, rotte interessanti, divertenti e a volte proficue».

La cortesia non sarebbe altro che il sorriso espresso con le parole. Chi è gentile e cortese sa mettere da parte i propri desideri e la propria posizione sociale a favore del benessere reciproco. Senza dubbio la cortesia fa piacere e genera socialità. Due secoli fa Goethe nelle Affinità elettive ha scritto: «Non c’è segno esteriore di cortesia che non abbia una profonda base morale (…) C’è una cortesia del cuore che è vicina all’amore. Da essa la più conveniente cortesia del comportamento esteriore deriva».

Origine sociale o morale? Alla cortesia si è educati, ma occorre anche un’inclinazione d’animo. Non è facile mettersi nella testa degli altri, capire cosa pensano, desiderano o vogliono. L’empatia è una dote, oppure un risultato raggiunto con l’esercizio? Paterson fa proprio questo, o almeno così ci fa credere Jarmusch: è empatico. Tuttavia a tratti nel film appare uno stordito, più assente che presente, più preso dai suoi pensieri — la poesia — che da quelli degli altri, compresa la donna che ama. Adam Phillips si è avventurato nelle cantine della gentilezza, e ha provato a far luce lì per capire su cosa si fondi davvero la cortesia. La sua tesi, derivata da Freud, è che sarebbe il nostro egoismo, la mancanza di affetto e di riguardo, a rendere possibile il desiderio, mentre la gentilezza appare la maniera per interrompere il desiderare.

La cortesia opposta al desiderio? Sembrerebbe di sì. Per gli psicoanalisti post-freudiani le cose riguardanti la cortesia e la gentilezza appaiono complicate. Donald Winnicott, ad esempio, ritiene che l’aggressività, opposta alla cortesia, possa essere in qualche modo una forma di amorevolezza, ovviamente quando non è cieco furore generato da un’umiliazione.

Non l’odio, ma piuttosto il sentimentalismo e la nostalgia, scrive Phillips, sono i veri nemici della generosità, da cui nascerebbero cortesia e gentilezza. Per quanto la pratica psicoanalitica istituita da Freud serva a mettere a nudo i nostri imbrogli e i nostri conflitti riguardanti la gentilezza d’animo, Phillips, curatore delle opere di Freud e autorevole autore di libri, sostiene che per la psicoanalisi la gentilezza e la cortesia restano un enigma all’interno dell’evoluzione umana. Di sicuro per lui appare opposta al desiderio.

Compreso quello sessuale? Jarmusch non ci fa vedere Paterson mentre fa sesso con la sua compagna. Ce li mostra a letto, visione dall’alto, al mattino, un giorno dopo l’altro. Una volta lei è persino nuda tra le lenzuola. Lui afferra l’orologio, guarda l’ora — le sei e un quarto —, la bacia teneramente e va a lavorare. Sta pensando alla poesia, come un poeta provenzale.

Scrive poesie, molte d’amore. Ma senza mai fare l’amore. Che abbia ragione Phillips con le sue teorie freudiane?

Caro Laterza, la cultura qui da noi è un chiodo fisso

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Oggi Giuseppe Laterza, presidente della storica casa editrice fondata da suo padre Vito, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano lamenta che “ci sono 5000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire un potere sempre più distante e arrecato” lamentando l’assenza di una politica che sappia “definire i propri valori di riferimento”, che si affidi alla cultura come “dubbio metodico” e chiedendosi dove possano trovare casa (politica) i “2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre”.

È un’intervista densa, quella di Laterza, che al solito rimarrà confinata nel cassetto delle barbose discussioni intorno alla cultura mentre la politica preferisce avvitarsi sui “rimpatri in pochi giorni” promessi da Salvini o sulle multe di Grillo contro l’autonomia di pensiero dei suoi eletti. Noi siamo un Paese così: piangiamo Bauman da morto, ma da vivo lo leggiamo pochissimo e soprattutto lo citiamo senza praticarlo nell’esperienza politica.

Forse Laterza però ha un limite di visione: in questo Paese sono in molti a esercitare studio e pensiero complesso alla politica e già ci sono comunità politiche che credono nella cultura come metodo ancor più di un dovuto punto di programma. Quando abbiamo pensato a come fare crescere questa nostra piccola comunità che è Possibile, abbiamo convenuto tutti che la capacità di elaborare cultura (anche politica) sia l’elemento fondante per uscire dal pantano del populismo da una parte e del bieco realismo dall’altra. Ma decidere di prendere la politica terribilmente sul serio e di studiare le cause prima di confezionare le soluzioni è un percorso impervio e tortuoso. Forse Laterza non sa che quel “mondo della cultura” che invoca come parte attiva in politica spesso è già attivo ma difficilmente raccontato.

Per essere ospiti di una trasmissione televisiva o per comparire sulle pagine di un quotidiano nazionale è richiesta una spendibilità che è più nazionalpopolare e d’immediata indignazione piuttosto che costruttiva e ragionata. Forse non è un caso che molti dei temi di Possibile siano diventati libri proprio perché “scavalcati” da un’informazione terribilmente innamorata dello spot e dalla provocazione. E sono d’accordo con lei che avremmo solo da guadagnarci. Tutti.