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Turchia: chiesto l’ergastolo per la scrittrice Asli Erdogan

Tra 15 giorni sapremo se la scrittrice turca Asli Erdogan (non è parente del presidente) sarà condannata all’ergastolo insieme alla linguista Necmiye Alpay e ad altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filo curdo Ozgur Gundem, considerato da Ankara la voce della propaganda del partito curdo dei lavoratori (Pkk). In carcere dal 20 agosto Asli è accusata di far parte del Pkk, e di avere utilizzato il quotidiano a fini sovversivi, pubblicando immagini e interviste ai terroristi, ponendo in essere propaganda a favore del terrorismo curdo con l’obiettivo di minare l’integrità e l’ordine economico, giuridico e sociale del Paese.

La scrittrice, in passato, ha lavorato come fisica al Cern ed è tornata in Turchia nel 1996 per dedicarsi ai suoi libri e al giornalismo. Dopo l’arresto aveva fatto giungere notizie terribili sulla sua detenzione.

“Mi trattano in un modo che lascerà danni permanenti sul mio corpo – si legge nella lettera pubblicata sul Daily Cumhuriyet -. Il mio pancreas e il mio sistema digestivo non funzionano come dovrebbero ma non mi viene data la medicina di cui ho bisogno. Sono diabetica e necessito di una nutrizione speciale, eppure qui posso mangiare solo yogurth. Soffro di asma e non mi viene concessa l’ora d’aria”.

In solidarietà con la scrittrice alla fine di settembre alcune librerie italiane hanno aderito all’iniziativa “Scrittura libera”, patrocinata dall’Associazione librai italiani, per leggere brani tratti dal suo solo libro tradotto in italiano due anni fa da Keller: Il mandarino meraviglioso.

Il 19 ottobre, al primo giorno della Fiera di Francoforte, il direttore degli Editori e dell’Associazione dei Librai tedeschi, Heinrich Riethmüller, aveva letto una lettera di Asli Erdogan, che gli era stata recapitata.

“Dietro pietre, cemento e filo spinato – come da un pozzo – vi chiamo: qui, nel mio paese, si lascia avvilire la coscienza con un’inimmaginabile brutalità. Si cerca di uccidere la verità, la coscienza viene calpestata con una brutalità incredibile” si leggeva nel testo.

Secondo l’ultima stima dell’osservatorio indipendente P24, sono 144 i giornalisti al momento in prigione in Turchia. Almeno 168 media sono poi stati chiusi dopo il tentato putsch. Tra questi, il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem.

(fonte)

#Left cosa ci abbiamo messo dentro: Nino Di Matteo che vota no

Numero 46 di Left in edicola (o disponibile nello sfogliatore online qui). Dentro ci trovate la mia lunga intervista con Nino Di Matteo tutta sulla riforma costituzionale e sull’aria greve di questa campagna referendaria. Come al solito il magistrato non lesina giudizi e non si nasconde dietro questa “cortesia istituzionale” che ammanta più di qualcuno. Ci dice che la riforma Renzi-Boschi è invotabile perché pensata  male e scritta ancora peggio, ci spiega i rischi che comporterebbe anche per gli equilibri della Giustizia e, soprattutto, ci indica gli articoli della nostra Costituzione che andrebbero applicati piuttosto che riformati.

Il sommario del numero (con l’apertura tutta sui risultati delle elezioni americane) lo trovate qui. Come al solito siamo tutte orecchie per giudizi, suggerimenti e proposte. Buona lettura.

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Nel merito. Ecco le bugie del Sì.

(di Lorenza Carlassare)

Le ragioni del «no» sono persino troppe. Una forte mobilitazione è indispensabile per opporsi a una riforma costituzionale costruita sul falso e sull’inganno che cela la sua reale sostanza, antidemocratica e illiberale, con trucchi miserabili. Lunga è la catena dei «falsi», a cominciare dagli obiettivi dichiarati:

1. Fine del bicameralismo paritario è l’ingannevole slogan. Ma il Senato, in posizione di parità con la Camera esattamente come adesso, partecipa ancora alla più alta forma di legislazione, la revisione della Costituzione e in molti casi alla legislazione ordinaria. Si approvano infatti secondo le regole del bicameralismo paritario leggi di forte rilievo politico: elezione del Senato (art. 55), referendum, Unione europea, ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di senatore, elezioni e ordinamento di comuni e città metropolitane, e altre ancora (art. 70, comma 1). Il Senato, inoltre, in modi vari e differenziati, ha voce sulla legislazione intera.

2. Falso è anche l’altro facile slogan: iter legislativo semplificato, mentre l’unica semplificazione non riguarda il procedimento legislativo, ma la fiducia al governo che sarà data dalla sola Camera. Basta leggere i commi 3-4 del nuovo articolo 70 per rendersi conto di come l’iter legislativo venga «semplificato»: «Ogni disegno di legge approvato dalla Camera deve essere immediatamente trasmesso al Senato», il quale, entro dieci giorni, può disporre di esaminarlo, e, nei trenta giorni successivi «può deliberare proposte di modifica del testo», e in tal caso si torna alla Camera per la pronuncia «definitiva».

Lo schema ha però alcune varianti; a seconda della materia su cui verte la legge e dell’atteggiarsi dei consensi, si prevedono iter legislativi diversi per tempi, termini e maggioranze. In conclusione, per «semplificare», al procedimento attuale si sostituisce una pluralità di procedimenti – sette dice Gaetano Azzariti che ha avuto la pazienza di contarli – più l’ulteriore variante di un possibile intervento del governo nel procedimento legislativo (art. 71, ultimo comma). Incertezze e confusioni apriranno conflitti, che la riforma stessa ritiene inevitabili preoccupandosi di indicare chi dovrà comporli: i presidenti di Camera e Senato d’accordo fra loro. E se non trovassero l’accordo? Una «semplificazione complicante», la si potrebbe definire!

3. È falso che il Senato conti poco e non abbia funzioni di rilievo, come si ripete per toglier peso alle critiche verso la sua inqualificabile composizione (consiglieri regionali che si eleggono fra loro ed eleggono 21 sindaci!). Minimizzarne il ruolo fa parte dell’inganno. Tanto rumore per nulla è l’idea che si vuole accreditare: è inutile perder tempo a discutere sulla composizione di un organo che non conta nulla, che fa cose poco importanti. L’argomento, che si ritorce contro chi lo propone – se il Senato non serve a nulla, perché non abolirlo eliminando le enormi spese di apparato, servizi, sede? – è assolutamente falso.

Il Senato partecipa intanto alla funzione legislativa, la più importante funzione da sempre riservata al popolo sovrano o ai suoi rappresentanti che un sistema democratico non consente sia affidata a un organo scollegato dai cittadini. Proprio questa funzione rende quella composizione più difficile da giustificare, per il costante collegamento di essa con il popolo; un principio antico che attraversa la storia, dai pensatori medievali come Marsilio da Padova, ai massimi giuristi della modernità come Hans Kelsen. L’affermazione di poter fare, da solo, le leggi del suo regno fu una delle accuse a Riccardo II, che poi ritorna negli atti di deposizione di Giacomo II e Carlo I. E su quel principio, risalente agli albori della storia, si basa per intero la nostra struttura costituzionale: la sovranità – disse Meuccio Ruini alla Costituente – «spetta tutta al popolo», e dunque, «il fulcro dell’organizzazione costituzionale» è nel parlamento «che non è sovrano di per sé stesso, ma è l’organo di più diretta derivazione del popolo: e come tale […] ha la funzione di fare le leggi». L’anomala composizione del Senato figlio della riforma, in una democrazia non è assolutamente compatibile con le funzioni ad esso attribuite. Ma il governo non ha consentito ripensamento alcuno.

Al Senato, oltre alla legislazione, restano altre rilevanti funzioni co-stituzionali come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali; e qui, addirittura, grazie alla riforma, il Senato aumenta il suo peso e i senatori diventano determinanti in una scelta tanto delicata per l’equilibrio delle istituzioni di garanzia.

4. È falso che la riforma aumenti le garanzie, come si insiste a dire della modifica delle maggioranze necessarie all’elezione del presidente della Repubblica, organo di garanzia che deve essere super partes. Ad evitare che diventi, invece, espressione della maggioranza di governo la Costituzione esige un ampio consenso: per le prime tre votazioni la maggioranza dei due terzi, dal quarto scrutinio in poi, la maggioranza assoluta dei componenti. La riforma invece, a partire dal settimo scrutinio, prescrive la «maggioranza dei tre quinti dei votanti». La modifica è presentata come un vanto della riforma; sostituendo la maggioranza assoluta (metà più uno) con i tre quinti – si dice – si alza il quorum necessario all’elezione del capo dello Stato e dunque si aumenta la garanzia. Una falsità anche questa, ma il trucco è evidente: la nuova maggioranza richiesta è di tre quinti dei «votanti», non più dei «componenti»; il che fa una bella differenza! La norma svuotata di senso rende agevole al governo e ai suoi fedeli eleggere («portarsi a casa», nel linguaggio del premier e della sua ministra) un presidente su misura. Nel segno del comando, si potrebbe dire, dell’unico comando, che non deve trovare ostacoli sul suo cammino; tantomeno un capo dello Stato indipendente, garante della Costituzione!

Ma è solo un tassello del disegno complessivo. Sempre in tema di istituzioni di garanzia, nella legge di riforma la competenza a eleggere cinque giudici della Corte costituzionale non è più del parlamento in seduta comune; tre li elegge la Camera, che ha 640 membri, e due il Senato che ne ha 100. I numeri parlano. Il divario di potere tra Camera e Senato è evidente, com’è evidente la voglia di mettere le mani sulla Corte attraverso i senatori, «uomini di paglia», la cui obbedienza è persino più sicura di quella di deputati, eletti con una legge truccata, ma pur sempre «eletti» dal popolo.

5. È falso che la riforma costituzionale non cambi la forma di governo. È vero che il testo non ne parla, ma il trucco è proprio qui. La trasformazione risulta da un disegno complessivo il cui perno non è la riforma costituzionale ma la legge elettorale, approvata anch’essa con frenetica velocità perché, senza l’Italicum, la riforma costituzionale non poteva raggiungere l’obiettivo finale: verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti.

Siamo di fronte a un doppio inganno (o doppia «furbata»): il primo sta nel modificare la forma di governo in modo indiretto (e meno appa-riscente) con legge ordinaria, la legge elettorale e il suo bel «premio», perno di tutto. Il secondo inganno sta nell’apparente rispetto della condizione richiesta dalla Corte costituzionale per l’attribuzione del premio, l’indicazione di una «soglia». Ma la soglia del 40 per cento prevista dall’Italicum è del tutto fittizia, è apparenza pura, scritta per non mostrare in modo vistoso il contrasto con la sentenza 1/2014. Il 40 per cento in realtà non interessa a nessuno, è un semplice schermo; se non lo si raggiunge, interviene infatti il ballottaggio per il quale nessuna soglia è richiesta. Il trucco è qui, attraverso il ballottaggio il legislatore ha aggirato la sentenza costituzionale: le due liste più votate partecipano qualunque percentuale abbiano ottenuto al primo turno. Così, anche conseguendo un risultato modesto (il 20 per cento o meno) chi vince piglia tutto, e una minoranza esigua, grazie al premio, può dominare il sistema intero: parlamento, governo, istituzioni di garanzia.

Il ballottaggio è la chiave per cambiare la forma di governo, per arrivare in modo traverso all’elezione diretta del premier. Due liste vi partecipano e, nella competizione a due, il vincitore, forte della vittoria, tenderà ad attribuire al voto popolare il valore di un’investitura personale. Così il ballottaggio, fase finale del procedimento di elezione della Camera dei deputati, assumerà il senso di una decisione popolare finalizzata a investire di potere il governo e il suo capo. Il quale – come già Berlusconi – potrà definirsi «l’unto del Signore».

Senza mutare il testo si supera la forma di governo parlamentare; e non per avvicinarsi al modello presidenziale americano col suo sistema di «freni e contrappesi», di limiti reciproci fra «poteri» rigorosamente separati e indipendenti, ma piuttosto al modello autoritario novecentesco che l’Italia ha costruito ed esportato.

6. È falso che la riforma non tocchi la forma di Stato: la democrazia costituzionale ne risulta travolta. Travolta per primo è il sostantivo, «democrazia». I cittadini alla fine sono rimasti senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro; con le province abolite che però funzionano ma senza un organo eletto dai cittadini; con una Camera dove, alterata la rappresentanza, domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui una simile maggioranza – che può essere una minoranza esigua – è in grado di dominare le istituzioni tutte estendendo la sua influenza oltre la sfera politica, alle stesse istituzioni di garanzia. Così un gruppo di potere può dominare senza trovare limiti politici – le altre forze sono ridotte all’irrilevanza – e neppure limiti giuridico-costituzionali.

Neutralizzati i contrappesi del sistema costituzionale repubblicano, nessun limite infatti è stato creato dal nuovo sistema per contenere l’enorme potere prodotto dai meccanismi distorsivi; nessun freno è posto al concentrarsi di potere nel governo e nel suo capo cui il parlamento non si contrappone, obbedisce. Troppo forte è il vincolo creato dai meccanismi elettorali perché i parlamentari, legati a doppio filo a un vertice da cui dipende la loro rielezione, possano mostrarsi indipendenti.
«Democrazia costituzionale» rischia così di divenire espressione vuota: travolto il sostantivo, è travolto anche l’aggettivo che la qualifica. Il potere, senza limiti e freni, potrà dispiegarsi liberamente, alla faccia del costituzionalismo, della separazione dei poteri, degli «immortali princìpi del 1789», che Mussolini odiava. Non dobbiamo permetterlo!

Il referendum non è – non deve essere – scontro su una persona: non interessa la sorte di Renzi, interessa salvare la «democrazia costituzionale», i nostri diritti, i valori repubblicani. Un triste conformismo vela la vita della Repubblica; la libera stampa, l’informazione tutta già ne risente. Vogliamo liberarci dal pericolo che la nebbia offuschi il nostro orizzonte.

Micromega online, martedì 1 Novembre 2016

Nel merito. La risposta a chi dice che il NO è conservatore. Di Carlo Smuraglia.

Non solo non lo sono, ma sono veri conservatori, invece, quelli che vogliono “conservare” il peggio della politica, lasciando da parte i problemi di fondo; ad esempio: l’attuazione della Costituzione, la garanzia di un lavoro dignitoso, libero e sicuro, la messa in sicurezza del territorio, la custodia e lavalorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e naturale di cui può vantarsi il nostro Paese?

La risposta sarebbe facile; ma poiché molti insistono nel sostenere che il sistema prospettato con la riforma è il migliore possibile e che d’altronde non abbiamo indicato nessuna soluzione alternativa, perché siamo solo capaci di criticare, senza riuscire a proporre nulla di serio, tornerò ad una data insospettabile, assai prima della campagna referendaria e riprodurrò qui il testo di una parte del discorso che ho tenuto al Teatro Eliseo, il 29 aprile 2014, quando si stava cominciando a parlare – appunto – della riforma del Senato e l’ANPI decise di entrare in campo, ponendo una questione, essenzialmente, di democrazia

A fronte del progetto di eliminare il “bicameralismo perfetto”, come se fosse il male peggiore del mondo, osservavo che una correzione si poteva certamente fare, differenziando anche il lavoro delle due Camere, ma ad alcune imprescindibili condizioni, che riproduco testualmente qui di seguito, proseguendo poi col ragionamento conclusivo che ritenevo di svolgere e che trovo, oggi più che mai, valido.

Dunque, le condizioni fondamentali erano cinque:

a) che si mantenga il sistema elettivo

b) che si colga l’occasione per trasformare il Senato in una vera camera Alta, per la rappresentatività, per la qualità dei componenti, per il tipo di funzioni

c) che contemporaneamente si faccia una legge elettorale conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale, sì da ridare possibilità di scelta ai cittadini, consentendo forme effettive di rappresentanza (senza esclusioni eccessive); limitando il premio di maggioranza a misure ragionevoli.

d) che si indichino forme adeguate per qualificare (nel senso di migliorare, per qualità e competenza) la composizione del Senato (autonomia, competenza culturale e scientifica, non interessi corporativi).

e) che si riservino ai regolamenti parlamentari la disciplina dei tempi ed i casi di priorità, ponendo fine al sistema per cui sono i Governi che dettano tutto, perfino i tempi della discussione, sempre in nome della governabilità.

Quanto ai modelli, la scelta è molto ampia, fra i modelli studiati e quelli sperimentati. Va notato, peraltro:

1. Al di là della conta numerica, che non ha significato, il dato è che tutti i Paesi del G8 sono bicamerali; quindici Paesi del G20 sono bicamerali; quattro miliardi di persone su 5,5 (esclusa la Cina, che fa parte a sè) sono rappresentati da sistemi bicamerali: tutte le grandi democrazie adottano il modello bicamerale (un vero modello bicamerale, nel senso che le due Camere hanno pari rilievo e pari autorevolezza), particolarmente diffuso quanto più il Paese è caratterizzato da complessità;

2. I Senati, in genere, rappresentano uno strumento di equilibrio e di riflessione nei confronti della Camera bassa, espressione della maggioranza di Governo;

3. Un bicameralismo vero (ancorché differenziato) garantisce, secondo la diffusa opinione degli esperti e studiosi, una migliore qualità della legislazione e una maggiore stabilità dell’ordinamento giuridico;

4. Sui metodi di elezione, esistono due grandi criteri: Senatori eletti direttamente e Senatori eletti in secondo grado, a cui si aggiunge il gruppo dei Senatori eletti con sistema misto. L’elezione di secondo grado non è mai occasionale, ma è sempre diretta allo scopo specifico di comporre il Senato con persone elette specificamente per quella funzione. Non è concepibile, in nessuno dei Paesi europei, un Senato di serie B, composto di “volontari” elettiper fare altre cose.

5. Il Senato, come strumento di governo delle complessità, si esprime particolarmente attraverso:- la funzione di Camera di riflessione nel procedimento legislativo (salvo alcune materie di rilievo sulle quali si esprime in forma di compartecipazione).

– la funzione di controllo dell’attività di Governo rispetto alla possibilità di “dittatura della maggioranza”; e di trasparente monitoraggio sull’azione dell’esecutivo, sulle nomine, sugli enti pubblici, ecc.;

– la funzione di raccordo ed espressione delle entità e realtà territoriali che costituiscono lo Stato.

6. I processi di riforma del Senato nell’ultimo ventennio, nei Paesi di maggior rilievo, presentano queste caratteristiche comuni:

a) differenziazione tra i due rami del Parlamento

b) specializzazione “alta” delle funzioni del Senato

c) tendenza ad incrementare la democraticità complessiva

d) garanzia di maggiore efficacia nel rappresentare i territori, nei rapporti

di carattere internazionale e nei diritti fondamentali dei cittadini;

e) esigenza di razionalizzazione nei rapporti con l’esecutivo

f) rafforzamento dell’equilibrio dei poteri

g) esaltazione della funzione di raccordo con le realtà territoriali e istituzionali.

In conclusione, i modelli possono essere diversi, ma hanno molte caratteristiche comuni, tra cui il rafforzamento (con funzioni differenziate) di una Camera che deve essere “ALTA” per qualificazioni e per competenze, deve avere funzioni di equilibrio di poteri, deve consentire una piena rappresentatività dei cittadini.

Tendenze che rendono ancora più evidenti le linee da perseguire nel nostro caso, anziché pensare ad una legge elettorale antidemocratica e anticostituzionale; perché il mix di questi fattori (Senato declassato e legge elettorale che dà un potere quasi esclusivo ad una maggioranza di governo) può essere addirittura disastroso, per gli effetti e gli squilibri che può produrre.

Insomma, sui modelli si può discutere, ma sulle linee di fondo no, perché le stesse tendenze in atto dimostrano che in tutto il mondo avanza l’esigenza di rappresentanza e di democrazia, anche per contrapporsi alle tendenze e spinte di una destra autoritaria e populista.

Su questo dobbiamo attestarci, per avere una riforma del Senato non finalizzata al risparmio, ma ad esigenze di funzionalità e di democrazia.

Abbiamo parlato di una “questione democratica” anche e soprattutto per questo. In tutta Europa avanzano tendenze autoritarie e rigurgiti fascisti o neofascisti; c’è una forte tendenza, in diversi Paesi, a restringere le libertà anziché a renderle effettive. Ebbene, questo è il momento di rafforzare la democrazia, in ogni Paese, non di indebolirla; questo è il momento di assicurare più partecipazione e più diritti ai cittadini, perché facciano sentire non solo la loro voce, ma la forte esigenza di rappresentanza e di sovranità.

Questo era il discorso di due anni fa; l’ho riportato almeno nella parte essenziale, perché costituisce – ancora oggi – la ferma risposta a quanti si vantano di essere innovatori e ci accusano di conservatorismo e di incapacità

Nel frattempo, peraltro, nel corso delle audizioni in Parlamento, durante il cammino della riforma, sono stati ascoltati illustri costituzionalisti, che hanno formulato proposte e fornito indicazioni, ma senza essere ascoltati e presi in considerazione.

Il professor Zagrebelsky mandò una lettera, il 4 maggio 2014, alla Ministra Boschi, col suo parere; e non ebbe -come riferisce in un suo recente libro- alcuna risposta, anche solo in ordine alle proposte alternative che venivano avanzate.

Tutto questo non solo smentisce certe accuse, ma la dice lunga circa le reali intenzioni dei promotori della riforma del Senato.

Carlo Smuraglia, Anpinews – n. 222 – 8/15 novembre 2016

Nel merito. Zaccaria: «Ecco i numeri dell’invasione refendaria del governo nell’informazione»

(di Roberto Zaccaria, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Firenze, dove insegna Diritto costituzionale generale e Diritto dell’informazione)

Il presidente del Consiglio, che aveva dichiarato di voler spersonalizzare il referendum costituzionale da ogni collegamento con se stesso e di escludere ogni conseguenza sul governo legata al voto del 4 dicembre, non perde occasione per invadere la tv e di invaderla in prima persona. In questo segue perfettamente le orme del maestro Berlusconi.

Ieri ne abbiamo avuto una dimostrazione esemplare. Tutti i telegiornali, a partire dal mattino, per arrivare a quelli del pranzo e poi all’ora di cena, hanno aperto sull’intervento conclusivo di Renzi alla Leopolda.

Difficile classificare l’intervento nella categoria degli interventi istituzionali. Il taglio è stato piuttosto quello del capo partito, con accenti molto coloriti da super tifoso che non a caso ha definito la partita del referendum come il derby d’Italia. Un modo inconsueto per definire il referendum sulla costituzione, sulla nostra Carta fondamentale.

Pensiamo solo per un attimo se De Gasperi avrebbe potuto usare questa immagine per definire il referendum istituzionale tra monarchia e repubblica che molti evocano proprio in questi giorni. Non contento di questa super presenza, che certamente segnerà un record, nel panorama dei TG, il presidente è corso (uso l’espressione in forma letterale) negli studi de La7 per farsi intervistare (naturalmente da solo) nella nuova trasmissione di Giovanni Minoli, dal titolo Faccia a faccia, collocata alle 20.30 nello stesso spazio di Otto e mezzo di Lilli Gruber.

Forse, come scherzosamente si è detto, per utilizzarne il traino. L’ascolto comunque è stato discreto 4,1% pari a 1.105 mila spettatori. Sul livello del TG di Mentana. Sullo stesso livello della trasmissione della Gruber di sabato (4,2), ma decisamente più basso di Otto e mezzo di Venerdì che aveva raggiunto il 6,6 con 1.673 mila spettatori.

Naturalmente si è parlato molto, direi soprattutto, di referendum anche se Minoli ha provato a ingentilire il discorso con riferimenti famigliari o con spazi dedicati alle private virtù del Premier. Sarebbe interessante soffermarsi sul format che assomiglia alla Mezz’ora di Lucia Annunziata anche se qualcuno ricorderà anche Mixer dello stesso Minoli. A me è parso che non ci sia stato un vero contraddittorio e soprattutto non ricordo una nuova domanda di fronte a una risposta evasiva o sommaria.

Su due diverse questioni voglio però soffermarmi un momento. Entrambe riguardano il rispetto della par condicio in questa fase delicatissima della campagna elettorale. In una competizione che si svolge sul filo del rasoio, la presenza preponderante di una parte in tv può risultare decisiva. Lo sanno anche i ragazzi!
Abbiamo detto nei giorni scorsi che i “programmi dedicati” risultano in equilibrio tra Sì e No, ma che il presidente del Consiglio e il governo hanno una presenza debordante nei tg e negli spazi extra tg. Questo è grave per la par condicio perché Matteo Renzi è il principale testimonial del Sì e questo aiuta vistosamente (e scorrettamente) una delle due parti in gioco.

L’Agcom, cioè l’arbitro della partita, aveva detto il 19 ottobre che sia Rai che Sky avevano tempi eccessivi dedicati al governo e aveva richiamato le emittenti a un maggior equilibrio perché la legge impone agli organi istituzionali in campagna elettorale la maggior sobrietà possibile.

Nella riunione della settimana scorsa, nonostante i dati della Geca continuino a evidenziare un tempo di parola molto alto nelle edizioni principali dei tg Rai (42%) e anche delle altre emittenti, l’Agcom non ha fatto ulteriori richiami e forse si sarà limitata alla tradizionale moral suasion. Certo con il passare dei giorni ed il probabile persistere del fenomeno, un atteggiamento morbido sarebbe assolutamente ingiustificato.

La seconda considerazione riguarda sempre l’autorità della comunicazioni e l’emittente La7.
Questa tv, accusata dai sostenitori del Sì di essere più favorevole alle tesi del NO, non solo è stata richiamata per ben due volte dall’Agcom, ma è stata oggetto di un esplicito ricorso da parte del Comitato del SI, a causa delle sue presunte parzialità.

In questo contesto si inquadra dunque l’intervista a Renzi nel nuovo programma Faccia a faccia di Minoli andato in onda ieri sera. A prescindere da ogni altra considerazione, un bello spot a favore del SI.

Dopo tutto questo accanimento verso la tv, come si spiega tutto ciò? Visto che non mi sembra il caso di scomodare la sindrome di Stoccolma, non so se interpretare il comportamento come un indennizzo anticipato o semplicemente come una soluzione editoriale legata a pure logiche di mercato. Se così fosse sarei curioso di sapere quale altra personalità politica del NO verrà intervistata nei prossimi giorni.

(fonte: Huffington Post qui)

«Ecco perché non si può votare Trump»: parla un suo ex avvocato

(di Tohmas M. Wells)

Mi piace l’autenticità. Sono preparato a lasciare che un candidato dica qualcosa con cui non sono totalmente d’accordo, e a sostenerlo/a comunque. Credo che la necessità di essere politicamente corretti sia andata troppo oltre. Credo anche che i media, spesso, montino e distorcano storie fino alla menzogna.

Credo che una middle class di successo sia la chiave della storia del successo americano, in termini sia economici che politici, e che i lobbisti abbiano fin troppa influenza. Sono un pragmatico, tanto da preferire il compromesso all’ideologia. Mi piacciono gli accordi, soprattutto quelli del tipo “win-win”.

Dunque, Donald Trump è il “mio” candidato, giusto? No, non lo è!

Nel 1987, quando io avevo 35 anni e lui 41, Donald Trump mi assunse come legale per un importante progetto nel nord del New Jersey: un centro commerciale che, come tutto il resto, avrebbe portato il suo nome, il “Trump Centre”. Il fatto che lui mi avesse scelto era molto importante per me, un grande onore arrivato solo un paio d’anni dopo aver avviato il mio studio legale che ora ha più di trent’anni. Era ancora il periodo in cui Trump costruiva edifici, aveva appena finito la Trump Tower.

Sembrava uno intelligente, dotato di fiuto per gli affari, risoluto. Possedeva un ufficio impressionante, una barca enorme, una linea aerea, un elicottero e diversi casinò. Nel giro di qualche anno, avrebbe perso praticamente tutto a causa di pessime decisioni d’affari. Per Donald Trump hanno lavorato tantissimi avvocati, un mucchio. Non sono Roy Cohn (non sono aggressivo come lui e neanche, spero, moralmente discutibile come lui) ma sapevo bene quanto ottenere l’utilizzo del suolo contasse in un iter procedurale impegnativo nel New Jersey. Ero elettrizzato quando mi assunse.

Dopo il colloquio iniziale, i miei contatti con Donald non furono molto frequenti, a dire il vero. Ma ricordo bene un infelice episodio (che non dimenticherò mai): un viaggio in limousine (alla volta di un meeting con il consiglio di redazione di un giornale del New Jersey) durante il quale il mio cliente, sposato, cercò di intrattenermi parlandomi del numero e delle qualità di giovani donne disponibili che, a suo dire, “lo volevano”. Ero evidentemente scioccato e imbarazzato, ma continuavo a sorridere. Volevo che il cliente fosse felice, ne avevo bisogno.

Mentre lavoravo per Donald, diversi servizi giornalistici sostenevano che Trump, e la moglie dell’epoca Ivanna, vivessero in un appartamento della Trump Tower composto da 8, 16, perfino 20 o 30 stanze. Sinceramente incuriosito, una volta gli chiesi quante camere ci fossero davvero in quell’appartamento. Non dimenticherò mai la sua risposta “Tutte quelle di cui scriveranno”.

Donald Trump era, all’epoca come adesso, eccessivo, esagerato soprattutto ai suoi stessi occhi. Ma, al tempo stesso era spaventosamente piccolo, un uomo dalla scarsa moralità. Era, e lo è ancora, tutto ego e spettacolo.

Ci ho pensato tanto e voglio condividere il mio modesto parere sui motivi per cui non possiamo eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Per me, è più una questione di carattere che di politica. A causa della mancanza del primo, la seconda (la vera linea politica di Donald Trump) non è così semplice da riconoscere.

Una volta iniziato a snocciolare le ragioni per cui Donald non sarebbe un bene per il nostro Paese, è stato difficile fermarsi. Sono riuscito a fermarmi, però, arrivato a 20. Circa 4000 parole. Continuate a leggere se siete interessati.

1. Quell’uomo mente sempre. 
Da bugiardo patentato, lo fa impunemente. “A Jersey City ho visto migliaia di persone esultare mentre il World Trade Center crollava” “Nell’ultimo trimestre il prodotto interno lordo è stato meno di zero”. “Il numero di immigrati illegali negli Stati Uniti è di 30 milioni, potrebbe salire a 34”. “Il governo messicano obbliga i soggetti più pericolosi ad entrare nel nostro paese”. “Il tasso di disoccupazione potrebbe arrivare al 42%”.

Tutte queste affermazioni sono uscite dalla bocca di Donald, spesso urlate, più volte davanti a folle numerose. Vogliamo parlare della bufala “Le statistiche sulla criminalità indicano che i neri uccidono l’81% delle vittime bianche di omicidio?”. Verrebbe da chiedersi come una simile bugia possa essere concepita, figuriamoci detta. Donald Trump afferma tutte queste cose a viva forza, quindi forse devono essere vere. Ma non lo sono!

Non vi è un briciolo di verità, è inequivocabile. En passant, viene da riflettere sulla veridicità delle frequenti affermazioni di Trump a proposito del fervore della sua Cristianità e del fatto che la Bibbia sia il suo libro preferito. Evidentemente, “non dire falsa testimonianza” non è il suo Comandamento preferito.

2. In realtà, non ruota tutto intorno al candidato. 
“Non è incredibile che io abbia ragione così spesso? “Solo io posso rimediare” “Ho un grande cervello”, “Sono molto, molto ricco”.

Donald dice davvero cose del genere. Il suo ego non sembra conoscere limiti. Quando Donald si sente offeso da qualcuno, diventa ossessionato senza riuscire a controllarsi. Si agita, diventa furioso e dice cose incredibilmente inopportune. È in stato di grazia quando può ottenere un risultato che brama con la prepotenza.

Avete mai notato che le storie vere raccontate dagli altri candidati su persone che hanno conosciuto, e che magari lottano con un problema serio, non fanno parte del lessico di Trump? Continua a dirci che gli interessano solo i vincitori. Credo che questa gente non abbia i requisiti giusti. Per dirla in un altro modo, Donald Trump non è capace di relazionarsi bene agli altri.

In primis, ha le sue idee su chi deve affiancarlo. Inoltre vuole essere lui a condurre i giochi. È quel bambino capriccioso che vuole che le cose vengano fatte a modo suo, o se ne va battendo i piedi. Cosa succederà quando capirà che anche la carica più alta della nazione non riguarda soltanto lui? Vogliamo mettergli in mano i codici per l’attivazione delle armi nucleari?

3. I presidenti degli Stati Uniti non sono re. 
La Costituzione li obbliga a condividere il potere. Donald Trump, che usa la parola “Io” più di qualsiasi altra persona abbia mai aspirato a questo incarico, ha una tendenza sfacciatamente autoritaria. Vuole essere un “uomo forte”, non un presidente.

Dovremmo domandarci cosa accadrebbe se fosse davvero chiamato a governare o a chiudere uno dei suoi accordi, in un mondo politico “a somma zero” dove l’altra parte dice semplicemente di no. Cosa dire della sua bassa curva dell’attenzione, della sua irascibilità e del suo bisogno di twittare ogni frustrazione?

4. Il diavolo si nasconde nei dettagli. 

“Vincendo così tanto ci stancheremo di vincere”, “Chiudiamo buoni accordi con la Cina” o perfino il famoso “Make America great again” sono slogan che non dicono nulla, in realtà. Non siamo stupidi, condividi qualche dettaglio con noi, così da farci capire se sai di cosa stai parlando. Per Donald, tuttavia, nei rari casi in cui a queste dichiarazioni seguono cifre specifiche (come il muro di 1609 chilometri, alto dai 35 ai 55 piedi o la deportazione di 11 milioni di immigrati) i dettagli non arrivano mai.

Non ci dicono mai che per costruire quel muro, anche più basso di 35 piedi (stando alle attuali stime edilizie) ci vorrebbero 25 miliardi di dollari anche se riuscisse ad ottenere il terreno per costruirlo (la maggior parte della frontiera su cui Trump vuole costruire il muro si trova in mezzo a un fiume e, in molti casi, la terra potrebbe non essere sicura abbastanza da costruire una recinzione).

La sua soluzione magica per fare in modo che sia il Messico a pagare? L’unica proposta che ho sentito prevede di confiscare le rimesse a quanti inviano soldi a casa o una delle sue “tariffe del 45%”. Come potrà mai funzionare per gli americani che inviano soldi alle famiglie o per tutti noi che pagheremo il 45% in più sulla merce prodotta in Messico o per l’azienda americana che si occuperà della fabbricazione? E cosa dire del fatto che il muro farebbe ben poco per fermare l’immigrazione illegale, causata perlopiù dai “soggiorni troppo lunghi” dei visitatori e che probabilmente creerà pochissimi posti di lavoro (semmai ce ne saranno) per le persone che Trump ha aizzato con il suo delirio xenofobo?

Prendiamo in considerazione la deportazione e concentriamoci sulle questioni serie. Esattamente come crede di riunire e deportare undici milioni di persone. Userà gli stadi e nazionalizzerà le navi da crociera? Chi si occuperà del raduno: di certo non la polizia, l’esercito forse? E i bambini abbandonati? Che dire del fatto che le fattorie americane, i ristoranti, per non parlare dei posti di lavoro nel settore del giardinaggio o della manodopera edilizia resteranno vacanti? Lavori fondamentali, certo, ma sono queste le occupazioni che Trump ha intenzione di destinare ai suoi “Americani veri”, per far sì che l’America torni ad essere grande?

5. Le parole sono importanti. 
Non è tutto un “disastro”, non è tutto “stupido”, una “disgrazia”. E non è neanche tutto “straordinario”, “enorme”, “Fantastico”, “meraviglioso”. Non sono tutti “perdenti” o “stupidi”. Parlare di ex presidenti bugiardi (o che erano “un disastro”, la sua preferita) o definire dittatori stranieri dei grandi leader non migliora il discorso.

Gli americani non sono dei puritani (almeno la maggior parte), ma la volgarità urlata dai palchi, le allusioni alle dimensioni del pene, le rivelazioni sulle conquiste sessuali, le critiche al ciclo mestruale di una giornalista e le offese rozze di ogni tipo non si addicono ad un presidente. Abbiamo dei figli.

6. Leggere è bello. E lo è anche studiare. 
Di recente, Trump ci ha detto che non legge tanto. Sappiamo di certo che non ha scritto un libro grazie alle recenti rivelazioni di Tony Schwartz. Quest’ultimo è stato suo ghost writer per il libro “The Art of the Deal” (sì, ne ho una copia dalla prima pubblicazione, autografata da Donald che mi consiglia di “continuare così”) e che, a detta di Donald, tra i libri da leggere assolutamente è secondo solo alla Bibbia.

Anche se sono stato proprietario di una libreria per diversi anni, e non permetterei ai miei figli di guardare la TV durante la settimana per incoraggiarli a leggere, non credo che sia obbligatorio leggere per guidare un paese. Credo, tuttavia, che quanti aspirano a guidarci debbano studiare duramente, cercare di acquisire saggezza dagli altri, di padroneggiare idee e relazioni molto complesse. Credo che essere presidente sia difficile. Sono felice di sapere che, dopo una lunga giornata, il Presidente Obama si ritiri nel suo ufficio privato per dedicarsi a 3 o 4 ore di studio… e letture.

Un’ interpretazione corretta delle dichiarazioni bizzarre di Trump, e dei suoi scivoloni, rende evidente che non ha la minima propensione per la lettura e lo studio. Per usare le sue parole, prende decisioni “con pochissima conoscenza” delle questioni, oltre a quella già acquisita, più la parola “buonsenso, perché ne ho parecchio, così come ho molto fiuto per gli affari”. È una singolare forma di arroganza, credere di poter anche solo immaginare di essere il leader del mondo libero senza sforzarsi di capire profondamente un simile incarico.

7. Il nuovo vocabolario a cui ci stiamo adattando è pessimo. 
Xenofobo (chi prova avversione e paura per gli stranieri e per tutto ciò che è straniero). Misogino (chi nutre un forte pregiudizio verso le donne), nativista (chi preferisce gli abitanti autoctoni agli immigrati). Fascista (autoritario e dittatoriale). Bigotto (chi è intollerante verso opinioni differenti). Demagogo (chi mira a ottenere il consenso popolare basandosi sulla lusinga e sulla promessa e non su argomentazioni razionali). Sostenitore della distopia (descrizione di uno stato, tipicamente totalitario, dove tutto è sgradevole e squallido). Razzista (sapete cosa significa).

Siamo stati costretti a tirar fuori il vocabolario per capire molti dei termini utilizzati dai media per descrivere il fenomeno unico che è Donald Trump. A spaventare è il fatto che queste strane parole siano davvero appropriate. Che ne è stato delle espressioni “uomo di stato”, “ben qualificato” o perfino “brillante” usate per descrivere le persone che vogliamo eleggere per una carica tanto importante? Nessuna di queste è stata associata al “The Donald”.

8. Dobbiamo stare attenti al “duro”. 
Riferendosi ad un dimostrante durante un raduno, Donald Trump ha detto “Ai bei vecchi tempi, lo avrebbero trascinato via su una barella”. Le sue parole rivelano ammirazione per questo tipo di forza. La sua durezza non riguarda la forza necessaria a prendere decisioni molto difficili. Riguarda la volontà di “prendere a pugni in faccia quel tizio” o, come minimo, salvare la faccia (la sua).

Resisterò alla tentazione di accanirmi ancora sui codici nucleari. Mi limito a chiedermi se vogliamo davvero un presidente irascibile che, come da lui suggerito, nel caso in cui un leader (Castro) non fosse pronto ad accoglierlo sulla pista d’atterraggio farebbe “invertire la rotta dell’Air Force One per tornare a casa”. Un uomo che dopo aver ritwittato un’immagine, creata da suprematisti bianchi, che ritraeva Hillary Clinton davanti a una montagna di dollari accompagnata da una stella di David, e per questo accusato di antisemitismo, non ha saputo neanche inventarsi una delle sue scuse-non-scuse, del tipo “Mi dispiace se ho offeso qualcuno”. “Un tipo tosto” per cui tutti i giornalisti più importanti sono “stupidi” e disgustosi. Che parla solo dei media che osano criticarlo, senza dire una parola su David Duke e sul pessimo elemento che gli ha dato il cinque e ha ripreso il suo post offensivo.

Che il post fosse o meno finalizzato a rafforzare, ancora più saldamente, questa fetta di sostenitori, Trump dimostra la sua idea di “durezza”: un’idea che esalta la sua opinione, il suo avere sempre ragione sugli altri. Nel suo mondo un “duro” non può essere umile, rispettoso, misurato o diplomatico.

9. Il successo conta. 
Il successo negli affari di Trump è eccessivamente gonfiato e le sue abilità sono limitate. Donald Trump può essere un bravo venditore e uno showman solo in una competizione con PT Barnum (Phineas Taylor Barnum è stato un imprenditore e circense statunitense). Questo possiamo concederglielo. Per un periodo, ha ottenuto indici d’ascolto alti dicendo ad alcune celebrità a spasso che erano state licenziate. Tuttavia, chiedete ad uno qualsiasi dei grandi imprenditori edili di New York (tra cui lui non figura, o almeno non è tra i più importanti: risulta 14° nella lista aggiornata) e capirete che i suoi successi sono ben pochi.

Quattro fallimenti (1991, 1992, 2004 e 2009), il Plaza Hotel, la Trump Air, i tre casinò, le bistecche, l’acqua, il Trump Center a cui ho lavorato, i cantieri ferroviari nel West Side di Manhattan (dove gli edifici portano il suo nome, come consolazione), la Trump University: tutti insuccessi assoluti, tranne per Trump che “non ha alcun rimpianto”.

Poi ci sono questioni di etica commerciale fondamentale: 3500 cause, il fatto che sia incline a non pagare le tasse completamente né in tempo, il fatto che si definisca il “Re del debito” (un re diventato ricco indebitandosi e poi rinegoziando). Sono queste le competenze che vogliamo in un presidente?
Dovremmo porci domande anche sul suo leggendario valore netto, sempre gonfiato di miliardi rispetto ai calcoli degli altri. Ci si dovrebbe chiedere se il valore sarebbe rimasto lo stesso se non avesse ereditato un notevole patrimonio dal padre Fred e lo avesse solo investito passivamente. Non lo sapremo mai da Donald, di certo non lo sapremo da quelle dichiarazioni dei redditi che non renderà pubbliche.

10. Non potremmo essere un grande paese senza il Primo Emendamento, ma i media potrebbero ucciderci. 
I media non sono il nemico di Donald, come continua a gridare dal palco. Ma potrebbero essere il nemico di tutti noi. È questa l’impressione ultimamente. Lo spazio televisivo riservato a Donald, la sua abilità di imperversare al telefono con le sue filippiche (soprattutto con i media via cavo) non è soltanto, per usare una delle sue parole, “disgustoso”.

Donald, che vive di sondaggi e indici d’ascolto, capisce che sono questi numeri e non il valore delle notizie a decidere quello che va in onda. Donald domina quasi tutti i cicli di notizie, limitandosi ad essere più offensivo di chiunque altro. È reality TV portata all’estremo, ed è fuori controllo.

11. Temperamento, atteggiamento e indole sono importanti.
Per molti aspetti, Donald rappresenta il peggio in tutti noi. O, almeno, in molti di noi. Gli interessa solo la gratificazione continua. È un bambino irascibile che vuole che le cose siano fatte come dice lui. È l’adolescente egoista che non ha ancora il quadro della situazione. È il giovane viziato e privilegiato, che ha sfruttato razza e religione “giuste”, istruzione, bell’aspetto e patrimonio familiare per avere successo facilmente, e che guarda dall’alto in basso chiunque non sia riuscito a farcela perché non ha i requisiti di cui sopra.

È un uomo che pensa che sia normale definire una persona “grassa”, “brutta” o stupida o prendere in giro un disabile. È un collezionista di mogli trofeo, di proprietà trofeo, il ragazzino che vince (o così crede) perché possiede più giocattoli.

12. L’imperatore e i suoi vestiti. 
Donald sostiene di conoscere le forze armate meglio di chiunque altro. Perché? Perché ha frequentato una costosa scuola privata dove gli studenti indossavano uniformi e, a volte, marciavano? E che mi dite della frase: “conosco l’Isis meglio dei generali‘? C’è qualche soldato vero che può valutarlo, per favore?

Donald dice che l’America non vince più. Rispetto a chi, e a cosa? È indubbio che abbiamo dei problemi. La democrazia è un caos. Lo testimonia l’attuale campagna e la lunga ripresa dalla recessione del 2008, che non ha sufficientemente incluso la middle class. E, sì, è difficile comprendere gli scambi commerciali in un mondo sempre più connesso e integrato. Ma fino a che punto l’America è un “disastro”, come ci dice Donald?

Come puoi dire sul serio e credere che “Questo paese è un inferno. Stiamo colando a picco”. In confronto a chi? Messico, Cina o la Russia, suo nuovo e bizzarro tormentone, che stando a Donald “ci batte sempre, perché i nostri leader sono stupiti?”. Dacci un taglio.

13. Gli immaturi trucchetti che utilizza nei discorsi non funzionano. Non con la maggior parte di noi, almeno.
Dice Donald, “non parlerò” dell’alcolismo del candidato del partito libertariano alla vicepresidenza. “Mi rifiuto di ammettere… Non posso dire… che non sopporto la voce stridula della Clinton che urla al microfono”. Lo hai appena fatto, Donald. Riusciamo a capire che, con queste affermazioni, perfino tu sai di muoverti su un terreno malfermo e così cerchi di giocartela su entrambi i fronti. Non attacca. E non lo fa neanche il trucco infido, e neanche tanto intelligente, di attribuire agli altri accuse feroci che persino tu hai paura di fare, ma che vuoi comunque anticipare.

Ad esempio, quando hai commentato il massacro di Orlando dicendo “tante persone pensano che Obama non voglia capire. Molti pensano che forse non vuole saperne niente, io sono giunto alla conclusione che non sa cosa sta facendo, ma ci sono molte persone che pensano che forse non voglia capire. Non vuole vedere quello che sta succedendo. E potrebbe anche essere così”

Chi sono queste “persone” che hanno associato il presidente ai terroristi? Forse le stesse che, con Trump, hanno visto la gente del New Jersey celebrare la distruzione delle torri gemelle o quelli convinti che Hillary Clinton abbia ucciso Vince Foster, che il padre di Ted Cruz stesse collaborando con Lee Harvey Oswald per uccidere il Presidente Kennedy? Quelli che credono che Obama non sia nato negli Stati Uniti e non abbia studiato ad Harvard o alla Columbia?

Due possibilità. La più probabile: l’espressione “molte persone dicono che” è solo una frase in codice di Trump per dire “voglio avanzare un’ipotesi così oltraggiosa” che neanche il Donald più furioso riuscirebbe a tirarsene fuori, senza questo espediente. O forse quel “mucchio di persone” è in realtà un gruppo selezionato, la cerchia chiusa di lealisti che partecipano ai raduni e che hanno sentito queste parole da lui.

14. L’irascibilità non si addice a un presidente. 
“I politici hanno scelto di nuovo questo nano come candidato”. Così si pronunciava il New York Herald su Abraham Lincoln, che adesso è considerato da (quasi) tutti il miglior presidente degli Stati Uniti. Prendete in considerazione la dichiarazione apparsa quando Washington lasciò l’incarico “è arrivato il tempo per la fonte di tutte le disgrazie del nostro paese di ritornare allo stesso livello dei suoi concittadini”.

I presidenti degli Stati Uniti, tutti, hanno subìto delle critiche e, nella nostra terra di libertà di parola, i critici possono dire la loro. Grazie a Dio. Non c’è molto da dire sul fatto che Donald non gestisca bene le critiche. Chiedete a Megyn Kelly (“un talento di terz’ordine), Rosie O’Donnel (“la grassottella Rosie”, “una perdente”) o Elizabeth Warren (“Pocahontas”) o a uno dei suoi avversari recentemente sconfitti: Cruz, Kasich, Rubio o Bush. Perfino Chris Christie, quello più simile a lui, ha provato il suo morso quando ha insinuato che Donald fosse “permaloso”. Non riesce mai a mollare la presa. È ossessionato dalle critiche anche quando vince.

I repubblicani venuti meno alla “promessa” di sostenerlo non dovrebbero avere il permesso di correre per la carica ancora una volta, secondo lui. Per Donald essere in disaccordo con lui deve avere una conseguenza (e anche seria) e perseguire tale obiettivo merita sforzi ed energia, anche quando non fa alcuna differenza.

Crediamo davvero che il nostro presidente debba avere il tempo per questo? Vogliamo davvero che un uomo di tale suscettibilità, dalla tendenza così autoritaria sia, per dirne una, responsabile dell’FBI o dell’IRS? Il concetto di “polizia segreta” sembra troppo estremo? Forse sì. Ma se fossi Donald, ventilerei l’ipotesi con una delle sue dichiarazioni: “La gente dice che…”. Ecco, ho appena usato uno dei suoi trucchetti. Capite quanto è facile?

15. I bulli ci saranno sempre, ma la Casa Bianca non dovrebbe essere il loro posto. 
Cosa fa un bullo? Cerca di intimidire, fisicamente o verbalmente. Finora questa caratteristica di Donald è stata soltanto verbale e rivolta ad avversari in affari e, più recentemente, a politici e giornalisti. E, ovviamente, ai suoi ex ghost writer ed ex dipendenti o imprenditori ingannati (non protetti da clausole contrattuali anti-calunnia) che osano giudicare la sua condotta apertamente.
Cosa succederà quando questo tizio avrà il più forte esercito del mondo a sua disposizione, e un pulpito da bullo che gli darà sicura visibilità? A qualcun altro sembra una cattiva idea?

16. Law and order.
Prima di essere una serie premiata agli Emmy, “Law and order” era uno dei fili conduttori della campagna di Richard Nixon nel 1968, per farsi eleggere nell’anno in cui il paese vide due omicidi pubblici e dimostrazioni devastanti, perfino rivolte, in 110 città. Nixon cercava di mobilitare quella che lui definiva la “maggioranza silenziosa”, appellandosi al bisogno di un maggiore controllo da parte della polizia. Attinse alla divisione razziale ed economica tra bianchi e neri, tra la classe operaia e “l’élite dei liberali dell’est” e ai media malvagi che il vicepresidente Spiro Agnew definiva “i nababbi chiacchieroni del negativismo”. Trump sta cercando di reintrodurre tutto questo. Ovviamente sì, ma anche no.

Sì, vuole dividere e mobilitare gli elettori arrabbiati che si sentono abbandonati da una cultura sempre più variegata. Ma no, perché la sua idea distopica di un’America senza legge, assediata, indebolita non è quella che predicava Nixon e neanche Ronald Reagan, a dirla tutta. È un suo unicum, almeno in America. È, tuttavia, un esempio da manuale del grido di guerra comune a innumerevoli dittatori e uomini forti. È uno strumento fondamentale del demagogo: sollevare un problema e poi dichiarare di essere “l’unico che può risolverlo”

Al netto di questa retorica terribile, cosa ci aspetta? Donald dice “il 20 gennaio del 2017, giorno in cui presterò giuramento, finalmente gli americani si sveglieranno in un paese che applica le sue leggi… il crimine e la violenza che oggi affliggono la nazione vedranno presto la fine.” Come funziona Donald? Legge marziale? Credi davvero che al Presidente Obama, e ai suoi 44 predecessori, non sarebbe piaciuto vedere tutte le leggi in vigore e rispettate a pieno? Ah, se il solo desiderio potesse riuscirci! Però dal momento che gli stati, e non il governo federale, hanno un peso su gran parte del diritto penale, il presidente da solo non ha il potere costituzionale di fare una cosa simile. E allora? Continuare con la logica del waterboarding (forma di tortura) e uccidere le famiglie dei terroristi? Certo, “Solo io posso risolvere il problema”.

17. Le invettive incoerenti, e spesso contradditorie, non formano una linea di politica estera. 
Convinciamo il Giappone e la Corea del Sud a cercare le armi nucleari. Eliminiamo la NATO. Distruggiamo l’ISIS, ma senza alleati musulmani e truppe sul campo. Attacchiamo la Libia, anzi no. Abbiamo fatto bene ad attaccare l’Iraq, anzi no. Non ricostruiamo una nazione, ma risolviamo il problema in Siria. Fermiamo l’Iran stringendo accordi migliori.

In effetti, pensateci, questa è la soluzione a quasi tutto: “stringiamo accordi migliori” ovunque. E mai chiedere scusa, per niente. Siamo l’America, ricca, molto ricca. Non siamo in debito con nessuno. O con noi o contro di noi. Vi ricorda qualcuno?

18. Come si può diventare un buon presidente se non si mostra rispetto per l’incarico?
Negli anni ’60, durante una Guerra impopolare, abbiamo sopportato tutti un presidente che, indossando una spilla a forma di bandiera, descriveva chiunque non fosse stato d’accordo con lui (inclusi un mucchio di giovani universitari in tutta l’America, compreso me) come un “Un-American”, una persona contraria ai fondamentali valori politici e culturali degli Stati Uniti. Anche se l’opposizione politica è vecchia quanto la nostra nazione, si inizia a scivolare lungo la china di una pericolosa mancanza di rispetto quando il disaccordo viene rimpiazzato dal vilipendio.

Il candidato repubblicano crede sia normale accusare un ex presidente, del suo stesso partito, di aver intenzionalmente dichiarato Guerra appellandosi a falsi pretesti e incolpare l’attuale Presidente di cospirazione con i terroristi islamici. Qualsiasi americano assennato, di qualunque partito o senza partito, di qualsiasi filosofia politica capisce che tutto questo deve finire.

La verità, o almeno una sua parvenza, deve ritornare. Le menzogne ignobili non trovano spazio in un dialogo assennato, figuriamoci chi le pronuncia. Non possono diventare la spina dorsale di un circo mediatico che si preoccupa più degli ascolti che della verità.

19. Anche i ragazzi ricchi e potenti devono giocare secondo le regole. 
Non prendiamoci in giro. La Trump University non era un’istituzione accademica, era molto lontano dall’esserlo. Era un modo per diventare ricchi in fretta ideato da un tizio che vendeva un programma per arricchirsi alla svelta. Non era il primo e non sarà l’ultimo di questo genere. A tarda notte, le pubblicità da quattro soldi alle TV sponsorizzeranno sempre questo tipo di offerta. Tuttavia, gli sforzi di Donald puntavano molto più in alto: 35.000 dollari, “università”. Sul serio? Non era altro che un imbroglio ordito da un uomo che ora sta cercando di diventare il leader di una nazione e del mondo libero.

Sappiamo tutti, lo abbiamo letto almeno, che di idioti ne nascono in continuazione. Ma possiamo almeno negare il rispetto a quelli che prendono di mira la povera gente e denunciarli, quando vanno troppo oltre? “No” dice Donald Trump. Il processo seguito ad una class action contro le sue truffe è ancora in tribunale. A detta di Donald, perché l’illustre ed esperto giudice federale che se ne occupa è un suo “hater” e non è in grado di rendergli giustizia perché i suoi genitori sono originari del Messico.

Nel mondo di Donald, l’unico individuo capace di giudicarlo non dovrebbe essere Messicano o imparentato con dei messicani, una persona di fede islamica e, no, neanche una donna. In questo mondo, gli uomini ricchi, privilegiati, egocentrici, eticamente discutibili dovrebbero essere giudicati solo da uomini ricchi, privilegiati, egocentrici, eticamente discutibili.

20. Dobbiamo combattere per qualcosa. 
La versione dell’America di Donald Trump non include quelli che non sono come lui. Invece, va matto per quelli che Sarah Palin definì “americani veri”. Il fatto che tutti noi sembriamo essere completamente sacrificabili è preoccupante. Prendere di mira un’intera religione (l’Islam, con 1,6 miliardi di fedeli di cui 3,3 milioni sono cittadini americani) per sottoporla ad un controllo maggiore, o peggio, è palesemente in disaccordo con i valori tradizionali americani, se non lo è con quelli degli “americani veri”.

È anche incostituzionale e, al di là di tutto questo, incredibilmente controproducente perché rafforza le controversie facendo allontanare gli alleati di cui abbiamo bisogno per risolvere il problema dei terroristi in campo nemico. Altre strategie simili caldeggiate da Donald, come il waterboarding e altre forme di tortura, per non parlare dell’accanimento contro le famiglie dei nemici, non sono semplicemente illegali. Sono, per usare un’altra delle sue parole, “stupide”. Non funzionano, con molta probabilità servirebbero solo a peggiorare la situazione e a far crescere il numero ed il fervore dei nemici.

Dovremmo chiederci: come sarebbe l’America dei “veri americani”? Un mucchio di individui intolleranti, sovraeccitati, aggressivi, dietro un grande muro, isolati (senza scambi commerciali e, quindi, con un’economia malata e beni molto costosi) e con tantissimi nemici. Nessuna “città splendente sulla collina”, questo è certo. Per un posto del genere è difficile non immaginare altro che rovina.

Possiamo fare molto di più, molto di meglio. Per me, “il meglio” ha l’aspetto dell’ex senatrice ed ex segretario di Stato Hillary Clinton. A quelli che non arrivano a questa conclusione tanto facilmente (lo capisco) dico questo: pensate che quest’anno la scelta dovrà ricadere sul male minore. In ogni caso, non pensate neanche lontanamente di trascinarci in quell’abisso che è Donald Trump.

(fonte)

Nessun Paese è un’isola. Proviamoci anche noi. Un’intervista a Stefano Catone.

Non sono oggettivo. Conosco Stefano e lavoro con lui per il Tour Ricostituente quindi mi porto dietro (e lo appoggio qui) il carico di stima che mi lega. Ma soprattutto invidio a Stefano l’ostinatezza con cui entra nella cose per capirle, come ne legge e ne scrive, come le rigira per osservarne gli angoli più disabitati. E il fatto che il suo lavoro finisca per diventare libro è il naturale percorso di una politica che è studio. Professionista della politica, si direbbe, nel senso alto del professare i propri valori anche nella politica.

Ascoltando Stefano parlare di immigrazione ci si rende conto, comunque la si pensi, come l’ignoranza sia sempre la migliore alleata dei furbi e dei ciarlatani. Quindi il suo libro Nessun Paese è un’isola. Migrazioni, accoglienza e il futuro dell’Italia (uscito oggi in libreria per i tipi di Imprimatur) è prezioso come sono preziose tutte le posizioni espresse con cura. Ma Catone va letto più che raccontato e quindi per il blog ha risposto ad alcune nostre domande. Eccole qui:

Tra buonismo e cattivismo c’è lo studio, il rigore e l’intelligenza nella gestione dell’accoglienza. Cosa blocca l’Italia dall’applicare una credibile politica di accoglienza?

Potrei definirlo un blocco di carattere psicologico che impedisce il passaggio da un approccio emergenziale dell’accoglienza a un approccio strutturale. Il blocco è psicologico perché per fare questo passaggio è necessario farne prima un altro, dello stesso segno: accettare che siamo di fronte a un fenomeno stabile e destinato a durare nel tempo e non emergenziale, che non si può negare, che non si può rifiutare o scaricare su altri, che non terminerà da un momento all’altro, ma di cui dobbiamo farci carico come Paese. Non fosse per spirito umanitario, è la nostra posizione geografica che ce lo impone. La scelta perciò sta a noi: fare le cose bene, traendone benefici tutti, o fare le cose male, comprimendo i diritti e lasciando spazio al malaffare.

Quali sono le responsabilità dell’Europa?

Le responsabilità dell’Europa sono molte e sono gravi: i governi dei paesi meno esposti ai flussi hanno scaricato sui paesi più esposti (Italia e Grecia) la gestione della primissima accoglienza, imponendo un sistema di identificazione assolutamente impenetrabile senza attuare un successivo piano di accoglienza su scala europea, che per ora rimane solo sulla carta, come dimostrano i numeri ridicoli del ricollocamento. Inoltre, abbiamo pensato che scaricare sulla Turchia la gestione dei flussi in cambio di soldi – di fatto bloccando in Turchia i non siriani – fosse una soluzione, mentre non si tratta che di una piccola e pessima toppa, che non elimina i problemi ma cerca solamente di allontanarli dagli occhi. Eppure sembra che questo approccio sia condiviso dai leader europei, che a più riprese si sono dichiarati favorevoli a replicare l’accordo anche con Libia ed Egitto, paesi che difficilmente possiamo definire sicuri.

Secondo te perché il cattivismo è diventato così di moda? È davvero solo paura?

Il cattivismo va di moda da sempre, perché è la strada più semplice per raccogliere consensi. Mettere gli ultimi contro i penultimi (che variano a seconda dei punti di vista) è il modo migliore per fomentare la paura, che è uno stato d’animo che non possiamo negare, ma al quale si deve rispondere con gli argomenti giusti, spiegando. Alle volte basta raccontare la verità per essere rivoluzionari.

Si continua a parlare delle colpe della disinformazione ma credi che davvero sia possibile cambiare la narrazione e invitare all’approfondimento?

Tutti abbiamo presenta la foto di Alan Kurdi, tutti. Si è imposta nella narrazione delle migrazioni e dell’accoglienza, ma neppure quella è servita: l’indignazione è durata un giorno, il tempo dei migliori esercizi retorici, ma le politiche non sono cambiate. Cosa c’è di diverso tra Alan Kurdi e i bambini respinti settimana scorsa a Gorino? Ecco, allora, che forse serve un approccio differente, che invita all’approfondimento, che fa dei dati e delle esperienze concrete il punto di partenza di una narrazione meno emotiva, ma più razionale e cosciente.

Come nasce il libro? Qual è lo scopo “politico” del libro?

Il libro nasce dall’esasperazione. Non ne potevamo più dell’emergenza quotidiana urlata sui giornali. Una contraddizione in termini a cui bisogna reagire. «Il mare si calmerà e ricomincerà l’emergenza sbarchi»: quante volte l’abbiamo sentito? Ma che emergenza è un’emergenza prevista, prevedibile e che dura da mesi e mesi? O vogliamo forse parlare dei 35 euro? Ancora oggi troppe persone pensano che finiscano nelle tasche dei migranti, mentre sono soldi che ricadono sulle comunità che li accolgono: il problema, come dicevamo all’inizio, è fare le cose bene, seguendo modelli virtuosi che portano benefici a tutti – possiamo dirlo? -, anche occupazionali.

Ieri Bergoglio ha raffrontato il tema della migrazione, molto cerchiobottista, che ne pensi?

Penso che sia incappato in una distinzione scivolosa e in una contraddizione. Nell’intervista distingue tra rifugiati e migranti economici, ma utilizzando strumenti che non hanno corrispondenza nel diritto: Bergoglio dice che i rifugiati scappano dalla guerra, dalla fame e da un’angoscia terribile, ma dimentica che secondo le categorie del diritto fame e angoscia terribile (qualsiasi cosa voglia dire) non configurano uno status di rifugiato. Ecco perché la distinzione è scivolosa, ed ecco perché dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione la definizione attuale di rifugiato, ampliando la sfera di applicazione al concetto di “migrazioni forzate”, che guardano perciò ai motivi della fuga, fossero anche disastri naturali o una tremenda siccità che non permetta più di coltivare la propria terra.

Come racconteresti la tua esperienza nei Balcani?

Questa estate ho svolto volontariato con Speranza – Hope for children in Serbia, in assistenza ai profughi. Un’esperienza di questo tipo è il miglior antidoto a qualsiasi cattivismo, perché si incontrano neonati in culle improvvisate, bambini che vogliono giocare a pallone, donne in stato di gravidanza, anziane a anziani. Tutti condividono questa condizione terribile di trovarsi di fronte a un muro – al confine ungherese, ad esempio – senza sapere che sarà di loro. Vivono in campi informali, che non sono altro che tende da campeggio piantate ai margini dei boschi, in condizioni assolutamente indegne. La presenza di bambini è impressionante, e allora non si può non pensare che questi bambini – oltre a essere sottoposti a condizioni inumane – non stanno ricevendo alcuna istruzione. Che futuro gli stiamo costruendo? Come possiamo non porci il problema della loro inclusione nella nostra società? Come guarderanno all’Europa quando saranno grandi?

I prossimi passi?

Diffondere ovunque una cultura dell’accoglienza che vada oltre i bei principi e le belle parole, ma fondata sulla concretezza delle esperienze virtuose e supportata dai dati, dai numeri. Insieme a Giuseppe Civati, che è il vero ispiratore del testo, proporremo da subito una campagna che entri nei Consiglio comunali, uno per uno, per diffondere l’esperienza del Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), che guarda oltre l’emergenza e che prevede un diretto coinvolgimento dei territori sulla base di un’accoglienza diffusa che garantisce percorsi di inclusione sociale e lavorativa, tutela sanitaria, psicologica e legale, mediazione culturale: tutti servizi che – rendicontati all’ultimo centesimo, generano opportunità occupazionali qualificate per i territori ospitanti.

(il libro lo trovate anche sullo scaffale dei libri da leggere nella nostra Bottega dei Mestieri Letterari qui)

Expo è un buco nonostante la turbo favola

È stato un lungo fischio di sirene che ha attecchito mica male: il successo di Expo turboraccontato dal governo e dall’accolita degli interessati è stato uno dei fiori (di cartone) all’occhiello del governo: alla fine c’è uscito anche un sindaco dalla favola dell’Expo come simbolo dell’Italia che funziona e chissà se in queste ore proprio lui, Beppe Sala, non si sentirà tradito dall’improvviso dietrofront che arriva da Roma.

Ma andiamo con ordine. Il beneficio economico di Expo non sta nei bilanci, no: quelli, quando sono stati finalmente resi pubblici dopo un lungo tira e molla con Sala e la sua banda, dicono chiaramente che la manifestazione internazionale è stata sopra alle aspettative nelle spese sostenute e al di sotto nei visitatori previsti. I numeri lo dicono chiaramente, piaccia o no. Il presunto successo di Expo però, ci dicono da mesi gli ottimisti (per missione e servitù), starebbe tutto nella risonanza internazionale (vuoi mettere gli arresti tra dirigenti che sono finiti anche sulla stampa indiana, per dire), nell’indotto (che è ormai una mitologica presenza che sbuca quando bisogna ammorbidire i risultati finanziari) e nell’eredità dello Human Technopole (un trasloco dell’Università Statale pomposamente tradotto in inglese). Questo ci deve bastare, dicono.

C’è un problema: i soldi promessi da Renzi per pareggiare il bilancio di Expo (che è in rosso, appunto) sono spariti dalla legge di bilancio. Non c’è traccia dei 9,5 milioni di euro che servirebbero per la liquidazione della spa (che sarebbe quindi costretta a portare i libri in tribunale) e nemmeno gli 8 milioni per il trasferimento del campus universitario della Statale. Niente. Nisba. Alla fine anche il fedele collaboratore del sindaco di Milano Gianni Confalonieri (già scudiero di Pisapia) è costretto ad ammettere di essere rimasto “esterrefatto” e  di avere esaurito la sua riserva di fiducia.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

#unlibroalgiorno Il rumore di fondo della scrittura

L’insostenibile peso della frivolezza. Scriveva Voltaire che «L’uomo dovrebbe rallegrarsi di esser frivolo, perché, se non lo fosse, morirebbe di dolore pensando di esser nato per un sol giorno fra due eternità, e per soffrire almeno undici ore su dodici.» Scaraffia descrive (e scrive) il rumore di fondo degli scrittori che hanno fatto la storia della letteratura mondiale. In fila. Come quando facciamo l’elenco delle cose belle.

Presentazione dell’editore:

“Sono proprio gli oggetti la cruna dell’ago attraverso cui deve passare, se non preferisce chiudersi in uno sdegnato mutismo o in una futile retorica, il pensiero. Come nelle fiabe, nella notte dell’ideologia e delle religioni i giocattoli, e cioè gli oggetti, si destano e ci parlano. Solo chi è abbastanza umile da saperli ascoltare può distinguere nelle loro voci, apparentemente frivole, la litania della nostra epoca e il rumore di fondo del passato”. Anello, bastone, capelli. Cappotto, corna, New York, sedere, trasparenza, vestaglia, e molte altre voci: la dittatura delle cose frivole e superflue nell’opera e nella vita dei grandi dell’arte e del pensiero. Questo nuovo “dizionario” di Giuseppe Scaraffia (come i vari composti a partire dal Dizionario del dandy) si legge con la freschezza delle cronache mondane che spiano scrittori e scrittrici e i loro amici, scovando passi indimenticabili, frasi rese celebri dal momento in cui furono dette, aneddoti capricciosi. Sennonché è passando attraverso questi costumi d’autore che bene si illuminano le poetiche e i periodi letterari, guardandoli dagli usi quotidiani. Un’altra tavola, questo “Demone della frivolezza”, di quella specie di mappatura generale, che l’autore va componendo, delle coincidenze tra luoghi narrativi e momenti biografici che fa sembrare vera opera d’arte la vita.

(Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

Nel merito. Referendum: approvate che lo stato sia tutto, le regioni niente e che uno solo decida la guerra?

(Di Raniero Valle)

Per parlare di una nuova Costituzione, che investe il presente e il futuro, è bene partire dai fatti del giorno.

Il primo di questi fatti è che il 18 ottobre l’UNESCO ha approvato una risoluzione che invita Israele a rispettare i diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma che ha il torto di chiamare la Spianata delle Moschee col suo nome arabo, ignorando la sua definizione ebraica come Monte del Tempio. Ciò ha provocato polemiche che dovevano avere degli sviluppi nei giorni successivi. Il più vistoso è stato che Renzi ha sconfessato il suo ministro degli esteri e ha definito “allucinante” il voto che l’Italia ha dato astenendosi su quella mozione. Di per sé una questione di denominazione non dovrebbe essere un casus belli, ma il fatto politico è il rovesciamento della politica italiana di neutralità attiva tra Israele e palestinesi, che risale a Moro e ad Andreotti. Ora Renzi nel conflitto fa una scelta a favore di Israele, cioè fa una scelta di campo, e la fa come se fosse scontata, come se l’Occidente a cui apparteniamo non fosse che un grande Israele.  E questo è un cambiamento della figura stessa dell’Italia, però non discusso e non deciso da nessuno; decide il primo ministro, e il suo stesso ministero degli esteri è preso in contropiede.

L’altra notizia da cui partire per il nostro discorso è che il 14 ottobre è stato eletto il nuovo Padre generale della Compagnia di Gesù, il venezuelano Arturo Sosa, che il giorno successivo, nella messa di ringraziamento, ha detto che dobbiamo avere l’audacia di intraprendere “l’improbabile e l’impossibile”. E la cosa che oggi sembra impossibile, per quanto sia necessaria, è di fare “una Umanità riconciliata nella giustizia, che vive in pace in una casa comune ben curata, dove c’è posto per tutti”.

Purtroppo siamo in una situazione opposta. Quello che dobbiamo fare, ha detto ancora il generale dei Gesuiti, è “pensare per capire in profondità il momento della storia umana che viviamo” e operare “per superare la povertà, la ineguaglianza e l’oppressione”.

Dunque, pensare la storia, dice la Compagnia di Gesù.

Ebbene, non c’è bisogno di essere cattolici per dire che nel momento in cui noi facciamo una nuova Costituzione che dovrebbe essere la nostra Regola per decenni, dovremmo misurarla con questi grandi temi che investono in profondità la nostra vita, e non con piccole cose come il numero dei senatori o il falso problema del ping pong tra Camera e Senato.

Un mondo in guerra

Vediamo allora la situazione in cui siamo e il modo in cui la nuova Costituzione vi risponde.

Siamo in una situazione di “guerra mondiale a pezzi”, come dice il papa, e ora siamo a rischio di una grande guerra su più continenti. A Mosul, l’antica Ninive, è cominciata la decisiva battaglia contro l’ISIS, che si difende in modo atroce, uccidendo e bruciando. Secondo l’UNICEF ci sono di mezzo cinquecentomila minori. Stati Uniti e Russia si fronteggiano militarmente in Siria. Aleppo è divisa in due, come Berlino. Solo che a differenza di quanto accadeva a Berlino, Aleppo ovest bombarda Aleppo est, e Aleppo est bombarda Aleppo ovest. Da una parte c’è Assad, con la Russia che lo difende, dall’altra ci sono i terroristi “moderati”, con gli Stati Uniti che li sostengono. Il vescovo cattolico maronita di  Aleppo, mons. Joseph Tobji, è venuto il 4 ottobre alla Commissione Esteri del Senato italiano, per far arrivare un grido all’Occidente. Ha detto che non c’è solo la sciagura di Aleppo est, tenuta dai governativi, di cui parlano tutti i giornali; anche Aleppo ovest è devastata, la popolazione è stremata, senza acqua né cibo né luce; ospedali e chiese cristiane sono distrutti, gran parte della popolazione della città, che ammontava a 4 milioni di persone, è profuga. Le guerre provocano le grandi fughe, le cui ondate arrivano in Europa che, illudendosi di chiudere le porte, si suicida.

Il vescovo di Aleppo dice: “siamo giocattoli in mano dei Grandi”, che si fanno la guerra per procura. La guerra è cominciata nel 2013 – ha detto – “sotto la minaccia di morte degli Stati Uniti”. Come si ricorderà nel settembre 2013 la guerra alla Siria, che era già pronta a partire, fu sventata da papa Francesco con la grande veglia di preghiera in piazza san Pietro. L’Occidente voleva il controllo della Siria e liquidare Assad, come aveva fatto in Iraq con Saddam Hussein, in Libia con Gheddafi, in Afghanistan con Bin Laden. Ma questa volta la guerra non la poté fare.  Allora essa fu intrapresa dai ribelli anti-Assad, chiamati liberatori e sostenuti e armati dagli Stati Uniti. Era prevedibile che dall’altra parte intervenisse la Russia, se voleva continuare ad avere quel ruolo mondiale che, nella miope percezione americana, essa aveva ormai perduto. Ed infatti la Russia di Putin è intervenuta con la sua forza politica, e con i suoi aerei e soldati. Se ora Russia e Stati Uniti negoziano un armistizio a Losanna, vuol dire che la guerra è tra loro.

Come se non bastasse, dopo la fine dei blocchi la NATO si è allargata ad includere i Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia, e addirittura i Paesi baltici che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica, avanzando le sue basi fino ai confini della Russia: come ha detto Sergio Romano, che è stato ambasciatore a Mosca e alla NATO, questo è stato un errore, e non poteva essere vissuto dalla Russia che come un atto ostile. Poi, dopo l’intervento russo in Crimea e la crisi in Ucraina, l’Occidente ha imposto le sanzioni al Cremlino. Ora ha deciso di fare nel 2017 delle esercitazioni militari in Lettonia ai confini della Russia, e anche l’Italia manderà un corpo di spedizione di 150 uomini, come fece Cavour in Crimea. L’altro giorno da Washington è stato preannunciato un attacco cibernetico alla Russia. E Putin ha detto: attenti, state scherzando col fuoco.

Dunque oggi una guerra tra le grandi Potenze è tornata ad essere una possibilità reale.

Ora è evidente che questa guerra non ci riguarda, perché come sta scritto nella prima parte della Costituzione che ancora formalmente è in vigore, l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali; e tutte le guerre oggi in atto o minacciate appartengono a questo tipo di guerra che l’Italia rifiuta.

Allora la domanda è se la nuova Costituzione garantisce che non partecipiamo a guerre che ci sono estranee, o se invece rimuove gli ostacoli e apre la strada a un nostro coinvolgimento nelle guerre presenti e future.

Ebbene, è proprio la seconda cosa che accade; di fatto il popolo non avrà più alcuna garanzia costituzionale di non essere trascinato in una guerra non sua.

Poi ci sarà un don Milani che lo denuncerà, ma sarà troppo tardi.

Vediamo dunque la nuova Costituzione renziana. Riguardo alla guerra c’è un’innovazione esplicita e dichiarata, e ci sono delle innovazioni implicite e non dette che però travolgono tutte le garanzie.

L’innovazione esplicita è che il Senato, il quale non è affatto abolito, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione è escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, deliberazione che invece è riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché secondo la riforma il Senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali, dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra; ed è molto strano anche perché secondo la riforma il Senato dovrebbe funzionare come raccordo con l’Unione Europea, dovrebbe partecipare alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea; inoltre dovrebbe valutare le politiche pubbliche all’interno e l’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori. Dunque dovrebbe mettere becco su tutto ma non sulla guerra, e dovrebbe avere un peso determinante nel rapporto con gli Stati europei, ma non avrebbe alcun potere nella decisione più importante riguardante il rapporto con tutti gli Stati, europei e non europei, che è precisamente la decisione sulla guerra.

Il Senato, una testa di turco

Questo dimostra quale era la vera intenzione dei riformatori riguardo al Senato. Il Senato è la vera testa di turco della riforma ed è la cartina di tornasole che rivela il discrimine tra ciò che è falso e ciò che è vero nella riforma che ci viene proposta.

E’ falso l’argomento che il Senato venga riformato perché Camera e Senato oggi fanno la stessa cosa, sicché uno dei due sarebbe inutile. Anche il Tribunale e la Corte d’Appello fanno la stessa cosa, fanno gli stessi processi, ma non è affatto inutile che la libertà dei cittadini sia tutelata da due gradi di giudizio. Anche la polizia e i carabinieri fanno la stessa cosa, ma non è affatto inutile che se un colpo di Stato lo fanno i carabinieri, la polizia glielo possa impedire, o viceversa. Le Costituzioni democratiche sono lì proprio perché, quando si tratta del potere, le cose possano essere viste da due parti diverse.

E’ falso che il Senato venga riformato per valorizzare le Regioni e le autonomie locali. Anzi proprio nel momento in cui si fa finta di fare un Senato delle autonomie, la scelta autonomistica viene rovesciata, potremmo dire ripudiata.

Infatti si passa dal regionalismo della Costituzione del ’48 al centralismo statale, in base alla ideologia che tutto è dello Stato, e nulla al di fuori dello Stato. Non si tratta solo di una diversa ripartizione di competenze tra le regioni e lo Stato; in questo quadro, come dicono giustamente i fautori del Sì, una correzione rispetto a una eccessiva varietà di normative (ad esempio riguardo al turismo e al commercio estero) era necessaria. Si tratta invece del fatto che mentre nella Costituzione vigente, all’art. 117, si prevede che alle regioni spetti la potestà legislativa sulla generalità delle materie, tranne quelle espressamente attribuite allo Stato, e quelle di competenza comune, nella riforma  – abolita la legislazione concorrente – c’è un’invadente esclusiva competenza legislativa dello Stato, di cui alcuni residui sono lasciati alle Regioni. Ma si tratta soprattutto di leggi di ordine organizzativo e promozionale (come ad esempio la “promozione”, ma non la tutela e la valorizzazione, dell’ambiente e dei beni culturali). Nulla si toglie invece ai privilegi delle Regioni a statuto speciale (che potranno essere modificati solo d’accordo con le Regioni stesse), mentre altri frammenti di autonomia potranno essere gentilmente concessi per legge dallo Stato a qualche Regione meritevole o più ricca, dotata di bilanci virtuosi, in seguito a specifiche trattative ed intese tra quella Regione e lo Stato. Per esempio si dovrà vedere se la Regione Puglia, che ha fatto una legge per attribuire un “reddito di dignità” ai non abbienti, per poterlo fare anche in futuro, a norma dell’art. 116, 3 comma dovrà chiedere allo Stato che glielo conceda per legge, sempre che dimostri di essere “in condizioni di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. In ogni caso, sia nella legislazione che nel sostituirsi agli organi degli enti locali, a norma dell’art. 120, il governo può avvalersi della “clausola di supremazia” in nome dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. In sostanza mentre si rottama il Senato, per gabellarlo come Senato delle autonomie, le autonomie non ci sono più, ed è perciò che si dice che il Senato si riunirà per poche ore al mese; e dunque si passa dalla forma di Stato articolato in Regioni,  che in un recente dibattito televisivo Luciano Violante ha definito come un “policentrismo anarchico” al ristabilimento della supremazia dello Stato e della sua piena sovranità rispetto agli enti territoriali. Ma la forma di Stato è anche la forma della democrazia. E l’alternativa di società fatta di “formazioni sociali” e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione, fu scelta dal costituente del 1947 come antidoto a quella che è stata chiamata “la sindrome del tiranno”.

Resta allora che i veri obiettivi della riforma del Senato erano due: il primo, quello di togliere al governo il fastidio di dover ottenere la fiducia di due Camere; il secondo, quello di sterilizzare il Senato e le comunità territoriali che esso dovrebbe rappresentare, rispetto alle decisioni supreme relative alla pace e alla guerra.

Quali garanzie contro guerre inconsulte?

Venuta meno la doppia garanzia di una conforme decisione di Camera e Senato sulla deliberazione dello stato di guerra, si potrebbe pensare però che l’ostacolo a guerre inconsulte sarebbe rappresentato da quanto previsto, e non formalmente abrogato, nella prima parte e segnatamente nell’art. 11 della Costituzione.

Ma purtroppo così non è, perché di fatto quel limite all’ingresso dell’Italia in guerre non sue è stato cancellato e poi superato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Fino a quel momento, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione, l’unica guerra ammissibile, l’unica guerra in cui legittimamente l’Italia potesse e dovesse combattere, era quella corrispondente al “sacro dovere” – come lo definisce l’art. 52 – della difesa della Patria. E per difesa della Patria si intendeva la difesa del popolo e del territorio, tant’è vero che l’esercito era schierato sulla soglia di Gorizia  per far fronte ai famosi cosacchi che dovevano venire dall’Est.  Ma nel 1991 l’Italia sdoganò la guerra partecipando alla prima guerra del Golfo contro l’Iraq. E il 26 novembre 1991,  come ho raccontato in un recente discorso a Messina, il governo venne da noi in Parlamento e presentò alla Commissione Difesa alla Camera (di cui facevo parte) un Nuovo Modello di Difesa in cui la guerra tornava a essere legittimata e la difesa non era più identificata con la difesa dei sacri confini della Patria, ma con la tutela degli interessi anche economici e produttivi dell’Italia dovunque essi fossero in gioco; a tale  scopo veniva potenziato un esercito professionale ristrutturato come Forza di intervento rapido e di proiezione di potenza e più tardi lo stesso servizio obbligatorio di leva veniva lasciato cadere. In più si provvedeva alla sostituzione del nemico, che non essendo più quello sovietico veniva individuato nell’Islam secondo il modello del conflitto divenuto ormai permanente tra Israele e mondo arabo.

Il Modello di Difesa non venne mai discusso né approvato dal Parlamento, ma venne di fatto tradotto nella legislazione sulle Forze Armate, nei bilanci della difesa e nelle scelte dei governi. Venuto meno il limite stabilito dalla Costituzione, la decisione sulle guerre da fare veniva di fatto affidata ai governi, e i loro primi ministri ne fecero largamente uso. Addirittura l’Italia partecipò ad una nuova guerra in Europa contro la Jugoslavia e il presidente D’Alema teorizzò il valore politico di quella scelta interpretandola come una espressione necessaria della politica estera dell’Italia e del suo contare nel mondo.

Poiché un’analoga concezione della difesa e dell’uso delle forze armate è stata nello stesso tempo adottata dalla NATO e da tutto l’Occidente, tutto ciò che ne è seguito, ivi compreso il terrorismo, la catastrofe delle Due Torri, il parto cruento dello Stato islamico, lo scontro con l’Islam, i soldati italiani in Libia e a Mosul, e ora la sfida alla Russia, sono conseguenze di quella scelta.

Si direbbe che l’Occidente il cui sistema economico e politico è entrato in una profonda crisi essendosi mostrato incompatibile con l’ordine del mondo, cerchi nell’incremento delle armi, nell’estensione del dominio e nella disseminazione delle guerre una risposta alla sua angoscia riguardo al futuro; ed è come se noi dovessimo partecipare a tutte le guerre di un capitalismo sfrenato, invece che operare, come dice il generale dei Gesuiti, “per superare la povertà, l’ineguaglianza e l’oppressione”.

In questa situazione, in cui si accentua la discrezionalità dei governi, diventa molto pericoloso che non si possano esprimere le voci dei popoli e che le decisioni possano essere prese da capi politici dai poteri incondizionati e liberi da controlli e garanzie.

Questa è la ragione per cui una Costituzione che tende ad assicurare una governabilità insindacabile per cinque anni e a ridurre il controllo del Parlamento sul  capo politico di turno, mentre si stende come un’ombra l’ipoteca dei grandi poteri militari e finanziari mondiali, sguarnisce i popoli di ogni difesa contro inconsulte decisioni di guerra. Nel caso italiano il nuovo sistema costituzionale risultante dal combinato disposto della Costituzione riformata e della legge elettorale maggioritaria, istituisce una nuova forma di governo che è stata chiamata in dottrina una “forma di governo di legislatura a vertice monocratico elettivo” . Questo modello, costruito sulla formula del “Sindaco d’Italia”, ormai al di fuori della forma della democrazia parlamentare,  finisce per attribuire al primo ministro un solitario potere di decidere tra la pace e la guerra. Il fatto che per la sua sussistenza, mediante la fiducia, il governo dipenda solo dalla Camera e che la maggioranza assoluta dei deputati, pur necessaria per la deliberazione dello stato di guerra, sia rappresentata da parlamentari di un solo partito, per di più scelti dallo stesso primo ministro e non eletti dal popolo, fa sì che nella situazione di massimo pericolo in cui il mondo è oggi precipitato il rischio di essere  portati verso una guerra, mentre giornali, televisioni e commentatori politici parlano d’altro, è molto elevato.

Basta ricordare che la decisione di muovere la guerra alla Turchia e di invadere la Libia, che fu l’inizio del lungo conflitto, che si ripete ancor oggi, fra l’Italia e l’Islam, nel settembre del 1911 fu decisa dal solo Giolitti, che se ne stava a Dronero, mentre il Re era in vacanza a San Rossore e il Parlamento era chiuso per ferie. Il problema è che il mondo di oggi è molto più pericoloso di quello di allora, ci sono le armi atomiche e i nuovi califfi, islamici o no, non sono affatto al tramonto come lo era allora il potere dell’Impero ottomano.

Facciamo questo discorso in un momento particolarmente delicato perché dobbiamo registrare il fallimento sul piano internazionale della presidenza di Obama. Voleva fare un mondo senza guerre, e lascia un mondo più frantumato e in guerra di prima. E ciò proprio per le politiche sbagliate degli Stati Uniti che hanno un’innata tendenza al dominio che passa da un’amministrazione a un’altra: essa fu formalizzata, all’inizio del 2000, nella scelta dell’obiettivo di “un nuovo secolo americano” a cui erano finalizzate le politiche di riarmo e di egemonia adottate nella cosiddetta nuova “Strategia della sicurezza nazionale”. La devastazione dell’America Latina, il braccio di ferro con la Russia, e soprattutto la spinta al dominio del mondo arabo nel Medio Oriente ne sono dei capitoli. E’ possibile che questa spinta verso un mondo e un tempo “americani”– caduti i tentennamenti di Obama – continui nella presidenza di Hillary Clinton (esorcizzato il fantasma di Trump), e che l’America sia portata a fare tutte le guerre del capitalismo in armi. Ed è solo grazie al papa che queste guerre non potranno più essere definite come guerre sante o di civiltà. Sono guerre e basta.

E qui si vede il pericolo di una totale dipendenza dei primi ministri italiani dal presidente americano, come quella manifestata ed enfatizzata da Renzi alla Casa Bianca,  perché vuol dire che l’Italia sarà chiamata a fare tutte le guerre che l’America deciderà di fare o vorrà che siano fatte. Ciò rende Obama uno sponsor non troppo affidabile del SI al referendum costituzionale. Anzi l’endorsement di Obama è un ottimo indicatore: proprio perché l’America dice di Sì, forse l’Italia dovrebbe dire di No.

(*) Pubblichiamo il quarto discorso di Raniero La Valle su “La verità del referendum”, tenuto alle Comunità parrocchiali di Bitonto nell’Auditorium dei Santi Medici Cosma e Damiano,il 19 ottobre, e al Circolo Arci Rinascita di Sesto Fiorentino, il 22 ottobre 2016. (fonte)