Vai al contenuto

libri

Nel merito. Che c’entrano le donne con la riforma (Boschi esclusa)

Un gran pezzo di Giulia Sivierio:

Lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing non è un fenomeno recente: è stato usato per far cominciare le donne a fumare, per vendere trucchi, parrucchi, vestiti e persino libri, ma continua a produrre e a inventare nuovi modelli e obiettivi. L’ultimo dei quali è davvero stupefacente, visto il “prodotto” e visto che è stato usato in modo strumentale da chi dovrebbe stare ben lontana da questi trucchi. Questa è la conclusione: parto dall’inizio.

Maria Elena Boschi è ministra delle Riforme Costituzionali ed è anche delegata alle pari opportunità. Martedì 18 ottobre a Roma il PD ha organizzato l’incontro “Le ragioni delle donne per il Sì”. Il video integrale sta qui. La riunione è stata introdotta dicendo che «le donne hanno scelto di esprimersi e hanno deciso di dire sì». Le donne, non quelle che stavano lì al tavolo, non quelle in sala, non quelle del PD o altre fuori, tante o poche io non lo so. Le donne, dicevano. Molte, non l’hanno invece presa bene.

Ho scritto a delle amiche (il fatto che la delegata alle pari opportunità fosse intervenuta per piegare la questione femminile, o maschile, alla propria campagna elettorale a favore della riforma costituzionale, mi sembrava una cosa spregevole), ho pensato subito che le donne dovrebbero semmai essere più consapevoli della difficoltà di avere il diritto di voto e che quindi dovrebbero essere più sensibili ogni volta che una scheda (come quella del Senato non più elettivo) viene loro tolta di mano, poi ho cercato di non puntare la pistola, come mi dice spesso qualcuno, ho ascoltato e ho studiato la riforma da una prospettiva femminista.

La premessa è ovviamente che non ci sono argomenti da uomini e non ci sono argomenti da donne: ci sono semmai argomenti su cui la libertà delle donne è direttamente in gioco e su cui le donne si mobilitano maggiormente o sono più attente. Ecco, il referendum costituzionale è uno di questi?

(continua qui su Il Post)

Pagare meno i medici obiettori, ad esempio

(Una provocazione ma non troppo di Marco Faraci in un suo articolo per Strade)

Il tema dell’obiezione di coscienza all’aborto è tornato in questi giorni all’onore delle cronache, in seguito alla triste vicenda della donna di Catania morta in seguito a una complicazione nella gravidanza.

Il quadro non è sufficientemente chiaro per capire se alla base del decesso ci sia stato un ritardo nel deliberare il ricorso ad un aborto finalizzato a preservare la vita della madre. Nessuna conclusione particolare può essere quindi tratta, per ora, sul caso specifico, ma al tempo stesso quanto è avvenuto ha risvegliato l’attenzione sul tema più ampio della carenza di medici ospedalieri abilitati a compiere interruzioni della gravidanza, specie nelle regioni del Sud Italia, dove il 90% dei ginecologi sono obiettori.

La questione che deve essere posta in termini generali è se abbia senso considerare l’obiezione di coscienza all’aborto non come una normale scelta morale e culturale esercitata nel mercato, ma come un diritto positivo riconosciuto e tutelato dallo Stato. Siamo, evidentemente, di fronte ad una giurisprudenza anomala che non trova particolari similitudini in altri ambiti della vita economica, istituzionale e sociale del nostro paese, pur non essendo certo l’aborto l’unico argomento controverso ed eticamente sensibile.

Certo, per i sostenitori dell’obiezione all’aborto, esiste almeno un parallelo da cui derivare un fondamenti di legittimità, cioè il riconoscimento ufficiale, avvenuto a partire dal 1972, dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Questo parallelo, tuttavia, appare poco convincente: il servizio di leva consisteva, infatti, in un obbligo imposto dallo Stato a cittadini che non avevano alcun desiderio di indossare la divisa; in questo contesto il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e della possibilità di prestare un servizio alternativo rappresentava una forma di temperamento dell’impegno coatto a cui i nostri ragazzi venivano sottoposti.

Peraltro l’accesso all’obiezione di coscienza non era concesso “gratuitamente”; nei primi anni il servizio civile era più lungo del corrispondente servizio militare, e inoltre gli obiettori per tutta la vita erano soggetti a una serie di limitazioni che andavano dall’impossibilità di ottenere il porto d’armi al divieto di svolgere alcuni lavori.

L’obiezione dei medici non si configura, al contrario, come una forma di mitigazione di un arruolamento forzato, ma rappresenta invece un rifiuto rispetto ad alcuni contenuti di un lavoro volontariamente intrapreso. Certamente, a nessuno viene imposto di fare il ginecologo ospedaliero. L’obiezione dei medici non assomiglia quindi a quella di un diciottenne che non vuole essere obbligato ad imbracciare alle armi; semmai è l’obiezione di un dipendente che si rifiuta di ottemperare ad alcune delle mansioni che gli sono chieste dal datore di lavoro che ha liberamente scelto.

E’ la situazione, se vogliamo cercare degli esempi, di un ingegnere “pacifista” che lavora in un’azienda che tra i suoi clienti ha il Ministero della Difesa, ma che si rifiuta di lavorare su tutti i progetti militari, esigendo di lavorare solo in progetti civili. Di un autotrasportatore vegano, che pretende dall’azienda di trasporti per cui lavora di non trasportare carne. Di un professional del settore vendite, sostenitore dei diritti umani, che non vuole farsi mandare dalla sua azienda in trasferta in Arabia Saudita o in Iran. Di un Carabiniere, a suo agio con le mansioni amministrative, ma che ripudia ogni attività armata.

Intendiamoci, tutte queste preferenze sono più che legittime e possono avere motivazioni molto forti, fino a riguardare lo stesso valore che attribuiamo alla vita. Non tutto quello che è legale è necessariamente morale, secondo la moralità di ciascuno; e sulla base di quello che sentiamo come giusto e come sbagliato, ognuno di noi orienta le proprie decisioni e sceglie di perseguire determinate carriere e determinate opportunità, piuttosto che altre. Naturalmente nel mondo del lavoro capita di trovarsi davanti a determinate posizioni professionali che implicano aspetti ed attività ai quali si è interessati e altri ai quali si è moralmente contrari – ed è certo comprensibile il desiderio di ritagliarsi il meglio di quei ruoli, espungendo quanto invece è considerato “cattivo”.

In questi casi, tuttavia, o si opta direttamente per lavori diversi che non implichino attività moralmente controverse, oppure si deve essere sufficientemente bravi da convincere l’azienda a impiegarci negli ambiti a cui si è più affini. Quello che tuttavia non può essere accettabile da un punto di vista liberale è la pretesa di essere assunti a fronte di un’obiezione morale dichiarata ad effettuare determinate attività utili all’azienda, e pretendere allo stesso tempo che a tale obiezione non corrispondano forme di penalizzazione in termini di opportunità, carriera e stipendio.

E’ chiaro che in fase di colloquio si può legittimamente dire di non essere disponibili a fare determinate cose, ma a quel punto bisogna essere in grado di compensare questa rigidità con particolari livelli di eccellenza tali da rendersi comunque appetibili all’azienda.
 In ogni caso, si deve accettare che, a fronte di una minore flessibilità, si perdano alcune opportunità di lavoro, oppure si sia retribuiti con salari inferiori.

Se un ingegnere dice a un’impresa che opera anche con la Difesa che per ragioni di coscienza non può lavorare su progetti militari, deve accettare il rischio di non essere assunto, oppure di crescere meno in termini professionali e di stipendio, perché non impiegabile in determinati progetti. Sicuramente al colloquio dovrà presentarsi con un curriculum più pregiato, perché ceteris paribus non si vede la ragione per la quale la sua azienda non dovrebbe piuttosto assumere un ingegnere impiegabile in modo flessibile in qualsiasi progetto aziendale.

Lo stesso, ragionevolmente, deve avvenire nel caso di medici obiettori all’aborto. Gli ospedali dovrebbero essere liberi di gestire le proprie politiche del personale in modo da poter garantire l’erogazione di tutti i servizi previsti. Questo vuol dire che, specie a fronte dell’attuale penuria di medici non obiettori, i ginecologi che si rendono disponibili a effettuare interruzioni della gravidanza dovrebbero ragionevolmente essere ritenuti più “pregiati” e di conseguenza dovfebbero essere privilegiati in termini di assunzioni, promozioni e stipendio.

Nel mercato del lavoro mostrarsi moralmente neutri risulta normalmente premiante; introdurre considerazioni di tipo valoriale implica inevitabilmente dei costi, perché evidentemente riduce la propria utilizzabilità. Ciascuno di noi, nella ricerca di un impiego, è libero di decidere quale valore attribuire ai propri personali princìpi morali e di conseguenza qual è il costo che è disposto a sostenere in nome di essi. La verità è che l’erogazione dei servizi di interruzione della gravidanza non è in crisi per il fatto che alcuni medici, sulla base dei propri imperativi etici, si rifiutano di praticarla. E’ in crisi in virtù del pervertimento statalista dell’elementare principio del mercato secondo cui la “rigidità” comporta un costo.

Le norme sull’obiezione di coscienza per i medici addirittura ribaltano tale principio, generando una situazione nella quale tutti gli incentivi economici e professionali sono a favore dell’obiezione. Questa, infatti, non solo non “costa” nulla, ma produce vantaggi a chi la esercita, in quanto consente di evitare la gavetta di attività poco professionalizzanti. I medici non-obiettori, essendo in pochi, si trovano in pratica a effettuare solo aborti e quindi sono discriminati in termini di crescita professionale e in molti casi anche in termini di turni e di ferie. A queste condizioni non c’è affatto bisogno di essere moralmente contrari all’aborto per scegliere l’obiezione coscienza; anzi, l’obiezione diventa per tanti medici l’opzione più razionale di carriera. In queste condizioni si arriva al paradosso che è proprio la decisione di “non obiettare” che assurge a scelta morale e di principio, una “missione” che alcuni ginecologi scelgono pur a fronte degli svantaggi professionali che ne derivano.

Se ne esce solamente riportando la scelte dell’obiezione e della non-obiezione al loro naturale equilibrio di mercato. I dirigenti ospedalieri dovrebbero essere tenuti ad assicurare i servizi e dovrebbero gestire le politiche sulle risorse umane in maniera conseguente. La disponibilità a compiere qualsiasi lavoro dovrebbe essere considerata titolo preferenziale e valorizzata in termini di stipendi e di opportunità di crescita professionale. “Prezzare” correttamente la scelta dell’obiezione secondo il suo minore valore economico, contribuirebbe probabilmente a ricondurre il fenomeno ad una dimensione più genuina, scremando l’obiezione di opportunità, oggi rilevante.

La questione, in definitiva, non è quella di obbligare alcuno a fare alcunché, ma ricondurre la risoluzione di non praticare aborti a legittima scelta individuale che si esprime all’interno delle dinamiche del mercato, svestendola dell’attuale dimensione “sindacale” e statalizzata.

#unlibroalgiorno Quando i libri scostano la tenda di ciò che non vediamo

Quando mi capita di voler viaggiare tenendo in mano un libro le regioni del nord sono tra le mie mete preferite per la scrittura che galleggia tra il mito profano e sacro, tra quel cuore così mescolato di visioni e sogni. È un popolo nascosto l’Islanda, un’isola portatrice di letteratura densa e coraggiosa. Prendete l’incipit, ad esempio:

«Una volta Dio onnipotente andò a fare visita ad Adamo ed Eva, che gli riservarono un’ottima accoglienza e gli mostrarono tutto ciò che avevano in casa. Gli mostrarono anche i loro figli, che a Lui parvero tutti molto promettenti. Poi Dio chiese a Eva se non avessero altri  gli oltre a quelli che gli aveva già presentato. La donna rispose di no, ma la verità era che Eva non aveva ancora lavato tutti i suoi bambini e si vergognava a farli vedere a Dio, per questo li aveva nascosti. Dio lo sapeva, e dunque disse: «Ciò che viene nascosto a me, sarà nascosto agli uomini.» E così quei bambini diventarono subito invisibili a tutti, e dimorarono in colline, poggi e pietre. Da loro derivano gli elfi, mentre gli esseri umani discendono dai figli che Eva aveva mostrato a Dio. Gli esseri umani non possono vedere gli elfi, a meno che non siano gli elfi a volerlo, perché loro possono invece vedere gli uomini e fare in modo di essere visti.»

Quando capita un libro che riesce a scostare la tenda di ciò che non vediamo siamo di fronte a un regalo prezioso. Come queste fiabe.

(Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

Nel merito. Il no in 10 punti. Di Roberta Calvano.

(di Roberta Calvano, Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza)

  1. La riforma del bicameralismo paritario, da tempo auspicata, così come disegnata – appare irrazionale. Da un lato essa produrrebbe come primo assurdo effetto la presenza di due rami del Parlamento con maggioranze diverse e contrapposte; inoltre ridurre i soli componenti del Senato senza prevedere una contemporanea riduzione dei componenti della Camera produrrebbe un eccessivo squilibrio dimensionale tra le due camere che si riverbererebbe tra l’altro sull’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM.
  2. Il ddl disciplina la composizione del Senato in maniera confusa e poco chiara, non consentendo una chiara rappresentazione del pluralismo territoriale, sociale e politico delle Regioni e degli enti locali; otto regioni si vedrebbero attribuire solo due senatori ciascuna, mentre altre verrebbero sovrarappresentate irragionevolmente pur avendo una popolazione inferiore (Liguria con 1.500.000 abitanti avrà due senatori, Trentino con 1.250.000 ne avrà quattro), mentre si approfondirebbe il divario tra Regioni del nord e Regioni del sud.
  3. Il ddl disegna per il Senato un insieme di compiti per cui, se da un lato esso sarebbe privo di poteri significativi, dall’altro esso verrebbe gravato di compiti ad alto tasso di tecnicismo inadatti ad essere svolti dai senatori-sindaci e senatori-consiglieri regionali, rischiando in definitiva di avere soltanto una funzione di blocco e rallentamento a causa della complessità delle procedure.
  4. Il mantenimento del divieto di mandato imperativo per i senatori impedirebbe al Senato di essere la sede di rappresentanza degli enti territoriali e la Camera delle autonomie da tempo auspicata. Al di fuori di esso, la reale sede di incontro delle istanze della periferia e del centro risiederebbe ancora nel sistema delle conferenze Stato regioni, non menzionato nel testo costituzionale.
  5. Le procedure legislative disegnate nel ddl sono barocche e farraginose e non realizzerebbero l’intento di produrre snellimento e semplificazione; persino il voto a data certa prevede una disciplina che sacrificherebbe al massimo la democraticità a vantaggio di una esigua riduzione dei tempi (75gg); in questo quadro, affidare al Senato l’attuazione dei numerosissimi atti adottati dall’Ue smentisce poi la proclamata velocizzazione e snellimento delle procedure. Considerando poi che il Senato sarà estromesso dal circuito fiduciario, esso non potrà essere “riportato all’ordine” tramite lo strumento della questione di fiducia.
  6. Il ddl produrrebbe il risultato paradossale per cui, mentre alle Regioni verrebbe garantita finalmente una loro (più nominale che reale) rappresentanza in Parlamento, esse verrebbero private di larga parte dei loro poteri normativi; le Regioni a statuto speciale conserverebbero invece le loro prerogative, non si capisce perché, rimanendo per esse valido il vecchio titolo V. Altrettanto singolarmente, le province autonome di Trento e Bolzano conserverebbero notevoli privilegi mentre tutte le altre province verrebbero cancellate dal testo costituzionale.
  7. La disciplina del decreto legge nel ddl, nonostante la previsione di limiti all’abuso di questo strumento (cui si è assistito per decenni), non riuscirebbe ad incidere su una prassi che deriva non dall’assenza di limiti, ma dalla debolezza estrema dell’istituzione parlamentare collegata al sistema elettorale e alla crisi dei partiti; pensare di risolvere un problema annoso come quello dell’abuso del decreto legge senza guardare alle cause appare illusorio.
  8. Per quanto concerne gli strumenti di democrazia diretta, il ddl introduce la possibilità di Referendum propositivi senza indicare potere di iniziativa, limiti, procedure: una norma in bianco che rischia di essere pericolosa; si prevede poi l’abbassamento del quorum per i soli referendum abrogativi proposti da forze politiche che riescano a raccogliere 800.000 firme, collegandolo all’affluenza al voto delle precedenti elezioni politiche. Si avvantaggerebbe così impropriamente chi ha già una diffusa presenza sul territorio e mezzi economici necessari per le (oggi molto costose) operazioni di raccolta delle firme.
  9. Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, quali organi di massima garanzia della Costituzione pur essendo toccati marginalmente dal ddl appaiono a rischio di indebolimento; il primo per una norma che ne consentirebbe l’elezione a maggioranza dei presenti (dal settimo scrutinio maggioranza dei 3/5) e non dei componenti l’organo; la seconda per la nomina di due componenti da parte del Senato, che non potrebbe che connotarli come “giudici delle regioni”, finendo col minare l’unitarietà e la legittimazione del collegio di massima garanzia della Costituzione.
  10. Gli effetti complessivi sulla forma di Stato e di governo possono sinteticamente essere descritti come di accentramento di troppi poteri dalla periferia al centro e dagli altri organi in capo al governo, e più grave ancora, di una costruzione barocca e complicata che potrebbe portare a molti problemi applicativi.

(fonte)

“Che cosa diranno i vicini?”

(A proposito di parrucconi, moralisti e benpensanti vale la pena rileggere Bukoswski che anche con la penna in mano è sempre un pugno) 

i miei genitori erano sempre dietro a
chiederlo,
naturalmente non mi importava un fico di
che cosa diranno i vicini.
mi facevano pena i vicini,
codardi che spiavano da dietro le
tendine.
l’intero quartiere si spiava
addosso
e negli anni trenta non c’era molto
da vedere,
eccetto me che tornavo a casa ubriaco
a tarda notte.

“finirai per uccidere tua madre,”
diceva mio padre,
“e inoltre che cosa diranno
i vicini?”

quanto a me pensavo di comportarmi
assai bene.
in un modo o in un altro
riuscivo a ubriacarmi
senza avere in tasca
il becco di un quattrino.
un trucco che mi sarebbe tornato
molto comodo
più avanti
negli anni.

a peggiorare le cose per i miei poveri
genitori
cominciai a scrivere lettere al direttore
di un giornale a larga tiratura,
che, per lo più, venivano pubblicate
e sostenevano tutte
cause impopolari.

“che cosa diranno i vicini?”
chiedevano i miei
genitori.

ma le lettere producevano risultati
interessanti – messaggi minatori,
incluse minacce di morte a mezzo posta.
inoltre mi misero in contatto
con certa gente stramba
convinta che io credessi a
tutto quello che scrivevo.

ci furono incontri segreti
in cantine e solai,
c’erano pistole,
patti,
discorsi.
quelli erano i posti
dove scroccavo da bere.
a molte di quelle assemblee
partecipavano i razzisti,
giovanotti tra
i 17 e i 23 anni.
“non vogliamo che i neri
ci fottano le donne!
devono morire!”
sfortunatamente
di donne
io non ne fottevo
proprio.
tutti gli incontri iniziavano
con il saluto sull’attenti
alla bandiera
che io giudicavo
dannatamente
infantile.
ma la maggior parte di quei giovanotti
venivano da famiglie
perbene
e dopo le assemblee
io bevevo con loro.
bevevo più che potevo
mentre blateravano.
non ho mai aperto bocca
ma non sembravano seccati.
ricordavano le mie lettere
e non sospettavano che
fossero un trucco.
non ero un essere umano
decente,
ma certo non ero in combutta
con ideologie
o gruppuscoli.
mi ripugnava
l’intera idea della vita
e degli uomini
ma era più facile
scroccare
da bere
ai razzisti
che alle vecchiette
nei bar:

“non credo che tu
sia davvero mio figlio,”
disse mio padre.

“che cosa diranno
i vicini?” disse
mia madre.

poveri dannati patrioti pazzi illusi.

dopo che mi cacciarono
di casa
gliela diedi su
alle assemblee
e andai a vivere da me
in una catapecchia a
Bunker Hill.

e i miei genitori non dovettero
più preoccuparsi
di cosa avrebbero detto
i vicini.

(La poesia è pubblicata nel libro che trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

#unlibroalgiorno Alex che voleva solo pedalare ed è inciampato

Ma che faccia ha l’ostinazione quando diventa impegno e riesce comunque a innaffiare il sorriso? Quella di Alex Zanardi, sicuramente: il paradigma della forza di volontà. E la sua storia è serotonina fatta libra. Che forza, Alex.

(Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

Perché no. Nel merito.

Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire  la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto.

Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

22, aprile 2016

 

LE FIRME 

Francesco AMIRANTE Magistrato

Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale

Luca ANTONINI Università di Padova

Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma

Sergio BARTOLE Università di Trieste

Ernesto BETTINELLI Università di Pavia

Franco BILE Magistrato

Paolo CARETTI Università di Firenze

Lorenza CARLASSARE Università di Padova

Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II

Enzo CHELI Università di Firenze

Riccardo CHIEPPA Magistrato

Cecilia CORSI Università di Firenze

Antonio D’ANDREA Università di Brescia

Ugo DE SIERVO Università di Firenze

Mario DOGLIANI Università di Torino

Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma

Franco GALLO Università LUISS di Roma

Silvio  GAMBINO Università della Calabria

Mario GORLANI Università di Brescia

Stefano GRASSI Università di Firenze

Enrico GROSSO Università di Torino

Riccardo GUASTINI Università di Genova

Giovanni GUIGLIA Università di Verona

Fulco LANCHESTER  Università di Roma La Sapienza

Sergio LARICCIA  Università di Roma La Sapienza

Donatella LOPRIENO Università della Calabria

Joerg LUTHER Università Piemonte orientale

Paolo MADDALENA Magistrato

Maurizio MALO Università di Padova

Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma

Anna MARZANATI Università di Milano Bicocca

Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato

Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria

Stefano MERLINI Università di Firenze

Costantino MURGIA Università di Cagliari

Guido NEPPI MODONA Università di Torino

Walter NOCITO Università della Calabria

Valerio ONIDA Università di Milano Statale

Saulle PANIZZA Università di Pisa

Maurizio PEDRAZZA GORLERO  Università di Verona

Barbara PEZZINI Università di Bergamo

Alfonso QUARANTA Magistrato

Saverio REGASTO Università di Brescia

Giancarlo ROLLA  Università di Genova

Roberto ROMBOLI Università di Pisa

Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza

Fernando SANTOSUOSSO Magistrato

Giovanni TARLI BARBIERI Università di Firenze

Roberto TONIATTI Università di Trento

Romano VACCARELLA Università di Roma La Sapienza

Filippo VARI  Università Europea di Roma

Luigi VENTURA Università di Catanzaro

Maria Paola VIVIANI SCHLEIN Università dell’Insubria

Roberto ZACCARIA Università di Firenze

Gustavo ZAGREBELSKY Università di Torino

#unlibroalgiorno la donna al fianco di Van Gogh

Grandi donne. Mica dietro ai grandi uomini come si è abituati, sbagliando a scrivere: Johanna van Gogh-Bonger è una donna che merita un romanzo e per fortuna ha intercettato la penna di Camilo Sánchez. Io amo Marco y Marcos quando ci regala libri così.

Ecco la presentazione dell’editore:

Cieli, occhi, corvi, girasoli: dovunque giri lo sguardo, Johanna vede dipinti di Van Gogh. Splendono nel buio, la svegliano all’alba; prima del canto degli uccelli, prima dei rumori di Parigi che riparte. La gente non li capisce, non li ama. Li usa come fondi d’armadio, per tappare i buchi del pollaio. Van Gogh si spara al petto e con lui se ne va il fratello Theo, inseparabile anche nella morte. Johanna resta sola con un piccolino nella culla: si chiama Vincent come suo zio. Lui e i dipinti illuminano il nero che l’ha avvolta. Vedova giovane, torna in Olanda e si prepara a lottare; le hanno insegnato che bisogna dominare il mare per meritarsi la terra. Apre una locanda in campagna, fa arrivare da Parigi i quadri di Van Gogh. Dal soffitto al pavimento, li appende in ogni stanza: è il suo omaggio all’artista che sognava una repubblica del colore, il primo museo segreto. Di giorno Johanna accoglie gli ospiti, cresce suo figlio. Di notte apre la valigetta che per Theo era sacra e si immerge nelle lettere di Van Gogh. Annota parole, isola passaggi di pura poesia. Le affidano una missione, le indicano la strada. Oltre le porte chiuse, il disprezzo, la selva dei no. Il primo sì è il disegno venduto a un cliente argentino. La prima mostra la ospita all’Aia una donna senza pregiudizi. Poi il vento gira, vengono i buoni incontri, gli incroci fortunati; il tempo corre, vola, le mostre si moltiplicano e Vincent van Gogh entra nella Storia.

(Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.)

#unlibroalgiorno Il libro dei Baltimore

Chi ha amato Dicker nei suoi libri precedenti non può perdersi l’ultimo romanzo uscito per i tipi de ‘La Nave di Teseo’ (edizioni tra l’altro sempre bellissime). Chi ama Muramaki ritroverà qui le stesse spezie. Sono quasi 600 pagine ma è il minimo che serve per chiedersi quanta voglia e forza abbiamo di sognare ancora. Io l’ho amato. Davvero.

Presentazione della casa editrice:

Sino al giorno della Tragedia, c’erano due famiglie Goldman. I Goldman di Baltimore e i Goldman
di Montclair. Di quest’ultimo ramo fa parte Marcus Goldman, il protagonista di La verità sul caso Harry Quebert. I Goldman di Montclair, New Jersey, sono una famiglia della classe media e abitano in un piccolo appartamento. I Goldman di Baltimore, invece, sono una famiglia ricca e vivono in una bellissima casa nel quartiere residenziale di Oak Park.

A loro, alla loro prosperità, alla loro felicità, Marcus ha guardato con ammirazione sin da piccolo, quando lui e i suoi cugini, Hillel e Woody, amavano di uno stesso e intenso amore Alexandra. Otto anni dopo una misteriosa tragedia, Marcus decide di raccontare la storia della sua famiglia: torna con la memoria alla vita e al destino dei Goldman di Baltimore, alle vacanze in Florida e negli Hamptons, ai gloriosi anni di scuola.

Ma c’è qualcosa, nella sua ricostruzione, che gli sfugge. Vede scorrere gli anni, scolorire la patina scintillante dei Baltimore, incrinarsi l’amicizia che sembrava eterna con Woody, Hillel e Alexandra. Fino al giorno della Tragedia. E da quel giorno Marcus è ossessionato da una domanda: cosa è veramente accaduto ai Goldman di Baltimore? Qual è il loro inconfessabile segreto?

Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari dove trovate alcuni dei miei libri e ogni giorno un libro in più sullo scaffale dei libro che secondo noi bisognerebbe avere. Fateci un salto, ditemi cosa ne pensate.

#unlibroalgiorno Tutti scrittori con i Nobel degli altri: un libro di Bob Dylan

E niente. Alla fine tra le polemiche inutili ci possiamo aggiungere anche quella sul premio Nobel a Bob Dylan. Sono solo canzonette, dicono. E lo dicono nello stesso in giorno in cui muore Dario Fo che era solo un comico, e che schifo dare il premio della letteratura a un giullare. Corsi e ricorsi storici della banalità che attraversa la storia, i tempi e i popoli.

Quelli che si incaponiscono sulla forma che deve avere la letteratura, quelli che vorrebbero essere possessori della formula matematica dell’ispirazione, quelli che aprono scuole di scrittura (molto “smart”, molto “cool”, molto “fast”) e schifano Bob Dylan oppure quelli che vorrebbero che scrittori fossero gli scriventi e magari poeti quelli che fanno una rima.

Di Bob Dylan, comunque, c’è una lettura che vale la pena collezionare, tenere nella nostra libreria ed è questo piccolo librino in cui Dylan gioca con le parole, il senso e il loro suono. Perché forse la letteratura più di essere qualcosa di scritto è qualcosa che imprime e l’orma di Dylan, beh, l’orma di Dylan rimarrà a lungo. Con e senza Nobel. Per fortuna.

Ecco la presentazione dell’editore:

Scritto tra il 1965 e il 1966 e pubblicato nel 1971, “Tarantula” è un’opera composita che raccoglie versi, apologhi, giochi di parole, parabole, mostrando gusto del nonsense e saggezza zen. Un’opera pensata, strutturata e agita con la deliberata intenzione di sfidare la lingua scritta e di condurla ai limiti estremi dell’ambiguità fonetica e del senso. I suoi temi sono l’America del dopo Kennedy, l’estasi e l’ossessione del sesso, la violenza del mondo e dei rapporti umani, la guerra del Vietnam e, al di sopra di tutto, la salvezza promessa dalla musica. In questa nuova edizione la prima traduzione italiana è stata interamente rivista, e innumerevoli livelli di significato sono stati portati per la prima volta alla luce. La “Guida alla lettura” che conclude il volume permette di esplorare un testo affascinante e ancora tutto da scoprire.

Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari dove trovate alcuni dei miei libri e ogni giorno un libro in più sullo scaffale dei libro che secondo noi bisognerebbe avere. Fateci un salto, ditemi cosa ne pensate.