Vai al contenuto

libri

#unlibroalgiorno Le parole che servono alla democrazia

Eppure aveva un senso la parola. Era rotonda, pesata, indispensabile e arma potentissima contro la prepotenza del potere. Quando la parola riesce a spazzare via la retorica e la propaganda i tribuni rimangono smutandati e inermi. Una democrazia sana ha bisogno di curare anche lo stato di salute delle proprie parole. Per forza. E per questo il libro di Pascale e Rastello pur scritto cinque anni fa oggi è più attuale che mai. Ci vorrebbe l’impegno di ripulire le parole, attivare antiracket culturale, lanciare una nuova ecologia lessicale. Questo libro, per fortuna, pone il tema. E siccome me lo sono colpevolmente perso credo che proprio ora è il momento di riparare.

Ecco la presentazione dell’editore:

La parola, veicolo di conoscenza e informazione, sembra oggi aver perso il proprio potenziale critico e analitico, e la sua fondamentale funzione di sprone e stimolo. Negli ultimi vent’anni l’informazione giornalistica e la televisione l’hanno ridotta a puro strumento retorico, volto a creare consenso oppure a offrire slogan consolatori e di facile presa. Lo scrittore – sia egli letterato, giornalista o divulgatore – può ancora contribuire alla crescita di una coscienza democratica diffusa e matura? O siamo condannati a subire questo svuotamento di significato, e a rinunciare ad ogni desiderio di sapere? Antonio Pascale e Luca Rastello affrontano il difficile rapporto tra intellettuale e società, partendo da un assunto di base: l’impegno oggi più urgente è quello di allontanare la parola dalla retorica e dalla spettacolarizzazione, per fare in modo che si riappropri della propria natura di strumento descrittivo e conoscitivo.

I libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari sullo scaffale dei libri che vale la pena leggere. Fate un giro nel nostro negozio che nasce piccolo per diventare grande. Ditemi cosa ne pensate.

#unlibroalgiorno Il primo martire di mafia. L’eredità di padre Pino Puglisi

Conosco Salvo Ognibene da qualche anno e lo leggo sempre nei suoi articoli. È parte di una generazione (lui, Ester Castano, Pierpaolo Farina, Massimilano Perna, solo per citare quelli con cui ho avuto a che fare) che sotto gli occhi attenti e istruiti di alcuni “grandi vecchi” dell’antimafia (Orioles, Dalla Chiesa e molti altri) hanno sviluppato una nuova alfabetizzazione antimafiosa e, soprattutto, un’intensa cura della comunicazione e dello studio. Cervelli in fuga dal pressappochismo e che per fortuna rimangono qui.

Salvo ha studiato il rapporto tra mafia e Chiesta in un altro bel libro (L’Eucaristia mafiosa. La voce dei preti, lo potete comprare qui) e ora si avvicina alla storia di Padre Pino Puglisi con il piglio dell’osservatore acuto. Questo Paese ha bisogno di teste così.

Ecco la presentazione sul sito dell’editore:

Che cos’è cambiato dopo la morte di padre Pino Puglisi, ucciso a Palermo da Cosa nostra il 15 settembre 1993 per il suo impegno evangelico e sociale? Il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia, proclamato beato nel 2013, ha lasciato una sfida da raccogliere: l’elaborazione di una pastorale più vicina agli ultimi e capace di fronteggiare i fenomeni mafiosi, soprattutto quelli di natura culturale. Dalle parole di condanna di Giovanni Paolo II a quelle di scomunica di Papa Francesco si è realmente passati, nella Chiesa, «dalle parole ai fatti»? I sacerdoti e le comunità cristiane sanno come comportarsi in modo evangelico di fronte alla prepotenza mafiosa? Esistono esempi di buone pratiche cristiane, che potrebbero essere riprodotte in contesti simili? Questo libro vuole rivivere gli insegnamenti di Padre Pino Puglisi, fornendo strumenti utili per contribuire a creare una coscienza cristiana critica e vera tanto da far paura alle mafie e alla loro cultura di prepotenza e di morte. L’eredità di Padre Pino Puglisi è oggi tesoro da conservare e da prendere come modello nelle diverse realtà italiane, offrendoci spunti di riflessione e risposte chiare sui dubbi e sui problemi che si insidiano nella nostra società.

Il libro lo potete comprare nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari (a proposito: vi piace? fateci un giro) qui. Messo nello scaffale dei libri che secondo noi vale la pena leggere.

A proposito della riforma: una mia intervista

(Una mia intervista per unoetre.it, l’originale è qui)

1. Come arrivare all’appuntamento del voto con la piena consapevolezza della scelta che si sta facendo, indipendentemente dalla volontà di politicizzare la scelta “contro” o “a favore” di Renzi?

Informandosi e confidando in una propaganda intellettualmente onesta. Però mentre nel primo caso i cittadini sono autonomi purtroppo per quanto riguarda l’informazione mainstream (sia di giornali che televisioni) mi pare evidente che la tossicità di questi ultimi anni fatichi a garantire una prospettiva intellettualmente onesta. Sulla questione della renzizzazione del referendum invece secondo me entrambi i fronti dovrebbero avere la cura di ritenere la nostra Costituzione ben più importante del governante di turno. La carta costituzionale (e la legge elettorale) restano, i governi cambiano. La speranza e lo sforzo sono sempre per una discussione che stia sui temi.

2. In dieci parole, quanto è importante questo voto e perché?

La Costituzione è la carta fondamentale dei nostri diritti e della nostra democrazia. Disinteressarcene ci rende cittadini inutili.

3. Quarantasette articoli verrebbero modificati se la riforma passasse, c’è rischio che la propaganda del taglio dei costi e dei senatori monopolizzi il dibattito elettorale?

Certo. È già così. Quello che sorprende è che proprio questo governo ha demonizzato fin da subito l’utilizzo dei costi e della casta come clava politica per pestare gli avversari e ora che si trova in difficoltà decide invece di scendere nella stessa banalissima arena. Con questa riforma si affrontano invece molti aspetti fondamentali degli equilibri parlamentari e della morfologia del nostro Stato. Inseguire l’antipolitica può portare guadagni elettorali nell’immediato ma finisce per concimare un disinteresse e una disperazione verso la politica che sono già sopra i livelli di allarme. Siamo un Paese in cui la politica interessa più alle lobby, ai corruttori e alle mafie piuttosto che ai cittadini.

4. Come fare a spostare l’attenzione sui molti articoli della costituzione che si andrebbero a modificare e dunque sui cambiamenti al welfare sociale e ai diritti civili?

Cercando di essere seri. Non cedendo alla tentazione di essere banali e allo stesso tempo rispettando il dovere di essere comprensibili. Raccontando che la Costituzione e le leggi sono la sceneggiatura della vita quotidiana di tutti i cittadini. E non capire il copione poco prima di dover entrare in scena non è un granché. Credetemi.

5. I politici settecenteschi asserivano che le costituzioni avrebbero dovuto essere scritte per i demoni e non per gli angeli. Per chi è stata scritta questa riforma?

È stata scritta per chi vuole un Paese governabile, come ci ripetono spesso gli stessi estensori. Io, personalmente, preferisco un Paese governato e quindi con una classe politica in grado di farlo senza dover spostare le leggi sempre un po’ più in là. Io credo che i padri della Costituzione abbiano voluto che fosse vigile e quindi “opprimente”: la Costituzione è un argine. Trovo sempre patetico il potente che ha bisogno di fare il prepotente per governare perché non ci riesce rispettando le regole.

6. Renzi, tra le sue argomentazioni, sostiene che questa riforma fosse stata fortemente voluta da Berlinguer. Come ribatterebbe?

Non c’è bisogno di tirare in ballo Berlinguer per trovare sostenitori del superamento del bicameralismo perfetto ma purtroppo questa riforma non fa altro che svilire il Senato senza nemmeno troppo coraggio. In un articolo su Rinascita Berlinguer scriveva: «Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e di meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.»

7. Con la eliminazione di molte competenze e poteri alle regioni, attribuite alla potestà del governo, ne guadagnerà o perderà la sovranità popolare?

Ne perderà come succede ogni volta che si toglie la possibilità ai cittadini di scegliere. E inoltre si contraddice il principio stesso di un’Italia nata con la promessa di rispettare le autonomie. Tra l’altro, anche in questo caso, senza il coraggio di toccare i privilegi delle regioni a statuto speciale. Un pasticcio, insomma.

8. Per “punire” le regioni meno solerti si danneggiano quelle più virtuose?

Ma la storia dei “tagli” ai consiglieri regionali, ad esempio, è una pagliacciata: si spostano i soldi dalle indennità ai rimborsi. Ma il problema è l’approccio mentale: io non voglio uno Stato che dice “paghiamoli meno così rubano meno” ma uno Stato in grado di fare rispettare le regole e soprattutto partiti che si prendano la responsabilità di costruire una classe dirigente all’altezza. Se davvero si vuole colpire la mala politica basterebbe fare una volta per tutte una seria legge sui partiti che qui hanno la gestione e le responsabilità di una bocciofila. Senza toccare la Costituzione.

9. Come si distingueranno nella forma e nella sostanza i “tour” di Renzi dai “tour RiCostituenti” che la vedono impegnata in prima persona?

Posso parlare di noi: proviamo a raccontare quanto sia bello approfondire, quanto sia salutare allenare il muscolo della curiosità e quanto sia culturalmente importante l’alfabetismo costituzionale.

10. Lei ha più volte ribadito l’insofferenza di questo governo verso gli organi di controllo: “Un Senato che eliminerà il voto dei cittadini e che, svilito del suo ruolo, potrà essere utilizzato come un rifugio per i referenti politici delle mafie”. Cosa rischia la democrazia?

Rispondo semplice: voi che fiducia avete in senatori che si eleggono tra loro?

La riforma e il neofeudalesimo

(Antonio Esposito per Il Fatto Quotidiano)

Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.

Entrambe le tesi sono profondamente errate.

Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.

Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.

Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.

Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.

Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.

Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.

Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.

Dov’è finito il giornalismo culturale

Una riflessione di Simona Maggiorelli:

Il prossimo gennaio la rivista Lo straniero pubblicherà il suo ultimo numero. Lo ha annunciato Goffredo Fofi nell’editoriale del luglio scorso. Finisce un’esperienza ventennale. Ma simbolicamente anche un’epoca, quella delle riviste letterarie che hanno acceso il dibattito del Novecento. Pensiamo per esempio a Belfagor diretto da Luperini, a Paragone ai tempi di Baldacci, ma anche a Linea d’Ombra diretta dallo stesso Fofi dal 1983 al 1995, e così via. «Purtroppo è inutile continuare rimpiangerle, quel modello non tiene più. Il mondo dei media che conoscevamo è esploso, si è frammentato, non è più mappabile. Se guardiamo al pubblico tradizionale dobbiamo dire che quelli che leggono sono una estrema minoranza, ma è anche vero che quella minoranza c’è ed è infra generazionale. Semmai il problema è che oggi sono un po’ meno riconoscibili i luoghi in cui si riesce ancora a fare critica», dice Giorgio Zanchini conduttore di Radio Rai, saggista e ideatore del Festival del giornalismo culturale di Urbino e Fano (dal 14 al 16 ottobre).

Nel suo ultimo libro Leggere cosa e come (Donzelli) tratteggia un quadro articolato e complesso del panorama attuale dell’informazione culturale dando rilievo ai cambiamenti portati dalla diffusione di Internet che ha reso più facile e democratico l’accesso alle notizie. In particolare, Zanchini sottolinea la dimensione partecipativa e di condivisione che caratterizza i social network. Senza tuttavia tacere riguardo agli aspetti negativi: «Sul web si sviluppa il discorso pubblico, ma è difficile distinguere l’autorevolezza e l’affidabilità delle voci». La cacofonia di un flusso continuo e massiccio di input, scollegati fra loro, rischia di “travolgere” il lettore se non è abbastanza attrezzato e capace di distinguere le notizie dalle bufale. Senza contare il filtro che esercitano sulle notizie colossi come Facebook e Google.

Con i suoi pro e contro «la rivoluzione tecnologica ha generato un cambio di paradigma nell’informazione», dice Zanchini. Ma non ha ucciso la carta, come invece si paventava. Così come Anobii o Trip advisor, a nostro avviso, non rendono inservibile la critica colta e argomentata. Anzi. In un momento come quello che stiamo vivendo in cui l’offerta culturale di libri, dischi, mostre ecc., è enormemente aumentata rispetto a trent’anni fa c’è più che mai bisogno di mediatori culturali autorevoli, preparati, capaci di organizzare una gerarchia delle notizie e di provare a interpretarne il senso. Ma eccoci al punto: chi ha una formazione specifica e gli strumenti culturali non trova spazio. I critici sono rimasti senza mestiere, per dirla con il titolo di un libro di Alfonso Berardinelli che aveva già acutamente inquadrato il problema negli anni 80. Sparite molte storiche riviste, la critica, in parte, si è rifugiata in rete, in siti letterari come Doppiozero, minima&moralia, Nazione indiana, Finzioni, Il lavoro culturale, Le parole e le cose, il sito di Rivista Studio ecc., ma in Italia il mercato pubblicitario sul web non decolla ancora e il pubblico non è abituato a pagare l’online. Così le riviste culturali telematiche, da noi, restano dei raffinati prodotti di nicchia. «Il fatto è che oggi con la critica non si campa più», commenta Giorgio Zanchini. «Non ci sono più, o sono pochissimi, quelli che riescono a vivere facendo i critici militanti come potevano ancora fare Geno Pampaloni o Luigi Baldacci; oggi i critici o sono accademici o devono arrabattarsi con altri mestieri e, nei rimasugli di tempo, scrivono delle recensioni e indirizzano i lettori».

(continua in edicola, su Left)

Una Bottega dei Mestieri Letterari, fateci un giro. E il boss, ovviamente.

In principio era una piccola libreria, con dentro alcuni dei miei libri in versione cartacea. Aperta un po’ così, con lo spirito della bancarella da curare nelle giornate libere o in serata prima di andare a dormire. Poi sulla mia pagina Facebook mi sono messo a consigliare i libri bellissimi che ho la fortuna di leggere (#unlibroalgiorno era l’hashtag). Poi ci siamo detti che forse una libreria conveniva aprirla per davvero per i fedelissimi del blog e ora c’è, è pronta. Ci siamo. Eccola qui.

Un piccola libreria che aspira ad avere un cuore grande. Una libreria che aspira ad avere un cuore grande dove, insieme ai miei, ci mettiamo anche i libri che secondo noi vale la pena leggere. Uno al giorno, se ci riusciamo.Una libreria a chilometro zero (anche se alcune spedizioni e alcuni pagamenti saranno gestiti attraverso il nostro negozio esterno, ma non spaventatevi, garantiamo noi) che vuole essere un punto di incontro, di scambio, di scorno anche, se necessario.

Da dove partire? Io ho appena finito di leggere Born to run, l’autobiografia di Bruce Springsteen e penso che sia un libro da tenersi in libreria. Perché racconta di come i desideri siano la materia prima da cui partire per costruire le grandi imprese e perché in fondo è un elogio rock della passione. Per farsi idea basta leggere la prefazione:

Prefazione
“La città da cui vengo è piena di piccoli impostori, e io non faccio eccezione. A vent’anni non ero un ribelle che sgommava con le auto da corsa, ma un chitarrista per le strade di Asbury Park, già membro a pieno titolo di quella categoria di personaggi che ‘mentono’ al servizio della verità… gli artisti con la ‘a’ minuscola. Avevo però quattro assi nella manica: la gioventù, quasi dieci anni di dura gavetta sui palchi dei bar, un valido gruppo di musicisti locali ben sintonizzati con il mio stile e una storia da raccontare.

Una storia che continua in questo libro, scritto anche per ricostruirne le origini. Come punti di riferimento ho scelto gli episodi che credo abbiano più influito sulla mia vita e sulla mia carriera. ‘Ma come fai?’ è una delle domande che i fan mi rivolgono più spesso. In queste pagine proverò a spiegare non solo il ‘come’, ma soprattutto il ‘perché’.

Kit di sopravvivenza per cantanti rock
DNA, talento naturale, serietà e dedizione, una sensibilità estetica quasi maniacale, un bruciante desiderio di… successo? Amore? Ammirazione? Attenzione? Donne? Sesso? Poi… oh, ma certo… qualche dollaro in tasca. E per finire… se vuoi sopravvivere fino al termine della serata, un fuoco che ti divampa dentro… senza… spegnersi… mai.

Ecco alcuni strumenti che ti torneranno utili se dovessi trovarti di fronte a ottanta(mila) fan devoti che urlano in attesa di assistere alla tua magia, di vederti estrarre dal cilindro, dal nulla o da chissà dove qualcosa che, prima di oggi, non era che semplice rumore travestito da musica. E dunque eccomi qui, a dare corpo a un ‘noi’ sempre così sfuggente e mai credibile fino in fondo. È questa la mia magia e, come tutte le migliori magie, inizia con un trucco. Abracadabra…”.

Ci sono tormenti, dietro i successi, che vale la pena leggere. Davvero. Lo trovate qui. E benvenuti in libreria.

Cinque osservazioni sulla riforma costituzionale

Con una lettera a Internazionale alcuni costituzionalisti puntualizzano la ricostruzione della propaganda del sì. Vale la pena leggerla:

Gentile redazione,

da assidui e attenti lettori della vostra rivista ci preme segnalarvi che la ricostruzione in cinque punti della proposta di riforma costituzionale apparsa sul sito di Internazionale il 26 settembre 2016 ci è sembrata lacunosa in merito ad alcuni aspetti, a nostro avviso particolarmente critici, del testo di legge su cui il 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci attraverso il voto referendario.

  1. In generale si trascura di specificare che gli articoli modificati dalla riforma Boschi sono 47, più di un terzo della carta. Dal 1948 a oggi i cambiamenti apportati alla costituzione nel corso degli anni sono stati molto più contenuti, e spesso hanno modificato uno o pochissimi articoli. Per avere un termine di paragone, ricordiamo che la riforma più invasiva che ha riguardato il testo costituzionale, l’infausta modifica del titolo V, ha toccato 17 articoli. Inoltre il parlamento che ha messo mano a una tale riforma è stato eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), la quale ha evidenziato che il legame tra corpo elettorale ed eletto si è alterato profondamente e che un parlamento così slegato dai cittadini avrebbe potuto rimanere in carica solo in virtù del principio della continuità dello stato. Ora, per quanto si voglia dilatare quest’ultimo è davvero arduo farvi rientrare nientemeno che la modifica di quasi un terzo della costituzione.
  2. Al primo punto della ricostruzione si omette che questo nuovo senato (non elettivo e a composizione variabile a seconda della durata dell’incarico dei sindaci e dei consiglieri regionali che ricoprirebbero d’ora in poi la carica di senatori) dovrebbe votare paritariamente insieme alla camera per numerosi tipi di leggi (articolo 70) tra cui quelle costituzionali, quelle che determinano le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane, e che inoltre il nuovo senato eserciterà la sua funzione su ciò che concerne la materia europea (articoli 55 e 80), che riguardano molteplici aspetti della vita di un paese membro.
  3. Ancora, si dimentica di segnalare che con la riforma Boschi il parlamento passerebbe da due possibili procedure legislative a un numero non ancora ben individuato di procedure alternative (secondo alcuni 7, secondo altri 9, secondo altri ancora 10 o 11). Anche questa incertezza sul numero di procedure è di per sé rivelatrice: gli stessi costituzionalisti, infatti, non sono in grado di elaborare un’interpretazione certa e unanime del nuovo testo costituzionale.
  4. Rispetto al titolo V si trascura di ricordare che la riforma in alcuni casi ripartisce in modo ambiguo le materie. Per quanto riguarda, per esempio, il patrimonio culturale (articolo 117) se da un lato la tutela e la valorizzazione sarebbero in capo allo stato, dall’altro la promozione spetterebbe alle regioni, con conseguenti conflitti di competenza davanti alla corte costituzionale onde definire l’incerto confine tra “valorizzazione” e “promozione”. Anche in materia di salute, il ritorno della competenza legislativa in capo allo stato – che tanto ha entusiasmato il mondo della sanità – riguarda solo le “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, mentre resta alle regioni la competenza in materia di “organizzazione dei servizi sanitari e sociali”, il vero punto debole del sistema da cui discende l’impossibilità di garantire a tutti un uguale diritto alla salute.
  5. Si dimentica di sottolineare che la nuova riforma darebbe al governo il potere (articolo 120) di commissariare gli enti locali per dissesto finanziario (potere che nel 2013 gli era stato negato dalla sentenza n. 219 della corte costituzionale), e quello di poter applicare la cosiddetta “clausola di supremazia” anche rispetto alle materie di competenza regionale (articolo 117). L’impressione generale è che la riforma abbia modificato l’equilibrio dei poteri senza ripensare a un bilanciamento adeguato.

In conclusione, dietro un’apparente semplificazione in nome della “governabilità” a noi sembra si celi il pericolo di un caos istituzionale in cui a restare al comando sia di fatto un solo potere: quello dell’esecutivo. Un rischio accresciuto dal legame tra l’Italicum e la riforma Boschi, che amplifica i suoi perniciosi effetti in termini di concentrazione del potere nel capo del governo e di indebolimento dell’autonomia delle istituzioni di garanzia. Ricordiamo, infine, che osservazioni molto simili a queste sono state mosse da un appello di 56 costituzionalisti (tra cui ben 11 presidenti emeriti della corte).

Da lettori di Internazionale, ci auguriamo che queste puntuali osservazioni trovino spazio nelle vostre pagine.

Salvatore Settis
Tomaso Montanari
Maurizio Viroli
Alessandro Pace
Gianni Ferrara
Gaetano Azzariti
Paolo Maddalena
Massimo Villone
Luigi Ferrajoli
Alberto Lucarelli
Enzo Di Salvatore
Geminello Preterossi

Anna Fava
Anna Falcone
Nicola Capone
Marica Di Pierri
Daniela Palma
Sandro Mezzadra
Luca Nivarra
Maurizio De Stefano
Mario Rusciano
Massimo Angrisano
Antonio Locoteca
Nicola Mandirola
Mirko Canevaro
Gabriella Argnani Viroli
Roberto Passini
Aldo Pappalepore
Giovanni Lamagna
Patrizia Gentilini
Giovanni Malatesta
Paola Lattaro
Paola Gargiulo
Nunzia Di Maria
Giovanna Ferrara
Vincenzo Benessere
Alessandra Caputi
Angelo Genovese
Antonio Locoteca
Wanda D’Alessio
Massimo Amodio
Raffaella Dellitto

 

L’11 settembre. Oggi.

Non l’abbiamo mai digerito l’11 settembre. Dopo quindici anni è un boccone di sabbia che ci è rimasto incastrato in gola e non serve la tosse, non serve tentare di berci sopra tutto il resto del mondo e nemmeno sfondarci le vene per svuotarle. Quell’11 settembre, se dovessimo dargli una forma, quell’11 settembre è l’architettura di un tempo che si sbriciola, mica solo le Torri, no: lì in fondo abbiamo ascoltato una paura che non sapevamo che voce avesse, che abbiamo voluto pensare seppellita tra i libri di storia e che abbiamo sperato, pavidi, di non incrociare mai di persona.

Non c’è solo la questione politica. La politica che sbava su quei morti passerà come sempre dal giudizio della Storia. Quel crollo è il tatuaggio in bocca a un’intera generazione che ha dovuto imparare di corsa, come corrono di corsa gli spaventati per scappare dalla sensazione di disperazione, un nuovo vocabolario della paura. Sotto pelle ci si è infilato un terrore possibile che non abbiamo mai dovuto esplorare prima, l’11 settembre è stato l’incendio della sicurezza di un mondo convinto di essere protetto da un civiltà presunta che in questo orrido gioco non conta e non vale; l’incendio degli anziani che pensavano di avere estinto il proprio debito con la violenza e di meritarsi la pensione almeno dalla ferocia; l’incendio di chi aveva scelto di non occuparsi del mondo chiedendo al mondo di non occuparsi di lui; l’incendio di un giornalismo e di una narrazione che avevano già sprecato tutte le iperboli possibili e sono rimasti di sale, muti; l’incendio di chi ancora oggi vorrebbe indicare saccente una razza o una religione a forma di nemico e invece rimane smutandato, nel privato, esattamente come noi; l’incendio di chi s’è ubriacato con il mito del controllo del mondo e intanto banchettava nei camerini di una bugia; l’incendio degli ultimi, sì anche degli ultimi, che ancora una volta sono sprofondati nel rumore e neanche ora si sono presi la briga di spiegargli gli scricchiolii.

Pensavo, stamattina, se davvero siamo capaci, almeno quindici anni dopo, di prenderci quella paura in mano e provare a riconoscere la forma che ha. Come fanno i bambini quando si trovano un oggetto in mano e in quei primi secondi si sforzano per trovarne il lato del gioco: così, noi, quell’11 settembre, ce lo ritroviamo tutti gli anni in mezzo alle gambe e non sappiamo che farci. Non sappiamo nemmeno se davvero il mondo sia cambiato come ci aveva promesso di impegnarsi a cambiare: gli sceriffi hanno dovuto ripulire altro sangue in mezzo alle strade, con cadaveri che avevano parlato fino a un minuto prima lingue diverse dall’accento di New York eppure con le stesse pupille larghe di chi è morto senza averlo capito e, dall’altra parte, i minimizzatori professionisti che non sanno più cosa filosofeggiare.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)

Eppure oggi Libero Grassi sarebbe un ostacolo al Pil

Ogni tanto le circostanze giocano brutti scherzi per uno strano incastro di tempi e così succede, com’è successo ieri, che in giro si ricordassero tutti di Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ucciso da Cosa Nostra per essersi ribellato al pizzo il 29 agosto del 1991.

Commemorare la memoria, si sa, è una pratica salutare se i ricordati sono persone che, proprio come Libero Gassi, hanno pagato con la vita il coraggio di osare le regole. Regole e giustizia. A costo di fare arrabbiare i prepotenti e, soprattutto, essere isolati dai buoni.

Nei Paesi stanchi si infila l’idea che sia giusto ciò che è comodo, produttivo e che riesce a non sforare le regole. Tutto ciò che non è illegale è quindi giusto? No, certo, risponderebbero tutti d’acchito, eppure pullulano le articolesse che demandano ai giudici la parola definitiva tanto per la giustizia quanto per l’opportunità, la valenza sociale e politica di tutte le umane azioni. Il “primato della politica” arriva sempre dopo la giustizia e così è diventato un primato secondario. Per dire.

Libero Grassi dal momento in cui decise di rendere pubblico il proprio rifiuto di non sottostare al racket di Cosa Nostra fu considerato pericoloso sia dai cattivi che dai buoni. Ma qui sono i buoni ad interessarci: gli industriali palermitani ritennero che la ribellione di Libero Grassi potesse mettere a rischio i propri affari poiché pretendere una rivoluzione così improvvisa avrebbe sconquassato gli equilibri cittadini. Libero Grassi, in fondo, è stato un “improduttivo” che ha messo davanti gli interessi collettivi alla crescita del fatturato locale e così non potendogli dare dell’egoista finì che lo bollarono come cattivo esempio di protagonismo.

Ecco perché tutto questo trastullarsi la memoria di Libero Grassi di ieri forse stona un po’, oggi: oggi mentre l’ammorbidimento della regole (che nel lavoro si chiamano spesso diritti) sembra la soluzione unica per la ripresa dell’economia. Oggi mentre ancora rimbombano le parole di Marchionne che ha goffamente tentato di insegnarci che il troppo profitto diventa avidità. Marchionne. Lui e l’etica del lavoro.   Da non credere.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Oggi siamo rigattieri di storie

Come quella (bellissima) di nonna Vitaliana:

Nei terremoti alla fine si frugano anche le storie, inevitabilmente. Dalle macerie evapora la fotografia di un Paese con tutte le sue generazioni, i dolori e gli eroismi. Gli eroismi minimi tra Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto sono da tessere con sensibilità e cura; noi che scriviamo per mestiere siamo qui, nei giorni dello sbriciolamento, con il modesto compito di diseppellire nomi, visi, ricordi e speranze. Siamo, in fondo, i rigattieri dei sentimenti. Una cosa così.

Nonna Vitaliana ospitava i nipoti, Samuele e Leone. A Pescara del Tronto che oggi sembra anche lei una città bombardata dal basso. I bambini vivono a Fregene ma la visita alla nonna è un appuntamento fisso. Non è un periodo florido per i nonni qui da noi, ora che la modernità è diventata un metro di giudizio per considerare il valore personale. Non deve nemmeno essere facile per loro, gli anziani, essere memoria vivente di un Paese che teme la memoria sperando così di svicolare dalle sue responsabilità. Non è nemmeno un’epoca di leale gratificazione, se ci pensate: mentre i più anziani svolgono la funzione dello stato sociale (si occupano della famiglia, dei nipoti, riaccolgono i figli disoccupati, sono la rete di salvataggio di mariti impoveriti e separati, garantiscono un approdo qualsiasi cosa succeda) nel dibattito pubblico gli anziani sono le loro malattie e le loro pensioni. Costi. Gli anziani costano. Il messaggio è spesso questo.

Dicono che un terremoto rimanga nelle ossa per sempre. Gli aquilani ieri hanno sobbalzato vedendo le immagini di queste ore. Anche per questo la loro solidarietà è esplosa senza bisogno di organizzazione: tra le macerie molti volontari sono i sopravvissuti dei terremoti scorsi come se volessero scontare e restituire la propria salvezza.
Lei, nonna Vitaliana, quando di notte ha sentito il fracasso del pavimento che si sposta, ha sfogliato le pagine di una vita intera fino al capitolo della protezione. La protezione è una materia che non si impara solo sui libri, la protezione è un tendine che si tempera con l’esperienza e il dolore. Quella voce che ha bisbigliato all’orecchio di Vitaliana di prendere i nipotini e rifugiarli sotto al letto (e lei sopra di loro a fare da scudo) è la voce dei nonni. Quella cosa lì.

Samuele e Leone li hanno estratti vivi. Vivi come si può essere vivi dopo una casa che ti è entrata in gola, certo, ma vivi. Solo dopo sono riusciti a disincastrare nonna Vitaliana.

(continua su Fanpage qui)