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Sulla portaerei a ricostruire l’Europa. Dal basso, eh.

“Stiamo facendo la storia” scrivono i giornali rilanciando le immagini dei tre tronfi che s’imbarcano felici sulla portaerei come una famigliola sul traghetto d’agosto. Il risultato politico sarebbe dovuto al fatto che (testuale) «per la prima volta un cancelliere tedesco ha visitato Ventotene e si è fermato davanti alla tomba di Altiero Spinelli, uno degli autori del manifesto di Ventotene, che su quest’isola è stato al confino per decisione del regime nazifascista. Che Angela Merkel sia venuta in questo luogo simbolo di quell’oppressione è importantissimo, è una cosa che si ricorderà nei libri di storia. Anche se è stata una visita molto rapida, è un gesto che vale più di molte parole».

«Tenere insieme sogni e concretezza» ci hanno detto Renzi, Merkel e Hollande mentre si mettevano in posa da podio olimpico. Che poi tenere insieme sogni e concretezza sia uno slogan da merendina degli anni ’80 non è un problema, per carità: il fatto è che mi piacerebbe sapere cosa si siano detti i tre mentre leggevano il passaggio del pluricitato manifesto di Ventotene dove si dice che “la rivoluzione europea dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici”. Ecco, io pagherei per essere stato una mosca e fotografare l’espressione dei cari leader.

Ma continuiamo. Dice il manifesto stilato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni: “Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.” Chissà che ridere Renzi, la Merkel e Hollande. Chissà che ridere.

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Giulio Regeni è la stella cadente

San Lorenzo. Notte di stelle cadenti da cogliere al volo per bisbigliare un desiderio. Stelle cadenti. Per tutto l’anno sono i miti abbattuti e solo per una notte all’anno diventano occasioni da pescare: basta poco per trasformare il declino in poesia. Basta crederci.

La stella cadente di quest’anno ha la faccia appuntita di Giulio Regeni, ha la forza misurata dei suoi genitori capaci di essere disperati con un equilibrio saggio, capaci di volere la verità senza cedere all’odio. Io no, io davvero devo ammettere che il silenzio su Regeni mi fa impazzire, strappare le unghie, mi fa venire voglia di morsicare i cervelli di quelli che dovrebbero muoversi, mi spreme il cuore in un dolore liquido e lento.

La mia stella cadente, il mio desiderio è che finisca la farsa intorno a Giulio. Che si rimettano almeno, per amore della verità (o per l’amor di dio per quelli per cui conta), in ordine i fatti, i pesi, le misure e i personaggi. Che si smetta di soffiare nell’iperbole di Regeni come spia pur di non sentirsi colpevoli, che si dica una volta per tutte che ci fa schifo l’Egitto se l’Egitto è quel Paese in cui si muore con una motivazione falsa, poi subito dopo con cento cause diverse e poi alla fine in nessun modo credibile.

Vorrei che i membri del governo tutti pancia a terra per la riforma della Costituzione avessero la stessa frenesia per vederci chiaro. Vorrei che i telegiornali considerassero la mancata verità ogni giorno una notizia degna d’esser data.

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A proposito di Diego Turra

Tanto per riportare i fatti. Queste le parole della moglie:

Non passava giorno che Diego non raccontasse delle sue «missioni» (come le chiama sua moglie) sul fronte dell’immigrazione. Del suo dispiacere quando capiva che gli immigrati avevano paura della polizia, del fatto che qualche volta ci volevano due-tre poliziotti per fermarne uno facinoroso. «Lui li avrebbe aiutati tutti, stava sempre dalla parte dei deboli, non ha mai abusato della sua divisa» racconta Danila che di cognome fa Jipijapa, che qui in Liguria ha appena finito un corso di operatrice socio-sanitaria e che è nata e cresciuta in Ecuador, dove ha avuto un marito e sei figli prima di trasferirsi in Europa e conoscere Diego. «Ci siamo incontrati a un compleanno nel periodo in cui io vivevo in Spagna. Poi, nove anni fa ci siamo sposati e lui è diventato il padre adorabile dei miei figli, un uomo dolce, unico, pacifico. Non credo che nessuno lo abbia mai visto arrabbiato». (fonte)

Poi magari un giorno, con equilibrio, si parlerà anche delle condizioni esasperate (e esasperanti) in cui lavorano le forze dell’ordine. E non c’è governo di destra o di sinistra che intervenga.

Povera Rai

Francesca Fornario conduce un programma su Radio Due, oltre a tutto il resto. Ed è un’amica.

Scrive sul suo profilo fb:

“Ricapitolando: niente battute su Matteo Renzi, niente politica, niente satira, niente personaggi, niente imitazioni, niente copioni, niente “scenette” qualunque cosa siano, niente comicità e che altro… ah, niente battute sul fatto che non si può dire “comunista”. Quel che resta – il mio imbarazzo e bene che ci vogliamo io e Federica Cifola – va in onda ogni sabato e domenica in diretta su radio2, dalle 18 alle 19.30″.

Si apre un discussione in rete in cui in interviene anche un fido renziano come Tommaso Ederoclite che domanda:

Avevo già letto Pasquale, se fosse così è gravissimo, ma nello stesso tempo mi pongo una domanda, come mai Francesca nonostante certe “censure” ha continuato a lavorarci lo stesso?

E Francesca risponde:

Perché questo è il mio lavoro, vivo di questo facendolo con il massimo scrupolo, vivrò di questo fino a quando mi consentiranno di farlo dandogli comunque un senso di servizio – servizio pubblico! – e restando libera di spiegare perché prima il programma era fatto in un modo e ora in un altro. Quindi, cerco comunque di fare meglio che posso il programma – un nuovo programma, a questo punto, completamente diverso dalla prima stagione di due anni fa, che aveva avuto molto successo – seguendo le nuova linea editoriale, parlando agli ascoltatori di cose che penso possano sollevare la condizione di ciascuno tipo – come ho fatto ieri – raccomandando libri per bambini che cambiano di poco in meglio la vita. Ad esempio, “La guerra del burro”. Resto convinta che il servizio pubblico lo facessi meglio facendo quello che so fare meglio, e non serve, immagino – spero! – spiegare perché la satira SERVA, vero? Che preferisco farlo spiegare a Groucho Marx: Groucho Marx diceva che la prima cosa a sparire in un paese quando si trasforma in uno stato totalitario sono i comici e la commedia: «Poiché ridono di noi, non si accorgono di quanto siamo importanti davvero per la loro salute mentale». Ovvio che se invece di dirmi cosa non posso più fare mi dicessero anche cosa devo fare, e se fosse qualcosa inconciliabile con i miei principi tipo fare propaganda a favore del sì al referendum o peggio ancora elogiare i dischi di Nek, saluterei senza pensarci un secondo, essendo io una privilegiata che pensa di poter fare tanti altri lavori al posto di questo. Buona giornata!

Povera Rai. Poveri noi.

Strage di Bologna: paludi e trattative

Il 2 agosto del 1980 ero un bambino intento ad altro. La strage di Bologna è un racconto che mi è rimbalzato anni dopo con tutto il fumo che ammanta le stragi italiane: microscopici dettagli sul dilaniamento delle vittime, minuziosi particolari delle loro storie, centinaia di angolature fotografate e scritte, chili di audizioni nelle diverse commissioni parlamentari, lenzuola di tesi disparate e un’enorme bibliografia. Per noi che siamo nati a cavallo della strage della stazione, Bologna è una biblioteca sterminata. E ci si perde nelle biblioteche folte ma senza logica. E talvolta si perde la verità, quella che non ha interesse a sembrare convincente.

La verità convincente è il prodotto politico di un Paese passato per il terrore: un’ostinata ricerca di un risultato semplice, condivisibile e soddisfacente per l’opinione pubblica. Così anche per la strage alla stazione di bologna gli anni hanno impresso l’orma di una verità gustosissima e prêt-à-porter. E fa niente se Licio Gelli, Cossiga, gli avanzi di Gladio e le criminalità diversamente organizzate sono passate come un raffreddore. Mambro e Fioravanti, anche quest’anno, sono l’imene ricostruito di una storia che si fa fossile, se serve per confortare.

Scriveva Sciascia in uno dei suoi ultimi libri (A futura memoria, 1989, Bompiani): «Fra le cose che mi rimprovero come viltà, viltà personale, anche se si tratta di viltà sociologica e storica, c’è quella di non aver preso le difese di certi fascisti quando mi è sembrato che fossero accusati ingiustamente. Se fossero stati rampolli della sinistra da un pezzo mi sarei dato da fare per loro, avrei sottoscritto petizioni… ma ahimé, appartengono alla destra, e allora, anche se intuisco che qualcosa non funziona, nei processi a cui sono sottoposti, non mi sento abbastanza sollecitato a indagare più a fondo».

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Musulmani nelle chiese ma gli avvoltoi voleranno ancora

Gli islamici diano un segnale, dicevano e continuano a dire quelli che poi si offendono se vengono bollati come “italiani” durante il ferragosto a Formentera. Gli islamici dicano qualcosa, dicevano, dimenticando che alla strage di ‘ndrnagheta a Duisburg, ad esempio, non mi pare di ricordare nessun italianissimo gesto collettivo di scuse per queste mafie che inquinano il resto del mondo. E così oggi in tutta Europa succede che i musulmani partecipino alle messe, presenziando nelle chiese cattoliche, come segnale di pace e convergenza nei valori della non violenza e della fratellanza. Succede dappertutto, succede a Rouen dove non si è ancora asciugato il sangue del parroco sgozzato e succede anche in Italia dove sul sangue patetici Le Pen in salsa padana cercano di costruire un partito.

L’abbraccio nelle chiese, sia chiaro, è potente: un segnale fisico, non diversamente interpretabile e netto per tutti coloro che credono davvero che la pace sia il comune denominatore. E bene ha fatto la comunità islamica a chiedere a gran voce una presa di posizione che non lasciasse scampo ai detrattori, rappresentata dallo spostamento dell’Islam verso la Chiesa lasciando perdere l’eventuale equilibrio fintamente cortese delle celebrazioni cucite con diplomazia. Per un Imam entrare in una Chiesa è un gesto di richiesta d’abbraccio, un chiedere permesso e un porgersi al dialogo. Ogni altra interpretazione su ciò che accade oggi è benaltrismo di chi non ha più argomenti o peggio complottismo di bassa Lega. Con la L volutamente maiuscola.

Però l’abbraccio tra due comunità religiose così sotto pressione (cattolici e islamici) è la risposta ad una domanda sbagliata e questo dobbiamo bene tenercelo a mente. Al di là della propaganda che attecchisce tra l’ignoranza e la paura è chiaro che il terrorismo che viviamo in Europa non abbia niente a che vedere né con i parroci, né con Allah e nemmeno con Dio e se qualcuno non si è ancora disincagliato da quest’orrido pregiudizio (dopo che lo stesso Papa Francesco l’ha negato a gran voce) significa che esiste una riserva di irriducibili imbecilli. E gli imbecilli quando fanno squadra hanno la becera capacità di diventare insensibili ai segnali del mondo: credono che la Shoah sia un’invenzione, che Dio suggerisca le leggi parlamentari, che esistano diritti sbagliati e razze (o tenie o comunità religiose) prioritarie. Figuratevi se gli imbecilli si accorgeranno oggi di ciò che succede; rimarranno biliosi e spaventosi ad aspettare il prossimo appiglio.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)

Politicamente. Non saprei come non farlo.

Ma cos’è la politica? Dico non nel suo senso letterale, giuridico o così com’è scritto nei libri, no, mi chiedo cos’è la politica, come viene vissuta, che odore ha e quali onde crea quando viene annusata durante un conversazione: che fastidioso calcolo è diventato la politica, incapace di non infeltrire qualsiasi discorso, rapporto o sempre pronta a rendere scivoloso un passaggio. Brutti i tempi in cui l’impegno si riduce a una contrizione interna da smistare tra amici stretti, quel tempo in cui l’insoddisfazione o il dolore stanno solo a suggerire una mezza ispirazione per il prossimo libro mentre tutti giocano a essere impolitici. Ci vorrebbero meno politici, ha detto Renzi lanciando una riforma che è un deserto travestito da semplificazione; meno politici (e meno politica) sono gli elementi ideali per la glaciazione della passione, della fiducia e, appunto, dell’impegno.

Io non so come sia successo che siamo riusciti a sdoganare l’indifferenza, davvero. E sinceramente mi risulta anche difficile immaginare questa nuova classe di operatori culturali equilibristi tra il niente e il nessuno, quegli stessi che sottovoce al telefono in questi mesi mi hanno spiegato some sul prossimo referendum forse, visto il momento, non convenga esporsi troppo. Io no, io non ne sono capace. Ma non solo: sogno un Paese profondamente politico, con tutte le sue differenze e contraddizioni, con gli scontri (politici) che servono per confrontarsi e capire: anelo sempre di più ad avere infinite possibilità di allenare uno sguardo curioso. Io non saprei come non farlo, se non politicamente. Tutto: scrivere, scegliere, frequentare, muovermi nel mondo. Non saprei come farlo.

E non credo al reclutamento, no. Non funziona la propaganda tossica di chi si propone come unica soluzione spendendo quintali di energie unicamente per debellare l’immagine degli altri. Credo, questo sì, che sarebbe un bene per tutti alzare il livello di confronto; credo che bisognerebbe imparare a rispettare gli elettori e gli attivisti che molto spesso (troppo spesso) sono meglio della classe dirigente che esprime il partito in cui si ritrovano impegnati. Succede anche con i governi, troppo spesso, se ci pensate.

Ecco perché mi sono buttato anima e corpo al Tour RiCostituente pensato con Possibile e Pippo Civati (trovate tutto qui): mi sento a casa con chi prende posizione, con chi parteggia. Da sempre, Con chi decide da che parte stare. E auguro a voi di trovare una casa accogliente, allo stesso modo.

La casa, appunto: ma perché mischiarsi con un simbolo di partito? La banalissima domanda è un’altra delle masturbazioni dei tanti politiconi che fiancheggiano (e per di più servono nel senso di servire) come favoreggiatori esterni. Che schifo il simbolo di partito, mi dicono e poi tutti a correre per uno spettacolino o un’esibizione alla mercé del padrone più conveniente. Ma se compare un simbolo, no, quello no: del resto non si erano mai visti così tanti sostenitori di un segretario di partito (Matteo Renzi, tra le altre cose, è anche questo, eh) che schifano il PD. Ho chiesto io, di persona personalmente, di non essere considerato ospite in una comunità politica in cui mi ritrovo ad operare. Non hai paura che ti associno ad un partito? mi hanno chiesto. E mi sono chiesto se non è proprio questa facile associazione semplicistica ad essere il sintomo di una certa vigliaccheria. Temo il giorno in cui potrei farmi condizionare da interessi corporativi, questo sì ma non temo di influenzare una comunità. Anzi, è la politica, appunto.

In più credo che sia poco chiaro il luogo che Pippo Civati e i suoi hanno voluto costituire: Possibile è un insieme di esperienze che hanno (e anche svolgono) ruoli molto diverse. No, niente reclutamento, mi spiace. In giro per l’Italia ci sono Comitati spontanei che nascono semplicemente riunendo gruppi (a partire da dieci persone, pensa te) con un obiettivo comune e dei valori condivisi. Niente “corpi intermedi” di partito: quelle pieghe in cui si allevano tanti piccoli servitori diligenti. Niente di tutto questo. E pensare che erano in tanti (io incluso) a chiedere a Pippo di uscire da quella destrorsa marmaglia che è diventato questo governo. E ho sempre pensato che chiederglielo equivalesse anche a un certo senso di responsabilità nei suoi confronti. Ma forse sono strano io.

Anzi, avrei voluto che fossimo comitato noi che ci ritroviamo a fine giornata, dopo ore di notizie e scrittura, a discutere di cosa è stato, di solito prima di cena, e di cosa avremmo potuto fare meglio o capire prima. Questo è un Paese pieno di presidi politici che seppur ristretti hanno più dignità e lungimiranza di celebratissimi consigli di amministrazione. Poi mi hanno detto che a Ostia, non lontano da me, c’è un accanito gruppo che cerca di capire la marmaglia di mafia, politica, corruzione e antimafia finta in un lido che è diventato il sacchetto dell’umido della Capitale. E ho pensato che forse sarebbe interessante metterci lì, le mani in pasta. Provare a capire, che è una ginnastica che amo moltissimo.

Ecco, l’augurio è che l’Italia diventi fortemente e appassionatamente politica. Fatelo dove volete, con chi volete, con spirito critico. Iscrivetevi alle associazioni, ai partiti, ai gruppi d’acquisto in cui sentite il profumo di passione. Ma fatelo, senza restare fermi. Se volete provarci qui con noi o capire o parlare, se volete capire se è Possibile allora parliamone. Basta poco. Basta fare un salto qui o, se preferite, scrivere a me, direttamente cliccando qui.

Ecco chi sono i “riservati” della ‘ndrangheta

Giù il cappello a Alessia Candito che ha scritto un articolo da tenersi in tasca:

REGGIO CALABRIA Le fonti di conoscenza dei due collaboratori sono diverse, come diversa è la caratura, ma per il giudice entrambi sono assolutamente attendibili e le loro dichiarazioni sono da ritenersi credibili e genuine. I pentiti Nino Lo Giudice e Cosimo Virgiglio, nel corso di interrogatori recentissimi su cui gli approfondimenti sono già in corso, hanno svelato al pm Giuseppe Lombardo i nomi di alcuni degli appartenenti a quella terra di mezzo in cui ‘ndrangheta e massoneria si mischiano per aiutarsi mutuamente.

LE RIVELAZIONI DI CONDELLO Nel suo ultimo interrogatorio, il 21 giugno scorso, Lo Giudice afferma di aver appreso i nomi di alcuni dei componenti della struttura riservata della ‘ndrangheta direttamente da Pasquale Condello, «che mi disse di far parte lui stesso di quel mondo». E il pentito fa i nomi dell’avvocato Antonio Marra, dell’ex sottosegretario Alberto Sarra, di Pasquale Rappoccio, dell’avvocato Giorgio De Stefano, dell’ex antenna dei servizi Giovanni Zumbo, del funzionario regionale Francesco Chirico, cognato di Paolo, Giorgio e Orazio De Stefano e zio del capocrimine Giuseppe, dell’avvocato Paolo Romeo , «di cui – sottolinea Lo Giudice – mi ha parlato anche Cosimo Moschera, che era legato ad Avanguardia Nazionale insieme a Romeo e al marchese Zerbi».

IMPRENDITORI E POLITICI Insieme a questi ci sarebbero anche, secondo quanto il collaboratore ha appreso dal Superboss, nomi noti della ‘ndrangheta reggina come Giuseppe De Stefano e Pasquale Libri, politici come Giuseppe Scopelliti e i suoi fratelli, Fortunato e Francesco, l’imprenditore Mandaglio, «titolare di un negozio di elettrodomestici in via Possidonea», e diversi legali, Bucca, Scalfari e Calabrese, che – spiega il pentito – «il Condello accostava anche ai servizi di sicurezza». «Anche il dott. Crocè e tale Dominque Suraci – puntualizza a fine interrogatorio il pentito – fanno parte del medesimo contesto massonico: sono soggetti anche questi vicini a Pasquale Condello». Il reggente Domenico Condello, chiamato spesso da Lo Giudice “Gingomma”, gli avrebbe invece parlato di Giuseppe Libri, del sottosegretario Sarra e di un non meglio precisato « dott. Cellini», in passato nominato spesso anche da Paolo Schimizzi.

LE PAROLE DI CHILA’ Altri nomi- aggiunge Lo Giudice – glieli ha rivelati Giovanni Chilà, defunto uomo di vertice del suo stesso clan. Nell’elenco, tornano i nomi di Giuseppe De Stefano e Pasquale Libri, come di Paolo Romeo e del suo storico collaboratore, l’avvocato Antonio Marra. In più ci sono quelli dell’imprenditore Giovanni Zumbo, rappresentante della Parmalat, Antonino Latella, Carmelo Iamonte, Domenico Libri, Giovanni Alampi, il defunto notaio Marrapodi, Rocco Aquino e l’avvocato Corrado Politi, accostato al clan Tegano, e i fratelli Frascati.

“LE CONFERME DI FRASCATI E LA CONFESSIONE DI FONTANA” Secondo quanto dichiarato dal collaboratore, sarebbero stati questi ultimi a raccontargli della loro appartenenza a quel mondo, insieme al generale Angiolo Pellegrini, al professore Caratozzolo di Messina e «a tale Sinicropi». «Mi dissero i Frascati – mette a verbale – che con tali soggetti si svolgevano incontri nella villa di Gambarie di Angelo Frascati. Mio padre mi disse anche che il Gen. Pellegrini si era impegnato ad aggiustare la procedura di sequestro degli immobili ai Frascati». Confidenze che gli sono state fatte anche in virtù dei legami di parentela, perché «mio zio Francesco Ficara è parente di Angelo Frascati, in quanto il fratello di questi ha sposato la figlia del Ficara». Il boss Giovanni Fontana gli avrebbe invece rivelato, solo per questione di fiducia, la sua appartenenza alla massoneria. «Ricordo – afferma – che sia lui che Pasquale Condello mi parlarono di tale De Caria, come soggetto a sua volta legato a quel mondo».

AVVOCATI Secondo quanto si legge nelle carte, anche il legale Lorenzo Gatto, per lungo tempo suo difensore, avrebbe confessato al “Nano” la sua appartenenza a quel mondo riservato, dando a Lo Giudice conferma di quanto sostiene di aver appreso da Chilà e Condello, secondo cui il noto avvocato sarebbe un Santista, affiliato da Domenico Libri. Non a caso – ricorda Lo Giudice – «l’Avv. Gatto mi disse che su viale Aldo Moro, vicino ad una palestra, vi era una sala riunioni di questa superloggia massonica. Non sono in grado di indicare, però, il luogo esatto in quanto il Gatto non mi ha fornito indicazioni precise. Ricordo che nei pressi si trova un cinema». Dal legale, Lo Giudice avrebbe appreso dell’appartenenza alla Santa del maresciallo Francesco Spanò, di Logoteta e della sua omonima loggia, di boss come Giuseppe Pelle di San Luca, Giuseppe Libri e Giuseppe De Stefano, dello zio di questi, l’avvocato Giorgio De Stefano, come pure dell’avvocato Aurelio Chizzoniti. «Ricordo che mi fece anche ascoltare una registrazione tra Ugo Marino ed altro soggetto che Gatto diceva essere legati alla massoneria. Anche il reggente di Santa Caterina – ricorda – gli ha parlato di un legale. Si tratta dell’avvocato Tommasini, storico difensore di casa De Stefano, «di cui – dice Lo Giudice – mi aveva parlato anche mio padre». Ma Moschera, aggiunge, aveva parlato anche dei Mammoliti. Dell’avvocato Giglio e del fratello medico, Vincenzo, gliene aveva parlato invece Domenico Gangemi, affiliato ai Lo Giudice, che dei due sapeva anche che «abitano o hanno uno studio in via Melacrinò; gli stessi Giglio – riferisce il Nano – hanno una abitazione anche di fronte alla Regione Calabria.

LA RETE DI LUCIANO Il pentito afferma di aver sempre saputo dell’appartenenza di Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro proconsole in Nord Italia, a tale contesto massonico, al pari di Mario Mesiani Mazzacuva «che aveva parlato con mio padre in mia presenza». In famiglia però, le rivelazioni più importanti gliele avrebbe fatte il fratello, Luciano Lo Giudice. Nomi così importanti da essere coperti da vistosi omissis, cui sopravvive solo un’indicazione. «Tali soggetti si riunivano spesso nel palazzo Upim di Reggio Calabria», meglio noto come palazzo Sarlo. Altre informazioni arriveranno invece a Lo Giudice dall’imprenditore Antonino Spanò. «Mi disse che conosceva appartenenti alla massoneria: mi parlò certamente di Siclari Pietro, che chiamava zio Pietro, che mi disse essere un uomo di …OMISSIS…; questa circostanza mi è stata confermata anche da mio fratello Luciano e dal capitano Spadaro Tracuzzi.

ME LO HA DETTO VIRGIGLIO Molti dei nomi che Lo Giudice ha inserito nel secondo memoriale, inviato durante la sua breve latitanza – chiarisce – gli erano stati riferiti da Cosimo Virgiglio. «Mi ha parlato di Bellocco Umberto, di Pesce Giuseppe e Marcello, dell’imprenditore Mucciola, dei Piromalli, di Morelli, di Quattrone, di Pietro Tripodi – collegato al Chirico ed al Mandaglio –, di Pietro Fuda, dei Cedro, dell’Avv. Politi Corrado, di tale Marrara, di tale Marrari, dei fratelli Labate, del dott. Pulitanò, del notaio Poggio, di Angelo Barillà dirigente della Sisa di Melicucco, nipote di Natale Iamonte. Fra loro c’è anche quello del capitano Spadaro Tracuzzi, condannato anche in appello come uomo al servizio di Luciano Lo Giudice, che – ricorda il Nano – insieme a un uomo dal nome ancora tenuto sotto silenzio «si recavano al porto di Gioia Tauro per collaborare con la CIA, che aveva un ufficio presso quella struttura».

LE RIVELAZIONI DEL MASSONE DEI CLAN E sarà proprio lui a ripeterli, in maniera ordinata e anche molto più circostanziata di Lo Giudice, al pm Lombardo. Insieme a molti altri. Come quello dell’imprenditore Cedro di Gioia Tauro, dei boss Rocco Aquino, Giuseppe Pesce e Pietro Labate, dell’imprenditore Giovanni Zumbo e del «presidente della Camera di Commercio, coso, Dattola, che era nostro fratello».

BARONI DELL’UNIVERSITA’ E DEL CALCIO Del preside, Eugenio Caratozzolo, racconta di averlo incontrato al Rotary, ai tempi in cui era «trampolino di lancio per la massoneria». Un contesto all’epoca frequentato da personaggi del calibro dei professori «Antonio Miceli e Carluccio di Reggio Calabria, il professore di diritto commerciale era all’epoca lui, poi c’era il professore Falzea e il preside, Eugenio Caratozzolo e… e poi veniva… cominciava a venire anche Franco Sensi di Roma, il proprietario della Roma all’epoca». Quella per Virgiglio è stata solo una fase prodromica all’ingresso nel Goi e soprattutto nella sua area più riservata. «nel Goi mi ritrovo Eugenio Caratozzolo, il figlio Marcello e, e, e, lo stesso Franco omissis».

AVVOCATI MESSAGGERI? Fra gli uomini della Santa, Virgiglio indica anche un legale che ha imparato a conoscere bene. Si tratta dell’avvocato Corrado Politi, approdato misteriosamente in carcere proprio quanto Virgiglio stava iniziando a valutare l’ipotesi di una collaborazione. Politi si sarebbe presentato da Virgiglio, affermando «mi ha nominato tua moglie». Una nomina strana, o quantomeno anomala. Non solo per le modalità, ma anche perché il misterioso legale non sarebbe stato infatti uno “specialista” di collaboratori. «Dice: io, vengo, sono amico di questo Pellicano, mi disse». Un nome speso con noncuranza – all’epoca il dottore Pellicano era ancora incensurato, ma già un nome di peso nella loggia reggina – ma che sembra introdurre una conversazione che poco sembra avere a che fare con un mandato difensivo.

COLLABORI? RISOLVIAMO IN MODO DIVERSO «Dice: no, io vorrei capire, dice, cosa sta facendo lei, che non fa … e ho detto: e che faccio, dico, sono qua a collaborare, lei l’ha letta la mia ordinanza? – dice Virgiglio, ricordando quel botta e risposta fra lui e il legale –. Sì, l’ho scaricata tutta sul pennino… ah, e mi fa piacere, e che cosa ne dice?.. Mah, la possiamo affrontare in modo diverso». Quale fosse, l’avvocato fa presto a spiegarlo. «Mi raccomando però – rammenta di essersi sentito dire Virgiglio – sua moglie ha paura, dice, non faccia i nomi di certe persone, non faccia i nomi di questo, di quell’altro, mi raccomando, salvi i “nini”».

«SALVA I “NINI”» Un soprannome per il quale il pentito non ha bisogno di spiegazione e che anche al pm sembra cristallino: sono «i giovanotti» della cosca Molè, divenuti nel tempo plenipotenziari reggenti del clan. E sebbene – allo stato – i loro nomi nei verbali siano coperti dagli omissis, nelle ordinanze che negli anni successivi hanno interessato il clan Molè, l’espressione si ripete spesso. E altrettanto spesso indica Antonio Molè “U Iancu”, figlio di Domenico, e il cugino Antonio Molè “U Niru”, figlio di Gioacchino. Quando Virgiglio viene arrestato e inizia a collaborare i due hanno circa vent’anni, ma già mostrano di avere tutte le caratteristiche per rivendicare il ruolo dirigente che era stato dei rispettivi padri. Per questo, probabilmente, andavano salvati. E non da soli.

ISTRUZIONI Questo – dice Virgiglio al pm Lombardo – era palese nelle parole del legale, sebbene da lui non fossero arrivate altre esplicite istruzioni. «Non mi disse i nomi che non … attenzione ai nomi che…fa proprio così», spiega il collaboratore che in quell’occasione dal misterioso avvocato avrebbe ricevuto una missiva. «Dice: questa qui è la lettera di separazione che sua moglie le fa, me l’ha mandata, dice … e in quel momento, dottore, ho dovuto giocare un po’ d’astuzia».

PROFESSIONISTI E POLITICI Virgiglio fa poi i nomi di Franco Labate, «per tanti anni medico al San Pietro di… al carcere, carissimo amico Ciccio Ceraudo, che era il famoso e importantissimo medico di Pisa, dove a tutti i costi dovevano mandare Molè per poi da lì farlo arrivare a Palmi e poi essere a casa»e dell’imprenditore Carlo Montesano, che presiedeva la loggia coperta di Reggio. Ma nel suo elenco ci sono anche i nomi di molti politici, come quello dell’ex governatore della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, associato dal pentito alla presunta loggia riservata gestita dagli avvocati Torchia, «la piccola loggettina di potere». Insieme a lui, compaiono anche Luigi Fedele e Pietro Fuda, protagonisti di un ribaltone politico, cucinato in ambito massonico. Tutti soggetti su cui – adesso – la Dda ha intenzione di approfondire. Anche perché – sottolinea il gip – «le recentissime dichiarazioni dei due collaboratori, pur non del tutto sovrapponibili, evidenziano, affermazioni convergenti sull’esistenza di questo sistema masso-mafioso che si sta procedendo ad esaminare».

Ma perché il nostro ambasciatore è ancora in Turchia?

Ma cosa altro deve succedere perché l’Italia abbia un sussulto in politica esterache non sia la firma paciosa di Renzi che brancola in qualche lingua semicomprensibile? Abbiamo avuto un timido vagito nel caso di Giulio Regeni (effimero, uno starnuto) e poi per il resto l’Italia è una Paese che ha limitato la politica estera all’imbarazzante elemosina di uno sguardo fugace dall’Europa.

Mentre la Turchia annega nella melma di Erdogan e del colpo di Stato più utile del West qui ormai sembra che la difesa dei diritti sia stata definitivamente appaltata a associazioni, Ong e qualche lurido buonista. Il governo? Il governo no, il governo, questo governo, ha scambiato la politica per l’annuncio, la dichiarazione per l’unica azione possibile per non disturbare gli equilibri esistenti: probabilmente dalle parti del Consiglio dei Ministri considerano il nostro ambasciatore ad Ankara il menù fisso per fingere cortesia.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Non ho le parole

Anche questa mattina, come tutte le mattine che sono dal lunedì al venerdì, dovrei scrivere il buongiorno in cui dico di quello che è successo nel giorno precedente e naturalmente oggi il tema del giorno è la carneficina di Nizza.

Ma io non ho le parole, su Nizza. Non ho parole perché non ho un pensiero compiuto sul dolore. Non uso parole per la cura che serve all’ecologia lessicale contro il terrore. Non so voi ma sempre più spesso mi capita di temere di perdere l’equilibrio tra l’opinione e l’involontario concorso esterno al terrorismo. Quindi niente, stamattina. Ve lo scrivo per onestà.

C’è una riflessione, questa sì, che vale la pena riportare. È di Paul-Henri Thiry d’Holbach, filosofo tedesco naturalizzato francese del ‘700 che si dedicò all’Encyclopédie: un professionista delle parole. Scrive nella sua opera Il buon senso (1772):

«Come si è potuti riuscire a persuadere esseri ragionevoli che la cosa più incomprensibile era per essi la più essenziale? Perché sono stati fortemente terrorizzati; perché, quando si ha paura, si cessa di ragionare; perché sono stati esortati soprattutto a diffidare della loro ragione; perché, quando il cervello è turbato, si crede a tutto e non si esamina più niente.»

Buon venerdì.

(il mio buongiorno per Left è qui)