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Bianchi contro neri

In Italia un bianco uccide un nero dopo avere chiamato sua moglie scimmia negra. Negli Stati Uniti negli ultimi giorni continua questa simpatica abitudine dei poliziotti (bianchi) di uccidere con una certa facilità i neri. E intanto un nero decide di vendicarsi sparando ai poliziotti bianchi.

Certo di mezzo c’è il fascismo, lo squilibrio mentale, le eccezioni che non fanno una regola ma a viverli, questi giorni, sembra che sia un periodo cupo, così cupo.

Belzebù, il Vaticano, Vatileaks

Il processo del secolo si è sgonfiato come una palloncino bucato e ora Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi (i giornalisti processati per avere scritto dei libri, giuro) sono stati assolti. Nel testo dell’assoluzione il tribunale rileva

«la sussistenza radicata e garantita dal Diritto divino della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di stampa nell’Ordinamento giuridico vaticano».

Quindi la libertà di stampa è garantita dal Diritto divino.

E allora chi ha istruito un processo senza senso, Belzebù?

PolitiCamp 2016, accampiamoci per farci presidio

Il 15 e il 16 luglio ci vediamo a Reggio Emilia. Parleremo di politica, Costituzione, attivismo ma soprattutto ci incontriamo perché abbiamo il sogno di attivare riunioni condominiali (e costituzionali) in tutto il Paese. Ci vediamo a Reggio Emilia perché il cambiamento non si racconta si pratica. Ecco il programma:

«Politica, Costituzione, comunicazione, attivismo e cultura sono tra i filoni di questa settima edizione del Politicamp, un Tour RiCostituente che si apre al Chiostro della Ghiara di Reggio Emilia venerdì 15 e sabato 16 luglio (e che si chiuderà a Salerno il 16 e 17 settembre).

Un Camp che come ogni nostra iniziativa è organizzato (con cura per i piccoli particolari, quest’anno ad esempio abbiamo un service luci a zero impatto ambientale, poiché alimentato a biciclette) senza grandi donatori occulti alle spalle, ma grazie all’impegno dei tanti volontari e al contributo di chi si tessera a Possibile, di chi fa una donazione o di chi invia un sms al numero 499333.

Le porte si aprono alle 18,30 di venerdì 15, i volontari di Possibile accolgono i convenuti e alle 19,30 si cena tutti insieme al Chiostro (la prenotazione, come per tutti i pasti al Chiostro, è richiesta e si fa da questo link).
Dalle 21 si alterneranno sul palco i parlamentari di Possibile, Beatrice BrignoneAndrea MaestriToni MatarrelliLuca Pastorino ed Elly Schlein, che faranno il punto sull’attività e sulle molte campagne che il nostro partito ha portato avanti in questo suo primo anno di vita. Il punto politico e la proposta di lavoro per i mesi che verranno, fondamentali in particolare in vista del referendum costituzionale, sarà affidato al nostro Segretario, Giuseppe Civati.

La Costituzione, la sua riforma e il referendum saranno il tema del mattino seguente, che si apre alle 9,30 e dalle 10 in poi vede alternarsi sul palco un vero e proprio dream team di costituzionalisti. Dentro la riforma, lezioni di diritto costituzionale per un voto consapevole il titolo della mattinata, divisa in due sessioni: docenti della prima Nadia Urbinati, con una lezione dal titolo Ha ancora senso votare? (Gli elettori e la riforma), e Gianfranco Pasquino (Legge eletorale e riforma costituzionale: gli effetti della combinazione). La seconda sessione si apre con il nostro Andrea Pertici (Come cambia il Parlamento), seguono Roberto Zaccaria (Come cambiano le leggi) e Barbara Pezzini (Come cambiano le autonomie). Un dibattito tra pubblico e relatori segue sia la prima che la seconda sessione.

Alle 14 circa il pranzo al Chiostro, si riprende alle 16 con Alessandro Gilioli, giornalista de L’Espresso e blogger, Matteo Fago, editore di Left, e Francesco Piccinini, direttore di Fanpage, in Come sopravvivere alla propaganda e mobilitarsi per batterla. A Franz Foti, del Comitato organizzativo di Possibile, il compito di chiudere il panel e di traghettare la discussione dalla comunicazione all’attivismo in quello successivo, che si chiama Progetti Possibili e che chiama militanti di Possibile e non solo a raccontare – appunto – progetti avviati con successo in questo primo anno del nostro partito: Stefano Catone sull’accoglienza, Marta Costantini sulla difesa della sanità pubblica e sulla mobilitazione avviata con grande successo a Fano, Annamaria Guidi sul bookbombing, la raccolta di libri da destinare ai profughi che tanti comitati di Possibile hanno replicato in giro per l’Italia, Carlo Massironi e l’incubatore d’impresa avviato a Verona, Raffaella Sutter e l’interessante progetto civico che ha portato alle comunali di Ravenna, oltre alla testimonianza di Alex Corlazzoli, maestro, blogger e voce di Radio Popolare, e Luca Marola di Legalizziamo.it, sulla campagna per la legalizzazione della cannabis che Possibile sostiene in tutte le sedi.

Dopo la cena al Chiostro alle 19,30, si riprende alle 21, e viene a portare un saluto Umberto “Eros” Lorenzoni, partigiano e tra i più attivi sostenitori del NO alla riforma costituzionale. Si prosegue con un dialogo tra Giulio Cavalli, attore, giornalista e tra i più attivi protagonisti del Tour RiCostituente di Possibile, lo storico dirigente Rai, scrittore e autore Loris Mazzetti, e Omar Pedrini, rocker, cantautore, ma anche docente presso il master in comunicazione musicale all’Università Cattolica di Milano.
Lo stesso Omar Pedrini chiude infine in bellezza i due giorni di Politicamp con un set acustico dal vivo.

Tutte le informazioni su come arrivare, dove pernottare e sui servizi presenti al Politicamp (tra i quali ricordiamo l’animazione per i bambini) si trovano a questo link

 

Quel neo che è Alfano (e il suo partito)

“…no, loro lo fanno, però devono passare i 4 anni, perché sennò non ci posso tornare, no? Io se potevo rimanere lì me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua….che c. me ne sfottevo….stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l’idea…ci sono interessi….sono legati grossi interessi…grossi interessi non avete proprio idea…“.

Queste sono le parole di Antonio Marotta. Antonio Marotta ha 69 anni, è un avvocato e sta in quel partito che è una crosta e si chiama NCD. Antonio Marotta però non è semplicemente un parlamentare. Figurarsi. In questo Paese degli illustri sconosciuti come lui finiscono addirittura al CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. L’orfano, per intendersi, che nella storia d’Italia ha messo i bastoni tra le ruote a Falcone, Caselli e oggi a Di Matteo. Gente che dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto e invece troppo spesso è al di sotto di qualsiasi livello di potabilità. Ma funziona così, qui da noi: la politica occupa posizioni dirigenziali affidandole troppo spesso ai più bravi servi. Mica ai più bravi.

In tutto questo Angelino Alfano, che per questo assurdo gioco di equilibrismi che se ne fottono della meritocrazia si trova a brigare da Ministro dell’Interno, dichiara, da Ministro del’Interno di essere “sicuro che si farà chiarezza”. Angelino Alfano, tra l’altro, è anche il segretario di partito di Roberto Formigoni (sì, quel Formigoni, lì, che ora è senatore ed è uno dei maggiorenti del partito, per dire) nonché il più longevo segretario del partito fondato da Marcello Dell’Utri, dopo Berlusconi ovviamente.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

«La Costituzione della Boschi? Illeggibile, sembra il bugiardino di un farmaco»

(Un’intervista a Paolo Prodi, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, che potete comprare qui)

Partiamo da Dossetti, perché è di lui che si occupa l’ ultimo libro di Paolo Prodi (Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino). “Comincio dal periodo immediatamente successivo all’ approvazione della Costituzione, quando io studiavo alla Cattolica e il mio professore di Diritto costituzionale era Antonio Amorth, uno degli autori della nostra Carta”, spiega Prodi. “La Costituzione, attraverso la Commissione dei 75 ha degli autori e, com’ è noto, il testo fu perfino rivisto da linguisti e letterati, perché fosse efficace: la preoccupazione era che fosse comprensibile e armonico tra le sue varie parti”.

E Dossetti?
Fu un protagonista di quella fase: come Aldo Moro era un giurista e dunque particolarmente preparato al compito.
La sua attenzione alla Carta ebbe una nuova spinta all’ inizio degli anni 90, con la nascita dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Allora parlai a lungo con lui: considerava la Carta certamente il patto tra tutti gli italiani, ma anche un patto per garantire l’ equilibrio. Nel ’46 – per evitare i pericoli di una guerra fredda, possibile in Italia perché eravamo sul confine tra i due mondi – bisognava approntare tutte le misure necessarie perché non ci fosse una prevalenza di una parte sull’ altra. È qui che nasce il bicameralismo perfetto.

Qualche settimana fa Pierluigi Castagnetti ha detto: “Basta tirare per la giacca don Dossetti: è sempre stato contrario al bicameralismo paritario”.
Stavo per dirlo: Dossetti ha dovuto digerire, all’epoca, il bicameralismo. Era contrario, ma lo riteneva politicamente essenziale. Una medicina amara, ma fondamentale per garantire quell’equilibrio di cui parlavamo.

Veniamo all’ oggi. Cosa pensa di questa riforma?
Davanti alla Costituzione bisogna levarsi il cappello. La Carta è di tutti e non si cambia a colpi di maggioranza, specie se è una maggioranza come questa che si tiene in piedi a malapena. Ma prima ancora bisogna dire che questa nuova Costituzione è assolutamente incomprensibile, illeggibile. Sembra il bugiardino di un farmaco.

I sostenitori della legge di revisione dicono che non si tratta di estetica, ma di funzionamento delle istituzioni. La parola magica è “governabilità”.
Sento spesso parlare con disprezzo dei numerosi governi che si sono succeduti, specialmente nella Prima Repubblica. Quei governi però navigavano in acque tranquille, sia internamente che a livello internazionale. Certo calibravano, con o senza manuale Cencelli, i pesi delle correnti e delle varie personalità dentro ai partiti. Ma allora c’ era una stabilità che di questi tempi ci sogniamo: a mancare non è oggi la stabilità dei governi, ma i partiti che sono evaporati. Un problema che non si risolve con mezzucci tipo i capilista bloccati dell’ Italicum. Piuttosto bisognerebbe applicare l’ articolo 49 della Carta che dava ai partiti rilievo costituzionale. Nel ’58 Sturzo presentò in Parlamento un progetto di legge proprio sull’ attuazione dell’ articolo 49: ecco, oggi potremmo prenderlo e avremmo ben poco da aggiungere. La responsabilità politica non esiste più e si pensa di rimediare con il rafforzamento dell’ esecutivo!

Il presidente del Consiglio ha legato il suo destino al felice esito della riforma.
Tutto parte dall’ equivoco del doppio ruolo di premier e segretario del partito. Nella Dc uno statista come Alcide De Gasperi sapeva benissimo che se voleva vincere doveva permettere che il partito avesse una sua vita interna, dove lui come presidente del Consiglio non interveniva.
Quanto a Renzi, puntando sulla vittoria come vincolo per la sua permanenza al governo si è preso un bel rischio.

Quel che sta accadendo dopo il referendum sulla Brexit lo dimostra.
La riforma è molto disomogenea: voteremo su tantissime materie.
Da un punto di vista giuridico e razionale io sarei per lo spacchettamento, anche se so che è improponibile. Sottoporre al giudizio dei cittadini materie così diverse è un errore enorme.
Questa riforma è stata approvata con scorciatoie di ogni sorta: ghigliottine, canguri, sostituzione dei membri della commissione Affari costituzionali, sedute fiume. Lo spirito dell’ articolo 138 è tutt’ altro: una saggia ponderazione.
La forma non è stata violata, ma il metodo è profondamente sbagliato: certo i costituenti non pensavano a questo quando hanno scritto l’articolo 138. Tutta la riforma è un bitorzolo che cresce sulla nostra Costituzione. Non posso riconoscere valore costituzionale a un testo nato sotto spinte umorali e illogiche. Dicono che si migliorerà con il tempo: io studio la storia da mezzo secolo e non ho mai visto migliorare un sistema politico con questi percorsi. Il problema della democrazia è far coincidere la rappresentanza degli interessi con il tessuto sociale. Qui non si vede nulla di tutto questo.

(di Silvia Truzzi, da Il Fatto Quotidiano,  30 Giugno 2016)

Solo i pesci morti seguono la corrente

buongiornoleft

È allarmante questo fastidio diffuso che si sparge impunemente ogni volta dopo un voto: attenzione, non è contrizione per la sconfitta o una sentita valutazione degli errori compiuti e non è nemmeno banalmente la delusione del tifoso tradito dal partito del cuore ma piuttosto si tratta di un preoccupante senso di superiorità culturale che ammanta i vinti mentre ci convincono di averci concesso l’opportunità di sbagliare. E quando in politica qualcuno vorrebbe imporre la propria valutazione, il proprio sguardo sui fatti del mondo e quando qualcuno pretende di sapere (solo lui) ciò che serve e come serve si sparge in giro un odore di libertà concessa. E non è libera la libertà concessa. La propria libertà e la libertà degli altri non si scontrano in un equilibrio che traballa in base al momento e alla paura: è sistematica, la libertà.

Così le analisi del voto sono diventate ormai un monito. Politici che non ascoltano il voto ma piuttosto lo interpretano giudicando l’elettorato con l’arroganza del maestrino e ostinandosi (impunemente) a volere (loro) un popolo che li rappresenti per davvero. E mentre qualche democratico (d’etichetta, s’intende) ci insegna che chi vota male non dovrebbe votare (i democratici, pensa te; le destre saranno per la fucilazione, probabilmente) l’allarme per questa inversione della politica ormai tutta impegnata a forgiare popoli senza nessuna capacità d’ascolto viene derubricato come becero populismo. E che sia lodato il populismo, allora, di fronte all’oligarchia politicista.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

La differenza tra le ossa e i soldi.

brexit

La differenza tra le ossa e i soldi. Ne scrive Lucia Annunziata qui:

«Alla fine, il primo giorno della rottura del legame con l’Inghilterra, è dominato dal denaro. Preoccupazione comprensibile, ma agghiacciante.

In questa reazione si svela infatti anche perché e cosa abbiamo perso: il referendum sulla Brexit è stato ridotto, da una parte e dall’altra della Manica ( e dell’Atlantico), a una pura questione economica. Cosa mi serve, quanto mi serve, cosa è mio, cosa mi può essere sottratto? Il dibattito in Uk si è ridotto a materia di mera convenienza. Con una City ossessionata dalla caduta dei profitti, il Remain impegnato in una raffica di numeri da terrore, e il Leave impegnato sui costi con lo stesso piglio di terrore.

Dall’altra parte del braccio di mare, non si è fatto meglio: la classe politica europea ha adottato la stessa gretta lingua dei conti – ve la faremo pagare, vi puniremo, vi costerà tutto quello che finora non avete ancora pagato – e le istituzioni internazionali, IMF, BCE, vocianti alternativamente rassicurazioni e minacce. Denaro, denaro, denaro. Preoccupazione certamente umanissima, ma riconducibile solo all’arido osso del chi e per chi, qui e ora. Non solo rispetto al futuro. Ma, anche – e questo è davvero sconcertante – rispetto al passato.

Una voce non abbiamo sentito infatti. La voce di qualche leader del nostro continente che dicesse con chiarezza all’ Inghilterra: “Per favore rimanete. Rimanete perché qui, su questi nostri territori giacciono le ossa di migliaia di vostri uomini, padri, mariti, figli, fratelli che hanno perso la vita per salvare non solo l’Inghilterra ma anche noi”.

Con l’addio inglese si rompe infatti molto di più di un equilibrio economico. Nelle urne si lascia una parte rilevante delle nostre memorie, la vita forgiata insieme, nel bene e nel male, da vari popoli negli ultimi secoli. La intera generazione di giovani, fra cui le migliori menti delle Università Inglesi, che perse la vita nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. E Churchill, con la sua ostinata e solitaria ambizione di salvare l’Europa, e le migliaia di Inglesi morti nella Seconda Guerra Mondiale, per salvare il nostro continente dal Nazismo, dal fascismo, dal comunismo, e da sé stesso. Ora che l’Inghilterra volta le spalle alle nostre sponde, sarà considerato con occhi diversi anche il loro sacrificio?»

Tomaso Montanari: «Perché ho detto no a Virginia Raggi (e perché la voterei)»

roma

di Tomaso Montanari

Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.

Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.

Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.

Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.

Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.

Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.

Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.

Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.

Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.

Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.

Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.

Gianni Biondillo risponde a Pisapia

giannibiondillo

Qualche giorno fa Gianni Biondillo è stato intervistato (qui) da Elisabetta Soglio sul tema delle elezioni amministrative di Milano esprimendo concetti (secondo me condivisibili). Pisapia gli ha risposto (qui) e Gianni gli ha scritto una bella lettera:

(di Gianni Biondillo)

Caro Pisapia,

alla domanda posta ad una assessore della giunta che ti ha preceduto – “come pensa di attrarre giovani costruendo appartamenti da 10 mila euro al metro quadro?” – la risposta fu illuminante: “esistono anche giovani ricchi!” È così che si perdono le elezioni amministrative. Il mio cuore batte a sinistra, dalla giunta Moratti non mi aspettavo nulla. L’ho avversata con tutte le mie forze. Le cose da voi fatte e che tu elenchi nella tua lettera garbata sono buone, “di sinistra”, e le ho apprezzate anche pubblicamente. Ma, perdona il vecchio linguaggio, sono sovrastrutturali.

Mi consigli di andare a chiedere al parroco di Baggio… be’, sai, dato che a questa tornata elettorale la zona ha votato per il candidato del centro destra, sono io a chiederti di andare da lui per avere delucidazioni sul voto. Tutti ingrati?

Diecimila appartamenti di proprietà pubblica vuoti, in buona parte del Comune, cioè diecimila famiglie che potrebbero avere una casa e non ce l’hanno, questo, invece, è strutturale. Così si perdono le elezioni. Lasciando campo libero ai populisti razzisti che si trovano nelle condizioni ideali di fomentare la guerra dei poveri (chiedi al parroco…).

Sull’accusa d’ignavia: era tuo diritto decidere di uscire di scena dopo una legislatura. Il tuo dovere, invece, era quello di creare una strategia d’uscita che capitalizzasse il lavoro fatto. Insomma, chiudersi in una stanza e dire alla giunta: non si esce da qui fin quando non troviamo un nome condiviso (magari evitando nel frattempo di pubblicare libri dove ti toglievi sassolini dalle scarpe, bruciando naturali candidati in pectore). Perché, sai, Beppe Sala, per quanto vincitore delle primarie, si porta addosso il peso di chi l’ha candidato. I milanesi non amano le imposizioni romane. Gli auguro di cuore di scrollarsi di dosso questa sgradevole sensazione, in fretta, e dimostrare di essere il sindaco di cui abbiamo bisogno. Con idee concrete e realizzabili.

Vivo in via Padova, ho familiari e amici al Giambellino, in Barona, a Baggio, a Crescenzago, ho la mamma a Quarto Oggiaro. Credo di avere una vaga idea della situazione di questi quartieri. So cosa significa sentirsi abbandonati (chiedi… chiedi al parroco…).

Ti faccio un esempio. Mia madre è invalida al 100% con grossi problemi di mobilità. Vive in una casa popolare del Comune (ex IACP. Dove sono cresciuto, insomma). Ha richiesto anni addietro, prima all’ALER poi a MM, di poter sostituire la vasca a sedere con un piatto doccia. Ha telefonato, è andata negli uffici preposti, ha spedito email, lettere, raccomandate con ricevute di ritorno. Niente, neppure una risposta. Poi, durante un consesso politico a Palazzo Marino, due mesi fa, stufo, l’ho raccontato pubblicamente. Dieci giorni dopo mia madre aveva il piatto doccia nuovo di zecca. Sono felice per lei. Ma triste per chi non ha un figlio scrittore che può permettersi di alzare la voce. Queste cose non devono più accadere. Chiunque sarà il sindaco.

con affetto, Gianni Biondillo

Questa riforma della Costituzione è il sogno di ogni oligarchia

riformasenato

Professor Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del “no” alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos’è successo?
«Nel “fronte del no” convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L’atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l’allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?».

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
«Non penso a una “Spectre”, per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l’autoritarismo, di “democratura”. Ripeto: non c’è da preoccuparsi?».

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
«Il Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”, e così il pensiero è messo fuori gioco».

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
«Con “i vertici” ho poche occasioni d’incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell’alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l’insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli».

Ad esempio?
«Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Parte- none».

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l’economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare? 
«Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il “sì” spianerebbe una strada; il “no” farebbe resistenza».

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
«Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all’impotenza e all’irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità».

Anche lei pensa che l’Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
«Per nulla. Ma l’Europa è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia».

Sta dicendo che l’Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
«È l’opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un “plebiscito d’ogni giorno” dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi».

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
«C’è un pensiero unico in campo, tra l’altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L’implosione è sempre in agguato».

Professore, non è troppo pessimista?
«Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile».

Sta facendo un problema di forma?
«Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l’obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità».

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
«Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis!».

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all’eterna tentazione del consociativismo?
«A patto di non considerare la vittoria come un’unzione sacra che permette di insultare chi non è d’accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l’idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato».

Ma nel Paese dell’eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
«Perché “diretto” sarebbe “non democristiano”? A me pare che proprio l’idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d’essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c’è stata e c’è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?».

Lei teme l’abuso del vincitore?
«Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della “paura del tiranno”. Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c’è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene».

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell’esecutivo: è così?
«Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della “velocità” nella politica e dell’elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato».

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
«Semplice: perché c’erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi».

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
«Non voglio personalizzare. Tra l’altro oggi c’è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano».

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
«Lo voglio anch’io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all’antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente».

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
«L’idea di Ingrao era la “centralità del Parlamento”. Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi».

E’ questa la vera ragione del suo “no”?
«E’ fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono “designati” dagli elettori non possono essere “eletti” dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio».

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
«Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni».

Dal governo non può venire niente di buono?
«Perché? Sono buone le unioni civili, l’autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del “a casa nostra” verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto».

Professore, non l’ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
«Potrei dirle che l’antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l’ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica».
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
«Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?».

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
«C’è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell’esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l’eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell’oggi e improvvisa».

La Repubblica, 26 Maggio 2016