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Un’intervista. Su tutto.

intervista

Dialoghi Resistenti tra Ultimo Teatro Produzioni Incivili e Giulio Cavalli (fonte)

Ciao Giulio, benvenuto tra noi. Sono felice che un uomo come te, che ha deciso di metterci la faccia in prima persona di fronte al cancro – chiamato banalmente mafia – abbia aderito a questa nostra operazione di conoscenza reciproca e di scambio, tra coloro che si muovono giorno per giorno nella creazione del migliore dei mondi possibili e di questa società – che sempre più – dimentica i propri figli ed i propri padri, in nome di una giustizia e di uno status che sembra essere incancrenito, malato, alla deriva.

Come primo passo, vorrei che tu mi raccontassi chi è Giulio? Da dove viene? Quali le sue origini? Quali le sue aspettative?

Vengo dal profondo nord, dalla piccola provincia ultracattolica e medioborghese che sogna di sculettare come un città. Forse molto del fastidio per l’oppressione intesa in tutti i sensi nasce proprio dal fatto di essere cresciuto in un luogo in cui l’osare è di per sé sempre sconveniente. Fin da piccolo ho cominciato a studiare pianoforte, ho sempre amato la lettura e poi ho scoperto quel magico mondo che è il teatro dove entrambe le cose possono meravigliosamente convivere. E mi ci sono ritrovato dentro.

Autore, attore, scrittore, giornalista: quale il tuo obbiettivo nella società? E quali sono i risultati delle tue operazioni di denuncia e/o di sensibilizzazione?

Sinceramente il mio obbiettivo è semplicemente osservare e raccontare le storie che credo valga la pena raccontare. Non ho mai pensato al fine se non alla bellezza. Bellezza nel suo senso più etico e morale, quella bellezza che riesce a salvare e salvarci dalle brutture più ostinate. Devo ammettere che ancora oggi molto spesso rimango stupito di quanta forza possano avere le parole.

Perché hai scelto il teatro per parlare di mafia?

Perché il teatro non ha mediazioni: c’è l’attore, la sua parola, il pubblico. Basta. Nessuno si può infilare in mezzo. Quindi è il luogo più genuino dove poterci mettere la faccia e dare anche a chi ti ascolta la responsabilità di ascoltare nomi e cognomi. Usciti da un teatro non si può dire «non sapevo».

Dopo le minacce subite per il tuo monologo “Do ut Des”, ti è stata assegnata una scorta. Cosa vuol dire per un uomo di libertà, vivere sotto protezione?

Sinceramente questa moda di scorte e scortati mi lascia piuttosto indifferente. Le privazioni alla propria libertà in questo Paese sono molte e molto più quotidiane di quello che si pensa. Non credo che una persona sotto protezione debba per forza avere un’eroicità maggiore rispetto ad un padre di famiglia che fatica a mantenere la propria casa o ai tanti piccoli o strazianti soprusi che ognuno di noi deve ingoiare nella vita. Vivere sotto protezione è diventato un circo a cui non mi interessa partecipare.

Hai dei rimpianti, rispetto alle scelte che hai fatto? Quali i fallimenti? Quali i successi?

Rimpianti moltissimi. Ma mi ci sono talmente affezionato che forse rifarei gli stessi errori per non privarmi di loro. I fallimenti invece credo che siano dei sentimenti che hanno bisogno di sedimentare e quindi posso averne avuto molte sensazioni ma sarà il tempo, più di me, a setacciarli e mettermeli sotto al naso nei prossimi anni. Di sicuro ho cercato sempre di non farmi accalappiare nelle diverse correnti che mi avrebbero voluto offrire garanzie. Se dovessi sentirmi garantito diventerei muto.

Da giornalista, come vivi la manipolazione che se ne fa nell’informazione dei media Italiani? Quali le sue origini? Quali i suoi risultati?

L’aspetto peggiore della nostra classe giornalistica è l’autocensura. Qui siamo un gradino oltre la paura, siamo nel campo del servilismo. Si scrive, o meglio non si scrive, ciò che non smuove troppo i poteri in campo. Brutta cosa.

Rispetto alla lotta contro la mafia e la mentalità mafiosa, qual è – secondo la tua esperienza – il ruolo dello Stato e quale, il ruolo del comune cittadino?

In realtà una buona lotta contro le mafie prevederebbe nessuna distinzione tra cittadini e Stato ma la piena consapevolezza dell’uno e dell’altro di essere la stessa cosa. Il cittadino non è mai ‘comune’ a meno che non scelga di esserlo per vigliaccheria.

Appurato che il mondo della mafia, non è più un mondo relegato all’ignoranza, al sud Italia e alla violenza fisica del potere o di un certo tipo di potere, ma che anch’esso si è “evoluto” in modo più raffinato e colto, “contribuendo” così alla creazione di questa società che noi tutti viviamo: chi sono oggi i mafiosi e – sempre che sia possibile – come si identificano? E quali i loro campi d’azione, i loro metodi, le loro tecniche?

Sono coloro che credono che si possa usare la minaccia e l’intimidazione per raggiungere i propri scopi personali a danno del pubblico. La mafia, dai per sé, non è molto diversa nella sua natura dai molteplici egoismi che si solidificano in sacche di potere e oligarchie. Pesa solo la differenza della forma dell’intimidazione ma non la sostanza. E sui grumi privatistici direi che il nord Italia ha di sicuro la leadership e quindi trovo normale che le mani ci si trovino così bene.

Cosa consigli a coloro che pensano che le mafie, non siano un problema che riguarda tutti?

Gli chiederei di guardare fuori dalla propria finestra, sotto dal proprio balcone per scoprire quanto vivano in città piene di case invendute, faraoniche opere rimaste vuote, ipermercati così vicini l’uno all’altro oppure di bar e pizzerie bellissimi e vuoti. Dove c’è una città “dopata” significa che ci sono soldi che devono nascondersi prendendo altre forme. E spesso dietro c’è la mafia.

Chi sono le vittime della mafia?

Tutti coloro che non possono aspirare ad esercitare il diritto di avere diritti. Quindi molte di più di quelle che comunemente pensiamo.

Cosa rende la mafia così potente e cosa la rafforza?

La convergenza di interessi con un pezzo di politica, di imprenditoria e di borghesia. La mafia per alcuni è il socio migliore che possa capitare.

Come uomo di parola e di scrittura, hai un legame forte con il mondo del web e soprattutto con i social network. Quale senso dai a tutto questo comunicare – giornalmente e passo passo – i tuoi pensieri o le tue filosofie? Ed a cosa serve o a cosa dovrebbe servire l’incontro delle diversità all’interno del mondo virtuale?

Non vedo differenza tra il raccontare una storia su un libro, in uno spettacolo o dentro un blog. Mi interessa l’esercizio della parola e della memoria. In tutte le sue forme. Ritengo il web un luogo in cui stanno persone reali, come un ristorante, un chiesa o un teatro. Appunto.

Quanto, il teatro, subisce i condizionamenti della società ed in che modo?

Sempre, anche quando non se ne accorge. Uno spettacolo teatrale è uno pezzetto di vita vissuta che vogliamo mostrare agli altri perché ci appare così spaventosamente significativo.

Come definisci i tuoi spettacoli?

Mi dicono che siano civili. Io preferirei “incivili”, visto la stomachevole situazione del civilismo e del teatro in Italia.

Come vedi la situazione dei finanziamenti alla cultura ed a cosa porta questo processo – quasi clientelare –, sul lato etico e pionieristico?

Ma come possiamo aspirare ad una buona culturale se ci troviamo di fronte alla peggior classe dirigente degli ultimi cinquant’anni? Com’è possibile parlare di teatro con politici che valgono un’unghia dei loro funzionari e perseguono solo posizioni all’interno della loro ristretta realtà partitica? Il teatro va maneggiato con cura e sapienza.

“Mio padre in una scatola da scarpe” è il tuo nuovo libro, ma anche il tuo nuovo reading. Un romanzo che prende ispirazione dalla famiglia Landa. Perché hai scelto proprio loro e cosa si cela dietro la frase che si trova in copertina “Capita a tutti l’occasione di essere giusti”?

Perché credo che mi sia necessario affezionarmi alle storie minime che non hanno bisogno di grandi volumi o ricercati aggettivi per arrivare comunque al cuore. La vicenda della famiglia Landa ci descrive quanto sia difficile essere giusti. Per tutti.

Chi sono – per la maggior parte e senza doverne fare un ammasso informe – i politici che ci governano oggi e chi dovrebbero essere in realtà gli uomini e le donne di politica?

Sono quelli che governano con i sodali di Marcello Dell’Utri, gli amici di Nicola Cosentino e i figliocci (fieri) di Andreotti. Serve dire altro?

Cos’è il coraggio?

La consapevolezza di avere paura. E gestirla.

Uno degli argomenti che mi piacerebbe affrontare, è il fenomeno di pentitismo, cioè quel fenomeno che ha sostituito la dicitura “collaboratori di giustizia”, probabilmente molto più giusta e meno patetica. Certo, non dico che in alcuni casi non ci sia stata una sorta di redenzione e ammissione dei propri peccati o per meglio dire delle proprie atrocità, ma come tu ben sai, “il confino” di molti boss in altre regioni, ha permesso loro di prenderne possesso, ricreando quello strato di potere che con il tempo ha permesso loro, di invadere il nord con le stesse dinamiche sanguinarie e mafiose, già presenti quasi da tre secoli nel sud Italia.

Dove tale prassi, cioè l’utilizzo dei pentiti senza una corretta gestione e certezza che lo siano veramente, ma solo come mezzo di smantellamento delle ‘ndrine o delle cosche o dei clan, mostra le sue falle?

Per questioni di lavoro mi è capitato negli ultimi anni di interessarmi del fenomeno dei falsi pentiti, vere e proprie teste di ponte tra la criminalità organizzata e gli uomini sotto protezione. Devo ammettere che il sistema ha delle falle che sicuramente chiederebbero una riorganizzazione. Al di là del fatto che la pratica del confino sia stato un enorme errore storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze c’è il problema di una sicurezza che viene garantita in modo troppo discrezionale. E così finisce che veri “collaboratori di giustizia” si trovino spesso in serio pericolo mentre i pentiti per calcolo usufruiscono di tutti i privilegi.

Nella storia internazionale delle detenzioni, l’Italia non ha proprio una posizione a suo vantaggio. Più volte sanzionata per il degrado ed il maltrattamento che si subisce al suo interno, continua a ripudiare la pena di morte, ma gestisce e condanna “i fuori legge” con l’Ergastolo. Naturalmente il subire il “fine pena mai”, forse a molti può sembrare giusto, ma in molti dei casi – così come descrive bene Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo – la punizione è molto più grave del reato. E vivere rinchiuso a vita, senza la possibilità di quella reintegrazione che la legge italiana prevede, può essere molto più crudele di una sedia elettrica o di una iniezione letale. Il giudicante – con molte sfumature diverse – assume tutti gli aspetti del carnefice.

So, che l’argomento è molto più complesso della domanda che ti pongo, ma come pensi vengano gestite – in linea di massima – le carceri? E dove esse non rispettano i buoni propositi – cioè il reinserimento nella società – che tanto viene sbandierato? In breve. Quali sono quei limiti oggettivi che non possono sicuramente ottenere altri risultati?

Non possiamo correre il rischio di combattere l’inciviltà con l’inciviltà e nemmeno la violenza con la violenza. Credo in uno Stato che riesca ad essere guida e ispirazione per il valore etico che riesce ad esprimere nelle proprie scelte. Devo ammettere che la mia esperienza personale di vita con tutte le limitazioni che ho dovuto affrontare per la mia protezione mi spingerebbero ad una risposta vendicativa. Ma sarebbe ingiusto. Facciamo in modo, piuttosto, che il reinserimento sociale parta da una netta presa di distanza con il proprio passato criminale e un reale servizio alle indagini e alla giustizia. Tieni conto che molto spesso il figlio di un mafioso nasce e cresce dentro una scala di valori completamente distorta e non ha gli strumenti culturali per riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: credo che la detenzione debba essere la scoperta esplosiva di una reale alternativa. Allora davvero ha svolto il suo compito.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti lascio con il frammento di un’intervista fatta a Assata Olugbala Shakur (attivista e rivoluzionaria statunitense di origine afro-americana), apparsa nel 1991 su Crossroad e che in un certo senso potrebbe essere modificata – cancellando la parola bianchi, e sostituendo le parole razzista/i con mafiosa/i e razzismo con mafiosità –, indirizzandone così il messaggio a noi tutti senza distinzione di sesso, colore o credo ideologico politico religioso: << Penso che sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, etc, etc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo. >>

«Una piccola luce nel buio»: zillyfree su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

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(l’articolo originale è qui)

(di zillyfree)

Tra i tanti libri di mafia che ci sono, che ho letto, questo, si, parla di mafia, ma parla delle vittime che la mafia fa, racconta di una storia dimenticata, che forse si vuole dimenticare, che per tanti anni è stata quasi cancellata, coperta ma ora no grazie a Giulio Cavalli che attraverso la figlia del protagonista del libro romanza la vita di Michele Landa, un uomo che per tutta la sua esistenza ha voluto condurre una vita onesta, nonostante fosse circondato da una malavita come la camorra presente in ogni angolo delle strade di Mondragone.

Michele Landa, 61 anni, guardia giurata, metronotte a Pescopagano, a controllare una antenna, una semplice antenna, una zona di droga, prostitute e qualcosa di più grande come affari di camorra. Gli mancava poco alla pensione, poche notti e avrebbe dedicato i suoi anni ai nipotini e ai suoi orti, invece viene trovato ucciso e bruciato nella sua macchina. Il paese Mondragone rimane nel suo silenzio di fronte a questo atto barbarico, un articoletto tra le cronache del giornale di paese e poi tanto e pesante silenzio intorno a questa vicenda che ancora oggi non si riescono trovare motivazioni di questa morte, i colpevoli di questa morte, solo tanta rassegnazione. Questo libro sembra una piccola luce nel buio più totale perchè ha ridato visibilità ad una vicenda piena di lati oscuri.

E’ una storia d’amore bellissima (amore, amicizia vera, rapporti tra padre e figlio, tra fratelli) ma è anche una storia d’omertà dove fin dalle prime pagine possiamo intuire chi può essere l’assassino anche se sono solo intuizioni non ci sono prove certe com’è  del resto ora. Michele Landa è un orfano, una vita difficile, ma ha un nonno che gli insegna a vivere onestamente stando lontano da chi è losco, di non ribellarsi se vuoi bene ai suoi cari, insegnamenti che poco riesce a digerire ma che seguirà ma nonostante questo si troverà alla fine in una scatola di scarpe in mano ai suoi famigliari…

“Vorrei stare ai campi e spiegare ai miei nipoti che Massimiliano, l’amico del nonno, è morto anche perchè diceva cose che tutti vedevano ma tenevano nascoste, e allora l’hanno preso per matto. Se vuoi uccidere qualcuno lo fai passare per matto e sei già a metà dell’opera…io vorrei che i miei nipoti e voi imparaste che le idee si sostengono anche in pubblico.”

(Lo puoi comprare anche direttamente dalla nostra piccola libreria qui)

Sorpresa: il giornalismo non urlato funziona anche sul web

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Buone notizie per l’ecologia del web. Ne scrive Dario Mazzocchi per Gli Stati Generali:

Al numero 22 di Old Queen Street, a Londra, possono permettersi di stilare la lista dei famosi buoni propositi per il nuovo anno: a quell’indirizzo ha sede la redazione dello Spectator, settimanale politico e culturale conservatore che viene stampato dal 1828 e che pare goda di ottima forma ancora adesso, nell’epoca del giornalismo multimediale e legato al pianeta dei social network.

Il 2015 per lo Spectator ha infatti confermato una tendenza positiva, come ha raccontato il direttore Fraser Nelson: quasi 61.000.000 di pagine visualizzate e 20.000.000 di utenti per il sito, segnando una crescita costante dal 2012, quando i numeri erano in flessione in seguito all’introduzione di un paywall completo. Poi il compito di gestire il settore web è stato affidato a Sebastian Payne, il metodo di pagamento è stato modificato, subentrando solo dopo un certo numero di articoli consultati, e i numeri sono tornati a crescere.

Il risultato deve aver colpito anche quelli del Financial Times, che hanno assunto Payne affidandogli il ruolo di digital comment editor, con l’intenzione di inserire video e audio per quel settore on line del giornale della City. La stessa cosa, d’altronde, è andata in scena proprio allo Spectator, con l’introduzione del blog Coffee House e di contenuti podcast con la rubrica The View from 22.

Dal web alla carta: nella prima metà del 2015 la circolazione dello Spectator ha continuato ad allargarsi, per un totale di 62.718 lettori paganti (55.165 per l’edizione stampata, 7.753 per quella digitale), lasciando intendere alla direzione del settimanale che è possibile tornare a raggiungere il picco registrato nel 2008 di 76.952 copie: da allora la diffusione era calata (54.000 nel 2013), per ripigliarsi in seguito, come accaduto al sito.

Cifre di nicchia, se paragonate a quelle dei colossi News Corp., Condé Nast & Co., ma dopo tutto anche gli obiettivi sono diversi: lo Spectator è un magazine agile, snello, con poca pubblicità e senza fronzoli, le pagine sono interamente occupate da articoli, le foto restano concentrate nella sezione culturale per accompagnare le recensioni di libri, spettacoli e rappresentazioni teatrali.

Il resto è qui.

Il blog ‘per tutti’ su ‘mio padre in una scatola da scarpe’

L’articolo originale è qui.

 Dico subito che questo libro mi è piaciuto parecchio.

La prima cosa che ho apprezzato è la scrittura, perché lo stile di questo autore è moderno e dinamico, coinvolgente e incisivo, semplice e lineare ma non banale.

Mi piace come riesce a rendere bene l’atmosfera. Mi piacciono le sue osservazioni. Mi piacciono i dialoghi popolari e le metafore vivaci. Ha un modo di esprimersi che è decisamente nelle mie corde.

Inoltre è riuscito a dare a questa storia una pennellata di inevitabilità e malinconia senza cadere nella tristezza.

Andando avanti nella lettura ho imparato ad amare i personaggi: Michele, il protagonista, in primis, ma anche Rosalba e Massimiliano (…ciccione e stupido ma così ingenuamente coraggioso).

L’ambientazione, Mondragone in provincia di Caserta, è un mondo che non conoscevo e di cui non avevo mai letto nulla, e mi ha suscitato molto interesse e curiosità. Viene descritto come un piccolo mondo paralizzato dalla paura dove le persone per bene per difendersi diventano invisibili e quindi soli.

La mafia, a tratti sussurrata e a tratti urlata, è la coprotagonista.

Leggendo ho capito subito che avevo tra le mani un libro piacevole e interessante; quindi a circa tre quarti di lettura ho deciso che ne avrei parlato qui nel blog e per portarmi avanti ho cominciato a cercare informazioni su autore e genesi del romanzo.

Dovete sapere che che io ho il vizio di togliere subito le sovra-copertine dei libri. Le metto in qualche angolo in attesa di finire il libro e ricomporlo e spesso non leggo le informazioni riportate sulla terza e quarta di copertina. Anche questa volta ho fatto così! La sovra-copertina gialla è finita subito dimenticata nel comodino e io sono andata in giro per giorni con un anonimo libro grigio.

Se avessi letto le informazioni di base sopra riportate avrei saputo che quella raccontata in “mio padre in una scatola da scarpe” è una storia vera. L’ho scoperto cercando informazioni sul web per comporre questo breve scritto e mi sono rovinata inevitabilmente il finale.

Il romanzo si basa sulla storia di Michele Landa, ma, se non volete fare il mio errore, cercate questo nome e leggete cosa è successo nel 2006 solo dopo aver finito il libro.

Ho scoperto anche che l’autore è sotto scorta per il suo impegno contro la mafia.

Tutto questo dà a questo romanzo un valore aggiunto.

Se questo fosse un racconto di pura invenzione alla fine avrei inveito contro l’autore pretendendo uno straccio di perché… ma questo libro si basa sulla realtà dei fatti e quindi è così che doveva terminare.

Ho chiuso il libro con una sensazione di inevitabile ma ho sperato fino alla fine in un qualche tipo di riscatto…in un atto di coraggio…

…forse mi sono illusa che anche a Modragone potessero crescere i meli…

“Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli edito da Rizzoli nel settembre del 2015 è un libro bello e importante che mi sento vivamente di consigliare.
Da leggere e da regalare…
Buona lettura!

“Legalità contro omertà da Mondragone a Milano”: una recensione di ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(recensione da la Provincia di Cremona)

Schermata 2015-11-29 alle 09.44.19«Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani». Giulio Cavalli queste cose le conosce bene. La promozione della cultura della legalità contro quella mafiosa è il suo pane da attore, autore e da (ex) politico. Tanto da portarlo, dal 2007, a vivere sotto scorta. Una vita dura, con pochi compromessi, che si riflette nel suo ultimo libro: ‘Mio padre in una scatola da scarpe – Capita a tutti l’occasione di essere giusti’. Cavalli sa cosa vuol dire pagare per un’idea. Quella che non si deve cedere mai, perché un passo dopo l’altro dalla comodità di una posizione un pò sonnolente si passa al compromesso irreversibile. Lui, invece, prima a teatro, poi sulle pagine dei suoi due libri, infine dai banchi del consiglio regionale, ha tenuto il punto. Anche quando nell’agosto 2013 il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha raccontato il progetto per farlo uccidere organizzato dalla cosca ’ndranghetista De Stefano-Tegano.

Da allora la sua vita è irrimediabilmente cambiata, sorretta anche dalla sua compagna, Miriana Trevisan. ‘Mio padre in una scatola di scarpe’ non è solo un romanzo, è un progetto: «Ispirato alla vera storia della famiglia Landa – racconta l’autore – il romanzo girerà l’Italia in un reading teatrale (…) Se mi avessero chiesto un romanzo civile, ecco, io, avrei scritto questo libro qui». Anche perché non si nasconde che con questo libro Cavalli spera di dare un contributo alla riapertura del caso – il cadavere di Michele Landa, guardia giurata, venne trovato in un’auto bruciata nel settembre del 2006 – ancora senza colpevoli. Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in un Sud con l’acqua alla gola, quando non senza del tutto, che forse non assomiglia alla città dell’Expo, ma alla Milano delle intimidazioni agli imprenditori in provincia, al racket degli alloggi popolari, al business ‘calabrese’ del movimento terra, ai piccoli negozi incendiati, alle riunioni di affiliazioni nei ristoranti comprati con i soldi riciclati, ai comuni sciolti per mafia, alle operazioni ‘Infinito’ e ‘Insubria’. ‘Non è un libro poliziesco. È un libro sulla cultura dell’illegalità, sull’abbandono delle tante persone perbene.

Scandalo Vaticano: quell’amore per la finanza di Monsignor Balda

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Alla fine sono 5 le richieste di rinvio a giudizio che il Tribunale della Stato della Città del Vaticano ha notificato nei confronti di Angel Lucio Vallejo Balda, Francesca Immacolata Chaouqui, Nicola Maio, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. I primi tre sono chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 248 cod. pen. (quest’ultimo come sostituito ad opera dell’art. 25 della Legge n. IX dell’11 luglio 2013) «perché all’interno della Prefettura per gli affari economici e di COSEA si associavano tra loro formando un sodalizio criminale organizzato, dotato di una sua composizione e struttura autonoma, i cui promotori sono da individuarsi in Angel Lucio Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, allo scopo di commettere più delitti di divulgazione di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato».

Tutti e cinque gli imputati dovranno rispondere del reato di cui agli artt. 63 e 116-bis cod. pen. (quest’ultimo introdotto ad opera della Legge n. IX dell’11 luglio 2013) «perché, in concorso tra loro, Vallejo Balda nella qualità di segretario generale della Prefettura per gli affari economici, Chaouqui quale membro della COSEA, Maio quale collaboratore di Vallejo Balda per le questioni riguardanti la COSEA, Fittipaldi e Nuzzi quali giornalisti, si sono illegittimamente procurati e successivamente hanno rivelato notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato; in particolare, Vallejo Balda, Chaouqui e Maio si procuravano tali notizie e documenti nell’ambito dei loro rispettivi incarichi nella Prefettura per gli affari economici e nella COSEA; mentre Fittipaldi e Nuzzi sollecitavano ed esercitavano pressioni, soprattutto su Vallejo Balda, per ottenere documenti e notizie riservati, che poi in parte hanno utilizzato per la redazione di due libri usciti in Italia nel novembre 2015».

Intanto, però, comincia anche ad uscire un ritratto più preciso di Monsignor Balda. Nei giornali spagnoli è una storia conosciuta ma evidentemente le notizie non sono filtrate fino a noi: monsignore Lucio Vallejo Balda aveva dimostrato già da tempo una certa inclinazione per le operazioni spericolate. Finanziarie, soprattutto, ma di certo ‘Padre Angelo’ (come veniva amichevolmente chiamato ad Astorga, un piccolo comune spagnolo in provincia di León) era ambizioso. Anche troppo. “Era bravo nel suo lavoro, brillante, però troppo ambizioso, se si metteva in testa un obbiettivo era capace di tutto pur di ottenerlo” ha dichiarato ad un giornale locale un suo conoscente che non ha voluto svelare il nome per la paura di ritorsioni, e questo forse rende bene l’idea. Nato da una famiglia contadina il 12 giugno del 1961 a Villamediana de Iregua (La Rioja) ad otto anni era già nel seminario di Logroño da dove poi è stato trasferito ad Astorga. Terminati gli studi i suoi superiori decidono di spedirlo a Burgos dove prende una laurea in Teologia, la prima di una serie di lauree e dottorati. Fino al 1 agosto del 1987, quando il Vescovo di Astorga Briva Mirament lo ordina sacerdote.

(continua qui)

Tutto bello e commovente, certo. Ma Lea Garofalo non è un film.

lea_garofaloDoverosa premessa: che ci sia sempre qualcuno con la voglia, lo spirito e la bravura di Marco Tullio Giordana che anche senza guanti decide di mettere le mani in mezzo all’immondizia dove ogni tanto finiscono per indifferenza storie importanti come quella di Lea Garofalo e della sua coraggiosa figlia Denise. Portare in prima serata la storia di chi si ribella alle mafie avendole in casa è meglio di qualsiasi discorso di qualsiasi presidente della Repubblica: è l’esempio dato con le scelte della vita, con le azioni e senza curarsi della retorica e delle posture. E davvero la storia di Lea è stata anche la storia del risveglio di tanti (giovani e non, lombardi e non) che hanno imparato il dovere e la bellezza di stare vicini alle persone che non hanno paura. Se dovessimo immaginare un modello di televisione etico, ecco, ieri sera sarebbe stata una buona serata per il nostro Paese.

Però Lea Garofalo, al di là del mito e dell’agiografia, è stata una donna che ha deciso di uscire dal programma di protezione perché alla fine non ci ha creduto più ad uno Stato che avrebbe dovuto proteggerla. Anche questo è coraggio: viene un momento, per le vittime o i famigliari di vittime di mafia, in cui ci si accorge che il male e il bene non è per niente così bianco e così nero come si legge su alcuni libri e in alcuni film, ma che si muore spesso per mano di mafia e con il contesto come suo alleato migliore, come direbbe Sciascia. Lea Garofalo aveva chiesto aiuto alle istituzioni in molte delle sue componenti, dalle più alte fino agli uomini che quotidianamente ne avrebbero dovuto assicurare la protezione. E Lea Garofalo, la Lea che è stata fatta potabile da una prima serata con tutti gli onori, per quelli che avevano in mano il suo destino da nascosta e sempre in fuga Lea Garofalo era spesso descritta come tossica, poco di buono e altre velenose infamità. Inseguita dalla mafia ma calunniata dallo Stato.

(continua qui)

Li armano e poi li combattono /5

popolimissione

A far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis – inchiesta di Ilaria de Bonis per “Popoli e Missione”
Il nostro Paese non solo spende una fortuna per il settore della Difesa (nel mirino della società civile per l’improvvido acquisto degli F35), ma è anche tra i Paesi europei che più esportano armi in Medio Oriente. Quest’anno l’Italia ha persino superato Francia e Germania nella vendita di armi verso Israele: il dato viene dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. Per impedire di “gettare benzina sul fuoco” in aree del mondo in cui l’equilibrio è già molto precario – alla vendita si è aggiunto anche l’invio gratuito di armi all’Iraq la Rete Italiana Disarmo ha chiesto al governo chiarimenti. I centri di ricerca che vi aderiscono producono periodicamente analisi puntuali delle relazioni governative, segnalando le numerose vendite di sistemi militari nelle zone di conflitto, ai regimi autoritari e anche ai Paesi fortemente indebitatati che spendono rilevanti risorse in armamenti.

Solo lo scorso anno – informa Rete Disarmo – su un totale di poco più di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, comprensivo dei “programmi intergovernativi”, quasi il 51,5% ha riguardato Paesi non appartenenti né all’Ue né alla Nato, cioè un insieme di Paesi che non fanno parte delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia. In particolare, oltre 709 milioni di euro, pari al 33% delle autorizzazioni sono state rilasciate ai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma soprattutto nel 2013 sono stati effettivamente esportati verso questi Paesi (in cui non è inclusa la Turchia) sistemi d’armamento per quasi 810 milioni di euro pari al 29,4% del totale.
«L’Italia – spiega l’analista Giorgio Beretta – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto Ue) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012». In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Ma a far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis. Il nostro governo ha deciso di inviare: un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator, 280 militari, tra istruttori delle forze curde che contrastano l’Isis ad Erbil e consiglieri degli alti comandi delle forze irachene. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, ci ha spiegato che le obiezioni a questa decisione sono svariate: anzitutto c’è il non trascurabile dettaglio della provenienza di queste armi che sarebbero parte di uno stock di munizioni ed armi dell’ex Unione Sovietica, confiscate nel 1994 alla nave Jordan Express. Con ogni probabilità oggi poco efficaci. E dunque la funzione di questo invio sarebbe puramente simbolica: dimostrare ai Paesi della coalizione che l’Italia è presente sul campo. In ogni caso, «uno dei rischi più grossi è che quelle più operative finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate», ha spiegato Vignarca. E anche nell’universo curdo le “mani sbagliate” non mancano.

«La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da Centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma», scrive la Rete Italiana Disarmo. Insomma «il rischio è che si vada ad ampliare un incendio», aggiunge Vignarca. Ma l’obiezione assunta non solo dai movimenti pacifisti, suggerisce che in questo contesto mediorientale così incerto e magmatico, armare il nemico del nostro nemico non paga. In generale, la guerra all’Isis andrebbe fatta con altre armi, suggeriscono ricercatori, analisti e docenti. Ad esempio quella del taglio alle risorse finanziare. Isolare finanziariamente l’Isis, impedendogli di rivendere il petrolio estratto o di commerciare con i Paesi del Golfo, sarebbe una vittoria ben più grande. In un bel libro collettivo, dal titolo “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna” (a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…), la ricercatrice dell’Università di Pavia, Clara Capelli, scrive proprio questo: che l’Isis non è un mostro invincibile e che è da combattere facendo appello alla strategia. Tra le possibili alternative per sottrarre risorse c’è quella di individuare i mediatori tra l’Isis e gli acquirenti del petrolio,e costringerli a non fare da tramite per lo smercio di petrolio le cui risorse vengono impiegate per arricchire i terroristi.

(fonte)

Rispondere al terrorismo con il coraggio di avere paura, restando umani

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L’attacco dell’integralismo islamico è una trappola: provano ad accendere la bestialità di una contrapposizione sul campo dell’odio. L’ISIS vince ogni volta che diventa “normale” sdoganare l’odio e la violenza. Non è solo terrorismo, questa è la strategia dell’odio che vorrebbe infettarci, spingerci lì dove la civiltà è sconfitta dal pelo e dai denti di chi insegue il sangue. Se perdiamo l’equilibrio di una civiltà democratica loro avranno vinto: diventare come loro sarebbe il modo migliore per legittimarli.

La semplificazione del “noi contro loro” è il fine di questo attacco organizzato nel cuore d’Europa. Ogni volta che avremo paura di compiere un’azione normale (una sera a teatro, un pomeriggio allo stadio) i terroristi saranno riusciti ad infilarsi nelle corde delle nostre giornate e la nostra inquietudine sarà il loro vessillo.

Restare umani non significa accettare inermi l’attacco. Restare umani, oggi, significa avere per la vita e per l’uomo tutto il rispetto di cui siamo capaci, non imbarbarirci, non accettare la liberalizzazione dell’odio e del sangue.

(l’articolo completo è qui)

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo l’ANSA (Fabrizio Cassinelli)

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GIULIO CAVALLI, MIO PADRE IN UNA SCATOLA DA SCARPE (RIZZOLI, pp.288, Euro 19)

(ANSA, l’articolo originale è qui, di Fabrizio Cassinelli) – MILANO, 13 NOV – “Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani”. Giulio Cavalli queste cose le conosce bene. La promozione della cultura della legalità contro quella mafiosa è il suo pane da attore, autore e da (ex) politico. Tanto da portarlo, dal 2007, a vivere sotto scorta. Una vita dura, con pochi compromessi, che si riflette nel suo ultimo libro: ‘Mio padre in una scatola da scarpe – Capita a tutti l’occasione di essere giusti’.

Cavalli sa cosa vuol dire pagare per un’idea. Quella che non si deve cedere mai, perché un passo dopo l’altro dalla comodità di una posizione un po’ sonnolente si passa al compromesso irreversibile. Lui, invece, prima a teatro, poi sulle pagine dei suoi due libri (‘Nomi, cognomi e infami’, Edizioni Ambiente, 2010 e ‘L’innocenza di Giulio: Andreotti e la mafia, Chiarelettere, 2012) infine dai banchi del consiglio regionale (con Idv, poi passa a Sel e sostiene Ambrosoli sindaco ma non viene eletto alle regionali del 2013, ndR) ha tenuto il punto.

Anche quando nell’agosto 2013 il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha raccontato il progetto per farlo uccidere organizzato dalla cosca ‘ndranghetista De Stefano-Tegano. Da allora la sua vita è irrimediabilmente cambiata, sorretta anche dalla sua compagna, Miriana Trevisan. ‘Mio padre in una scatola di scarpe’ non è solo un romanzo, è un progetto: “Ispirato alla vera storia della famiglia Landa – racconta l’autore – il romanzo girerà l’Italia in un reading teatrale (…) Se mi avessero chiesto un romanzo civile, ecco, io, avrei scritto questo libro qui”. Anche perché non si nasconde che con questo libro Cavalli spera di dare un contributo alla riapertura del caso – il cadavere di Michele Landa, guardia giurata, venne trovato in un’auto bruciata nel settembre del 2006 – ancora senza colpevoli.

“Quando Angela mi ha raccontato la storia di suo padre, che è poi anche la sua – ha spiegato l’autore – io che la storia l’avevo già ascoltata da un giornalista e un amico, Sergio Nazzaro, mentre l’ascoltavo in diretta, così, al tavolo come quando ci si siede al tavolo con gli assicuratori, ho avuto la sensazione che colasse. Non c’era niente di più da estrarre o da spulciare, sarebbe bastato un contenitore. Ecco, forse questo libro è la pinta di quella storia. Che vi giuro aveva già tutti i sapori”.

Giulio Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in un Sud con l’acqua alla gola, quando non senza del tutto, che forse non assomiglia alla città dell’Expo, ma alla Milano delle intimidazioni agli imprenditori in provincia, al racket degli alloggi popolari, al business ‘calabrese’ del movimento terra, ai piccoli negozi incendiati, alle riunioni di affiliazioni nei ristoranti comprati con i soldi riciclati, ai comuni sciolti per mafia, alle operazioni ‘Infinito’ e ‘Insubria’. ‘Mio padre in una scatola di scarpe’ però non è un libro poliziesco. E’ un libro sulla cultura dell’illegalità, sull’ abbandono delle tante persone perbene. Il cui primo confronto non è con la paura ma con se stessi.

(il libro lo potete comprare a chilometro zero qui)