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Chissà come sorriderebbe oggi Libero Grassi, dopo i vespri di Bagheria

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Chissà che sorriso avrebbe Libero Grassi stamattina, sfogliando i giornali che raccontano della rivoluzione dolce avvenuta a Bagheria, dove gli imprenditori (trentasei imprenditori trentasei) hanno capito il trucco per essere forti contro quella mafia che spesse volte è sembrata invincibile, irrefrenabile oppure troppo comoda; hanno capito di dovere essere “insieme”. Chissà cosa direbbe Libero Grassi nell’accorgersi che la sua lezione, quella di un uomo lasciato solo, è stata scritta non solo sui libri di storia o citata nelle manifestazioni per la legalità ma oggi è diventata un uso concreto, un sentiero percorribile e percorso mica dagli esegeti dell’antimafia o i paladini di polistirolo: oggi hanno denunciato imprenditori, gente di giacche, fatture e fornitori, gente straordinariamente quotidiana. Oggi più che un’alba è il suono della sirena di inizio turno ma senza il fischio fastidioso del dovere; la sirena stamattina ha suonato con dentro tutto il clangore dei diritti, del dovere di applicare i propri diritti che è un lusso irrinunciabile appena lo si assaggia.

Se avete mai avuto la fortuna di ascoltare le parole di quella minuta e fortissima donna che è Pina Maisano, la vedova Grassi, vi sarà capitato di cadere nel crepaccio peloso della solitudine in cui è stato bollito Libero Grassi prima di essere ucciso. Qui da noi capita che gli eroi diventino eroi per la vigliaccheria di tutti quelli intorno e nessuno come la Mafia sa bene quanto sia facile disinnescare qualcuno rimasto isolato. E ci si isola mica solo per paura ma spesso anche per la sensazione di non avere nessuno a cui porgere la mano, in uno Stato che troppe volte è stato una melma ghiacciante piuttosto che un buon rifugio. Gli imprenditori siciliani che oggi hanno stanato il “Porco” (Pietro Giuseppe Flamia) signorotto incontrastato (e invece contrastabile) del pizzo là intorno a Bagheria hanno semplicemente deciso di stare “insieme”: di fare “rete”, di diventare associazione di tre o più persone dedite alla denuncia dell’illegalità. Un’associazione a denunciare. Che è una frase bellissima anche da scrivere. Eppure questa profumo siciliano ha nelle gambe anche tutti questi anni di cittadinanza attiva, di ostinata pratica reale sul territorio, di speranza che non si è mai fatta disperata rimanendo sempre in piedi nonostante le mafie e nonostante lo stato dello Stato.

(continua qui)

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo LINKIESTA

(Recensione di Paola Bisconti, la fonte è qui)

Schermata 2015-10-29 alle 15.04.55Il coraggio lo si può misurare in vari modi. Chi è davvero coraggioso non ostenta mai la sua più grande virtù e lo fa con grande buon senso. Niente azioni rivoluzionarie, il titano si arma solo ed esclusivamente di parole. Ma badate bene, ci sono quelle da non pronunciare e altre da urlare. Pochi ne conoscono il giusto equilibrio. Michele Landa e Giulio Cavalli hanno un’assonanza sebbene non si siano mai conosciuti e le loro esistenze sono decisamente differenti.

Giulio Cavalli ha conosciuto Michele Landa attraverso il ricordo e la testimonianza dei figli che hanno perso il loro padre la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006. La famiglia viveva a Mondragone, in provincia di Caserta, dove Michele lavorava come guardia giurata presso la Cooperativa Lavoro&Giustizia e quella sera avrebbe dovuto controllare una grande antenna sita in una zona non molto raccomandabile.

Mancavano pochi giorni al traguardo della pensione e al desiderio di dedicarsi esclusivamente ai nipoti e al suo orto, ma quella notte Michele Landa è stato ucciso e il suo corpo poi bruciato. Con lui è morta anche la verità. Nessuna indagine, nessun indizio, tutto è ancora avvolto nel mistero.

Se non fosse stato per l’arguta coerenza letteraria e realistica di Giulio Cavalli non saremmo mai venuti a conoscenza di questa storia. La memoria è una delle più nobili azioni che può compiere l’essere umano e il libro “Mio padre in una scatola di scarpe” edito da Rizzoli è un grande tributo a Michele Landa e alla sua famiglia.

Raccontare una storia d’omertà è una scelta che scardina i sistemi di una società basata sul falso, abituata a camuffare piuttosto che a scoperchiare le malefatte di una parte di popolo che padroneggia su tutto il resto. A Giulio Cavalli, attore teatrale, ex consigliere regionale in Lombardia che vive sotto scorta a causa delle pesanti minacce ricevute in seguito ai suoi spettacoli di denuncia antimafia, dovremmo essergli riconoscenti per aver saputo sfidare ancora una volta quel velo di indifferenza che ci costringe ad essere invisibili.

Michele Landa non ha mai voluto vivere da invisibile sebbene a Mondragone la gente onesta fosse costretta ad esserlo perché schiacciati dall’arrogante prepotenza della famiglia camorristica dei Torre che controllava e gestiva le attività economiche del paese. Glielo diceva sempre suo nonno, a Michele, di stare lontano dai mafiosi e di non osare sfidarli perché ogni reazione avrebbe messo a rischio l’incolumità dei propri cari. Ed è difficile accettare questo consiglio quando l’anima dentro arde di giustizia.

Nell’apparente quiete di Michele c’era un fuoco che bruciava e solo la dolcezza e prudenza di Rosalba era in grado di placare. Il loro era un amore “che cerca conforto e pace”. Dopo un’infanzia e un’adolescenza cresciuto da orfano, Michele ritrova nella realizzazione della sua famiglia, la tanto attesa e meritata felicità. Ma se dentro al nucleo familiare la quotidianità scorre serena, al di fuori di quel cerchio magico c’è l’inferno. E si sopravvive accettando compromessi “in una terra paralizzata dalla paura”.

Nella seconda parte del libro si fa un salto temporale di quarant’anni durante i quali Michele fa pace con il presente e con il passato, con i suoi più grandi dispiaceri, lutti e fragilità. Accetta il decesso del nonno, ormai anziano morto una settimana dopo il giorno del matrimonio con Rosalba, soffre ancora per la morte ingiusta del suo migliore amico Massimiliano che osò sfidare i suoi assassini con “uno sguardo che aveva assunto i toni del mito”.

In tutta questa storia emerge però la bellezza della dignità di una famiglia che ha affidato alle parole di Giulio Cavalli, una storia preziosa e singolare malgrado il tragico epilogo. Una bellezza celata, da cogliere dietro alle brutture di un mondo sempre più insozzato dalla cattiveria, un incanto da scorgere come faceva Michele Landa quando insieme alla sua nipotina si dirigeva a coltivare i suoi terreni agricoli e le diceva: “Mondragone verso gli orti diventa quasi irlandese: verde, umida, più forte dello scirocco”.

Sogniamolo insieme, anche per lui, un vento di tramontana in grado di spazzare via tutto il lerciume che ci sta intorno.

Lettere che mi rendono felice

12122542_868262876576517_1348074369069251953_nContinuiamo a correre. Ed è un bene. Continuo ad incrociare librerie, librai e lettori che sembrano il presepe del paese raccontato in televisione e non credo che siano questi ad essere in cattività. A Napoli mentre presentavo ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ avevo di fronte, in prima fili, fissi sul petto gli occhi dei figli di Michele Landa e il pubblico stralunato ha visto un libro a forma di famiglia e una famiglia a forma di libro, tutti e due insieme. Mentre mi faccio portare in giro dal mio libro respiro con quegli slanci tutti polmoni come quando ero ancora capace di meravigliarmi. Sono diventato terribilmente bambino. O meravigliosamente vecchio. Dentro la scatola da scarpe ci ho trovato anche qualche pezzo di me che per noncuranza avevo lasciato in giro.

Ma soprattutto ci sono le voci di chi l’ha letto che mi mostrano angoli nemmeno immaginati: Mario Portanova (che è sempre un onore avere di fianco per la sua pulizia intellettuale, oltre che la preparazione) ha detto che Michele, il protagonista del libro, è un “profugo stanziale” cioè uno che vive da straniero nel suo paese perché non ne accetta le dinamiche bieche. Una lettrice forte mi ha insegnato che dentro il libro c’è il coraggio di raccontare coloro che “fanno ciò che possono” ed ha ragione: forse davvero abbiamo scambiato i fragili per vigliacchi, tutti presi da questa muscolosità politica.

Poi mi è arrivata una lettera. Inaspettata perché disinteressata come si riesce ad essere disinteressati di fronte ad un libro che non vuole insegnare niente, solo raccontare. Me l’ha scritta Stefano e ha il colore delle lettere scritte di fretta, senza mediazioni. Dice:

 

“…ebbene sì, caro Giulio, scusa se mi permetto di essere diretto, ho letto il tuo ultimo libro e sento la necessità di ringraziarti.
Dopo cinque minuti, da che l’avevo chiuso già l’avevo passato a mio padre con cui condividiamo la passione per la lettura, vorrei sentire il suo parere…ma soprattutto vorrei che anche lui, come me, conosca Michele e Rosalba,
per respirare la polvere di Mondragone, apprezzare la semplice bellezza delle loro vite e della verità.
Spero che non mi deluda, che mi confermi  ciò che penso e cioè che chiunque legge “Mio padre in una scatola da scarpe” deve donarlo a chi ama con la promessa che egli faccia lo stesso.
Perchè poi, quando ne avrà bisogno ritroverà comunque ogni riga, ogni emozione scolpita in modo indelebile sul proprio cuore.
Spero che mi confermi ciò che penso…tu hai scritto un Capolavoro, grazie  alla vita di Michele che è una testimonianza rara di amore e verità.

Non preoccuparti comunque.. lo consiglierò a chiunque.. ne regalerò una coppia a tutti.. anche a chi non conosco.

ti abbraccio e, appunto, ti ringrazio dal profondo del mio cuore, della mia anima.

Stefano”

Quando l’ho letta ho pensato che non è mica indirizzata a me, piuttosto ai figli di quel Michele Landa che ha lasciato dei figli veri, mica solo dentro un libro. E quando Angela Landa l’ha letta mi ha scritto una risposta che è un fulmine:

“la mia felicità è che da una storia di dolore è nata una storia di amore”

Vedi quanto sono forti i libri. E i buoni.

Corriere.it: “Segnali positivi” alla libreria Iocisto con Giulio Cavalli e la giovane Orchestra dei Quartieri Spagnoli

Schermata 2015-10-22 alle 23.09.56Il 24 ottobre 2015 il Vomero fino a notte fonda si riempirà di luci, musica e libri. Ma sarà diverso dagli anni passati perchè quest’anno il tema è la legalità. Iocisto #lalibreriaditutti in Via Cimarosa 20 (piazza Fuga) partecipa alla manifestazione promossa dal Comune di Napoli e dalla V Municipalità nel quartiere Vomero Arenella sin dal mattino.

Aprendosi alle scuole, ai ragazzi, ai lettori ed uscendo in piazza con un programma ricco e diversificato. La mattina sarà dedicata a scuole e ragazzi e vedrà protagonisti i ragazzi dell’Orchestra dei Quartieri Spagnoli, un progetto artistico e culturale che nasce dal riferimento preciso del sistema pedagogico-musicale creato in Venezuela da José Antonio Abreu, musicista ed ex ministro della cultura. Seguiranno il RAP per la legalità che convolgerà famiglie e ragazzi grazie al giovane rapper Gian Paolo Nicolini in arte CIOMPI e con i fumetti per la legalità a cura della Scuola Italiana Comics.

Alle 12:00 direttamente dal teatro civile, reduce anche dallo spettacolo al Nuovo Teatro Sanità, al suo esordio nelle vesti di romanziere Giulio Cavalli presenterà il suo libro con un potente monologo. “Mio padre in una scatola di scarpe” edito da Rizzoli parte da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso senza ancora un perché a Mondragone. Giulio Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in cui non serve fare rumore per diventare eroi delle piccole cose.

Nel pomeriggio in libreria un altro racconto sui piccoli grandi eroi involontari grazie al romanzo di Paolo Miggiano che presenterà “ALI SPEZZATE – Annalisa Durante. Morire a Forcella a quattordici anni”. Interverranno Arnaldo Capezzuto, Gigi Fiore, Sandro Ruotolo e Franco Roberti. La serata si concluderà con il Jazz a cura di Music Instinct.

(fonte)

Il distributore automatico di racconti brevi

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Allora si va dal distributore e si seleziona la storia. Si può scegliere la lunghezza sulla base del tempo di attesa: due, tre o cinque minuti? Quella da tre minuti, ad esempio, è un foglietto largo otto centimetri e lungo 60, come fosse un enorme scontrino. Quello da cinque è, come è logico, quasi il doppio. A fornirle ci pensa una casa editrice startup, Short Edition.

“Ci abbiamo pensato la prima volta di frone a un distributore di barrette di cioccolato e di bibite. Si può fare la stessa cosa con un po’ di letteratura popolare, per occupare i tempi morti”, ha detto Christophe Sibieude, il confondatore e presidente della startup.

La notizia è qui.

Cocò: quando un bimbo è solo uno scudo umano

Il pezzo di Niccolò Zancan per La Stampa:

nicola-campolongo-coco-660x400Cocò non era lì per caso. Cocò stava lavorando anche se non lo sapeva. Cocò era stato arruolato da suo nonno. Doveva fare semplicemente se stesso: il bambino. Il nonno spacciava, lui stava al suo fianco. Vorranno mica ammazzare un bambino di 3 anni? Cocò è stato ucciso nella guerra fra due clan rivali in terra di ’ndrangheta, per il predominio nella zona della Sibaritide, in provincia di Cosenza. Era lo scudo umano di suo nonno. Gli hanno sparato in testa. E adesso, dopo un’indagine durata un anno e mezzo, i carabinieri e la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sono sicuri di aver individuato i responsabili. Sono due rivali in affari.

Sono due piccoli trafficanti emergenti. Si chiamano Cosimo Donato detto Topo e Faustino Campilongo detto Panzetta: «Due spacciatori di stupefacenti operativi fin dal 2003. Essi si rifornivano di stupefacente da Iannicelli, il quale, a sua volta, lo prelevava dagli zingari di Cassano allo Ionio». Le 289 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip di Catanzaro fanno paura. Perché per capire quello che è successo la notte fra il 16 e il 17 gennaio 2014 bisogna partire da lui, da Nicolas Junior Campolongo dettò Cocò.

Giuseppe Iannicelli era sua nonno. Uscito da poco dal carcere, era tornato a trafficare cocaina ed eroina ma aveva bisogno di incrementare gli affari. Molti parenti erano ancora in cella, tutti dipendevano da lui. «Giuseppe Iannicelli era dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, dapprima in seno alla consorteria ’ndranghetistica degli zingari, quindi avvicinandosi al sodalizio storicamente contrapposto dei Forastefano».

Cambiando alleanze criminali, cercando di allargare il suo giro, sapeva di essere in pericolo. Ecco perché quando andava a consegnare la droga in conto vendita alla sua rete di pusher e quando tornava ad esigere i crediti, portava sempre con sè la compagna Ibtissam Touss e il piccolo Cocò. Li caricava in auto.

Erano la sua assicurazione sulla vita. «Cocò era utilizzato da Iannicelli al fine di scongiurare agguati», hanno dichiarato a verbale due testimoni e un pentito. Così ha spiegato il figlio stesso di Iannicelli: «Si accompagnava a Cocò e alla marocchina perché era convinto che in loro presenza nessuno avrebbe potuto fargli del male». Molti sapevano. Sapevano che il bambino era stato arruolato. Sapevano che gli equilibri criminali della zona si erano rotti.

È una storia di ‘ndrangheta, di boss e manovalanza. Di capannoni incendiati per ritorsione. Di pestaggi esemplari davanti ai bar del paese. Pistole e minacce. Matrimoni combinati a pagamento. Soldi da spartire. Famiglie intrecciate e segreti. E in quel contesto che Giuseppe Iannicelli si scontra con «Topo» e «Panzetta». Loro sono i suoi spacciatori tra Firmo, Lungro ed Acquaformosa. Ma mentre lui cambia alleanze, loro restano legati al clan degli zingari. Chi comanda?

Iannicelli è sempre più solo. Fino a rendere Cosimo Donato e Faustino Campilongo preoccupati che si possa pentire, che incominci a collaborare. Forse è quello il momento in cui prendono la decisione. Ma prima chiedono protezione al boss di Altomonte, Saverio Donato.

Il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto il 3 settembre 2015 firma un’integrazione urgente all’inchiesta da sottoporre al gip. È un’intercettazione ambientale: «Dalla conversazione si evince che Cosimo Donato e Faustino Campilongo hanno ricevuto mandato, da parte di persona non menzionata, di rubare un’autovettura e assassinare una persona. L’incarico sarebbe stato accettato». Parlavano di Giuseppe Iannicelli. Lo avrebbero ammazzato, lui con il suo scudo umano.

Tutto è stato ricostruito. Così il collaboratore di giustizia Pasquale Perciaccante, dissociato dalla cosca Abruzzese: «Non si fidavano tanto di questo Iannicelli. Perché parlava sempre, tenìa la bocca troppo sporca, parlava sempre parlava». Giuseppe Iannicelli è stato attirato in una trappola con una scusa. Hanno sparato a lui, a Cocò e alla signora Ibtissam Touss, «la marocchina».

 

L’auto data alle fiamme, i cadaveri carbonizzati per eliminare le tracce. Erano trascorse poche ore, ma le famiglie criminali intercettate già parlavano di come verificare se si potessero recuperare 7 mila euro che doveva avere Iannicelli: «Impossibile, tutto bruciato». «Topo» e «Panzetta» erano in paese poche ore dopo il triplice omicidio.

Li ha visti persino Giuseppe Iannicelli Junior: «Le mani nere, unte. I loro vestiti puzzavano di benzina. Erano agitati, impauriti». Ma nessuno è andato a parlarne spontaneamente alle forze dell’ordine. I due killer guadagnavano bene. Cambiavano auto spesso. Si vantavano: «Hai visto che non siamo due poco di buono?».

Che silenzio intorno a ‘Mondazzoli’

medium_151005-160440_To051015Cro_051-300x225Sono un autore Rizzoli e credo che il ruolo di chi scrive sia anche quello di osservare, ossessivamente se serve, e sono convinto che il nostro lavoro sia un privilegio che ha delle responsabilità. Mi piacerebbe, mi sarebbe piaciuto pensare che in un Paese in cui gli scrittori per vendere qualche copia in più sono pronti a quasi tutto, un passaggio epocale come quello che sta avvenendo in questi giorni meriterebbe un confronto continuo, un dialogo altisonante e deciso e piuttosto del silenzio anche qualche panzana scritta in maiuscolo.

Ne ho scritto qui.

Quando scappa una foto

#vetrinemilanesi #feltrinelli #piazzaduomo #milano #miopadreinunascatoladascarpe In Duomo, nella mia Milano, tra i libri consigliati all’ingresso. Torno presto anch’io. via Instagram http://ift.tt/1OjOavA

‘Mio padre in una scatola di scarpe’ è agghiacciante perché vero (di Rita Fortunato)

(l’articolo originale è qui)

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(Recensione di Rita Fortunato)

Una storia donata va sempre accolta. Questo è il pensiero che mi ha portata ad accettare la proposta di Barbara Reverberi di leggere Mio padre in una scatola di scarpe. Si tratta di un romanzo civile edito Rizzoli, scritto da Giulio Cavalli e comparso nelle librerie italiane il 17 settembre. Fresco fresco di stampa, insomma e che ho anche avuto la fortuna di incontrare sugli banconi per libri allestiti a #PordenoneLegge.

Barbara mi ha subito detto che è un romanzo bellissimo e che lei, personalmente, l’ha divorato.

Per quanto riguarda il verbo “divorare” aveva ragione ma, più che bellissimo, ho trovato l’opera agghiacciante. Ti spiego perché…

Mio padre in una scatola di scarpe è agghiacciante perché vero

Con agghiacciante non intendo dire che Mio padre in una scatola di scarpe non sia un buon libro. Fondamentalmente è un romanzo d’inchiesta tratto da una storia vera, fatta di mafia e omertà. Temi forti, dolorosi, di quelli che non si vorrebbe affrontare perché, quando te li trovi scritti neri su bianco, ti agghiacciano.

L’ho letto in due giorni e avrei voluto che finisse in maniera diversa, che non rimanesse in sospeso. Tuttavia uno scrittore non può accontentare sempre il lettore, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di ricordare che ancora esiste una cultura dell’omertà.

Una cultura che sta stretta al personaggio principale e perno attorno al quale ruota tutto il racconto,  Michele. Per amore, il nonno cerca di inculcargli questa filosofia in tutti i modi:

“Qui le brave persone, per difendersi, diventano invisibili”.

È una persona normale, Michele. Vorrebbe solo vivere a casa sua, metter su famiglia e garantire un futuro a figli e nipoti. Assieme a lui, poche brave persone appaiono nella trama del romanzoMassimiliano, considerato lo scemo del paese ma con un cuore d’oro, il nonno e le sue cene domenicali con il nipote e la dolcissima e coraggiosa Rosalba, detta la silenziosa.

Volente o nolente, il lettore non può fare a meno di affezionarsi a queste persone, ad augurar loro tutto il bene possibile. Ad essi va l’ammirazione dell’amico milanese Giulio:

“Quelli che cambiano il mondo sono quelli che non si fanno avvelenare dal mondo”.

Ma niente è ciò che appareMio padre in una scatola di scarpe parla di un’indifferenza che non è solo espressione di codardia o servilismo da parte delle persone semplici, ma anche l’unico comportamento da adottare per sopravvivere in una terra violenta comandata da violenti. Gradualmente (ed è qui che la cosa si fa particolarmente agghiacciante) ci si addentra in un contesto e in una storia dove la desensibilizzazione al dolore la fa da padrone perché, in fondo, ci si abitua a tutto, anche ai soprusi. Non c’è scelta.

Vi è un’educazione alla paura e alla sopravvivenza scambiata per coraggio in una vita quotidiana che impedisce agli abitanti di Mondragone, località dove si svolgono i fatti, di compiere il loro dovere civico e permettere che la giustizia faccia il suo corso.

“Michele, nella vita ci vuole coraggio a rinunciare. Anche a rinunciare ai principi, se serve”.

Nessuno sembra voler spezzare la catena che anno dopo anno stringe il paese in una morsa soffocante di incomprensioni, malelingue e indifferenza. Tutto ciò che accade, anche i gesti di umanità sono visti con sospetto e manipolati per mettere in cattiva luce le brave persone, distruggere la loro reputazione e creatività. La coscienza, in questo romanzo, sembra proprio non esistere. Al massimo vi è rabbia repressa e dolore raccolto e nascosto

Mio padre in una scatola di scarpe è un romanzo logorante e, sinceramente, andrebbe donato ai giornalisti che ricamano notizie prestando orecchio alle voci e non verificando le fonti, ai carabinieri che preferiscono screditare il cittadino medio pur di non perdere i ricavi e gli interessi che li legano a chi dovrebbero incarcerare, alle persone che sparlano e si fanno belli sulle miserie e i dolori altrui, convinti che andare a messa la domenica sia sufficiente per sciacquare la coscienza dalle loro ipocrisie e meschinità.

Non saprei bene cosa aggiungere sull’opera con la quale Giulio Cavalli esordisce in veste di scrittore se non che il libro andava scritto e che merita di essere letto. In mezzo a tanti testi fondamentalmente inutili, privi di messaggio, un romanzo civile come questo spicca dalla massa, per la sua agghiacciante veridicità.

Autore: Giulio Cavalli
Titolo: Mio padre in una scatola di scarpe
Casa Editrice: Rizzoli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 17 settembre 2015
Prezzo di copertina: € 18

Un’intervista con IODONNA. Su tutto.

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(Intervista di Raffaella Oliva, l’articolo originale è qui)

Era l’alba del 6 settembre 2006 quando Michele Landa fu ucciso a colpi di pistola e bruciato nella sua macchina. Era un metronotte di Mondragone, provincia di Caserta, un cittadino onesto cui era stato affidato il compito di piantonare un ripetitore per la telefonia mobile a pochi chilometri da casa, a Pescopagano. Gli hanno sparato durante un turno di lavoro, in quel periodo i clan della camorra avevano scoperto il redditizio furto delle apparecchiature telefoniche, forse Michele sapeva qualcosa, il suo sguardo indiscreto non era ben visto. Aveva 61 anni, il suo corpo carbonizzato sarebbe stato ritrovato in un fosso solo quattro giorni dopo: alla famiglia che aveva sporto denuncia per la sua scomparsa le forze dell’ordine avevano suggerito di non preoccuparsi, «sarà con l’amante».

Una morte quasi ignorata, la sua, giusto qualche trafiletto nella cronaca locale. Una morte ingiusta che oggi Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, attore e autore teatrale che per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta dal 2007, racconta in Mio padre in una scatola da scarpe, il suo primo romanzo dopo diversi libri d’inchiesta, in uscita il 17 settembre per Rizzoli. «Quella di Michele Landa è una storia profondamente umana, non una vicenda “banalmente” di mafia, bensì la vicenda di un amore e di una famiglia molto unita che si ritrova coinvolta per caso in un dramma più grande di lei», dice il milanese Cavalli, classe 1977. «A Mondragone Landa non era un eroe dell’antimafia; era, più semplicemente, una persona che non voleva avere a che fare con la camorra perché non voleva avere a che fare con l’illegalità in generale. Eppure è stato costretto a soccombere».

Nel romanzo questo aspetto è chiaro: Landa non era un militante, uno di quelli che fanno della lotta alla criminalità organizzata una missione di vita.
Esatto, voleva solo seguire le regole con la geniale semplicità che fu dei nostri nonni. Negli anni l’antimafia ha spesso agito in modo vile, guidata da un sentimento di vendetta, io stesso dopo quello che mi è successo mi ero imbruttito, incattivito (Cavalli ha iniziato a subire minacce di stampo mafioso nel 2006, dopo la messa in scena dello spettacolo Do Ut Des, sulla vita dell’immaginario aspirante boss Totò Nessuno ndr). Ho poi capito che a meritare ammirazione sono coloro che con la semplicità di cui sopra non perdono di vista i propri valori quando capita loro l’occasione di essere giusti, come recita la frase che ho voluto mettere in copertina.

Leggendo il libro viene da chiedersi quanto di vero e quanto di romanzato ci sia nel suo racconto.
Se dicessi che è tutto vero si diffonderebbe l’idea che Giulio Cavalli abbia scritto un’inchiesta sulla camorra. Mettiamola così: il tessuto umano e la vicenda sono reali, e lo sono nel senso che quando Angela Landa, la figlia di Michele, ha letto il libro mi ha confidato di aver ritrovato e riconosciuto, tra quelle pagine, la sua famiglia.

I vari personaggi sono descritti nei loro tic, nelle loro particolarità, nei loro tratti più invisibili, ma eloquenti; a tratti sembra di leggere una sceneggiatura cinematografica.
Forse proprio perché prima di scrivere ho incontrato più volte Angela. Per esempio, il pranzo di famiglia con cui si chiude il libro è autobiografico: io c’ero, ero lì, e in quell’occasione ho avuto modo di scorgere i tic di quelli che sarebbero diventati i personaggi del romanzo. Credo c’entri anche il fatto che nasco come teatrante, ma c’è un ulteriore aspetto da non dimenticare: quando, com’è accaduto alla famiglia Landa, ti ritrovi a vivere una vicenda così assurda, che non ti saresti mai aspettato, ecco, in quei casi sono gli stessi protagonisti della storia a raccontare quest’ultima quasi fossero osservatori esterni, sono i diretti interessati a darne una visione filmica, cinematografica. È un meccanismo di difesa, serve a non cadere nella disperazione. Dietro alle parole c’è sempre un’umanità tremolante e commovente.

Commovente perché distante dalla mera cronaca?
Commovente perché sentire Angela Landa dire “hanno ucciso mio padre, che era la persona che insegnava a mio figlio cos’è un orto” è diverso dal sentir parlare di mafia in televisione, per esempio, dove gli argomenti sono le modalità di azione delle organizzazioni criminali o le relazioni della DDA (direzione distrettuale antimafia ndr).

Che tipo di realtà ha trovato, lei, a Mondragone?
Per fortuna non ho problemi con la camorra, li ho con Cosa Nostra, i siciliani e i calabresi soprattutto, ma con la camorra no. Per me Mondragone è Angela, i nostri incontri, le nostre conversazioni. M’interessava la temperatura emotiva della città, più che il posizionamento della stessa sullo scacchiere criminale. In passato ci ero già stato, ma per degli spettacoli, non avevo avuto modo di assorbire il territorio anche perché è un po’ complicato per me, data la mia condizione.

Da quasi dieci anni vive sotto scorta e come saprà sulle scorte i commenti si sprecano, c’è chi le considera un capriccio: come risponde?
Rispondo che nella stragrande maggioranza dei casi è effettivamente così, viviamo in un Paese in cui si dà la scorta a un attore mentre si dice alla moglie di Michele Landa “non preoccuparti, tuo marito sarà fuori a ubriacarsi con qualche prostituta”. Ciò detto, trovo l’argomento “scorta o non scorta” poco interessante, mi preme di più parlare di quell’eccesso di difesa che in passato mi ha portato ad accettare un abbruttimento, un incattivimento cui credevo di avere diritto e che, invece, mi ha fatto solo perdere tempo.

Ha superato l’abbruttimento, ma la paura, quella si supera?
Dopo un po’ scompare, ci si abitua. Io non ho paura di certe famiglie calabresi, la mia paura è di vivere in un Paese che non dà risposte, ho paura della possibilità di delegittimazione, noncuranza e dimenticanza che è un po’ il senso di questo libro.

È per questo che nel 2010 è entrato in politica, diventando consigliere regionale della Lombardia prima con l’Idv, poi con Sel?
Sono entrato in politica perché sono convinto che i mandanti di certi crimini siano politici e penso che la politica sia un passaggio necessario per portare avanti la lotta alla mafia. Le famiglie appartenenti alla criminalità organizzata sono politicissime, conoscono a memoria leggi, emendamenti, piani di governo del territorio, molto meglio di tanti altri cittadini che magari si ritengono informati. Questo significa ch
e l’antipolitica è un favore che si fa a loro. Credevo di poter essere utile.

Poi cos’è successo?
È successo che quella parentesi politica mi è costata tanto dal punto di vista professionale, il sospetto era sempre quello che qualunque cosa facessi fuori dall’ambito politico nascondesse un interesse partitico. Per non parlare della legislatura pittoresca in cui mi sono ritrovato: il figlio di Bossi, la Minetti… Ce l’ho messa tutta, ma era troppo per me, l’ecologia intellettuale ha dei limiti.

La cosa che più l’ha stupita?
La giustificazione quotidiana di bassezze umane come elemento indispensabile per ottenere un buon risultato. Giustificazione vissuta come un aspetto positivo. E lì ho capito alcune cose: l’Italia non è un Paese che non si è accorto di Andreotti, è un Paese di aspiranti Andreotti. Poi, ovvio, anche in politica ci sono persone con una bella umanità, penso a Pippo Civati, a Maurizio Martina…

Alla fine, però, ha lasciato ed eccoci al suo primo romanzo.
È questo il mio lavoro: raccontare storie. Non raccontare storie per legittima difesa, non fare l’attore civile, non fare il minacciato o lo scortato, solo raccontare
storie. Purtroppo in passato ho sentito il bisogno di difendermi, ho dovuto spesso giustificare gli stereotipi che mi venivano appiccicati addosso, per cui da giovanissimo ero il nuovo Paolini. Poi, dato che ci avevo messo il sorriso, sono diventato il nuovo Dario Fo: insomma, sono stato sempre il modello sostitutivo di qualcosa che c’era già. Ora basta, questo è un libro libero, descrive ciò che sono ora.

Nel libro racconta l’omertà in modo estremamente schietto, come qualcosa di non riconducibile soltanto alla paura.
Certo, è anche un fattore culturale: per i nostri nonni l’omertà era sinonimo di tranquillità e quest’ultima era vissuta come un dovere da buon padre. Per loro assicurare tranquillità ai figli e non creare nevrosi in famiglia era fondamentale. Ora, partendo da questa consapevolezza, sta a noi non diventare vendicativi: non penso che si possa sconfiggere una prepotenza con una prepotenza organizzata più forte, è necessario un lavoro culturale. Ci ritroviamo di frequente a tuonare contro i collusi, quel che mi chiedo è: e se dentro questa forma di collusione ci fosse una struttura culturale che non abbiamo curato abbastanza bene? È questa la domanda che il libro vorrebbe mettere sul tavolo: il nonno di Michele, che gli dice di tacere e di farsi i fatti suoi, è un vigliacco? No, bisogna andare oltre, comprendere, sfruttare la memoria di quei nonni per curare. Non credo più nei paladini antimafia che si scagliano contro tutto e contro tutti.

Descrive bene anche il ruolo complice di certe donne disposte a sposare degli uomini di mafia pur di essere mantenute e fare “la bella vita”.
Attenzione, però, a Milano accade lo stesso quando una donna si sposa con un funzionario corrotto. E anche di quelle donne va compresa una fragilità: mi fa paura il giustizialismo culturale in cui ogni tanto anch’io mi sono ritrovato imprigionato in passato. Amo le persone che non hanno bisogno di avere un nemico per restare salde sui propri obiettivi e sto imparando a essere anch’io così.
 
Si tratta di comprendere per combattere?
Si tratta di fare antimafia non usando la penna come spada ma, per esempio, raccontando una storia d’amore come ho fatto con questo romanzo. Dobbiamo ricominciare a innamorarci della legalità e ancor prima dei fragili e delle fragilità: la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta verso chi ha paura, non verso chi ha le condizioni o la fortuna di poter non avere paura. La vera rivoluzione culturale e sociale avverrà quando comprenderemo che ognuno ha la propria battaglia personale da combattere, quindi va rispettato e trattato con gentilezza, come diceva Carlo Mazzacurati. Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo civile perché in un’epoca dominata dal cattivismo come quella attuale rilancia il buonismo non come debolezza, ma come senso di responsabilità sociale.