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‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Eleonora Cocola

Recensione a cura di Eleonora Cocola (link)
Schermata del 2015-09-24 16:14:26Quella di Michele, nato e cresciuto a Mondragone, non è una vita facile: orfano di genitori alcolisti che gli hanno regalato un’infanzia tormentata, l’unica famiglia che gli è rimasta è suo Nonno. Oltre, naturalmente, alla famiglia che Michele formerà da sé: nonostante le sofferenze che ha subito è un ragazzo a posto, che desidera solo essere felice, condurre una vita onesta e creare una famiglia buona. Tutte cose che a Mondragone sono tutt’altro che scontate.

Dove regna la camorra, che qui ha il nome della famiglia Torre, anche chi non è in cerca di guai deve vivere come se camminasse sulle uova, stando attento a ogni passo, a ogni parola, a ogni sguardo; imparando a far finta di non vedere, a non ribellarsi, a scomparire. È una vita che il nonno glielo ripete a Michele, che deve stare tranquillo e farsi gli affari suoi, e lui alla fine ha imparato: per colpa della famiglia Torre ha perso il lavoro, ha visto tanti amici morire, e ha dovuto trovare un difficile equilibrio tra silenzio e omertà. La sua convinzione che anche a Mondragone sia possibile vivere una vita pulita e felice non si è scalfita: soprattutto grazie all’amore, quello della ragazza che è diventata sua moglie, Rosalba “la silenziosa”: insieme hanno formato una famiglia numerosa con cui Michele non vede l’ora di godersi la vecchiaia.

Non è una storia qualunque quella di Michele Landa: è la storia di un uomo assassinato a colpi di pistola nel settembre del 2006; di un delitto i cui colpevoli sono ancora ignoti. Il romanzo di Giulio Cavalli riporta alla luce questa storia dimenticata, raccontando di una categoria di persone che non sono né con la mafia né propriamente contro di essa: gli invisibili. Quelli che, come Michele, in nome di una vita tranquilla sono costretti a fare violenza su stessi, soffocando la ribellione contro le ingiustizie e le morti di cui sono testimoni. È il Nonno del protagonista il primo portavoce di questa posizione: «Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li».

Con una scrittura intensa e uno stile avvolgente, in grado di catapultare il lettore dritto nella testa dei personaggi, il romanzo di Cavalli insegna che anche diventare invisibili richiede una certa dose di coraggio, e ricorda che purtroppo non sempre basta per salvarsi. Il protagonista Michele e la sua amata Rosalba sono disarmanti per la loro semplicità: dalla purezza del loro sentimento e dalla genuina integrità dei loro valori deriva la forza di questi due personaggi, tanto che quello che accade intorno a loro assume contorni quasi sfocati. La storia minuta, quella di chi subisce i grandi fenomeni senza giocarvi un ruolo di primo piano, viene portata alla luce, rendendo giustizia a tutte quelle vittime della mafia che troppo facilmente cadono nell’oblio.

AntimafiaDuemila su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

Schermata del 2015-09-23 15:00:52Giulio Cavalli racconta la vita di Michele Landa, metronotte ucciso nel 2006
di Miriam Cuccu
Ci sono luoghi in cui la differenza tra il bianco e il nero è così netta, che basta uno sguardo alla persona sbagliata per vivere o morire. Luoghi in cui le pozzanghere non sono d’acqua ma “a forma di punizione di dio”, dove le accuse si “incagliano sulla strada” e “le brave persone finiscono per diventare eroi, in mezzo ai nani”.
Succede questo nella Mondragone descritta da Giulio Cavalli nel suo libro “Mio padre in una scatola da scarpe” (frase da linkare a recensione in sezione Libri) (Rizzoli). Attore, scrittore e regista, Cavalli racconta la storia romanzata di Michele Landa, metronotte ucciso tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia a lungo rimasta coperta dalla polvere, che deve essere raccontata. Michele non era un magistrato, nè un giornalista, non gridava in piazza ma conduceva una vita onesta, che in certi posti equivale a diventare estraneo all’interno del proprio paese. Dove tutto diventa compromesso, e le giornate si consumano dietro a un lavoro che non rende liberi perché costruito sul silenzio e sul non sapere. Sul non voler sapere, soprattutto.

Si dice che le persone che cambiano il mondo sono quelle che non se ne lasciano avvelenare. Michele è così, e il suo antidoto al veleno di Mondragone lo trova in Rosalba, “la silenziosa”. Quarant’anni dopo il loro amore sarà ancora nuovo eppure antico, di quelli che sanno aggiustare le cose e le persone. E poi c’è il Nonno, una vita passata in punta di piedi per amore della tranquillità. “Questa città e questo tempo chiedono agli uomini di essere furbi, di non trovarsi nel posto sbagliato e di essere intelligenti nel non ascoltare le cose che non si devono ascoltare” ripete sempre al nipote, ma Michele non capisce, non si adegua, non prova orgoglio per questa terra che “ci vorrebbe una pioggia di due anni che lavi via tutto per bene”. Michele sa bene dove vuole stare, e non è dalla stessa parte dei Torre (famiglia di Camorra nel romanzo) che si fanno le regole su misura nella complicità degli abitanti, del brigadiere e del prete. E Michele sceglie di restarci, in quel paese, per dimostrare a tutti che anche qui si può vivere da onesti, si può crescere figli e nipoti insegnando loro ad amare la bellezza delle cose giuste. Sembra niente, eppure ci sono luoghi in cui anche vivere diversamente diventa uno sgarro da punire.
Cavalli, con minuziosa attenzione ai particolari, ci porta dentro una Mondragone che si trascina faticosamente in avanti senza domandarsi perché, un mondo di regole capovolte che non ci siamo mai totalmente scrollati di dosso, per ignoranza o convenienza. Ci ricorda che non sono tanto i singoli eroi a fare la differenza, ma il tempo, la cura e la fatica per far nascere nuovi semi. La storia di Michele non è lotta ed eroismo, ma coraggio di confermare ogni giorno le proprie scelte contro la “desertitudine”. E’ la dimostrazione che sono le persone a fare i posti, che se le persone cambiano possono accadere

(fonte)

Un’intervista. Fuori dal teatro.

Schermata del 2015-09-22 09:04:05(di Daniele Ceccherini, fonte)
Genova 

In occasione della rassegna “Bellezza dell’arte al cinema” durante la quale c’è stata l’intitolazione dell’Arena nei giardini E.Guerra a Peppino Impastato, abbiamo intervistato Giulio Cavalli che allAlbatros di via Rogerrone (Genova, Rivarolo).’ è andato in scena con il suo spettacolo teatrale “Nomi, Cognomi e Infami“.

Giulio Cavalli scrittore e autore teatrale è noto per il suo impegno con spettacoli e monologhi teatrali di denuncia alla criminalità organizzata. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui recentemente Mio padre in una scatola di scarpe.

Nomi, Cognomi e Infami è il mio spettacolo più longevo, è del 2006, è il tentativo di raccontare che la risata contro la mafia funziona… Mi dispiace che in questo paese l’antimafia culturale sia demandata tutta ad una sorta di volontariato e non ci sia un progetto istituzionale, io credo che il teatro sia il metodo migliore perché non ci sono mediazioni… Nel giornalismo ho usato l’inchiesta per cercare di capire cosa mi stava accadendo e per dare delle spiegazioni, perché per non essere delegittimato bisogna avere dei dati dietro, il teatro è l’occasione di poter parlare di alcuni angoli nascosti mettendoci la faccia. Il teatro civile in Italia è sempre molto strano, perché il teatro civile nasce come movimento culturale per poter riaprire processi che si sono archiviati, in Italia invece è quasi sempre un funerale laico molto tranquillo… L’ultimo libro Mio padre in una scatola di scarpe, è una storia vera di una famiglia di Mondragone convinta che basti non avere a che fare con la mafia per non avere problemi e invece proprio in quella famiglia c’è una vittima che è il padre. In questo paese secondo me ci siamo affezionati tantissimo ai paladini dell’antimafia, all’eroe senza macchia e ci siamo dimenticati di sapere che abbiamo il dovere di affezionarsi anche al diritto ad avere paura… Mi fanno più paura alcuni pezzi delle istituzioni che i mafiosi. I mafiosi che sono riusciti a ripulirsi e diventare istituzioni più che paura sono una preoccupazione più che per me per il bene di questo paese.”

Ecco l’intervista video integrale a Giulio Cavalli:

Vorrei essere qui. Al rione Sanità.

Mario Gelardi è coraggioso. Mica come i paladini da copertina, figurarsi, piuttosto è coraggioso come lo sono tutti quelli che restano, che vogliono restare, che quando qualcosa puzza decidono di abitarci dentro con l’armamentario per imbiancare le pareti nei loro prossimi cent’anni.

Mario Gelardi è direttore del nuovo teatro Sanità che sta proprio nel cuore del rione napoletano al centro delle cronache in questi giorni. Ci fa teatro, Mario con i suoi, come se fosse a Parigi, nel centro di Milano oppure in un’oasi nel deserto: al nuovo teatro Sanità si crede che tutto ciò che è bello svolge la sua funzione. Senza compromessi: bello per il bello, lavoro come lavoro, apertura come apertura.

Eppure il nuovo teatro Sanità non sta nell’elenco dei teatri che contano, secondo alcuni, perché ha disimparato la mediazione al ribasso. E c’è da capirli. Roberto Saviano ne ha scritto qui:

Il Nuovo Teatro Sanità è una realtà teatrale necessaria che ha sede in una bellissima chiesa sconsacrata, in uno dei quartieri più difficili di Napoli e si mantiene grazie al sostegno di chi crede che al Sud ciò che manca sia soprattutto ascolto, equilibrio e opportunità. Questo sostegno non arriva dallo Stato che ha deciso, tramite il giudizio insindacabile di una commissione di esperti, che la proposta del Teatro non meriti gli “aiuti” statali destinati alle compagnie under 35.

La nuova stagione teatrale (con il contributo importante e non pubblicizzato di qualcuno accusato spesso di lucrare sulla Campania) ha un titolo che è un manifesto sociale: Vorrei essere qui.

E io ho l’onore di aprirla, questa stagione dove la resistenza alla bruttezza è un esercizio quotidiano. Ed è uno dei regali più belli che potessi ricevere. Fateci un salto, credetemi. Alla faccia della messa in scena di chi crede che basti qualche divisa in più per controllare un quartiere.

(ah, questa settimana Mario ha regalato un suo monologo meraviglioso per il nostro numero di Left)

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#Left cosa ci abbiamo messo dentro

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Che la sinistra rinasca proprio nell’ultima patria di Karl Marx? In Gran Bretagna Jeremy Corbyn, il candidato più a sinistra alla segreteria del Labour, cresce nei sondaggi ed è molto popolare tra i giovani. La cover di questa settimana di Left è dedicata proprio a lui, marxista di formazione, amato dai sindacati e dalla working class, fautore della statalizzazione dei servizi pubblici, compresa la scuola. Corbyn è un feroce nemico delle diseguaglianze sociali che con la Thatcher prima e il blairismo poi, sono cresciute a dismisura. Nella sola Londra vivono 2 milioni di poveri. Questo signore dalla barba bianca che ama viaggiare in bicicletta e dice cose di sinistra, sta facendo così tanti proseliti dentro il Labour – le cui primarie si tengono il 12 settembre – da produrre diversi interventi di Tony Blair, che lo accusa di voler distruggere la creatura da lui creata: un partito laburista che corre e spera di vincere al centro dello spettro politico. «Ma più Tony Blair parla e più la gente si convince a votare Corbyn!», afferma nell’intervista rilasciata a Left, lo scrittore Antony Cartwright che ha raccontato la stagione del thatcherismo in molti dei suoi libri.

In Società affrontiamo anche il problema dei migranti e delle scelte politiche che l’Europa si trova ad affrontare. Il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati Christopher Hein sostiene che una soluzione potrebbe essere l’asilo europeo, mentre Fulvio Vassallo Paleologo fa il quadro delle politiche fallimentari e dei ricatti europei.

Cosa sta facendo il governo Renzi per l’ambiente? Ben poco. Anzi, è contraddittorio. Da una parte annuncia il Green act, dall’altra promuove nuovi inceneritori e trivelle e concede finanziamenti a strutture inutili. Left fa il punto sulla politica renziana della “lobby del grigio”. E sempre in Società una storia della creatività italiana attraverso il personaggio del giocattolaio Vittorio Lonzi.

Negli Esteri il punto sulla politica greca dopo le dimissioni di Tsipras con le motivazioni degli scissionisti di Syriza, mentre dall’Egitto l’analisi sul governo del presidente golpista al-Sisi che sta cancellando i protagonisti della Primavera araba. E ancora: Piattaforma Gaza, uno strumento di cartografia partecipativa per individuare le violazioni dei diritti umani messo a punto da Amnesty e Forensic Architecture di Londra. Left indaga poi sui desaparecidos: quelli di oggi in Messico dove esiste un legame tra pezzi di Stato e gruppi criminali e quelli di ieri in Argentina attraverso il racconto di una testimone del processo “Condor”.

In Cultura Francesco Erbani, autore di Pompei, Italia, racconta il degrado e il malaffare dell’area archeologica, metafora del Paese, mentre Pietro Greco fa il ritratto di Lise Meitner, la “madre” della fissione nucleare che disse no alla bomba atomica. E sempre per la scienza, Left parla del super batterio “modificato” per individuare le malattie del corpo umano. Infine, un omaggio al regista Jafar Panahi, di cui sta per uscire nelle sale il film Taxi Teheran.

(clic)

‘Ndrangheta, i De Stefano tornano a piede libero

di AMDuemila – 24 agosto 2015
de-stefano-giuseppe-collageCi sono Orazio, Giovanni e Paolo Rosario, tra meno di due anni toccherà anche a Carmine. Sono i membri della famiglia De Stefano (si legge sulle colonne de L’Espresso) che hanno scontato o sconteranno a breve le rispettive condanne. Giuseppe De Stefano, attualmente dietro le sbarre e figlio del noto capobastone, il defunto don Paolino De Stefano, è insieme ai suoi fratelli principale capo indiscusso della ‘ndrangheta. Ma gli altri pilastri di famiglia che torneranno in libertà non sono certo da meno: Carmine de Stefano, 47 anni e fratello maggiore di Giuseppe (in foto), è tornato in carcere lo scorso febbraio (a causa del ripristino di una precedente carcerazione per associazione mafiosa e traffico di sostanze stupefacenti) per alcuni delitti commessi tra la Calabria e Milano (tra la seconda metà degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta) insieme a Giuseppe ed al suocero Franco Coco Trovato, referente della cosca in terra lombarda. La prima moglie di Carmine è Giusy Coco Trovato, figlia di Franco, che i due fratelli avevano condannato a un colpo in testa e una sepoltura nello Stretto per aver confessato di essere in realtà innamorata di Giuseppe, e non di Carmine De Stefano. Un segreto che divenne di dominio pubblico nel momento in cui la donna fece leggere il proprio diario a Vincenzino Zappia, uno dei luogotenenti del clan ‘ndranghetista. La condanna sfumò solo grazie all’intercessione di Coco Trovato, intervenuto in difesa della figlia.
Orazio De Stefano, zio di Giuseppe, latitante dal 1988 e catturato 16 anni dopo, dopo la morte del fratello Paolo (ucciso in un agguato nel 1985) si era messo a capo della cosca. Proprio l’assassinio di don Paolino aveva dato il via alla guerra di mafia che a Reggio Calabria aveva mietuto fino al ’91 centinaia di vittime tra i clan, compresi due fratelli De Stefano, Giorgio e Giovanni. Orazio era stato scoperto in un appartamento di lusso presso Parco Caserta, un complesso residenziale del capoluogo reggino. Nel momento del suo arresto, eseguito alla squadra mobile di Reggio Calabria, diretta da Salvatore Arena, il boss invece di opporre resistenza si era limitato a dire, stringendo la mano ad Arena: “Sono Orazio De Stefano, sono onorato di fare la vostra conoscenza. State tranquilli, non sono armato. Datemi il tempo di fare le valigie e sono a vostra completa disposizione. Oggi si chiude la lunga parentesi della mia latitanza”. Il boss che era entrato nella “top five” dei latitanti più pericolosi d’Italia è già nuovamente a piede libero. A ottobre, invece, sarà la volta di Paolo Rosario De Stefano, cugino di Giuseppe, arrestato nel 2009 nel suo rifugio di Sant’Alessio Siculo, una villetta vicino al mare a pochi chilometri da Taormina. Per Giuseppe De Stefano, 47 anni, c’è ancora una lunga condanna da scontare (nel 2003 è stato condannato a 18 anni per traffico di droga e a 30 per associazione mafiosa) ma la sua forza e il suo prestigio si stanno via via fortificando: proprio in carcere, a Reggio, il boss ha ricevuto il rango di “Crimine”, il vertice della ‘ndrangheta del quale fanno parte le più importanti famiglie ‘ndranghetiste tra cui, oltre a i De Stefano, i Condello, i Libri e i Tegano. Ma sono i primi, in particolare, ad aver fatto della ‘ndrangheta una vera e propria holding criminale con entrature nell’alta politica e finanza, oltre a vantare una forza economica senza eguali grazie soprattutto ai proventi del traffico di droga, di cui è la mafia calabrese a detenere la quasi totalità del monopolio nel mondo occidentale. Dagli anni della guerra di mafia, a quelli della strategia della tensione, al golpe Borghese, i De Stefano hanno curato canali privilegiati con gli ambienti della massoneria e dei servizi segreti, e tuttavia mantenendo quel basso profilo che ha consentito loro di accedere ai piani più alti.
Emblematici, in questo senso, i legami stabiliti a Milano, una sorta di associazione criminale segreta che avrebbe creato “rapporti criminogeni per milioni di euro creando utili sotto forma di crediti d’imposta per riciclare i soldi sporchi”. Tra le società coinvolte (secondo quanto era stato scoperto durante il blitz scattato nel 2013) la Ficantieri e la multinazionale Siam, la quale vantava contatti preferenziali ai vertici della regione lombarda, con Roberto Formigoni, con Giuseppe Scopelliti invece per la Calabria. Tra gli organizzatori ci sarebbe stato anche Bruno Mafrici, nominato consulente del ministero della Semplificazione da Belsito, che ne era sottosegretario, così da permettere di accedere a bandi e investimenti statali. Mafrici avrebbe curato anche i rapporti con i politici calabresi, tra cui proprio Scopelliti. Secondo il collaboratore di giustizia Nino Fiume, avrebbe inoltre frequentato casa De Stefano a metà degi anni ’90, stringendo legami anche con politici del Nord, come il leghista Francesco Belsito. Voti e consenso, ciò su cui hanno puntato i De Stefano, ma anche colossali investimenti, in Italia come all’estero, nei paradisi fiscali che sono vere e proprie lavatrici di denaro sporco, individuando soggetti esterni all’organizzazione criminale in grado di gestirne il patrimonio. Una linea che ha avuto inizio già dagli anni ’70 con gli storici capibastone, Paolo e Giorgio De Stefano, e che ha permesso alla ‘ndrangheta di avere numerose entrature negli ambienti politici, istituzionali ed economici a livello mondiale.

Tre brevi racconti d’estate (di Yanis VAROUFAKIS)

Si vede che la fregola dei racconti, quando si tratta di piena estate, alla fine prende un po’ tutti. Più o meno è la stessa cosa che abbiamo pensato in redazione a LEFT quando abbiamo deciso di dedicare al racconto il nostro numero straordinariamente quindicinale (a proposito potete comprarlo in digitale qui oppure nella vostra edicola). E le storie dell’ex ministro greco (che sono piccole e che sono tre) raccontano anche un Paese. La traduzione è del blog EssereSinistra. Eccoli qui:

di Yanis VAROUFAKIS

Da bambino, ero affascinato dai racconti di mia madre, e di sua madre, del 1940, e in particolare dalle loro storie di vita sotto l’occupazione nazista. Forse non è un caso che i libri per bambini di una volta sono pieni di racconti macabri di omicidi, smembramenti e orrori assortiti.

La maggior parte di quei racconti erano disperati tentativi da parte delle donne della mia famiglia di trasmettere a un giovane, bambino viziato l’orrore  delle loro esperienze, il valore del pane, la memoria della solidarietà e della capacità di resistenza in un ambiente di schifo e paura opprimente.

L’inverno del 1941 era così impresso nella mia mente, quasi completamente con le immagini in bianco e nero, che il racconto di mia madre aveva prodotto, di carri trainati da cavalli che facevano il loro giro mattutino per le strade di Atene, raccogliendo i cadaveri di coloro che erano morti di fame la notte prima. Fuori da questo drappo di dolore, spuntava un racconto.

Ciò che rendeva questo particolare racconto un qualcosa che si conficcava nella mia mente non era un atto di eroismo poco appariscente o un tradimento indicibile (ce ne erano un sacco in quelli delle altre storie), né una tragedia che la mia mente giovane aveva trovato particolarmente atroce.

No, era un semplice racconto di una settimana passata su qualche spiaggia del Peloponneso, nell’estate del 1943. Mia madre era stata malata di tubercolosi e mia nonna pensava che sarebbe d’aiuto se avesse trascorso qualche tempo vicino l’acqua di mare, lontano dal pozzo nero di dolore e malattia che era Atene occupata. Le storie liriche di mia madre dei piccoli piaceri che hanno apprezzato su quella spiaggia soleggiata, nonostante le loro pance vuote e il buio che avvolgeva la nazione, ha assunto un significato immaginario della mia infanzia che è ancora con me.

Agosto 2013. Sto trascorrendo, mentre scrivo questo, gli ultimi giorni di estate, prima di tornare negli Stati Uniti, a Egina – la nostra isola santuario greco. Non è il 1941, non è il 1943. Il ronzio dei ristoranti è il consueto ronzio di mezza estate, il mare è blu come non mai, i traghetti trasportano i turisti fugaci. E tuttavia, la Grecia è nella morsa di una calamità che chi ha vissuto il 1940 pensava che non avrebbe mai dovuto vivere di nuovo. Ma devo desistere. Questo non è il posto per analisi e argomentazioni in relazione alla nostra catastrofe greca contemporanea. Questo è un pezzo di brevi racconti estivi. Quindi, mi permetto di raccontarvi tre storie del genere.

Confisca

Dimitri è un costruttore di imbarcazioni a Egina che fa un lavoro di manutenzione e cura di piccole imbarcazioni. E’ l’angelo custode del nostro zodiaco, di noi che che ormeggiamo al porto di Egina accanto al suo magnifico motoscafo; un super slick, nave di 8 metri super-veloce che i suoi magri guadagni non avrebbero mai potuto comprargli e che lui ha effettivamente costruito con le proprie mani. Ieri l’ho incontrato sulla banchina. Meno gioviale del solito, il suo volto mi ha invitato a chiedergli “che cosa c’è che non va”. “E’ la guardia costiera”, ha risposto. Due giorni prima hanno confiscato la sua barca temporaneamente. Perché? Perché proprio il motoscafo della Guardia costiera non partiva, in quanto non era stato curato per due anni a causa della mancanza di fondi. Così, hanno preso la barca di Dimitri per la sua velocità , l’hanno armata fino ai denti, in risposta a qualche rapporto di un atto di pirateria tra Egina e l’isola di Poros. Sono tornati due giorni dopo, a mani vuote e, per la disperazione di Dimitri, anche con il serbatoio vuoto. Cinquecento euro di benzina ad alto numero di ottani erano andati. “Non ti hanno rimborsato?», ho chiesto ingenuamente. “Non essere sciocco», è stata la sua risposta. “Come potevano rimborsarmi quando il bilancio del guardacoste di Egina non può nemmeno permettersi di acquistare una pompa ad aria per il loro gonfiabile?” Dimitri, è stato abbondantemente chiaro, e non portava alcun risentimento verso gli ufficiali della guardia costiera.

La sua tristezza era un semplice riflesso della tristezza media del Greco alla vista di uno stato fallito, che è costretto ad espropriare quel poco che viene lasciato ai suoi cittadini.

Poseidon

Parlando di combustibile, negli ultimi due mesi le stazioni di servizio di Egina sono regolarmente a corto di benzina. Per giorni e notti di fila, i turisti li avvicinano in previsione di riempire i serbatoi dei loro veicoli in affitto, in modo tale da essere sul loro luogo ameno di vacanza, solo per scoprire che le pompe non stanno pompando. Ancora peggio, gli yacht in affitto nel porto di Egina, che trasportano i turisti che hanno pagato migliaia di dollari al giorno per il privilegio di navigare nelle nostre acque blu, vanno poi a scoprire in banchina che la pompa diesel è asciutta. La prima volta che è successo a me ho immaginato che fosse responsabile qualche controversia di lavoro; dei dipendenti della pompa di benzina, dei gestori della cisterna di benzina, di qualche grana sindacale lungo la catena di distribuzione. Pochi giorni dopo qualcuno mi ha spiegato la vera ragione: “E’ la crisi, amico mio», ha detto, chiaramente godendo del fatto che stava per spiegare qualcosa sulla crisi a un esperto analista della crisi. Quello che è successo è che la più grande delle due compagnie di navigazione che condividono il franchising Egina-Pireo (Hellenic Seaways) ha ridotto il numero di navi che mantiene sulla rotta da otto a tre. Uno di questi, dal nome maestoso di ‘Poseidon’, è destinato a trasportare i camion cisterna di carburante a Egina una volta alla settimana, come parte di un accordo con lo Stato (le norme statali vietano all’azienda il trasporto di passeggeri quando si trasportano grandi quantità di combustibile). Fuori stagione questo accordo consente un bel po’ di lavoro per Hellenic Seaways e Poseidon mantiene Egina completamente alimentata. Ma, durante i due mesi estivi, quando il turismo cresce, l’azienda guadagna più soldi dai traghetti di turisti rumorosi che dallo sbarcare navi cisterna di carburante. Così, la corsa del carburante settimanale diventa un bi-settimanale, o anche un tri-settimanale, di rito; impoverendo l’isola, e i suoi turisti, di forniture energetiche essenziali. Quando ho chiesto a un funzionario della compagnia ragguagli sulla razionalità della questione, lu mi ha risposto: “Nessuno vi impedisce di utilizzare il Poseidon per portare l’automobile al Pireo, dove ci sono un sacco di stazioni di servizio per riempirla.” Tragicamente, invece di maledirlo, ho cominciato a scorgere un punto di vista interessante nel suo consiglio …

Hellenikon

I lettori di questo blog non hanno bisogno di ricordare l’emergenza umana nel sistema sanitario pubblico della Grecia, dopo il fallimento dell’apparato statale. E neppure sono inconsapevoli della corruzione che affligge il nostro servizio sanitario. Quello di cui non possono aver sentito parlare, tuttavia, è la storia ‘dall’altra parte’: quello eroica. (Sì, c’è sempre una!).

Hellenikon, che significa ‘greco’, è un sobborgo meridionale di Atene, il luogo del vecchio aeroporto di Atene. A Hellenikon si può incontrare il volto benevolo della crisi. Diversi medici del settore pubblico, infermieri e operatori hanno istituito un centro medico dove trascorrono il loro tempo libero, gratuitamente, per la fornitura di servizi medici gratuiti a tutti coloro che arrivano e ne hanno bisogno. Il centro sta guadagnando una reputazione eccellente per la velocità nelle cure mediche e per un vero spirito umanitario. Carovane di greci, di migranti, i locali e le persone di altre città vengono a Hellenikon per il trattamento, per farmaci che non possono permettersi altrimenti, e anche per conforto. Sorprendentemente, anche se il centro cerca il sostegno di chiunque abbia voglia di assistere, rifiuta a bruciapelo le donazioni in denaro.

Se volete aiutare, c’è che vi darà un elenco dei farmaci di cui hanno bisogno; che pubblicherà on line una richiesta di toner per le loro stampanti e fotocopiatrici; per chiedere alle persone di aiutare i pazienti nel trasporto in macchina o forse per dare loro un mini-bus. Ma non accetteranno contanti come un segnale al mondo che la loro è una forma di atto incontaminata di pura solidarietà. I medici e gli operatori responsabili di questo miracolo di umanità sono, comunque, profondamente premiati. Uno di loro mi ha detto, quasi in lacrime, di una telefonata ricevuta.

Veniva da una donna il cui marito era appena morto di cancro. La sua richiesta? Che qualcuno dal centro fosse andato a casa sua a prendere i suoi farmaci chemio. “Lui non avrebbe voluto che questi fossero buttati ai rifiuti, quando così tanti malati di cancro non possono permetterseli”, ha detto.

[traduzione dal suo blog di Three brief Greeck summer talesAgosto 2013]

E ho pensato che è una fortuna bellissima quella di imparare ancora.

CAVALLIAbituato per lavoro a scrivere inchieste, articoli e spettacoli (così profondamente giornalistici, del resto) quando mi sono messo a scrivere Mio padre in una scatola da scarpe ho vissuto la bellezza dello spaesamento di chi si ritrova di fronte a così tanto spazio. Una certa agorafobia tra la testa e le dita. Una cosa così.

Ma la differenza principale mai vissuta prima è il potersi dedicare alla parola giusta, anzi il doversi dedicare alla parola giusta come se quella pagina, quella frase o quel paragrafo debba per forza avere una parola che è quella parola lì. Come se non esistessero differenti opzioni.

Poi mi succede magari che mi avvicino, la rigiro ma so che il senso è quello ma non la parola, come se parola e senso fossero la mano destra e la sinistra di un tronco che deve stare in piedi, diritto, in equilibrio.

Quando studiavo teatro, ero giovane, premuroso per lo studio e il suo senso, quando facevamo gli esercizi da attori giovani, ci dicevano sempre, cioè cercavano di insegnarci, che l’equilibrio di tutti noi sul palco, per sentirlo e abitarlo bene, funzionava se ci immaginavamo che il palco fosse la zattera e tutti noi dovessimo tenere “in bilico” la zattera.

Ecco. Mentre scrivevo il libro, che si faceva scrivere, ho avuto la stessa sensazione, lo stesso strenuo tentativo di raggiungere l’equilibrio, come se le frasi fossimo noi, giovani, premurosi di abitare nel modo più professionale possibile lo spazio di lavoro.

E ho pensato che è una fortuna bellissima quella di imparare ancora. Dopo tutti questi anni.

Il “panorama” di Tommaso Pincio

71Mg5nFZc4LQuindi inizio mettendola sul personale: il mio agente letterario è soprattutto un amico e in realtà non è nemmeno un agente letterario ma è un editore. Sembra difficile, lo so, seguitemi: quando ho scritto il mio libro Nomi, cognomi e infami Alberto Ibba ai tempi era il direttore editoriale della collana “Verdenero” e dopo avere “costruito” quel libro alla fine abbiamo deciso di continuare insieme. In altri luoghi. Ma insieme.

Tutta questa noiosissima prefazione per dirvi che oggi Alberto è tra i padri fondatori di una giovanissima casa editrice, NNEDITORE, che sta pubblicando bei libri in un settore non proprio felice di questi tempi. PANORAMA, di Tommaso Pincio, è quello che mi è capitato in mano in questa arsura agostana. E per fortuna.

Perché se vi dovesse capitare di avere voglia di un libro finalmente scritto bene, se vi è capitato nella vita di amarvi mentre amate qualcuno che non avete mai conosciuto o se vi capitasse di credere che avere sempre un buon libro in tasca sia un ottimo attracco a disposizione mentre navigate in mezzo al rumore di fondo allora leggetevi Pincio. C’è vita nel pianeta dell’editoria italiana, per fortuna.

Lo potete comprare qui. In ebook non esiste per volontà dell’autore, ma dentro c’è moltissimo digitale. Per dire.

Il coraggio di “essere giusti”

In larghissimo anticipo. Ma si parla del mio romanzo che sarà in libreria dal 17 settembre. L’articolo (di Rossella Mungiello) da Il Cittadino:

CAVALLICavalli e il coraggio di «essere gusti»
12 agosto 2015

«Pochi nascono eroi, molti cercano di esserlo. Ma capita a tutti l’occasione di essere giusti». Anche nelle piccole cose, in un microcosmo reso asfittico dalla paura, a Mondragone, Italia del Sud. Raccontata da una voce del Nord, come quella del lodigiano Giulio Cavalli, autore e drammaturgo, giornalista e oggi anche scrittore, in libreria da settembre con il suo primo romanzo. Mio padre in una scatola da scarpe è il titolo, edito per Rizzoli (288 pagine, 19 euro), in uscita il 17 settembre, con la prima presentazione fissata al Circolo della Stampa di Milano, segno di una commistione tra le diverse anime narrative di Cavalli, che ha all’attivo numerose collaborazioni giornalistiche e che oggi abbraccia per la prima volta la formula del romanzo. In oltre 280 pagine di racconto scorre la storia (vera) della famiglia Landa, di Michele e dei suoi sogni, quello di coltivare un orto e di vivere sereno con la sua famiglia. Aspirazioni di un uomo che non è un eroe e neppure un criminale. Speranze di chi crede nell’amore e sta al fianco di Rosalba, la «silenziosa» da quarant’anni, diventando prima genitore, poi nonno, sognando una casa grande e un albero di mele. Una vita semplice, insomma in una terra difficile, dove serve coraggio anche per vivere tranquilli. E dove Michele, che ha perso il lavoro e molti amici, vivrà la sua occasione di essere giusto, confrontandosi con gli spari, le minacce dei Torre e l’omertà dei compaesani. Dopo cinque anni di gestazione, nei quali Cavalli ha conosciuto la storia di Landa, « prima da Sergio Nazzaro e Carlo Lucarelli», poi incontrando direttamente i suoi figli, «soprattutto Angela, con cui è nata un’amicizia», arriva il tempo del debutto da romanziere per il lodigiano, sotto scorta dal 2007 per il suo impegno contro le mafie. Già autore di libri di inchiesta, comeNomi, cognomi e infami del 2010 e L’innocenza di Giulio del 2012, Cavalli è stato membro dell’Osservatorio sulla legalità e consigliere regionale della Lombardia, mentre oggi vive a Roma. «Credo che il mio lavoro sia questo – ammette – , anche se non ho mai avuto occasione di farlo. Nasco come autore e drammaturgo, poi per i casi della vita sono finito in un ruolo più giornalistico e di denuncia. È come se oggi facessi qualcosa che avrei dovuto fare dieci anni fa». Sempre con il piglio libero del cantastorie, anche se non ci tiene a commentare stile e linguaggio: «Trovo ammorbanti gli autori che commentano il proprio romanzo», chiarisce l’autore nel solco di quanto già fatto negli anni, ovvero «esercitare il mestiere della scrittura: se poi si tratta di arte, saranno i lettori a dirlo». La storia di Michele Landa ha colpito Cavalli nella drammatica semplicità, perché «è la vicenda di una persona che si ritrova a combattere una guerra che non ha mai cercato». Ma anche è e soprattutto una storia «d’amore antica, tra due persone che credono che una cosa rotta vada aggiustata, non buttata», narrata attraverso il filtro, umano, dei loro figli, che hanno raccontato all’autore, anche padre di tre bambini, la vita di famiglia. «A differenza dei mestieri dell’attore, dell’autore, del giornalista – spiega Cavalli – , quello di padre è un ruolo in cui ho sempre il terrore di essere inadeguato. Ma il terrore è positivo, testimonia di essere sulla buona strada».

Rossella Mungiello