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Il killer di Quarto Oggiaro e il garage della ‘ndrangheta

Benfante-435-x-100-675Palazzo di giustizia di Milano, aula della Prima corte d’assise, processo per il massacro di Quarto Oggiaro. Unico imputato Antonino Benfante, detto Nino Palermo. E’ accusato di aver ucciso tre persone: Paolo Simone ed Emanuele Tatone, freddati la mattina del 27 ottobre 2013 agli orti di Via Vialba, e poi Pasquale Tatone ucciso la sera del 30 ottobre in via Pascarella nel cuore di Quarto Oggiaro. E se per Simone l’unica colpa è stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per i due fratelli il movente è legato allo spaccio di droga in strada. Poche bustine. L’inchiesta si chiude il 5 dicembre dello stesso anno con l’ordinanza d’arresto. Indaga la squadra Mobile diretta dal dottor Alessandro Giuliano. Per gli inquirenti il quadro è chiaro: Benfante ha agito per risentimento e per conquistare un pezzo di marciapiede dove poter spacciare la sua droga. Che Nino Palermo negli anni Novanta fosse stato coinvolto in una delle più importanti inchieste antimafia dell’epoca rappresenta solo un quadro storico. Oggi Benfante è semplicemente un balordo, malato di parkinson che ha fatto tutto da solo. Niente complici. Niente mafia. Non influenza il giudizio nemmeno il dato che nel 2012 lo stesso imputato partecipò a un tentativo di estorsione assieme a uomini legati al clan del superboss Pepè Flachi. A poco più di due anni da quei fatti terribili, il processo pubblico svela particolari ad oggi inediti. Particolari che oggettivamente collegano Nino Palermo a uomini della ‘ndrangheta e a boss di peso coinvolti nel sequestro Sgarella. Contatti che non risalgono agli anni Novanta, ma che riguardano i giorni e i mesi precedenti gli omicidi. Sul tavolo le rivelazioni del pentito Carmine Venturino che, con nomi e cognomi, ridisegna il possibile movente. E anche il verbale di un carabiniere che, sentito dalla procura, collega la strage di Quarto all’esecuzione di un uomo avvenuto in una cava di Legnano. Insomma nuove carte, nuove piste, nuovi dubbi e nuovi segnali. Tra tutti la presenza di Mario Tatone, l’unico fratello rimasto libero, fuori dall’aula. Quando Benfante esce, i loro sguardi s’incrociano. Tatone lo chiamano Toro seduto. Sta lì in piedi, gli occhi piantati in quelli di Nino Palermo.

Per capire, allora, bisogna andare alla sera del 5 dicembre 2013 quando gli uomini della squadra Mobile salgano nell’appartamento di Benfante in via Lessona 1 per arrestarlo. Scattano le manette e anche la perquisizione. Tra i reperti salta fuori un mazzo di chiavi che apre un box in via Val Lagarina 42. Si tratta di garage interrati che si trovano a pochi metri dagli orti di Via Vialba al confine con il comune di Novate Milanese. All’interno la polizia trova alcuni pezzi di scooter, probabilmente di un’Honda Sh 300, che secondo la ricostruzione dell’accusa è stata usata per l’omicidio di Pasquale Tatone. C’è anche una bandiera del Palermo calcio e un piccolo motorino elettrico probabilmente usato da Matteo, il figlio dell’imputato. “Benfante – ha raccontato oggi in aula il capo della squadra omicidi Marco De Nunzio – era in affitto. Pagava 109 euro al mese”. Chi è allora il proprietario? Ecco il primo colpo di scena. “Si tratta – spiega sempre De Nunzio – di Vincenzo Novella classe ’49 nato a Guardavalle con precedenti per mafia e traffico di droga”. Novella, secondo le informative della polizia giudiziaria, “è indicato come un appartenente alla cosca Gallace-Cimino”. C’è di più: Vincenzo Novella risulta essere il fratello di Carmelo, il boss secessionista che voleva separarsi dalla casa madre e che finì ucciso ai tavolini di un bar a San Vittore Olona nell’estate del 2008. Il proprietario del garage inoltre risulta residente in via Lessona 55. Sarà sentito a sommarie informazioni dalla squadra Mobile.

Tra i contatti attuali di Nino Palermo, oltre al clan Novella, emergono personaggi legati alla potente cosca Papalia e vecchie conoscenze coinvolte nel sequestro dell’imprenditrice novarese Alessandra Sgarella, rapita a Milano l’11 dicembre 1997 e liberata a Locri il 4 novembre 1998. Andiamo con ordine, seguendo il copione svolto oggi in aula. A parlare è sempre il vice questore De Nunzio. Sul tavolo gli spostamenti di Benfante, successivi agli omicidi e precedenti al suo arresto. Nino Palermo si muove molto. Per il quartiere utilizza lo scooter e quando esce dai confini di Quarto Oggiaro prende l’auto nella quale la polizia ha messo una microspia. Dove va? E chi vede? La sua meta, è stato spiegato in aula, è la zona a sud ovest di Milano tra i comuni di Casorate Primo e Vermezzo. “Qui – ha spiegato il dirigente – incontra i fratelli Varacalli, Francesco e Giuseppe, oltre a una serie di pregiudicati di origine calabrese”. Per capire chi siano i Varacalli basta sfogliare le annotazioni dell’indagine Grillo parlante condotta dai carabinieri di via Moscova e che nel 2012 ha portato in carcere 40 persone tra cui l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. Scrivono i carabinieri: “I fratelli Varacalli sono legati per parentele e affinità a famiglie di ‘ndrangheta”. E ancora: “Francesco Varacalli ha recentemente sposato una Papalia, pronipote dei capibastone Domenico, Antonio e Rocco”. Per questo “vale la pena ribadire che se, da una parte, Francesco Varacalli non vanta un importante blasone ‘ndranghelislico, dall’altra, Maria Papapalia ha invece un’ascendenza di assoluto riguardo”. Di più: “Altro elemento di assoluto rilievo sono i cointeressi economici esistenti tra i Varacalli e la famiglia Musitano dimorante a Vermezzo. Elemento di contatto è lo zio Totò, identificato in Antonio Musitano”. Lo stesso Musitano sarà arrestato nel novembre 2014 nell’ambito dell’indagine Rinnovamento sulle propaggini milanesi della cosca Libri rappresentate dai fratelli Martino. Qual era l’interesse di Benfante? “Certamente la droga”, è stato spiegato in aula.

E poi c’è il racconto choc del pentito Carmine Ventutino. Nome noto alle cronache milanesi perché è grazie alle sue rivelazioni se i carabinieri hanno ritrovato i resti di Lea Garofalo. In aula la questione viene posta dall’avvocato di Benfante. Perché Venturino entra in questa indagine? Spiega il vicequestore De Nunzio: “La versione di Venturino è questa: tra il 2007 e il 2008 in un bar di Quarto Oggiaro si svolse un summit mafioso”. I nomi: Mario Carvelli (oggi in carcere), ras dello spaccio legato ai clan di Petilia Policastro, Pasquale e Michela Scandale, parenti di Enzo Scandale detto u Magghiune uomo di fiducia del boss Vittorio Foschini (oggi pentito), i fratelli Cosco, già vicere del palazzo di via Montello 6 e infine uomini di peso del clan Comberiati. Cosa emerge da quella riunione? “In sostanza – spiega De Nunzio – in quel frangente Mario Carvelli, riportando gli ordini del fratello Angelo (all’epoca in carcere), disse che i fratelli Tatone andavano eliminati, perché erano ritenuti i mandanti dell’omicidio di Francesco Carvelli figlio di Angello”. Il corpo di Carvelli junior viene ritrovato il 4 agosto 2007 nel parco delle Groane a Garbagnate Milanese. Prima di ucciderlo i suoi killer lo hanno picchiato selvaggiamente. Sul posto la polizia trova tre pallottole inesplose. Per il caso viene condannato Leonardo Roberto Casati, detto Lollo lo zoppo. Deve scontare 30 anni e non come esecutore materiale ma semplicemente per aver partecipato al sequestro e all’omicidio. Da allora killer e mandanti restano ignoti come è stato confermato dallo stesso vicequestore in aula. Il racconto di Venturino prosegue: di quel summit lui ne parla con Antonio Esposito nel carcere di Como. E’ il 2011. Esposito, è stato spiegato in aula, è uomo vicino ai Carvelli. E a questo punto qual è stato l’orientamento di investigatori e inquirenti? “Quello di accertare l’identità dei personaggi citati nel verbale”. Ancora peggio va a un carabiniere di Legnano che sempre nei giorni dell’indagine viene ascoltato dai magistrati. “Dice – racconta De Nunzio rispondendo alla domanda del legale dell’imputato – che una sua fonte confidenziale legava la vicenda dei Tatone a un omicidio avvenuto all’interno di una cava di Legnano. Non abbiamo fatto accertamenti”. Questi fatti. Uno dietro l’altro. Oggettivi e pubblici. Il resto è una storia, tre le peggiori degli ultimi dieci anni a Milano, ancora tutta da scrivere. A partire dalle armi usate da Benfante: un revolver calibro 38 e un fucile calibro 12. Che fine hanno fatto?

(fonte)

Il numero di Left in edicola domani: cosa ci abbiamo messo dentro

La presentazione del prossimo numero con le parole di Ilaria Bonaccorsi:

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Se sopravvivono e riescono a sbarcare vivi, li chiudiamo nei Cie. E se qualcuno di quei sopravvissuti capita nel Cie di Ponte Galeria a Roma è sfortunato il doppio. Perché oltre ad essere contenuto fisicamente dentro delle mura lo è anche farmacologicamente.

Questa settimana Left vi racconta come l’uso di psicofarmaci (antipsicotici, neurolettici, antidepressivi, benzodiazepine fino al metadone) in questa struttura sia  fuori controllo. Il risultato? Spesso “gli ospiti” escono con nuove dipendenze. Farmacologiche.

Uno di loro, un invisibile, come si definisce Sunjai, ha scritto uno splendido diario mentre era lì e ci ha permesso di pubblicarne ampli stralci che troverete su questo numero insieme al nostro primo monologo di carta. Primo di tanti, questa settimana Giulio Cavalli insieme a Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, ha scritto “L’isola che c’è” e così ogni volta tenteremo di affrontare con la letteratura, il teatro, la poesia, fatti di attualità. Per trovare un’altra chiave, un altro modo  di raccontarvi ciò che accade.

Come troverete, il primo editoriale, di molti, di Emanuele Ferragina, autore di uno dei libri più interessanti del 2014 (La maggioranza invisibile) e poi lunghi e approfonditi servizi su l’Expo di Milano, la comunità araba in Italia che tutto vuole fare meno che  “invadere”, il fronte libico e l’Italia che scalda i motori, e quello ucraino.

L’intervento di Giulio Marcon (indipendente di Sel) che ci parla dell’art. 78 della nostra Costituzione. E sei pagine, per cercare di capire genesi e crescita della nuova sinistra spagnola di Podemos. Uno ad uno l’analisi dei riferimenti culturali del movimento e la mappa dei nuovi circoli che stanno nascendo in tutta Europa.

E poi tanta cultura, le commedie di Shakespeare e un ricordo di Elsa Morante. La scienza di Pietro Greco e tutto quello che avreste voluto fare questo fine settimana secondo noi! Buona lettura.

Livio Garzanti

FB_Editor_GarzantiSi è spento a 93 anni l’editore Livio Garzanti. Lo ricordiamo pubblicando il capitolo dedicato alla collana “Romanzi moderni”, da lui diretta per la sua casa editrice, tratto da Storie di uomini e libri di Giancarlo Ferretti e Giulia Iannuzzi edito da minimum fax. (Fonte immagine)

di Gian Carlo Ferretti

Romanzi Moderni

Casa Garzanti è attiva dal 1939, quando il fondatore Aldo rileva Casa Treves (che per le leggi razziali emanate dal regime fascista non può proseguire l’attività). Ma la casa editrice assume nuovo e significativo rilievo a partire dal 1952, da quando prende la direzione Livio, il figlio trentunenne di Aldo Garzanti, che si rivelerà editore di notevole capacità e intelligenza, oltre che narratore di una certa finezza. Una svolta che riguarda anche i Romanzi Moderni a partire dal 1953 (ne è direttore di fatto lo stesso Livio Garzanti), nonostante la collana sia presente dal 1949.

In particolare tra il 1954 e il 1959, grazie anche alla sensibilità editoriale e letteraria del consulente Attilio Bertolucci, contribuiscono alla definizione di una marcata e originale identità editorial-letteraria una serie di autori italiani: Pier Paolo Pasolini con Ragazzi di vita, Paolo Volponi con Memoriale (acquisito anche grazie alla fondamentale mediazione pasoliniana), Goffredo Parise con Il prete bello e Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. L’editore punta su una confezione «scioccante», con una sovraccoperta affidata a Fulvio Bianconi, che viene da un’esperienza di propaganda e di pubblicità, ma che saprà elaborare anche formule grafiche aniconiche e severe per la saggistica.

Pasolini e Volponi hanno alle spalle una bibliografia soprattutto poetica e come narratori sono esordienti, gli esordi di Parise presso Neri Pozza non lo hanno ancora fatto conoscere, e il Pasticciaccio in edizione Garzanti anche per molti critici segna la tardiva rivelazione di un autore attivo da decenni e di un romanzo apparso a puntate parzialmente in rivista. Tutti scrittori nuovi e insieme maturi, che appaiono sorprendenti senza essere effimeri, che sono capaci di provocare un forte impatto e di prefigurare una sicura durata. Tratti questi che si ritrovano almeno in parte in Beppe Fenoglio. Cui si aggiungono una consistente e isolata presenza di Mario Soldati, e il provocatorio Giuseppe Berto di Guerra in camicia nera.

Pasolini, Volponi, Parise e Gadda in particolare si impongono con opere di rottura e di discussione, non prive di qualche venatura scandalosa nei casi di Pasolini e di Parise, anche con buoni risultati di vendita. Per Pasolini, Volponi e Gadda ci sono anche analogie intrinseche più o meno sottili: i motivi della diversità e del conflitto, il nesso tra problematicità e sperimentalismo, la carica di eccentricità e innovazione rispetto a tradizioni letterarie consolidate, eccetera. Ne partecipa almeno in parte Ferdinando Camon dal 1970 con il romanzo Il quinto stato, per il quale Pasolini scrive il risvolto. Quattro autori, va aggiunto, che continueranno a caratterizzare il catalogo garzantiano per lungo tempo e con una ricca produzione narrativa, saggistica e poetica.

Quella identità viene ulteriormente rafforzata nel 1963 e nel 1964 da due veri e propri eventi editoriali e letterari, diversi e quasi opposti tra loro: la pubblicazione (in contemporanea con Einaudi) di Una giornata di Ivan Denisovicˇ, primo libro-rivelazione di Aleksandr Solženicyn sui campi di concentramento staliniani, e la prima traduzione italiana (firmata da Giorgio Caproni) di Morte a credito dello scrittore maledetto Louis-Ferdinand Céline, una sua opera fondamentale nel segno dell’oltranza e della negazione. Edizione peraltro censurata.

Ma questa per la verità è soltanto un’area, seppur importante e definita, all’interno della estrema eterogeneità dei Romanzi Moderni, con accostamento di autori italiani e stranieri molto disparati: i veristi Federico De Roberto, Luigi Capuana, Matilde Serao; il Novecento americano, talora con vere scoperte, di William Faulkner, Norman Mailer, Truman Capote (Colazione da Tiffany, da cui un celebre film); Auto da fé di Elias Canetti, novità assoluta per l’Italia nel 1967; classici moderni come Henry James e Virginia Woolf; e una serie di grandi successi spesso portati sullo schermo, come Il cardinale di Henry Morton Robinson, e le due serie Angelica di Anne e Serge Golon e 08/15 di Hans Hellmut Kirst.

Ai quali ultimi, tra le etichette adottate nel corso degli anni Sessanta in quarta di copertina per orientare gli acquirenti all’interno della collana («i maggiori», «gli italiani d’oggi», eccetera), tocca quella di «1.000.000 di lettori». Etichetta significativa al di là dell’attendibilità numerica, estensibile ai successivi romanzi di Michael Crichton, e a Love story di Erich Segal (che appartiene tuttavia alla collana parallela I romanzi), best seller del 1971 favorito dal film con 350.000 copie in pochi mesi, e rilanciato come omaggio agli appassionati dei Baci Perugina: una storia tra tenerezza amorosa e crudezza di linguaggio, che perpetua la linea trasgressivo-mercantile di Garzanti a livello di mero consumo.

A linee di ricerca comunque diverse apparterranno gli altri narratori italiani più o meno significativi che si succederanno nei Romanzi Moderni tra gli anni Sessanta e Settanta, da Francesco Leonetti a Giuseppe Cassieri, da Enzo Siciliano a Franco Cordelli ad altri.

Il passaggio nel 1974-75 di Pasolini e Volponi a Einaudi, per una serie di insoddisfazioni e insofferenze verso Livio Garzanti, e per la forza di attrazione del «divo Giulio», è il segnale (soprattutto nella narrativa) di una caduta di quell’originario dinamismo e di una crisi irreversibile di quella originale identità. Lo confermano (fin dalla grafica) la stessa fine dei Romanzi Moderni nel 1973 e le numerose collane che li sostituiscono nel corso dei decenni fino a oggi, come i Narratori Moderni, la Nuova Narrativa Garzanti, e una collana contraddistinta dalla sola lettera G o addirittura senza nessun nome. E questo al di là dei singoli valori letterari e di mercato, di qualità e di successo di molti autori italiani e soprattutto stranieri.

Una novità è nel 1976 l’esordio fulminante di Vincenzo Cerami, scoperto ancora una volta da Pasolini. Il suo romanzo Un borghese piccolo piccolo, presentato da Italo Calvino e portato sullo schermo nel 1977 da Mario Monicelli, è una storia dolorosa e grottesca di violenza metropolitana, che anticipa in Italia molte sperimentazioni future, tra naturalismo, noir e fumetti, e inaugura per Cerami una felice carriera nel campo della narrativa e del cinema, fino alle sceneggiature e ai testi per Roberto Benigni. Una curiosità è l’opera seconda di Andrea Camilleri Un filo di fumo (1980), successiva a un esordio in sordina ostacolato da vari rifiuti e ancora lontana dalle fortune dei suoi gialli.

Le collane di narrativa sono comunque un settore molto circoscritto all’interno della vasta, differenziata e contraddittoria produzione generalista di Garzanti, compresa tra cultura, trasgressività e fatturato, con risultati cospicui peraltro ai vari livelli (da ricordare le fortunatissime Garzantine). Un vero evento è l’Enciclopedia Europea in dodici volumi, progettata nel 1969 e pubblicata dal 1976. Ma gli altissimi costi dell’operazione, insieme ad altri ambiziosi progetti non realizzati, avranno un peso notevole nella crisi editoriale e finanziaria della Casa. Cui seguiranno nei successivi decenni una progressiva emarginazione e fuoriuscita di Livio Garzanti, e una riduzione di ruolo e di immagine della casa editrice, fino alla vendita della Casa stessa e ai relativi passaggi di proprietà. Nel 2006 la Garzanti entrerà nel gruppo gems.

 

Scheda

Collana: Romanzi Moderni

Casa editrice: Garzanti, Milano

Periodo: 1953-73

Fonti e bibliografia:

Catalogo generale Garzanti, Garzanti, Milano 1976.

Storia dell’editoria d’Europa, a cura di Angelo Mainardi, vol. ii, Shakespeare & Company-Futura, Firenze 1995.

Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004.

Gian Carlo Ferretti, Siano spiacenti. Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti, Bruno Mondadori, Milano 2012.

(fonte)

Alexis il greco. La politica. Appunto.

L’intervista di Matteo Nucci  ad Alexis Tsipras, leader della sinistra greca )l’unica concessa a un giornalista italiano alla vigilia delle elezioni politiche che si tengono in Grecia oggi, 25 gennaio) – è stata pubblicata dal Venerdì di Repubblica, ed è un evento che difficilmente si propone qui in Italia: parla di “politica”. Appunto.

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ATENE. Dietro alla scrivania dove Alexis Tsipras lavora, all’ultimo piano di un palazzo immerso nel centro più multiculturale di Atene, campeggia una grande tela. Su uno sfondo a tinte rosso fuoco, due tori selvaggi si osservano pronti alla carica. “Sono i negoziati fra noi e la Troika” dice lui e scoppia a ridere. “Scherzo, davvero scherzo” scuote la testa “Scherzo perché l’artista lì ha richiamato altre storie, fra cui quella di Europa rapita da Zeus nelle sembianze di un toro. Ma soprattutto, vede, se noi vinceremo le elezioni e riceveremo un mandato di governo chiaro, non ci sarà nessun negoziato con la Troika. Perché dovrei sedermi a un tavolo con questi funzionari a discutere del nostro futuro? Non si tratta di un’istituzione europea, che io sappia. Non ha ricevuto nessuna legittimazione dall’Europa. Io chiederò di incontrare i partner degli altri ventisette paesi dell’Unione, discuterò nelle sedi appropriate, presenterò il mio progetto e ascolterò quello che ciascuno ha da dire. Ma con la Troika no”.

È probabile che, se quel giorno verrà, come tutti i sondaggi sembrano anticipare, gli altri ventisette leader (fra cui una sola unità – Tsipras lo ha sempre ripetuto – una sola su ventotto è rappresentata da Frau Merkel) non saranno impreparati. Quel che Syriza – il partito della sinistra radicale di cui Tsipras è presidente – chiede, del resto, è noto da tempo e gira principalmente attorno a due mosse: la cancellazione della maggior parte del debito greco, esattamente come si fece per la Germania prostrata dalla guerra con la Conferenza di Londra del 1953, e una “clausola di sviluppo” per pagare la restante parte non indebitandosi ulteriormente ma in relazione alle entrate prodotte dalla crescita economica del Paese. È difficile immaginare oggi come potrebbero andare quei negoziati. Una cosa è certa: Alexis Tsipras non ha limitato la portata delle sue richieste a quella che potrebbe sembrare la mossa più semplice e vantaggiosa per il proprio Paese che, sessant’anni dopo la Germania, è a sua volta prostrato da cinque anni di austerità che assomigliano a una guerra. La sua idea si inscrive in un progetto ben più ampio, in cui – ne è sicuro – rientra il destino dell’Europa tutta, della sua autonomia, della sua esistenza come idea fin dalle origini. Perché sarà in quel momento, in quegli incontri da cui i funzionari della Troika saranno tenuti lontani, che sarà possibile capire se l’Europa ha un futuro, se si vuole continuare con “l’estremismo dell’austerità” o si vuole costruire un’unione fondata sulla solidarietà, la democrazia, la coesione sociale. Tsipras sembra avere pochi dubbi. Come chi sente di avere in mano il suo stesso destino.

“La parola “crisi” in cinese ha due facce” dice e forse è fiero di non ricorrere all’etimologia greca antica del termine “Da una parte c’è il pericolo, dall’altra la possibilità, la speranza. Finora abbiamo vissuto la crisi come un pericolo. Direi che è arrivato, per tutti, il momento della speranza. Dico per tutti e intendo per tutti in Europa. Perché è chiaro che fino al 2012 si è guardato alla crisi come un fenomeno soprattutto greco, ma poi è diventato evidente che la questione riguardava l’Europa in generale. Ora, la teoria economica prevede tre modi per affrontare la crisi del debito pubblico. Il primo è l’austerità e dopo quattro anni possiamo constatare che la medicina ha peggiorato la malattia del paziente: avevamo un debito del 120 per cento sul PIL e oggi è cresciuto fino a sfiorare il 180 per cento. Sarebbe grottesco continuare su questa strada. Il secondo è il contrario del primo e prevede una politica di espansione, di aumento della spesa pubblica. Il terzo è il taglio del debito. Ossia quel che proponiamo noi, ma attenzione: i risultati non li vedrà solo la Grecia o solo l’Italia che ha un debito del 132 per cento del PIL ma di gran lunga maggiore quantitativamente rispetto al nostro. Dei risultati godrà tutta l’Europa. Da qui infatti partirà finalmente l’effetto contagio che si è sempre temuto, ma il contagio stavolta andrà inteso in termini positivi, il famoso effetto domino, certo, ma che non porta caduta, al contrario. Quello di cui c’è bisogno infatti è fiducia, sviluppo, un nuovo clima anche sui mercati”. Gli avversari politici di Tsipras liquidano le sue parole come ingenuità, illusioni, vaneggiamenti che porteranno soltanto disastro. Lui non si lascia scalfire dalle accuse e le giudica alla stregua di reazioni disordinate e quasi disperate. Da una parte perché percepisce la fiducia che si è creata attorno a lui anche da parte di un elettorato che tradizionalmente gli era avverso e che – dice – “ha provato sulla sua pelle le menzogne di chi li ha governati in questi anni”. Dall’altra perché sta ricevendo dall’estero un sostegno più ampio di quanto si prevedesse. Giornali per natura lontani come il Financial Times non sembrano avere nessuna paura di un suo prossimo governo. Economisti più tradizionalmente vicini, come Thomas Piketty, autore del bestseller Il capitale nel XXI secolo, approvano, chiedendosi dove sarebbe andata a finire la Germania se invece di vedere il suo debito tagliato dal 200 al 30 per cento del PIL nel 1953 fosse stata costretta alle politiche di austerità che pretende di imporre ora.

“La paura” ripete oggi Alexis Tsipras “non è più dalla nostra parte. Nel 2012, una campagna selvaggia di ricatto aveva spinto la maggioranza dei Greci a credere al fantasma del cosiddetto Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro. Merkel e gli altri leader che intervennero pesantemente nella nostra campagna elettorale volevano che diventasse premier Samaras, uno su cui potevano contare perché erano certi che non avrebbe ostacolato le loro politiche. La paura sparsa a arte fu un’arma letale. Oggi questa paura ha cambiato fronte: è passata dalla loro parte. Perché sanno che noi non ne abbiamo più. E sanno che il giorno dopo le elezioni, quando sarà evidente che la nostra vittoria non porta terremoti né scenari apocalittici, un’onda positiva si libererà sui mercati e il cambiamento avrà inizio. Di quel cambiamento hanno paura. Perché, come ho già detto, le cose sono destinate a trasformarsi in tutta Europa”.

In Grecia, se Tsipras riuscisse a vincere e a conquistare una maggioranza salda (l’ipotesi più difficile da prevedere perché la legge elettorale qui è un complicato gioco di numeri), i primi passi del suo governo sono stabiliti da un programma presentato a Salonicco ben prima che l’ipotesi di andare al voto diventasse concreta. È un programma d’impatto, teso innanzitutto a cercare di porre rimedio al dramma umanitario che la Grecia sta vivendo. Di questi giorni è la notizia che tre famiglie su dieci vivono sotto la soglia di povertà, dove si intendono famiglie da due a quattro membri con meno di diecimila euro all’anno (gli altri dati che certificano il dramma greco a fine pagina). Elettricità, casa, buoni pasto, assistenza medica, trasporto pubblico, riscaldamento per i più colpiti dalle misure di austerità sono fra i primi punti del programma (dettagliatamente riportato nei libri di Synghellakis e Deliolanes in uscita in questi giorni), un programma che si estende poi ai primi investimenti per il rilancio dell’economia e dell’occupazione e si chiude sulla riforma della politica.

“Quello di cui abbiamo bisogno è una vera e propria rinascita” spiega Tsipras “E soprattutto la ricostruzione di un ponte ormai in macerie che unisca i cittadini e il sistema politico. Perché, vede, la Troika ha imposto tante riforme ma nessuna ha cercato di colpire, per esempio, i grandi evasori fiscali o chi porta i soldi in Svizzera. La Troika non ha mai cercato di spezzare quello che io chiamo “il triangolo del peccato”, ossia quel circolo vizioso che in Grecia ha portato rovina: il potere politico (lo stesso da quarant’anni, i due partiti che si sono alternati al governo: i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Demokratia), i banchieri (sempre gli stessi anche dopo la bancarotta), i massmedia. Con i politici che davano soldi ai banchieri e i banchieri che li davano ai media i quali a loro volta offrivano supporto a politici e bancarottieri. Questo triangolo la Troika non ha mai voluto spezzarlo. Ma ci penseremo noi. Per avere meritocrazia, giustizia, diritti democratici per tutti. È evidente che questo non ci distinguerà in nessun modo da Paesi in cui prevalgono politiche liberiste. Ma è necessario che le condizioni del nostro Paese tornino in uno stato di normalità per avviare la ricostruzione dei diritti del lavoratore, calpestati in questi ultimi anni, una ricostruzione che porteremo avanti all’interno delle organizzazioni europee per i diritti del lavoro. La Grecia non diventerà un soviet, insomma”.

Di strada ne ha fatta, Alexis Tsipras, quarantenne ateniese, ingegnere, da quando sei anni fa divenne Presidente di quella che era nata come l’alleanza di molte sigle della sinistra radicale e che faticava a superare la soglia di sbarramento fissata dalla legge elettorale al tre per cento. Le stanze dove nel 2009 lo incontrai per il Venerdì erano disseminate di scatoloni zeppi di volantini. Giovani si aggiravano frenetici interrompendolo in ogni momento e lui con pazienza già mi spiegava come le socialdemocrazie europee si stessero dissolvendo nel liberismo, mentre le élites politiche avevano perso il polso della realtà, rinchiudendosi in una vita asettica lontana dalla strada. Nessuno però dentro Syriza avrebbe mai pensato che il governo potesse diventare una prospettiva realistica in così pochi anni. Certi di un eterno lavoro di opposizione, si divertivano a leggere sondaggi che assegnavano al loro giovanissimo leader un consenso già allora strabiliante. Poi venne la crisi e con essa le politiche di austerità, la troika, un “protettorato che non siamo in nessun modo disposti a sopportare”. Oggi quelle stanze sono cambiate, ma il partito è sempre immerso nel turbinio di migranti che popolano piazza Koumoundourou, anche detta Piazza Eleftherias, ossia della Libertà.

Di nazionalizzazioni non si parla più, qui, ma quello su cui Tsipras è irremovibile è che le privatizzazioni devono finire: “Certi beni, come l’acqua e l’energia devono restare nelle mani dello Stato, senonaltro per garantire la sicurezza e la difesa dei cittadini. Dell’Ente voluto dalla Troika per vendere beni statali invece posso dire soltanto che è servito a un esperimento neoliberale estremo ma che faremo fallire: privare completamente un Paese delle sue proprietà pubbliche”. La vendita di isole, spiagge, litorali incontaminati che ha sconvolto l’opinione pubblica, sarà interrotta. “Anche perché finora non ha portato soldi ma solo svendite, semplici cambi dei titoli delle proprietà: da pubbliche a private. Come per l’immensa area di Ellinikò (il vecchio aeroporto cittadino dismesso) la cui vendita è stata trattata per quattro volte meno del prezzo di mercato”.

Quanto a mantenersi in contatto con la società civile, Syriza non può cambiare. Non ci si può rinchiudere nelle stanze di partito. C’è una dimensione personale e spirituale che non si deve mai abbandonare. Tsipras è reticente a parlarne. Le polemiche della campagna elettorale greca hanno puntato spesso il dito sul suo ateismo, lui che non è sposato e ha due figli non battezzati di cui uno di secondo nome fa addirittura Ernesto… Ma non c’è molto da rispondere a polemiche del genere, secondo lui. I fatti parlano da sé. E i fatti raccontano che in questi giorni in giro per la Grecia, Tispras ogni sera torna nel suo semplice appartamento del quartiere popolare di Kypseli, dalla sua famiglia. Su religione e spiritualità non si specula. “Innanzitutto perché in questi tempi in cui assistiamo a un’escalation di volenza del fondamentalismo è necessario un sereno confronto fra forze politiche e esponenti religiosi. Eppoi perché io ho i miei principi e il mio modo di vivere la spiritualità ma non lo metto sul tavolo della propaganda politica”. Gli sarebbe facile. È stato uno dei primi politici a incontrare il Papa, ha visitato il Monte Athos dove per tre giorni si è adeguato alla vita monastica e conosce molto bene l’attivismo della Chiesa che in Grecia, in questi anni, ha contribuito in maniera speciale a erigere un argine contro il dramma umanitario. “In periodi di crisi così acuta, la sinistra e la Chiesa inevitabilmente si incontrano e cooperano per essere vicini a chi soffre e per strutturare la solidarietà. Con Papa Francesco abbiamo parlato proprio di questo”. Di più, Tsipras non vuole dire. Insisto: “Ho letto che dopo il vostro incontro il Papa ha commentato: “le sue parole sono una melodia di speranza”. Tsipras apre le mani e solleva le sopracciglia in un gesto tipicamente greco, poi ripete: “Prevaleva la paura nel 2012. Adesso c’è solo la speranza. La speranza vincerà la paura. I problemi saranno enormi e difficili da affrontare, inutile negarlo, i numeri lo dicono chiaramente. Ma cambierà l’atteggiamento psicologico in Grecia eppoi cambierà anche in Europa. E quello che pochi vogliono ricordarsi è che l’economia per metà è psicologia. Dunque anche l’economia riceverà i frutti salutari di questo straordinario cambio di atteggiamento”.

NOTA:

2010-2015: I numeri della Grecia dall’inizio degli “aiuti” della Troika:

-Il debito pubblico è passato dal 124% al 175% del PIL.
-Il PIL è sceso del 20%.
-La disoccupazione è passata dal 15 al 27% (tra i giovani è al 62%).
-240.000 piccole e medie imprese hanno chiuso (erano 745.677).
-I senzatetto di Atene erano circa 3000. Ora sono circa 35000.
-La spesa sanitaria è scesa del 25% (3 milioni – sui quasi 11 milioni di abitanti – sono privi di copertura sanitaria).
-330.000 sono le case senza elettricità.
-150.000 i giovani che hanno lasciato il paese.
-I suicidi sono cresciuti del 43%.

Numero zero

51dI0KzbquLSo che è molto “cool” disprezzare i libri più venduti e dovrei piuttosto limitarmi a segnalare solo qualche saggio di un autore semisconosciuto per dare sfoggio di lapalissiana diversità ma Numero zero (ovvero l’ultimo romanzo di Umberto Eco) per me è stata una bella sorpresa. Prima di tutto perché ho sempre invidiato questi scrittori con una testa zeppa di pensieri densi che riescono a scrivere con una freschezza adolescenziale pur non essendo romanzieri puri, e poi perché immaginare il quotidiano numero zero di una redazione tutta intenta ad affilarsi nel vizio della servitù è cronaca, più che profezia. Io non so se davvero ci salveremo soltanto prendendo coscienza di essere terzo mondo ma la natura di certi compromessi assomiglia molto a questo libro.

Potete comprarlo qui.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca”

L’editoriale particolarmente ispirato dell’amico Lorenzo Fazio:

No, non siamo in guerra, non siamo in guerra con nessuno. Invece, dopo quanto successo a Parigi, sembra che tutti diano per scontato che l’esercito della libertà e della democrazia sia già schierato  contro l’esercito del fondamentalismo sanguinario islamico. Siamo caduti in trappola. La parola guerra scappa di bocca a tutti, dal difensore più disciplinato dell’ordine occidentale all’opinionista più illuminato e aperto. Persino comici, vignettisti, attori, e chi con la libertà ci lavora, non rinuncia  a evocare quella parola. La guerra è data per inevitabile e necessaria, “fermare la barbarie” è l’unica missione per le nuove generazioni chiamate a “conquistare la pace”.

La circolare inviata dall’assessore all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, ai presidi delle scuole in cui si chiede ai musulmani di condannare i fatti di Parigi e di aderire ai valori occidentali, rivela il clima in cui siamo precipitati. Tutti gli stranieri sono potenziali nemici, devono dimostrare di non esserlo. In spregio a qualsiasi principio liberale.

Come editore che da diversi anni si batte contro le verità del potere e come tutti coloro che hanno a cuore la parola e il pensiero, credo che bisogna spezzare questo discorso sulla “guerra necessaria” in nome della libertà. Un contro senso che poggia sull’idea che solo noi siamo i buoni e che gli altri, loro, sono i cattivi, dimenticando tutti gli orrori e i morti che abbiamo provocato.  Se non riusciamo a sradicare questo pregiudizio andremo incontro a nuove tragedie. Il compito di noi editori che operiamo nel settore dell’informazione è cercare di smascherare tutte le falsità che ogni guerra comporta (ricordate i finti arsenali di Saddam?) e difendere a ogni costo la nostra libertà di critica, sempre, soprattutto  quando, in nome della sicurezza, lo Stato, attraverso la polizia, aumenta il suo potere repressivo, come accade dopo ogni evento terroristico.

Quanto accaduto a Parigi è un episodio e come tale va valutato, un episodio che poteva essere previsto, e che si somma ad altri episodi avvenuti in varie parti del mondo sempre a opera di integralisti islamici contro islamici non integralisti.  Non è una guerra. Non facciamoci vincere dall’isteria. Anche gli islamici sono vittime dei fondamentalisti, aiutiamoli, stiamogli vicino, non alimentiamo noi stessi il loro odio nei nostri confronti. Il bambino che sta per lanciare la bomba contro gli americani a Falluja, ritratto nel film American sniper di Clint Eastwood, nella vita reale potrebbe diventare un terrorista pronto a uccidere in nome di Allah.

Se seguiamo la strada della guerra ovunque nel mondo, aiuteremo solo i fabbricatori di armi, l’equilibrio fondato sul terrore e la paura, che porta a più repressione, all’innalzamento di nuove barriere e a minori libertà. Il dissenso è difficile da gestire, per il partito unico del capitale qualsiasi occasione è buona per limitarlo.  Già si parla di ristabilire le frontiere in Europa, Le Pen propone la pena di morte in Francia, Salvini approfitta per criminalizzare tutti gli islamici in Italia. Il partito della paura è il più forte di tutti, nessuno rinuncia ad arruolarvisi. Chi rimane fuori rimane solo. Bersaglio facile come Charlie Hebdo.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca” scrive Simon Jenkins su “The Guardian”.  I terroristi non vogliono altro che questo: che diventiamo come loro. Che vinca la violenza e l’odio, in nome della libertà. Un paradosso atroce.

D’altra parte siamo campioni nel proclamare la libertà e negarla appena c’è qualcuno che la usa contro di noi. Non è un caso che la satira in Italia non esista quasi più. In casa nostra non c’è bisogno di fondamentalisti, la libertà ce la togliamo da soli.

direttore editoriale di Chiarelettere e membro del cda del Fatto quotidiano

Cantiere in corso: “L’amico degli eroi”

Artwork_A3_L'amico_degli_Eroi_CMYKlightIl progetto di spettacolo (e libro) L’amico degli eroi sta prendendo corpo e in questi giorni trova la sua (quasi) forma finale: oltre alla parte prettamente teatrale (quella di narrazione pura di cui ho parlato anche con gli amici de L’Ora Quotidiano qui) stiamo concludendo il montaggio degli spezzoni video che saranno le fondamenta della parte “documentale”. Non che ci sia molto da aggiungere agli atti processuali (che credo, ancora una volta, avrebbero procurato un terremoto politico in un Paese normale con un muscolo della curiosità non atrofizzato) ma quello che mi interessa, che ci in teressa è cogliere in Marcello Dell’Utri (e Vittorio Mangano e ovviamente il loro padrone) una formula di servilismo che non dista troppo dall’Arlecchino servitore di due padroni di goldoniana memoria: anche il fine di Marcello è quello di mangiare a sazietà.

Dopo l’anteprima stiamo anche cominciando a preparare la distribuzione dello spettacolo che, come tutti i nostri lavori ultimi, seguirà poco i canoni ufficiali del malandato teatro canonicamente inteso quanto piuttosto le molte associazioni di cittadini che ritengono la memoria un esercizio quotidiano fondamentale per l’ecologia democratica. Mi sorprende tra l’altro (anzi no, non mi sorprende per niente) che nessuno dei miei “colleghi” teatranti o comunque generalmente “operatori culturali” sottolinei la distribuzione sociale come il vero grande ritorno di questi anni di crisi della cultura: come già ci insegnò il maestro Dario Fo esiste un teatro che per argomenti e modi può continuare a vivere senza bisogno di istituzionalizzarsi e questa non può che essere una buona notizia (a proposito: tutti zitti sulla distribuzione sociale anche del film di Sabina “La trattativa”, che non si sappia che il pubblico desidera un film di più di quanto lo dovrebbe desiderare la “grande distribuzione”).

Stiamo cercando di parlare e far parlare anche del crowdfunding (io continuo a preferire “produzione sociale”) che ci permette di completare la produzione dello spettacolo e la stampa e distribuzione dei libri. Se ci credete anche voi aiutateci a spargere la voce. Le donazioni si raccolgono qui.

Buona lavoro. A noi e a voi.

L’intelligenza sta (forse) nel dubbio: “Nous sommes Charlie ma noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Mai come in questi ultimi giorni ho imparato quanto siano pericolose le persone senza dubbi: fedeli a se stessi riescono a vivere i propri luoghi comuni come un dogma incrollabile. La categorizzazione di questi giorni, ad esempio, propone dei tipi umani costruiti banalmente sull’educazione religiosa come se non esistessero le mille sfumature di una socialità umana che si perde in mille rivoli. Per questo credo che valga la pena leggere la lettera tradotta da Claudia Vago che pone (per chi ama coltivare dubbi e farsi domande non accomodanti) quesiti interessanti:

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

Il Sultano e San Francesco (la risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, e a molti in queste ore)

di Tiziano Terzani

532948_10152902333161760_1228191903519466569_nOriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.

Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, “Liberta’ duratura”.

O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.

Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.

Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.

Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.

Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure “un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”.

Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.

L’occasione per uscirne e’ ora.

Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?

Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.

Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.

Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme”.

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”.

Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

“Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:

“Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”.

Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.

M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

“Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.

Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.

“Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

“Un mondo giusto non e’ mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo “piu’ giusto” e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.

E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ “globalizzata”, perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.

Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.

(fonte)

La ‘ndrangheta a Milano: ecco chi comanda

Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti. Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu. In curriculum mette anche qualche anno di università. Da qui il soprannome di DutturicchiuGiuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo. Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere. Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia. Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono. S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena. Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria. Siciliani, ma soprattutto calabresi perché come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ’ndrangheta”.

Kalashnikov e Uzi – Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza. U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perché l’interlocutore confermi l’appuntamento. Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori. Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca. I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro. Calabrò ha una partita di Kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano. Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”. Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva. Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese. Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”. Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”. Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga. Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.

Contatti e relazioni. Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990. Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu. Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà. La sua scarcerazione risale al febbraio scorso. Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”. Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò. Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Arturo Parisi

Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito. Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita. Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano. Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato. Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso. E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà, un altro uomo del clan è in fuga dal 1994. Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore. Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollicatrafficante legato ai servizi segreti militari. In città, dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ’ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).

Occhio al passato – E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo. Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”. Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano. Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore BarbaroDomenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia. Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ’ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia.

Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro. Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico. Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu. Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato. Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”. Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ’ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.

Arriva anche Cosa nostra – Milano capitale di ’ndrangheta, ma non solo. Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati. Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ’ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo. Da sempre è in contatto con la ’ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi. All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.

Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovono da fantasmi. Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta e Francesco Giordano detto don Nicola. Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Benfante lo chiamano Nino Palermo. Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2015