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Le bugie su Tsipras e la grecia: i codardi seminano la paura

502090aaa141eeb6a7e9c96c891c3303bc976b1b8693e8f9024dc375Tanto per rimettere le cose a posto vale la pena riprendere tre articoli che (a differenza dei molti giornalai in giro) raccontano bene cosa succede (cosa potrebbe succedere, cosa succederà) in Grecia:

GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco


Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. 

Quello che accade in que­sti giorni e in que­ste ore in Gre­cia ci riguarda diret­ta­mente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finan­zia­rio del capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato. Sono sette anni che il mondo occi­den­tale è in aperta reces­sione e le sole timide uscite segna­late sono quelle di paesi che hanno la capa­cità di sca­ri­care su quelli più deboli con­trad­di­zioni e costi, come fanno la Ger­ma­nia con i neo­sa­tel­liti dell’est e gli Stati uniti con l’intera eco­no­mia euro­pea. Il fatto che la sini­stra rap­pre­sen­tata da Syriza sia riu­scita a sven­tare a fine anno la mano­vra del pre­mier Sama­ras di eleg­gere un “suo” pre­si­dente della repub­blica per negare e riman­dare la veri­fica elet­to­rale è un avve­ni­mento di por­tata continentale.

Tutta l’Europa in que­sto momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspet­ta­tiva. I mer­cati, vale a dire la finanza inter­na­zio­nale occi­den­tale, teme che la rine­go­zia­zione dei ter­mini del debito greco metta in discus­sione i cri­teri con cui l’Unione euro­pea ha sal­va­guar­dato le ban­che invece degli inve­sti­menti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alter­na­tiva di sini­stra fac­cia sal­tare l’impianto dei dik­tat che hanno por­tato alla crisi uma­ni­ta­ria non solo la Gre­cia. Ad Atene invece si apre uno spi­ra­glio di luce, una grande pos­si­bi­lità. Noi che in Ita­lia lavo­riamo a rico­struire una sini­stra alter­na­tiva ita­liana, men­tre siamo alle prese con la scom­parsa della sini­stra e con le scelte neo­li­be­ri­ste di un governo come quello del lea­der Pd Mat­teo Renzi all’attacco dei diritti dei lavo­ra­tori e del wel­fare, vediamo l’occasione straor­di­na­ria di una svolta pos­si­bile anche in Ita­lia e in tutta Europa. È un’opportunità euro­pei­sta, per­ché l’Unione euro­pea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il con­ti­nente dei diritti e della democrazia.

Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo — fin qui — di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. Dal pre­si­dente Junc­ker con le sue dichia­ra­zioni con­tro Syriza, al governo di ferro di Ber­lino, a quello di destra di Madrid alle prese con ele­zioni pro­prio nel 2015 e con la nuova for­ma­zione di sini­stra Pode­mos; con l’eccezione del pre­si­dente fran­cese Hol­lande che almeno invita Mer­kel e i governi Ue a rico­no­scere che alla fine «il popolo è sovrano». Que­sto attacco sub­dolo e scel­le­rato è con­tro il popolo greco che vuole deci­dere il pro­prio destino. Dopo tante chiac­chiere sulla demo­cra­zia, sco­priamo dun­que che i lea­der e i governi euro­pei la temono anzi­ché difen­derla e vor­reb­bero impe­dire che chi ha subìto i costi della crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio possa votare con­tro la vio­lenza isti­tu­zio­nale che i tagli rifor­mi­sti hanno rap­pre­sen­tato per la con­di­zione di vita di milioni e milioni di cit­ta­dini e lavo­ra­tori con l’aumento della mise­ria e delle dise­gua­glianze. Così si strappa un velo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non ama la demo­cra­zia reale ma solo quella rituale e svuo­tata di senso — vista l’equivalenza dei par­titi — che allrga il bara­tro tra gover­nanti e gover­nati, ali­menta qua­lun­qui­smo e anti­po­li­tica, men­tre crol­lano le per­cen­tuali di voto e vince ovun­que l’astensionismo di massa e il con­flitto di tutti con­tro tutti. Fino a favo­rire una nuova destra estrema xeno­foba, raz­zi­sta, iper­na­zio­na­li­sta che difende nella crisi i più forti e usa i deboli con­tro i più deboli.

Allora, giù le mani dalle ele­zioni gre­che. Solo la demo­cra­zia reale sal­verà la Gre­cia e l’Europa dal disa­stro. Una demo­cra­zia reale che chiami il 25 gen­naio non ad un voto qual­siasi ma ad un impe­gno di pro­ta­go­ni­smo milioni di gio­vani, di donne, di lavo­ra­tori e disoc­cu­pati. Per­ché sosten­gano l’alternativa che Syriza e il suo pro­gramma già rap­pre­sen­tano, per­ché cre­sca la sua forza e si allar­ghi il suo soste­gno — nes­suno a sini­stra può restare solo a guar­dare. E per­ché il forte con­senso che avrà, e che noi auspi­chiamo, sia il primo passo per coin­vol­gere il popolo e i lavo­ra­tori nel governo della Gre­cia e nella svolta in Europa

L’EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo

Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche 

Con la gra­zia di un ele­fante in un nego­zio di cri­stal­le­ria, la Ger­ma­nia, minac­ciando Atene di Gre­xit – uscita dall’euro — in caso di vit­to­ria di Syriza alle legi­sla­tive anti­ci­pate del 25 gen­naio, ha squar­ciato un velo che rischia di avere un effetto boo­me­rang in tutta Europa: la demo­cra­zia sarebbe diven­tata sol­tanto un’operazione for­male nella Ue, ingab­biata dal rispetto del Fiscal Com­pact e delle regole di auste­rità? I cit­ta­dini non avreb­bero quindi più nes­suna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euro­scet­tici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella mag­gior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spie­gel, per Angela Mer­kel e il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble non c’è «nes­suna alter­na­tiva» all’applicazione del Memo­ran­dum, men­tre il Gre­xit sarebbe addi­rit­tura «quasi ine­vi­ta­bile» se Syriza al potere rifiu­terà di con­ti­nuare ad imporre le riforme impo­po­lari – e inef­fi­caci — che hanno ridotto gran parte dei cit­ta­dini greci alla povertà. Se Syriza chie­derà una mora­to­ria sul rim­borso del debito, la Gre­cia potrebbe venire costretta ad abban­do­nare la moneta unica, dice la Ger­ma­nia domi­nante. E que­sto non avrà con­se­guenze per la zona euro secondo Ber­lino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a dif­fe­renza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è pro­tetto dal para­ful­mine del Mes (il Mec­ca­ni­smo euro­peo di sta­bi­lità, dotato di 500 miliardi) e le sue ban­che sono a riparo della recente riforma del settore.

I grossi zoc­coli con cui Mer­kel e Schäu­ble sono entrati in cam­pa­gna elet­to­rale ad Atene non hanno nes­sun riscon­tro nei Trat­tati. La can­cel­le­ria ha smen­tito mol­le­mente le rive­la­zioni di Der Spie­gel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spa­ven­tare l’elettore greco: o sce­glie Sama­ras e l’euro, oppure Tsi­pras e il caos. Già Jean-Claude Junc­ker ci aveva pro­vato, il 12 dicem­bre scorso, spe­rando di influire sul voto par­la­men­tare per il pre­si­dente della repub­blica: in un’intervista alla tv austriaca, il pre­si­dente della Com­mis­sione aveva affer­mato di pre­fe­rire dei «volti fami­liari« (cioè Sta­vros Dimas) per­ché «non mi pia­ce­rebbe che delle forze estre­mi­ste pren­des­sero il potere». Il risul­tato di que­sto inter­vento è stato la non ele­zione del pre­si­dente e la con­se­guente con­vo­ca­zione di ele­zioni anti­ci­pate. Con un comu­ni­cato, è inter­ve­nuto nel fine set­ti­mana anche il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, invi­tando i greci a dare «un ampio soste­gno» al «neces­sa­rio pro­cesso di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Demo­cra­zia e Pasok). Ma Ber­lino (e Mosco­vici) hanno esa­ge­rato. Ieri una por­ta­voce della Com­mis­sione, Annika Breid­thardt, ha cer­cato di spe­gnere l’incendio affer­mando che l’appartenenza all’euro è «irre­vo­ca­bile», stando ai Trat­tati. Il Trat­tato di Lisbona pre­vede la pos­si­bi­lità di un’uscita dalla Ue, su deci­sione del paese inte­res­sato (e non su impo­si­zione di altri), ma for­mal­mente un paese non Ue potrebbe con­ti­nuare ad uti­liz­zare l’euro (suc­cede con Kosovo e Mon­te­ne­gro, che usano l’euro senza essere nella Ue). Fra­nçois Hol­lande ha preso ieri mat­tina le distanze da Angela Mer­kel: «I greci sono liberi di deci­dere sovra­na­mente sul loro governo – ha affer­mato il pre­si­dente fran­cese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Gre­cia alla zona euro, tocca ad essa deci­dere». Però il governo, qua­lun­que esso sia, deve «rispet­tare gli impe­gni presi».

In Ger­ma­nia c’è imba­razzo per le rive­la­zioni dello Spie­gel. Solo gli euro­scet­tici dell’Afd hanno appro­vato l’intervento musco­lare di Ber­lino. Die Linke e i Verdi hanno denun­ciato le pres­sioni inap­pro­priate sugli elet­tori greci, il vice-cancelliere Spd, Sig­mar Gabriel, ha cer­cato di cor­reg­gere il tiro, indi­cando che «l’obiettivo del governo tede­sco, della Ue e anche del governo di Atene è di man­te­nere la Gre­cia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tede­sca deve smet­tere di com­por­tarsi come uno sce­riffo in Gre­cia» per­ché «non è solo inac­cet­ta­bile ma anche sba­gliato: atteg­gia­menti del genere pos­sono solo pro­durre rab­bia e rifiuto della Ue», con il rischio di «ero­sione demo­cra­tica» nella Ue.

Syriza vuole rine­go­ziare con la tro­jka i ter­mini del rim­borso del colos­sale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, per­sino stando alle prese di posi­zione di Bru­xel­les. L’Eurogruppo, nel novem­bre 2012, si era impe­gnato con Atene a rive­dere i ter­mini del rim­borso quando la Gre­cia avesse rag­giunto l’equilibrio di bilan­cio pri­ma­rio (esclusi cioè gli inte­ressi sul debito): Atene, al prezzo del rigore asso­luto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Mer­kel non vuole soprat­tutto che ven­gano ridi­scussi i ter­mini del Memo­ran­dum: Syriza pro­pone riforme diverse, con­cen­trate sul fun­zio­na­mento dello Stato, men­tre la troika insi­ste sui tagli ai salari e al numero di dipen­denti pub­blici. In Ger­ma­nia, anche la Cdu ha espresso pre­oc­cu­pa­zione per la mani­fe­sta­zione di arro­ganza tede­sca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pub­blica tede­sca Kfw, che ha in cassa una parte con­si­stente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai prin­ci­pali stati mem­bri della zona euro e alla Bce. La Ger­ma­nia si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di prin­ci­pio, potrebbe cau­sare il Gre­xit, tagliando i cre­diti alle ban­che gre­che. Ma così Dra­ghi met­te­rebbe fine alla difesa dell’euro «a qua­lun­que costo», aprendo il vaso di Pan­dora di un pos­si­bile effetto domino. A cui nep­pure la Ger­ma­nia potrebbe resi­stere: Ber­lino pensa di soprav­vi­vere senza la Gre­cia, ma l’economia tede­sca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia

SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis

La spe­ranza per un avve­nire migliore in Gre­cia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà poli­tica di appli­care il pro­gramma eco­no­mico a favore degli strati sociali mag­gior­mente col­piti dalla crisi. È la rispo­sta di Syriza alla stra­te­gia della paura pro­mossa dai con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia e i loro soste­ni­tori, ter­ro­riz­zati dai son­daggi che con­ti­nuano a dare in testa la sini­stra radi­cale greca, tre set­ti­mane prima delle ele­zioni del 25 gennaio.

Syriza, secondo gli ultimi due son­daggi, si con­ferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, con­tro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimo­kra­tia del pre­mier Anto­nis Sama­ras. Al terzo posto si tro­vano i nazi­sti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due son­daggi, men­tre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) con il 4,8 per cento. I socia­li­sti del Pasok, invece, che hanno soste­nuto il governo di Sama­ras, rischiano di non essere eletti al par­la­mento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior pre­mier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Sama­ras con­tro il 33,4 per cento che pre­fe­ri­sce Tsi­pras. Il 74,2 per cento poi ha rispo­sto che la Gre­cia deve a ogni costo rima­nere nella zona euro.

La pro­spet­tiva della vit­to­ria di Syriza non piace, però, ai mer­cati come anche a una parte della stampa inter­na­zio­nale, che insi­ste sull’ even­tua­lità di un Gre­xit, nono­stante Ale­xis Tsi­pras non smetta di sot­to­li­neare che il suo par­tito non ha la minima inten­zione di uscire dalla zona euro. A que­sti timori è stato attri­buito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la ten­sione regi­strata sullo spread elle­nico, che è bal­zato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.

Pure la Grande coa­li­zione a Ber­lino, a leg­gere il set­ti­ma­nale Der Spie­gel, si pre­para a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «que­sto fatto non avrebbe riper­cus­sioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Ber­lino per il momento smen­ti­sce. Ieri il por­ta­vove di Angela Mer­kel ha detto che il governo tede­sco non ha cam­biato posi­zione. Anzi, ha aggiunto, la can­cel­liera tede­sca «insieme ai suoi part­ner lavo­rano per raf­for­zare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi mem­bri, Gre­cia inclusa».

L’ipotesi di un Gre­xit è stata respinta anche da Parigi e da Bru­xel­les che, oltre a far ricor­dare ad Atene che ci sono impe­gni che «vanno ovvia­mente rispet­tati», riba­di­scono che in base ai trat­tati dell’Ue non è pos­si­bile l’uscita di un paese mem­bro dalla zona euro. In altri ter­mini, come ha pre­ci­sato un por­ta­voce della Com­mis­sione euro­pea, la par­te­ci­pa­zione all’euro è irre­ver­si­bile, secondo l’articolo 140, para­grafo 3 del Trat­tato Ue. Quindi per un Gre­xit sarebbe prima neces­sa­ria una modi­fica del trat­tato, «la cui pro­ce­dura pre­vede l’ una­ni­mità dei paesi mem­bri, l’approvazione del par­la­mento euro­peo e ovvia­mente da parte dei par­la­menti nazionali».

Per il momento quindi i part­ner euro­pei, alleati di Anto­nis Sama­ras, fanno una mano­vra: sem­brano abban­do­nare la stra­te­gia della paura e le inter­fe­renze, come era suc­cesso durante le ele­zioni pre­si­den­ziali, lasciando Atene libera di deci­dere il pro­prio destino. Almeno appa­ren­te­mente, per­ché die­tro le quinte lavo­rano per affron­tare la que­stione prin­ci­pale, che il nuovo governo greco se sarà gui­dato da Ale­xis Tsi­pras met­terà sul tavolo dei col­lo­qui: il taglio del debito pub­blico greco. Una richie­sta che, nel caso venisse accet­tata da Ber­lino e ovvia­mente da Bru­xel­les — per­ché di fatto que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai rim­bor­sati per intero — rischie­rebbe un con­ta­gio poli­tico a Roma e a Madrid. Allora lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e la can­cel­liera tede­sca sarebbe ine­vi­ta­bile e solo a quel punto si potrebbe par­lare del rischio di un Gre­xit pro­vo­cato da Berlino.

Intanto l’arresto ad Atene di Chri­sto­dou­los Xiros, espo­nente dell’organizzazione “17 Novem­bre”, con­dan­nato a sei erga­stoli e ulte­riori 25 anni di pri­gione ed evaso un anno fa dal car­cere di Kry­dal­los, è diven­tato un altro motivo di scon­tro tra Nea Dimo­kra­tia e Syriza. Il pre­mier Sama­ras, che pure nel pas­sato aveva accu­sato Tsi­pras di «andare a brac­cet­to­con i ter­ro­ri­sti» e di «rap­porti tra Syriza e orga­niz­za­zioni ter­ro­ri­sti­che», ieri ha accu­sato la sini­stra radi­cale di non aver emesso un comu­ni­cato stampa a favore degli agenti che hanno arre­stato il ricer­cato numero uno in Gre­cia. Xiros stava pre­pa­rando un attacco con­tro le car­ceri di Kory­dal­los per far eva­dere i dete­nuti dell’organizzazione “Cospi­ra­zione dei nuclei di fuoco”

(da Il Manifesto)

Paviglianiti: una ’ndrina in continua ascesa.

Una ’ndrina in continua ascesa. La caratura criminale della famiglia “Paviglianiti”, i potenti delle cittadine della fascia jonica di Reggio, San Lorenzo e Bagaladi, è stata confermata dalla recente inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria “Ultima spiaggia”. Un clan che è riuscito a mantenere «incontrastata» la leadership sul territorio anche dopo l’arresto dell’indiscusso capoclan, Domenico Paviglianiti, il principe del narcotraffico internazionale tra gli eletti boss in grado di stringere accordi da tonnellate di cocaina solo spendendo il proprio nome di battesimo. Per la Dda di Reggio sarebbe proprio lui a mantenere stabili gli equilibri con i padrini della fascia jonica di Reggio e del mandamento “Centro” e soprattutto a stringere nuove alleanze con i siciliani di “Cosa nostra”. Sempre nel segno degli affari legati alla gestione di una fetta del narcotraffico con il Sud America. Gli inquirenti delineano uno scenario preciso nelle carte di “Ultima spiaggia”: «Le indagini esperite, focalizzando l’attenzione verso i sodalizi operanti lungo la fascia ionica reggina, dimostreranno come anche le inimicizie ed i rancori personali tra i vertici delle cosche cedono il passo davanti alla prospettiva di lauti guadagni: prova documentale di questo assunto è data dall’esame della corrispondenza che Paviglianiti Domenico, vertice dell’omonima cosca, in atto recluso presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, invia e riceve da esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale». Seppure in carcere, Domenico Paviglianiti è boss di rango assoluto. Ovunque si trovi, secondo le conclusioni degli inquirenti: «Benché recluso, non ha perso il carisma che gli ha permesso di occupare i vertici della cosca». Tra gli interlocutori di “Mimmo” Paviglianiti anche la famiglia Guttadauro, i mafiosi di Palermo: «In una delle sue lettere inviate a Guttadauro Giuseppe, esponente di spicco di cosa nostra, scrive che i suoi familiari, ed in particolare suo cognato, domandano se siano in contatto tra loro (“I miei mi chiedono sempre, mio cognato mi chiede sempre ma, con il “dottore” ti scrivi? È convinto che siete stato il mio pigmalione: forse è l’unica che ha ha azzeccato)». Un intero capitolo delle indagini “Ultima spiaggia” i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria l’hanno dedicato proprio «al rapporto di mutua collaborazione con la mafia siciliana». Sul tema gli inquirenti sono precisi: «In nome dei principi di unita e cooperazione tra i sodalizi criminali, anche la cosca Paviglianiti stringe legami con esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale: tale assunto e di fondamentale importanza in quanto pone in risalto la considerazione ed il rispetto di cui godono gli esponenti della cosca in argomento». Da San Lorenzo ad Africo, altra cosca crocevia del business della droga, fino a Palermo: «I Morabito hanno mantenuto costanti e frequenti contatti con il referente della cosca Paviglianiti. Le modalità operative del sodalizio di stanza in Africo e dal quale gli esponenti della cosca Paviglianiti sono risultati approvvigionarsi, sono divenute oggetto di un capitolo della presente richiesta che ha fatto piena luce su un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti e che vanta collegamenti con esponenti della criminalità siciliana». Traffici illeciti che «trovano riscontro nei rapporti allacciati con esponenti della realtà criminale siciliana, allo stato non ancora identificati». Più volte i segugi dell’Arma hanno seguito gli emissari reggini in trasferta a Piedimonte Etneo (Catania) «verosimilmente per trattare una fornitura di sostanza stupefacente: gli accorgimenti ed il timore per eventuali controlli di polizia alimenta il sospetto che la trasferta in terra siciliana sia riconducibile alla gestione dei traffici illeciti».

(link)

“E’ il sorriso che mi dà la forza di cercare compulsivamente la meraviglia”

Una mia intervista (presa da qui)

giulio_cavalli_facebookIn Italia c’è un teatro diverso. Un teatro che prende per mano lo spettatore e lo accompagna in una trama fatta di persone, volti conosciuti, realtà familiari. Storie non necessariamente positive o negative perché nel teatro – come nella vita – a volte a far sì che un racconto si caratterizzi in un modo o nell’altro è lo sguardo dei presenti che assistono al racconto. Quello che c’è di certo in questo teatro diverso in Italia, sono gli interpreti, quelli che la storia non solo l’hanno vissuta, ma la raccontano. Ecco, fra questi, uno dei migliori è Giulio Cavalli. Attore, regista, scrittore, Cavalli passa con la stessa facilità dalla stesura di libri alla recita sul palcoscenico, passando – spesso, ma non solo – attraverso il tema comune della lotta alla mafia.

Iniziamo dal teatro. Uscendo dai tuoi spettacoli, subito fuori dalla sala, si avverte immediatamente un senso di catarsi, un lungo respiro seguito quasi subito dal peso delle parole e delle storie che racconti. E forse è meglio che le seconde seguano il primo. 

“Credo che il teatro debba essere il luogo delle domande, piuttosto che delle risposte e quindi mi immagino il teatro come il luogo dove ci si allena a porsi le domande che per disabitudine, per ignoranza, per superficialità o per troppo dolore non ci siamo mai posti”.

Il tuo è un teatro di narrazione che racconta quelle che tu definisci “storie che crescono senza essere raccontate, a volte perché puzzano, a volte perché stanno sotto la cassa di un negozio perché la vetrina deve essere rassicurante”.

“A differenza della televisione in teatro l’umanità della storia è l’ingrediente fondamentale per la credibilità, mi ritengo molto fortunato nell’avere un pubblico che mi affida il proprio ascolto e per questo scelgo con cura quasi ossessiva le storie (e i particolari di quelle storie) da raccontare”.

Da “Do ut Des” in poi tema centrale del tuo teatro diventa la mafia. O forse sarebbe meglio dire l’antimafia, perché la sensazione che si ha stando sul marciapiede immediatamente all’uscita da un tuo spettacolo, è che le tue siano opere contro la mafia e non “sulla” mafia.

“Certo. I miei spettacoli sono “contro”, spesso. E comunque desidero un teatro che prenda posizione, che abbia una posto all’interno della storia. Altrimenti sarebbe cronaca. Non è il mio lavoro”.

Se tu ti interessi alla mafia, anche la mafia si interessa a te. E lo fa perché “dà fastidio la polvere che si alza dagli spettacoli teatrali”. Quando poi alza il tiro, tu fai i nomi e i cognomi dei mafiosi del Nord e del Sud, ma soprattutto inizi a girare per le scuole, raccontando un’altra Italia ad alunni ed insegnanti.

“Se davvero la mafia, come dicevano Borsellino e Falcone, è un fenomeno culturale è semplice cogliere quanto siano importanti gli “operatori” culturali in questa battaglia e l’educazione è la radice della cultura. Davvero credo che a scuola si costruiscano i lettori, gli spettatori che saranno”.

C’è una frase del tuo repertorio che voglio segnalare ed è quella per cui “l’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”. Eppure, la sensazione, è che ci sia ancora bisogno di un eroe che guidi fuori dalla palude, anche – forse – per un forte senso di disillusione nello Stato. 

“La mitizzazione facilita la delega: “questo è un mio mito e affido a lui questa battaglia” è l’errore più comune e pericoloso in cui si possa incorrere”.

Uno di questi eroi, che forse non dovrebbe esserlo, è il magistrato palermitano Nino Di Matteo. Insieme ad altre 7000 persone hai lanciato un appello – ancora firmabile – per chiedere a Renzi di intervenire garantendo maggiore protezione tramite la concessione di un bombjammer al giudice. Un appello che si apre con un “facciamo finta che il tritolo acquistato e nascosto nei bidoni su ordine di Matteo Messina Denaro (così come la racconta un pentito) sia esploso…”

“Di Matteo è la personificazione di un isolamento che serve per preparare il terreno alla delegittimazione. Difendere lui significa difendere le buone pratiche dell’antimafia, significa avere imparato la lezione della storia”

Alla base del tuo lavoro resta un impegno civico che fa eco alle parole dello stesso Nino Di Matteo quando dice “non pensate mai, non cedete nemmeno alla tentazione di pensare anche per un solo momento che la vostra passione civile sia inutile o tradita, per favore non lo pensate mai…”.

“Non credo che sia possibile scindere i comportamenti sopra o sotto il palcoscenico. Il teatro “civile” (espressione che proprio non amo) implica una linearità di comportamenti”.

Capitolo Mafia Capitale. Se per il Procuratore DNA, Vincenzo Macrì “Milano è la capitale della ‘ndrangheta”, Roma non sembra essere da meno. Politici, malviventi di lungo corso, infiltrazioni di ogni genere. Sembra un film già visto, sempre lo stesso.

“Non credo che sia un film già visto: credo che sia lo stesso film e noi ci siamo fatti convincere che fosse giunto alla fine; del resto anche i personaggi sono gli stessi Mafia Capitale racconta anche quanto siamo stati scarsi nell’allenamento della memoria”.

C’è un capitolo di questa storia che non viene raccontato ed è quello che colpisce il terzo settore, quelle persone che, scrivi, sono “uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere”.

“Il terzo settore in Italia ha sostituito il welfare che avrebbe dovuto garantirci lo Stato. Lucrare sul terzo settore è un reato ancora più odioso dal punto di vista etico: significa arricchirsi sulle fragilità degli altri”.

Chiudiamo con una sentenza di questi giorni. La Corte di Cassazione ha confermato i quattro ergastoli per l’omicidio di Lea Garofalo, una storia che hai seguito dall’inizio alla fine.

“Bene. Lo aspettavamo tutti. Adesso mi piacerebbe anche sentire un po’ più di coraggio quando raccontiamo perché Lea sia rimasta sola fino alla morte. Chissà che qualcuno non riesca a dire che Lea Garofalo è stata abbandonata dallo Stato e anche da un bel pezzo dell’antimafia, prima di morire. E poi è stata riadattata da morta”.

Dimenticavo. Su quel marciapiede, davanti al teatro, c’è un terzo sentimento che si avverte, forte, ed è il sorriso che regala uno spettacolo che fa ridere riuscendo a parlare al cittadino prima e alla persona poi.

“Ed è il sorriso che mi dà la forza di cercare compulsivamente la meraviglia”.

In questo momento, Giulio Cavalli è impegnato in un raccolta fondi per il suo prossimo spettacolo, con una storia che potete conoscere e sostenere qui.

Quanto Napolitano c’è nella scelta di Lo Voi alla Procura di Palermo (e quel voto del “tecnico” scelto dal M5S)

Un articolo che pone ottime domande:

E’ l’ultima vittoria del Presidente della Repubblica. O forse tra le ultime prima delle sue dimissioni. Certo è che Giorgio Napolitano si può dire soddisfatto. Un magistrato considerato “vicino” ad ambienti del Quirinale è diventato il nuovo Procuratore di Palermo. Senza nulla togliere all’onestà personale e alla preparazione professionale di Franco Lo Voi, la sua nomina a Capo della Procura più importante d’Italia è uno schiaffo alle regole più basilari. Che sono state stracciate dall’ingerenza politica all’interno di un Csm già piagato da logiche correntizie. O meglio: da logiche di potere. Quando questa estate il Colle è entrato a gamba tesa per impedire la nomina dell’attuale procuratore di Messina, Guido Lo Forte, dato per favorito alla reggenza della procura palermitana, lo scenario che si prospettava era quasi del tutto delineato. Certo, mancavano le “chicche” come il voto a favore di Lo Voi partorito dal “tecnico” scelto dal M5s Alessio Zaccaria (Grillo non dice nulla a proposito?), ma le linee guida di un diktat quirinalizio c’erano tutte. L’avversione – financo fisica – che Napolitano ha nutrito in questi mesi nei confronti del processo sulla trattativa Stato-mafia si è tradotta in veri e propri attacchi nei confronti del pool che investiga su questo pactum sceleris. Attacchi più o meno mascherati da conflitti di attribuzioni o, più semplicemente, da moniti, avvertimenti, e soprattutto da gravissimi silenzi.

Nei libri di storia Napolitano verrà ricordato come un Presidente della Repubblica incapace della benchè minima solidarietà umana nei confronti di un magistrato condannato a morte da Cosa Nostra. Ma soprattutto come colui che ha contribuito a indebolire un’inchiesta tanto delicata arrivando a imporre un vero e proprio braccio di ferro con il pool di Palermo pur di non essere interrogato davanti ad una Corte di Assise. E, una volta che (bontà sua) ha dato il benestare alla sua deposizione, ha annacquato i suoi ricordi in merito alle confidenze del suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. La sua ultima mossa è stata quella di “ventilare” la candidatura di Franco Lo Voi all’interno di una metodologia che, paradossalmente, è del tutto “coerente”. Perché mai Napolitano avrebbe dovuto preferire Guido Lo Forte? Per il suo ruolo di pubblico ministero al processo contro Giulio Andreotti (che invece Lo Voi aveva rifiutato)? O perché Lo Forte aveva lavorato sull’inchiesta “Sistemi criminali” che di fatto aveva anticipato quella sulla trattativa Stato-mafia? Forse il “patto del Nazareno” prevedeva anche “l’assestamento” della Procura di Palermo? Il Capo dello Stato – grande sostenitore di quel patto – conta i giorni che lo separano dalle sue prossime dimissioni e si diletta a lanciare altri moniti. Ma sono anche i cittadini onesti a contare i giorni che restano fino alla fine del suo mandato. In questo disgraziato Paese, corrotto fin nelle sue fondamenta, c’è ancora una parte sana di società che auspica il ritorno di un Presidente al di sopra di ogni sospetto, che abbia realmente a cuore la ricerca della verità. Nel frattempo il nuovo Procuratore di Palermo viene chiamato ad un compito che in un altro Paese rientrerebbe nell’ovvietà: sostenere un processo dall’importanza storica. In Italia, invece, il Capo di questa Procura si ritroverà sotto il fuoco incrociato di gran parte delle istituzioni e di una larghissima fetta del mondo della politica del tutto ostili al raggiungimento della verità. Il neo Procuratore di Palermo sarà quindi di fronte ad un bivio: fare il proprio dovere seguendo i dettami della Costituzione, oppure entrare lentamente nel “gioco grande” come semplice pedina che verrà utilizzata a tempo determinato.

(fonte)

La ‘ndrangheta che bussa a San Siro

L’ultimo obiettivo della ‘ndrangheta a Milano è lo stadio di San Siro, in particolare il servizio catering delle partite del Milan, con un imprenditore del settore manovrato dalle cosche. Nuova ondata di arresti della Procura distrettuale antimafia di Milano: 59 le persone catturate dal Nucleo investigativo dei carabinieri. Coinvolta la cosca di ‘ndrangheta Libri-De Stefano-Tegano. Secondo quanto emerge dall’indagine, gli affiliati avevano messo in piedi un complicato schema per ottenere l’appalto, coinvolgendo addirittura un carabiniere, per gettare discredito sull’azienda che lo deteneva legittimamente. Contestati ben 140 capi di imputazione, che vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso al traffico di armi, dalla corruzione di pubblico ufficiale all’estorsione, fino all’associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

L’imprenditore

L’imprenditore al servizio della cosca è Cristiano Sala, titolare della «Maestro di Casa Holding», una grande azienda del settore ristorazione fallita nel 2010 e già responsabile del catering di San Siro per l’Inter. Sala, che dopo il fallimento gestiva occultamente altre società, era pieno di debiti e, anziché chiedere alle banche, aveva deciso di rivolgersi per aiuto direttamente alla ‘ndrangheta. La cosca gli aveva ripianato i debiti, e lui era entrato a far parte attivamente dell’associazione per delinquere. Aveva poi trovato un complice, un carabiniere corrotto, Carlo Milesi, in servizio presso l’Ispettorato del lavoro. Milesi aveva deciso di mettere nei guai la concorrenza, ovvero la IT Srl, e per questo aveva messo in piedi una finta indagine con false accuse di sfruttamento del lavoro clandestino. Aveva organizzato persino un’ispezione ai danni della ditta il 16 dicembre 2013, proprio nel giorno in cui a San Siro si disputava la partita Milan-Roma.

Il giornalista ingannato e il carabiniere corrotto

Dopo il blitz, Milesi aveva approcciato alcuni dirigenti del Milan, risultati completamente estranei alla vicenda, per dipingere a tinte fosche l’operato della società rivale, e mandato anche alcune false imbeccate a un giornalista che, del tutto ignaro, aveva scritto un articolo contribuendo ad aumentare il clamore mediatico sulla IT Srl. Le intercettazioni ambientali e telefoniche condotte dai carabinieri del Nucleo Investigativo hanno permesso di smascherare il collega infedele e di evitare che l’appalto per il catering del Milan nell’anno 2014-2015 finisse nelle mani delle ‘ndrine. «Ci è dispiaciuto molto, e siamo stati inflessibili, operando con rigidità», ha commentato il generale Maurizio Stefanizzi, comandante provinciale dei Carabinieri di Milano.

Le cosche

L’indagine è partita circa un anno e mezzo da un fatto minore: spari contro l’auto di un imprenditore proprietario di alcune concessionarie automobilistiche. L’imprenditore in questione risultava anche in rapporti con Giulio Martino. Martino, già agli arresti negli anni ‘90 e recentemente tornato in carcere per traffico di droga, è il «proconsole» in Lombardia della cosca Libri-De Stefano-Tegano, una delle più potenti di Reggio Calabria, protagonista delle cosiddette «Prima e Seconda Guerra di ‘ndrangheta” che insanguinarono la Calabria tra gli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90. «In 20 anni non era cambiato nulla – ha raccontato il sostituto procuratore Marcello Tatangelo, che ha coordinato l’indagine con il procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Milano Ilda Boccassini e con il procuratore aggiunto Dda Paola Biondolillo – perché abbiamo scoperto che dopo il rilascio Giulio Martino era tornato a coordinare le attività criminali della ‘ndrangheta nella zona di piazza Prealpi e viale Certosa. Com’è consuetudine, questi uomini mantenevano un rapporto costante con la cosca originaria di Reggio Calabria e i vincoli di sostegno alle famiglie degli aderenti in prigione».

La sala bingo

È il caso, oltre che di Cristiano Sala, anche di Michele Surace, originario di Reggio, che si rivolge alla ‘ndrina per aprire una sala bingo a Cernusco e, quando la redditività del progetto è in declino, chiede agli ‘ndranghetisti di incendiare il locale. «Era da circa 20 anni che non si operava in termini di criminalità organizzata a Milano – ha detto il generale Stefanizzi – e l’organizzazione ha mostrato una profonda diversificazione del business, che andava dal traffico di droga soprattutto per sovvenzionarsi e garantire una rendita alle famiglie dei carcerati, fino ai tentativi di condizionare l’aggiudicazione di appalti».

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Il processo “Crimine” regge anche in appello

Un importante articolo di Claudio Cordova:

E’ la scommessa investigativa della DDA reggina. Una scommessa vinta. Anche le motivazioni d’appello del procedimento “Crimine” non fanno che confermare l’unitarietà della ‘ndrangheta. Un risultato ottenuto dopo decenni, sebbene fin dal summit di Montalto, del 1969, si parli di unitarietà delle cosche. E tanti saranno i riferimenti anche nelle indagini dei decenni successivi. Solo con il blitz del luglio 2010 (e con i vari procedimenti nati da esso) si arriverà all’assunto decisivo. Un’evoluzione, quella delle cosche, che si pone “in senso piramidale e tendenzialmente unitario dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata Ndrangheta”. Ma anche “una evoluzione nella continuità, che dimostra ancora una volta la multiforme capacità dell’associazione illecita in oggetto – considerata ad oggi quella più potente e ramificata tra le organizzazioni mafiose storiche italiane – di adeguarsi ai tempi e di trovare delicati e efficaci punti di equilibrio e di sintesi tra rispetto delle tradizioni e delle regole (che affondano in un retroterra sociale e culturale arcaico e di sottosviluppo e di supplenza illegale rispetto alle assenze o complicità dello Stato) e adeguamento alle nuove realtà economiche e finanziarie, che offrono ulteriori e succulenti sbocchi alle attività illecite di questa organizzazione criminale”.

La Corte presieduta da Rosalia Gaeta, dunque, premia ancora una volta il lavoro dei pm antimafia reggini (Giovanni Musarò, Marialuisa Miranda e Antonio De Bernardo: “Può senz’altro dirsi che gli elementi raccolti nel presente procedimento penale possono realmente costituire la base per un primo vero processo contro l’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta nel suo complesso, indistintamente dalle cosche di appartenenza dei singoli soggetti indagati” è scritto nelle motivazioni.

Di ‘ndrangheta unitaria si parlerà per decenni. Il 26 ottobre 1969, nel corso di un summit di Ndrangheta tenutosi in località Serro Juncari, ai piedi del massiccio di Montalto, sull’Aspromonte, interrotto dall’intervento della Polizia di Stato, il vecchio boss Giuseppe Zappia aveva affermato: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”. Un ventennio dopo, in una conversazione intercettata il 8 maggio 1998 tra Filiberto Maisano e tale Leone Mauro, il primo diceva tra l’altro: “… non ci sono mandamenti per niente, compare Leo, ci sono …che se vi dà una carica per parte … una carica alla Tirrenica, una alla Jonica e una al Centro … (…) noi siamo tutti uomini dello stesso modo … siamo tutti del crimine … criminali … e basta! (…)”.

Ancora vent’anni dopo, il 20 gennaio 2009 nella città di Singen (Germania), durante una riunione tra affiliati, l’imputato Salvatore Femia chiede: “Ma il nostro referente che è sotto chi è?” – “Don Mico Oppedisano, risponde Tonino Schiavo, Lui è uno del Crimine! E’ di Rosarno (…) E’ il numero uno!”. Ed ancora, Bruno Nesci, residente in Germania, afferma “la società mia è da sette anni che sta rispondendo al Crimine, sette anni… e là c’è il nome mio, la società mia è aperta, non la devo aprire… loro devono aprirla…. che vada a domandare al crimine quali nomi rispondono”.

Nella stessa data, dialogando in Lombardia in ordine a dinamiche criminali di quel territorio, tale Nino Lamarmore (ritenuto intraneo alla Ndrangheta operante in quella regione del Nord Italia) diceva a Stefano Sanfilippo: “Noi prendiamo decisioni dal Crimine…. siamo andati a Platì”.

E subito dopo l’omicidio del boss scissionista Carmelo Novella, Giuseppe Piscioneri riferiva a Antonio Spinelli: “Nunzio (Novella Carmelo) era stato fermato da giù (dalla Calabria) … tutti gli uomini si possono fermare….la provincia…. Li ferma la provincia” ….” Quando sei fermo per la Calabria sei fermo per tutti”.

Scrive la Corte d’Appello: “E’ stata una precisa scelta processuale della stessa Direzione distrettuale antimafia reggina l’aver voluto impostare l’odierno processo come un giudizio per così dire di “Ndrangheta pura”, puntando sulle prove inerenti l’associazione criminale mafiosa in sé, senza portare alla cognizione di questo giudice (e, quindi, contestare agli imputati) se non una piccola parte di reati c.d. fine: ciò in quanto l’obiettivo era quello di dimostrare (peraltro con successo) l’esistenza di una struttura unitaria di un sodalizio storicamente e processualmente già accertato nella sua materialità, nonché una sua diffusività sul territorio (calabrese e non solo).

Una struttura unitaria da cui dipenderebbero le varie propaggini in giro per l’Italia e per il resto del mondo. Un discorso valido per tutti gli altri territori, quello che la Corte fa per la Lombardia: “Emerge certamente un quadro in evoluzione, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le aspirazioni autonomistiche dei locali lombardi e l’intento della “casa madre calabrese” di esercitare comunque un controllo sulle sue “filiazioni”; emerge, altresì la circostanza che i locali lombardi debbono essere riconosciuti dalla “Lombardia” per trovare riconoscimento anche in Calabria, anche se a sua volta la “Calabria” deve dare il nulla osta per conferire nuove doti e per aprire nuovi locali, estendendo la sua influenza ben al di là dello stretto ambito territoriale regionale (ed in ciò riscontrando specularmente quanto si vedrà a proposito dell’articolazione tedesca della Ndrangheta). Scrivono, ancora, gli inquirenti che “Le ” filiazioni lombarde” sono una imponente ” testa di ponte” per inserirsi in un mercato certamente più ricco e di più ampie prospettive rispetto alla realtà del sud. In effetti, un’ultima annotazione sul tema “la Lombardia”; come già si è detto in Lombardia sono “attivi” 20 locali per un complesso di circa 500 affiliati. Si tratta all’ evidenza di ” un piccolo esercito” a disposizione delle cosche calabresi le cui mire, al di là delle questioni di forma afferenti l’ attribuzione delle “cariche”, sono la spartizione degli affari, come afferma lo stesso capo del Crimine Micu Oppedisano”.

A chiedere consiglio (o permesso) ai vari Oppedisano e Commisso si recano personaggi da ogni parte del mondo: “In passato si trattava solo di usare un argomento logico-sistematico che, oggi, è invece divenuto un prepotente ed incontestabile dato fattuale: oltre alle inequivoche intercettazioni che saranno oltre riportate nel prosieguo dell’esame delle singole posizioni soggettive, deve sottolinearsi come si assiste ad un continuo “pellegrinaggio” che individui provenienti da ogni parte del globo effettuano presso l’agrumeto di Oppedisano Domenico e presso la lavanderia di Commisso Giuseppe. Quali ragioni, diverse da quelle di obbedire ad un’unica entità criminosa che determina la vita del sodalizio, potrebbero celarsi dietro i viaggi di soggetti residenti ed operanti in Germania, Canada, ecc.. presso i citati Commisso e Oppedisano, ai quali rendono conto e chiedono direttive sulla vita del sodalizio in terre distanti decine di migliaia di chilometri?” si chiede la Corte d’Appello.

L’indagine “Crimine”, dunque, riesce dove altri, in passato, avevano fallito: “Orbene, alla luce del poderoso compendio probatorio fin qui riportato, appare del tutto evidente che la conclusione raggiunta dal primo giudice, pienamente condivisa da questa Corte, non deriva da una costruzione investigativa, ma costituisce una conclusione obbligata dalle emergenze processuali dell’indagine, che rappresenta una decisa virata nella direttrice giudiziaria fin qui susseguìta. Si ribadisce, l’interprete non può che limitarsi a prendere atto che l’unitarietà della ‘ndrangheta è caratteristica attestata dagli stessi protagonisti, esplicitamente ed inequivocamente affermata in plurime conversazioni, peraltro intrattenute dai più disparati correi, in realtà territoriali del tutto diverse. Si cita, emblematicamente, la vicenda relativa al defunto boss Novella, cui gli stessi sodali hanno addebitato una volontà di “distaccarsi” dalla Calabria che ne ha determinato la “fine”, perché “la Provincia lo ha licenziato”, o ancòra le nette, plurime e convergenti affermazioni contenute nelle intercettazioni o le dichiarazioni rese dal collaboratore, secondo cui le ‘ndrine stanziate in Lombardia fuori dalla Calabria rispondono comunque al Crimine, da cui prendono “disposizioni”, richiamandosi poi le numerose altre emergenze citate dal GUP tutte conferenti con l’impianto accusatorio, posto che hanno in comune il medesimo denominatore: la “dipendenza” dei gruppi siti fuori regione dal “Crimine” e dalla “madrepatria”, da cui mutuano la struttura e derivano la loro stessa essenza , talchè risulta palesemente che se anche i precedenti processi celebrati nel distretto giudiziario reggino non abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura unitaria dell’associazione, ciò è avvenuto esclusivamente per un deficit probatorio che la presente indagine ha invece colmato ed anzi esaltato come detto in tutta la sua chiarezza”.

Inoltre, i giudici di secondo grado liquidano anche il pretesto, avanzato da più parti, della presunta assenza dei De Stefano nell’inchiesta: “Nell’ingente compendio probatorio acquisito al processo è rinvenibile un preciso e significativo riferimento alla famiglia ndranghetistica dei De Stefano, quali soggetti appartenenti alla storica cosca operante nella zona Nord di Reggio Calabria: ci si riferisce alle conversazioni fra Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara, captate nei primi mesi del 2010 nella c.d. Operazione Reale, nel corso delle quali il secondo dichiarava esplicitamente, fra l’altro, che tutti appartenevano ad un’unica organizzazione, la “‘ndrangheta”, e, ragionando in merito a possibili alleanze, citava esplicitamente i De Stefano, soggetti “vicini” ai Ficara”.

Da qui, dunque, il dato, lapidario, espresso dalla Corte d’Appello presieduta da Rosalia Gaeta: “In conclusione, quindi, nessun dubbio può nutrirsi sulla corretta impostazione accusatoria, relativamente a tale caratteristica della struttura, rispetto alla quale non può neanche dirsi distonico il preteso disinteresse o comunque il mancato intervento dell’organismo unitario nelle fasi di criticità del sodalizio, quali le faide sanguinose o le c.d. guerre di mafia che hanno caratterizzato (e talora ancora caratterizzano) gli ultimi decenni. Invero, ciò è agevolmente spiegabile non solo con l’autonomia dei singoli “locali”, che comunque coesiste con il riconoscimento di una struttura apicale, di coordinamento e direzione, ma con la fisiologica esistenza ed inevitabilità di motivi di forte contrasto che animano qualsiasi consesso umano, maggiormente quelli a connotazione illecita, il cui sorgere non può certo essere impedito dall’esistenza di un’autorità che orienta la vita dell’intero gruppo criminoso. Anche la doglianza difensiva inerente tale aspetto dell’indagine risulta quindi infondata e va pertanto disattesa”.

Caro Giulio

Caro Giulio,
te lo giuro che ci ho provato cento volte a scriverlo e riscriverlo questo pezzo. Mangiato, sputato e rimangiato come non si dovrebbe fare per il rispetto per le storie che nei documenti bollati si scrivono con le maiuscole. Ho provato a metterci il rigore e tutto l’impettimento degli studiosi scientifici ma mi sembrava di martellare un palazzo bello ma abusivo, costruito sulla spiaggia, anche se con l’aria da ingegnere. Ho provato a scriverlo e ripetermelo in testa con l’eco di muro e legno dei tribunali ma qui il cuore della storia sta tutto nella giustezza più che nella giustizia.
Una mattina mi ci sono messo di piglio, con tutte le carte e i trucchi da camerino, raccogliendo gli avanzi di scenografie che avevo sparso in giro, e mi sono detto che magari con quattro parrucche e del rossetto pesante saremmo riusciti tutti a digerirla, questa storia. Sbagliato.
Caro Giulio, l’unico inizio vero è che questa storia accende la nausea: nausea nera, nausea pelosa, nausea incurabile. Una storia che galleggia tutta nei fondi che non si riescono a sciacquare, una storia che spia dalla serratura cinquant’anni di istituzioni che si baciano di nascosto nei cessi, una storia che sta nelle risalite a pelo d’acqua per prendere fiato e più in basso è tutta acqua al buio, una storia che non rimane in piedi senza livore e senza la sua nausea.
Caro Giulio, confesso che ci è uscito un libro maleducato e rissoso. Di quella maleducazione indignata che batte sulle vene in testa e che si vorrebbe in prescrizione. E non vale né pentirsi né dissociarsi. Ci sono palcoscenici che vanno usati e palcoscenici che vanno osati: non cerchiamo l’equilibrio educato da teatro stabile dentro questo girotondo di onorevoli venerabili e di bugie liriche. Caro Giulio, questo libro è stato martellato tutto storto, con dentro i fatti desunti e i nomi rivoltabili come un Molière senza boccoli e sorrisi. Ma indignato. Indignato sì. E ci avessimo messo il papillon all’indignazione forse sarebbe stato meglio ma non ci avrebbe creduto quasi nessuno. Un libro scritto, detto, e dispiaciuto. Con la nausea come odore di introduzione.

(dal libro L’INNOCENZA DI GIULIO, Andreotti e la mafia in offerta qui nella nostra piccola libreria)

I caratteri di Mafia Capitale

Per orientarsi in mezzo alle tante opinioni vale la pena leggere piuttosto le parole della Procura di Roma sottoscritte il 28 novembre dal Giudice Flavia Costantini:

I caratteri di Mafia Capitale

Le indagini svolte hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici.

Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione, presenta caratteristiche proprie, solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali e agli altri modelli di organizzazione di stampo mafioso fin qui richiamati, ma, come si cercherà di dimostrare nella esposizione che segue, essa è da ricondursi al paradigma criminale dell’art. 416bis del codice penale, in quanto si avvale del metodo mafioso, ovverosia della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, per il conseguimento dei propri scopi.

Essa presenta, in misura più o meno marcata, taluni indici di mafiosità, ma non sono essi ad esprimere il proprium dell’organizzazione criminale, poiché la forza d’intimidazione del vincolo associativo, autonoma ed esteriorizzata, e le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, sono generate dal combinarsi di fattori criminali, istituzionali, storici e culturali che delineano un profilo affatto originale e originario.

Originale perché l’organizzazione criminale presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note, originario perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali.

Sarebbe un errore di prospettiva annoverare tout court Mafia Capitale nel catalogo delle nuove mafie.

Se è indiscutibile che la sua diagnosi sia frutto dell’utilizzazione – scevra da pregiudizi nel senso più anodino del termine–  di quello che in dottrina è stato definito un modello di tipizzazione contenuto nell’ultimo comma dell’art. 416bis c.p., deve escludersi che la sua genesi sia recente e reputarsi che essa sia radicata da tempo, mentre deve ritenersi che essa sia stata  investigativamente colta nella fase evolutiva propria delle  organizzazioni criminali mature, che fruiscono, ai fini dell’utilizzazione del metodo mafioso, di una accumulazione originaria criminale già avvenuta.

Muovendo da quanto condivisibilmente è stato ritenuto in dottrina, secondo cui «ogni associazione di tipo mafioso ha alle spalle un precedente (e concettualmente distinto) sodalizio-matrice, con originario programma di delinquenza in parte finalizzato proprio alla produzione della «carica intimidatoria autonoma»; finalità apprezzabile e riconoscibile, peraltro, solo a posteriori cioè a metamorfosi avvenuta e dopo la consunzione del sodalizio-matrice nella nuova entità di tipo mafioso», nel caso di specie può ritenersi che la trasformazione sia compiutamente avvenuta.

A usar metafore, il fotogramma di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione sincronica, rivela un gruppo illecito evoluto, che si avvale della forza d’intimidazione derivante –anche– dal passato criminale di alcuni dei suoi più significativi esponenti; la pellicola di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione diacronica, evidenzia un gruppo criminale che costituisce il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera, anche nei suoi collegamenti con apparati istituzionali, che si sono evolute, in alcune loro componenti, nel fenomeno criminale della Banda della Magliana, definitivamente trasformate in Mafia Capitale.

Un’organizzazione criminale tanto pericolosa quanto poliedrica che, per dirla con le parole di uno dei suoi più autorevoli e pericolosi esponenti, Massimo Carminati ( il Pirata o ilCecato), opera, soprattutto, in un  mondo di mezzo,  un luogo dove, per effetto della potenza e dell’autorevolezza di Mafia Capitale, si realizzano sinergie criminali e si compongono equilibri illeciti tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano illecitamente con l’uso delle armi.

Sul piano strutturale, le mafie tradizionali presentano modelli organizzativi pesanti, rigidamente gerarchici, nei quali i vincoli di appartenenza sono indissolubili e inderogabili. Un tale modello organizzativo è, però, storicamente e sociologicamente, incompatibile con la realtà criminale romana, che è invece stata sempre caratterizzata da un’elevata fluidità nelle relazioni criminali, dall’assenza di strutture organizzative rigide, compensata però dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale, quali Ernesto Diotallevi,  Michele Senese (zi Michele)  Massimo Carminati (il Pirata, il Cecato) e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti sul territorio romano e da una connaturata capacità di ricercare e realizzare continue mediazioni, che si risolvono in un equilibrio idoneo a generare il senso della loro capacità criminale. 

Mafia Capitale, in questo differenziandosi e in parte affrancandosi dalle precedenti espressioni organizzate capitoline come la Banda della Magliana, ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma, creando una struttura organizzativa di tipo  reticolare o  a raggiera, che però mantiene inalterata la capacità di intimidazione derivante dal vincolo associativo nei confronti di tutti coloro che vengano a contatto con l’associazione.

In essa, alcuni dei suoi componenti godono di ampi margini di libertà, sì che essi, oltre a essere impiegati attivamente nella mission dell’associazione, svolgono autonomamente e personalmente attività illecite.

Sul piano del core business, l’attività di Mafia Capitale è orientata al perseguimento di tutte le finalità illecite considerate nell’art. 416bis c.p.

Tra esse, le più frequenti finalità perseguite, e non di rado realizzate, sono tuttora la commissione di gravi delitti di criminalità comune, prevalentemente a base violenta, ma soprattutto l’infiltrazione del tessuto economico, politico ed istituzionale, l’ottenimento illecito dell’assegnazione di lavori pubblici.

Un’organizzazione criminale che siede a pieno titolo al tavolo di altre e più note consorterie criminali, condizionandone l’attività sul territorio romano, che ha piena consapevolezza di sé e del suo ruolo nella gestione degli affari illeciti della capitale.

Eloquente, in proposito, appare essere un’intercettazione ambientale, avente come protagonista Carminati, capo indiscusso di Mafia Capitale,  a seguito della pubblicazione di un articolo sul settimanale “L’Espresso”, dal titolo “I quattro Re di Roma”, nel quale si faceva riferimento ad una divisione della capitale in zone d’influenza ad opera di distinti gruppi criminali con a capo rispettivamente  Carminati Massimo, Senese Michele, Fasciani Giuseppe e Casamonica Giuseppe.

Gli imprenditori codardi del nord. E la mafia ringrazia.

Ancora una volta tra le carte di un’operazione antimafia esce un quadro misero dell’imprenditoria lombarda. Ancora una volta la maggior parte dei giornalisti si sgola per raccontarci i riti mafiosi, i riti di iniziazione (e ha ragione Nando Dalla Chiesa a scrivere che ancora una volta la favoletta de “i colletti bianchi” viene smentita) e nessuna punta il dito contro una classe imprenditoriale che ritiene l’etica un ostacolo alla produttività.

Per fortuna Gabriella Colarusso ne scrive:

Fare affari con i clan: un gioco pericoloso.
Una falsa credenza, un idolum fori, per dirla col filosofo Francesco Bacone.
Questa è, secondo i magistrati dell’antimafia milanese – che con l’indagine Insubria hanno portato all’arresto di 44 presunti affiliati alla ‘ndrangheta tra Lombardia, Calabria e Sicilia -, la diffusa convinzione che, nel rapporto tra criminalità organizzata e imprenditoria, quest’ultima sia sempre e solo la parte lesa, l’anello debole della catena, la vittima.
Nella maggior parte dei casi, certo, lo squilibrio di forze tra picciotti con la pistola facile, adusi a minacce, estorsioni, intimidazioni, e imprenditori magari finiti nel giogo del racket per ingenuità o bisogno è enorme. E a favore dei primi.
QUELL’IMPRENDITORIA CHE FA AFFARI CON I CLAN. Ma accade e accade spesso che siano gli stessi commercianti, industriali o professionisti del terziario a cercare la Santa alleanza, convinti di poterne trarre benefici di mercato. Per poi scoprire magari di essersi resi schiavi di un meccanismo che non possono controllare e dal quale è difficile uscire.
Le inchieste condotte in questi anni in Lombardia, ossia «Infinito, Blue Cli, Valle-Lampada, Caposaldo», come annota il gip Simone Luerti negli atti dell’indagine Insubria, 
dimostrano «che l’imprenditoria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentaneamente) dei vantaggi».
Storie che si nascondono all’ombra delle periferie, dove l’occhio dei media spesso non arriva e fare affari per la ‘ndrangheta è più facile e sicuro.

Gli ‘ndranghetisti che riscuotevano crediti per conto degli imprenditori

Insubria illumina un pezzo di questa realtà. C’è la storia, per esempio, dell’imprenditore nato a Carate Brianza e residente in Svizzera, ora agli arresti, G.B.

Sarebbe stato lui stesso, secondo gli investigatori, a cercare le cosche e a incaricare il presunto ‘ndranghetista Michelangelo Chindamo di «riscuotere un preteso credito nei confronti» di un avvocato e di un commercialista svizzeri. E Chindamo, «avvalendosi di altre persone», non avrebbe esitato «a progettare e compiere numerosi atti di intimidazione» per raggiungere lo scopo, scrive il gip.
IL BARISTA CHE CHIAMA I CLAN PER DIFENDERSI DAGLI IMMIGRATI. Sempre a Chindamo si sarebbero rivolti poi un impresario 55enne di Como, operativo nel settore dei carburanti, per riscuotere un credito di 300 mila euro vantato nei confronti di un’altra azienda con sede a Lomazzo, dichiarata fallita nel 2012; l’amministratore delegato di una società di elettronica per recuperare un presunto credito di circa 1 milione di euro dai suoi clienti; il socio di un’azienda idraulica, anch’essa, presunta, creditrice. E persino il proprietario di un bar tabacchi, che avrebbe chiesto l’intervento degli ‘ndranghetisti «in quanto a suo dire minacciato da persone di origine extracomunitaria che si sono presentate presso il suo esercizio».

Anche al Nord si preferisce l’omertà: troppa sfiducia nelle istituzioni

Un «imponente numero di fatti intimidatori», scrivono gli inquirenti, quasi 500 dal 2008 a oggi, solo considerando i Comuni interessati dall’indagine, soltanto in minima parte vengono denunciati a causa «dell’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo)».

L’altro aspetto del rapporto imprenditoria-criminalità messo in luce dall’inchiesta, infatti, è proprio questo: per ogni industriale, professionista o colletto bianco colluso, che trae vantaggio dalla relazione col potere mafioso, ci sono decine di altri imprenditori, commercianti o professionisti che si trovano poi costretti a subire violenza, ricatti e intimidazioni. E che per paura spesso non denunciano.
LA SFIDUCIA NELLO STATO. «Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori», scrive il gip nell’ordinanza, «(sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce».
Il che, spiega il gip, non può essere statisticamente sempre vero.
«Se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denunciano gli autori, ciò è dovuto a paura. I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori».
Paura, sfiducia nelle istituzioni. E dall’altro lato convenienza quando non aperta mafiosità.

‘Ndrangheta: la quinta azienda

Il preciso articolo di Claudio Forleo:

40 arresti tra Lombardia, Veneto e Sicilia, un filmato del ROS sulla cerimonia di affiliazione alla Santa, la zona d’elite dove la ‘ndrangheta incontra i poteri forti che l’hanno aiutata a diventare grande nell’ultimo mezzo secolo, abbandonando per sempre l’etichetta di ‘mafia stracciona’. L’interesse verso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, procede per ondate.

Per giro d’affari oggi la ‘ndrangheta sarebbe la quinta azienda italiana. La scorsa primavera l’istituto Demoskopika stimava un fatturato pari a 53 miliardi di euro (66 miliardi di dollari). Nel nostro paese ci sono solo quattro società che possono reggere il confronto: ENI, ENEL, Exor e Generali. La ‘Ndrangheta SPA non conosce crisi se è vero che nel 2007, prima dei subprime, del tracollo di Lehmann Brothers e di tutti gli effetti che si sono rovesciati sull’economia reale, il suo giro d’affari era stimato in 44 miliardi di euro. Le ‘ndrine durante la crisi hanno aumento il fatturato del 20%. Quale altra ‘società’ operante in Italia può lontanamente avvicinarsi a questi risultati?

Eppure, solo fino ad una manciata di anni fa, esistevano ministri e prefetti che negavano la penetrazione al Nord delle ‘ndrine. Ignoranza o malafede? Qualunque sia la risposta uno dei risultati è il gap di conoscenza dell’opinione pubblica su come è avvenuta questa scalata. Vent’anni fa il pericolo si chiamava Cosa nostra, dieci anni fa libri di successo hanno fatto riscoprire all’opinione pubblica la potenza e la ferocia della Camorra. La ‘ndrangheta invece non ha conosciuto la stessa pubblicità. Un silenzio che le ha permesso prima di prosperare con il traffico degli stupefacenti, poi di infiltrarsi nell’economia reale avvelenandone i pozzi.

La quinta azienda italiana conta almeno 60mila affiliati, ma sbaglieremmo se limitassimo il numero degli ‘iscritti’. Il bacino delle connivenze è molto più esteso, nel mondo della politica, dell’imprenditoria e della finanza. E travalica i confini nazionali ed europei. Quando nel 2007 la faida di San Luca produsse la strage di Duisburg, i tedeschi dovettero rendersi conto di essere stati colonizzati. La ‘ndrangheta aveva iniziato ad acquistare immobili e attività commerciali in Germania un minuto dopo la caduta del Muro di Berlino. L’intelligence tedesca sapeva che le ‘ndrine operavano alla Borsa di Francoforte ed erano entrate in possesso di azioni Gazprom, il colosso russo del gas che verrà poi presieduto dall’ex cancelliere Schroeder.

In Italia ancora si vedono volti smarriti nell’apprendere che non esiste regione dove la ‘ndrangheta non ha messo radici. Non oggi, non ieri, ma 30-40 anni fa. Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia, Toscana… i clan calabresi operano dappertutto, da decenni. 

Prendiamo come esempio la Liguria, oggi al centro di polemiche per il dissesto idrogeologico. “In Liguria la ‘ndrangheta è arrivata negli anni Sessanta. C’era tutto: il porto, utile accesso per le rotte della droga, il casinò, ma soprattutto la Francia, con le sue coste a due passi da Ventimiglia” scrivono Antonio Nicaso e Nicola Gratteri nel libro Fratelli di sangue. Ventimiglia, porta verso la Francia e la Costa Azzurra, dove vengono arrestati i boss Paolo De Stefano, Domenico Libri e Luigi Facchineri. E’ anche se non soprattutto in Liguria che la ‘ndrangheta ricicla i suoi introiti illegali, nella terra in cui (dati Istat) dal 1990 al 2005 il territorio non cementificato è passato da 249mila a 135.570 ettari. Ventimiglia e Bordighera sono due amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni mafiose nel 2012. Non le prime al Nord, precedute da Bardonecchia (1995) in Piemonte. Qui, a dominare la scena fin dagli anni Ottanta, fu Rocco Piscioneri, sostituito poi dai clan Ursino – Macrì – Belfiore, originari di Gioiosa Ionica. Nel 1993 Domenico Belfiore venne condannato con sentenza definitiva per l’assassinio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, freddato il 26 giugno 1983. E potremmo andare avanti, regione per regione.

Come si diceva l’Italia si è presto trasfromata in un giardino troppo stretto per le ambizioni delle ‘ndrine. Sono diventati padroni del traffico di cocaina in Europa, grazie al rapporto privilegiato con i narcos colombiani (anche perché, a differenza di Cosa nostra, la ‘ndrangheta è stata solo sfiorata dal pentitismo). Secondo gli esperti la ‘ndrangheta è l’unica mafia davvero globalizzata, operante in tutti i Continenti, da decenni (leggi il nostro articolo dello scorso 12 febbraio). In Spagna, ventre molle dell’Europa per l’accesso degli stupefacenti provenienti dal Sudamerica, nell’Europa dell’Est, dove le ‘ndrine hanno investito una volta caduta la cortina di ferro, in Olanda, nel Regno Unito, in Svizzera e Austria.

In Libano le ‘ndrine di Siderno commerciavano eroina già negli anni Ottanta, per lo stesso motivo in Turchia le cosche di Platì si interfacciavano con i Lupi Grigi, dove militava Ali Agca, protagonista dell’attentato a Giovanni Paolo II. In Africa i regimi corrotti in Ghana, Liberia e Guinea-Bissau sono stati luogo di transito ideali per immense partite di cocaina. In Canada Rocco Perri fece affari d’oro negli anni del proibizionismo con Al Capone e Joseph Kennedy (sì, il padre di JFK), In Australia le ‘ndrine fanno sparire per sempre l’attivista Donald Mackay, che osò sfidare i capibastone della zona (Trimboli, Scarfò, Sergi).