Vai al contenuto

libri

Brucia Rozzano

Non sottovalutare i segnali. Mai. A Rozzano succedono cose così (dal blog di Marco Masini):

Mercoledì sera scorso, via glicini, nel pieno del quartiere Aler, è diventata la piazza di un evento che si fatica a definire casuale, anche perché seguito, a pochi giorni, da minacce al segretario di un partito locale e dalla rinuncia alla rappresentatività di una coalizione, in opposizione al Pd. Tutti fatti che sembrano decisamente collegati dalla sequenza temporale e dalle loro conseguenze.
L’auto del portavoce di una lista civica locale che si era schierata con la maggioranza nel 2009, ma che poi aveva vissuto le vicissitudini di una frattura interna, con il passaggio di Domenico Anselmo e Giuseppe Coniglio in Forza Italia, è stata data alle fiamme durante la riunione della lista con modalità chiaramente riportate come di tipo doloso. L’incendio non è stato però denunciato, ahimè, complice l’impossibilità di un recupero assicurativo.
Si tratta di un evento ormai alquanto raro a Rozzano. Gli ultimi incendi che non poterono definirsi accidentali si devono far risalire ai fattacci legati alle dimissioni del consigliere Cuvello, del vice sindaco Rizza e che portarono gravi danni all’esercizio commerciale del primo e a quello del consigliere Anselmo nell’estate di tre anni fa.

La lista aveva manifestato apertamente il loro appoggio alla candidatura di Caterina Mallamaci, e, questo, sembra aver turbato alcuni equilibri. Non lo si sarebbe potuto dire se, nel giro di poco, non fosse avvenuto un successivo evento sospetto: quello legato ad una chiamata di minacce al segretario di Rifondazione Comunista, Giuseppe Eriano. Il tutto a poche ore dalla riunione della coalizione di sabato sera e dalle voci di rinuncia alla candidatura di Caterina Mallamaci della mattina successiva.
Uniti per Rozzano, con Rifondazione ed altri, si erano coalizzati per dar voce alla possibilità di una alternativa di centro-sinistra in alternativa a quella che si sta coagulando attorno al Pd di Agogliati. I risultati delle primarie hanno mostrato che, l’ipotesi prima fantascientifica, di una diversa rappresentanza di quel blocco politico, poteva essere intravista.

Speriamo ardentemente che a Rozzano non si debbano vivere situazioni che si manifestano tipicamente solo in territori legati alla criminalità organizzata, proprio nell’avvicinarsi di una importante scadenza elettorale che, stante le premesse, potrebbe andare a modificare sostanzialmente un blocco di interessi costituiti molto forte e con un vasto giro di legami.
Problemi che la città riteneva di poter dimenticare, e che ancora oggi cerca faticosamente di lasciarsi alle spalle, in virtù di mancata trasparenza e ad interessi poco leciti. Lo sgomento di chi è venuto a conoscenza dei fatti è totale, così come la volontà di denuncia a cui crediamo di poter aderire.
La nostra più sincera solidarietà ai vessati in questa storia. E speriamo che la rinuncia di Caterina Mallamaci non sia legata a questi fatti. Siamo comunque in attesa di una sua comunicazione.

 

Quando il libro era un luogo

Una bella riflessione di Marco Belpoliti su lettura tradizionale e lettura digitale:

Noi lettori – tu compreso – siamo diventati dei produttori di contenuti a pieno titolo. Di più: partecipiamo alla “co-creazione del valore”. Henry Jenkins ci ha scritto sopra un libro, Cultura convergente (Apogeo): si chiama “produso” (produzione tramite l’uso) o “wreading (writing + reading). Partiamo dalle tesi di Piper sul libro elettronico. Le elenco: 1) il libro elettronico, a differenza del libro tradizionale, tiene le cose fuori di sé; 2) la lettura digitale è sempre centrifuga; 3)il testo che si espande è diventato il nuovo standard; 4) la pagina digitale non è una finestra ma una porta. Ce ne sono altre, ma mi concentro su queste.

Primo punto: noi non possiamo toccare la sorgente delle lettere sullo schermo (il disco fisso elettromagnetico) senza distruggerla, mentre il libro è tutto lì, tra le nostre mani e possiamo anche stropicciarlo, farci delle “orecchie”; i testi digitali non si possono “sentire”. Secondo punto: nel Settecento i critici dei giornali dicevano: ma perché vi interessa leggere cosa succede in Svezia o in Polonia? Oggi sappiamo che tutto è diventato vicino.

Di più: centrifugo. Meglio: oggi l’esterno è definitivamente dentro. Dentro il nostro computer (il medium che uso ora per scrivere: scritto l’articolo con un clic lo faccio arrivare sul tavolo della redazione e con altri clic andrà in pagina, su carta, e anche on line, dove tu ora lo puoi leggere sul tuo supporto elettronico: niente è fuori, tutto dentro). Dice Piper: la proprietà transitiva domina il mondo. Ha ragione (non è il primo a dirlo: Baudrillard negli anni Ottanta). Terzo punto: è una conseguenza del precedente. Invece di usare la proprietà transitiva (il prefisso inter: internet, interdisciplinare, intermediale, parole obsolete) oggi siamo dentro, e abbracciamo. Dentro, ma espandendoci: leggere è un movimento centrifugo. I testi si estendono a dismisura, non c’è più neppure il libro a contenerli: sono ipertesti. Se navighi nel web, come suppongo, lo sai bene. Quarto punto: la pagina digitale non somiglia a una finestra.

Questo era il vecchio mondo. Il tablet su cui tu puoi leggere queste parole è solo un portone, un portale di passaggio. Lo dice anche Vanni Codeluppi in un recente libro (L’era dello schermo, Franco Angeli). Cita McLuhan e Baudrillard (“Si entra nella propria vita come si entra in uno schermo”). Secondo una ricerca, dice Piper, “più tempo passiamo a leggere su uno schermo, meno tempo passiamo a leggere ogni singola porzione del testo”: lo schermo induce a cogliere l’insieme, non le singole parti che lo compongono.

Parola antimafia: ‘nomi, cognomi e infami’ secondo Omnimilano Libri

La recensione di Omnimilano Libri dello spettacolo NOMI, COGNOMI E INFAMI:

fotoLa parola funziona contro le mafie. E’ questa la buona notizia con cui un Giulio Cavalli tra sedia Ikea e leggio esordisce nello spettacolo “Nomi cognomi e infami” in scena fino a domenica 16 marzo al Teatro Cooperativa di via Hermada. Quartiere Niguarda. La parola funziona? Allora insistiamo. Ecco quindi riproposta un’ora e mezza tra storie di persone “normali” diventate eroiche per contrasto con l’ambiente in cui si sono dipanate. Ecco un monologo che ha più della chiacchierata con amici e conoscenti uniti da interessi comuni. Uno certamente c’è: quello della denuncia, fatta con ironia ed intelligenza, con autoironia ed intelligenza, quelle che caratterizzano tutti gli spettacoli di Cavalli e che molti nel pubblico hanno esplicitamente cercato acquistando il biglietto per la serata. Cavalli è qualche metro sopra il pubblico, grazie al palco, ma è nel pubblico perché non c’è vestito di scena, non c’è scena, c’è un uomo che parla e vi guarda in faccia, vestito normale, un po’ illuminato dai fari, ma senza esagerare. Parla, gesticola, cammina avanti e indietro e racconta. Scava in quella che ormai è quasi storia, con incursioni di cronaca anche dell’ultimo minuto, giudiziaria e politica. Riesce difficile chiamarlo spettacolo, quello a cui si assiste in questi giorni al teatro della Cooperativa. Non è uno spettacolo e non vi si assiste, si ascolta e si partecipa, in primis per volontà di Cavalli stesso, si assorbe e si diventa, se già non lo si è, parte attiva, dialogante, anche solo annuendo, e coinvolta. Inutile cercare di assumere uno sguardo “da studioso del fenomeno” ascoltando Cavalli che “pigia” quasi solo sul tasto emotivo, solleticando indignazione e consapevolezza. Il tono dell’attore con la scorta, come lui stesso si “autodefinisce-autoironicamente”, non è quello cattedratico, è quello dell’amico o del conoscente. Complice l’ambiente ristretto e l’assenza di ghingheri. Nomi cognomi e infami, ha un titolo che non permetterà mai, purtroppo , di andare in scena senza argomenti, e Milano e dintorni sono generosi nell’offrirne, Cavalli non perde l’occasione per coglierli e rimbalzarli subito verso il pubblico impossibilitato ad illudersi che “qui la mafia non esiste”. Però, “noi in scena proviamo a ridere e disarticolare la nostra paura”.

Il saccheggio di Roma

Ancora sequestri di esercizi commerciali nel centro di Roma riconducibili alla ‘ndrangheta. Gli uomini della Dia hanno messo i sigilli a diversi beni immobili e società operanti nell’edilizia sia nel Lazio che in Calabria. Colpiti anche esercizi commerciali nel cuore della Capitale come il Caffè Fiume, famoso bar nei pressi di via Veneto. L’antimafia ha inoltre sequestrato autovetture di lusso e una concessionaria di auto a Vibo Valentia, oltre a terreni per un valore complessivo di oltre 7 milioni di euro.

Le indagini si sono concentrate su Saverio Razionale, considerato dagli investigatori “elemento di vertice della cosca Fiarè-Razionale, alleata a quella dei Mancuso di Limbadi, nel territorio di Vibo Valentia”. Razionale, 53enne di San Gregorio d’Ippona, è salito al vertice della cosca negli anni 80 dopo l’attentato in cui perse la vita a Pizzo (Vv) il precedente capo cosca Giuseppe Gasparro detto “Pino u gatto”. Dopo l’agguato Razionale era divenuto un punto di riferimento per tutte le attività dell’organizzazione: dalle estorsioni, all’usura, al riciclaggio, “oltre a essere coinvolto in alcuni gravi fatti di sangue accaduti nel territorio”. Trasferitosi a Roma nel 2005, dopo il suo arresto e la successiva scarcerazione, era riuscito a dar vita, nella Capitale, a una rete criminale specializzata nel reinvestimento di capitali illeciti in beni immobili e attività commerciali. Inoltre – secondo gli investigatori – la rete di razionale “è riuscita a infiltrarsi negli appalti tramite società di comodo”.

Mentre nella provincia di Reggio Calabria i finanzieri del Comando provinciale e dello Scico di Roma hanno sequestrato beni per 420 milioni di euro riconducibili a 40 esponenti delle cosche radicate nel reggino. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, hanno portato alla luce il forte squilibrio tra i redditi dichiarati e l’incremento patrimoniale registrato, negli ultimi 15 anni, dalle 40 persone coinvolte nella maxi operazione.

(via)

«Nomi cognomi e infami»: contro il “Potere” a colpi di sciabola [recensione di GM]

Recensione da GIORNALEMETROPOLITANO.

MILANO – Dice quello che pensa e pensa a quello che dice, Giulio Cavalli. Senza peli sulla lingua Cavalli, attore, scrittore, regista e politico milanese, apre uno squarcio su verità scomode, su personaggi dai mille segreti o dalle mille nefandezze. Coniugando, in un mix rigoroso, impegno civile e arte, coraggio e quel po’ di sapidità. Oppure tratteggiando eroi senza vocazione all’eroismo, modelli di virtù destinati a un ineluttabile sacrificio, tanto più meritevoli perché hanno operato in ambienti dove quieto vivere, egoismo e ipocrisia contrassegnano relazioni sociali ed equilibri politici.

Ecco perché vale la pena (ri)vedere questo «Nomi cognomi e infami», di scena al Teatro della Cooperativa fino a domenica 16 marzo. Per riprendere in mano la memoria. Per confessare verità amare e crude nel segno dell’ironia e della satira, riprendendo la plurisecolare tradizione dei giullari. Da Petrolini a Peppino Impastato, è evidente che il sorriso è l’arma più potente per sgretolare il potere. Anzi: il potere diventa prepotente perché non riesce più a governare secondo gli schemi consueti.

«Nomi, cognomi e infami» è un viaggio tra persone “normali” diventate eroiche per la pavidità che stava intorno al loro. Persone come lo stesso Impastato e Paolo Borsellino, Libero Grassi e Bruno Caccia, così stridenti rispetto a riti e conviti mafiosi che brillano solo per povertà culturale ed etica. Il monologo denuncia vergogne come il riciclaggio di denaro, la speculazione edilizia, episodi di mafia conclamati, che nessuno osa contestare.

Giulio Cavalli apre uno squarcio nella nostre angustie morali piccole e grandi. Soprattutto, testimonia che la paura può essere, se non schiacciata, almeno esorcizzata attraverso gli artifici propri degli antichi giullari.

di Vincenzo Sardelli

fino a domenica 16 marzo 2014

al Teatro della Cooperativa di Milano

 produzione Bottega dei Mestieri Teatrali

NOMI COGNOMI E INFAMI

di e con Giulio Cavalli

con il contributo di Next Regione Lombardia e Fondazione Cariplo-Etre

Teatro della Cooperativa (11/16 marzo 2014)

 ORARI: feriali h. 20.45 e festivo ore 16 –

PREZZI: intero 18 € – ridotti 13/9 €

www.teatrodellacooperativa.it – Via Hermada 8, Milano – tel. 02.64749997

Le paranoie di Pietro

Io proverei a buttare un occhio alle paranoie di Pietro Orsatti. Molto spesso le paranoie si rivelano infondate ma prese con il giusto dosaggio sono un buon esercizio di guardiania:

La risposta di Renzi arriva nel giorno in cui si tiene a Roma la conferenza nazionale sui beni confiscati di Libera. Roma, che sappiamo essere in un mare di guai sul piano finanziario e come molti fanno finta di dimenticarsi aggredita da decenni dal sistema politico-finanziario-mafioso e con tatto di guerra (con tanto di morti ammazzati) in corso da qualche anno per il riassetto degli equilibri criminali in città. Roma, guidata da un sindaco che ha alzato la voce contro il segretario del Pd e premier sul decreto “salva Roma” e che ha dovuto subire, per riuscire a trovare una via per non precipitare nel default, una ricetta amara, anzi amarissima, di dismissioni e di “commissariamenti di fatto” che toglieranno alla città e ai cittadini il pur minimo controllo sulle scelte del loro patrimonio e in particolare della liquidazione dei beni confiscati alle mafie (un terzo proprio nella capitale).

Partendo dal fatto che io non credo alle coincidenze, questo elenco di fatti mi lascia come minimo perplesso. Come le richieste del Pd (e non del governo) a Marino che sembrano un dictat di fonadamentalisti delle liberalizzazioni (senza privatizzazioni) dei beni comuni. Lo potete leggere qui .
Sono io che sto diventando paranoico o questa sembra una ben orchestrata operazione di marketing (politica e economica) e la liquidazione della parte relativa nella legge La Torre al riuso sociale dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose? Sono io che sono paranoico o il punto relativo a “i manager” della letterina del premier prevede la liquidazione del controllo pubblico sulle scelte amministrative della città? Sono io paranoico o, per come è formulato, il tanto sbandierato provvedimento sull’autoriclaggio è completa, totale fuffa? E ancora, sono io paranoico o la linea del Pd che vuole imporre a Marino la cessione di quote del trasporto pubblico a FS (che hanno di fatto liquidato il sistema di trasporto pubblico su ferro nel nostro paese puntando solo all’alta velocità) e alla francese Ratp è la svendita di una società già provata da parentopoli e sprechi e affari loschi negli ultimi anni? Sono io paranoico quando mi torna in mente che uno dei patrimoni immobiliari (aree dismesse) nella capitale sono proprio in mano all’Atac?

Processo Crimine: pene confermate in appello

Anche in Appello è stata riconosciuta la natura unitaria della ‘ndrangheta. Si è concluso nel tardo pomeriggio, in aula bunker a Reggio Calabria, il processo “Crimine” che vedeva alla sbarra 124 imputati arrestati nella maxi-operazione scattata nel luglio 2010 quando i carabinieri hanno stroncato i vertici delle famiglie mafiose della provincia reggina. Un’inchiesta legata all’indagine milanese “Infinito” che ha aperto uno squarcio sugli interessi della ‘ndrangheta in Lombardia.

Complessivamente il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Rosalia Gaeta, ha inflitto96 condanne e 28 assoluzioni. È stato condannato a 10 anni di carcere anche l’anziano boss Domenico Oppedisano, 84 anni, ritenuto il “Capo crimine”. Soddisfatto, al termine della lettura del dispositivo di sentenza, il procuratore Federico Cafiero De Raho secondo il quale “questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della ‘ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo”. “In Appello – ha aggiunto il procuratore – mantenere pene della stessa consistenza e in qualche caso riuscire anche ad aumentarle vuol dire che esistevano reali motivi di doglianza nei confronti della sentenza di primo grado”.

Con l’inchiesta Crimine il procuratore aggiunto Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò hanno svelato l’assetto della ‘ndrangheta. Certamente diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, non ci sono più un insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.

Il vertice è rappresentato dalla “Provincia” o “Crimine”, del quale facevano parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”. Infine, c’è il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella ricca regione del Nord Italia ma che dipendono comunque dalla Calabria dove la ‘ndrangheta è nata e dove si continuano a prendere le decisioni importanti come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Proprio come è stato per l’omicidio del boss Nunzio Novella, ucciso per le sue velleità separatiste.

Ritornando a don Mico Oppedisano, l’anziano non era certamente un capo assoluto della ‘ndrangheta. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009, in occasione della festa di Polsi, ma non poteva prendere decisioni autonome. Piuttosto era una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, sarebbe spettato il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose. Mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.

(click)

La bellezza secondo Peppino Impastato

Un pezzo da antologia del compagno di Peppino, Salvo Vitale:

L’altra sera Al festival di Sanremo, Luca Zingaretti ha ricordato Peppino Impastato ed ha citato una frase che si continua ad attribuire a Peppino ma che lui non ha mai detto. Già due imprenditori ne hanno fatto uno spot pubblicitario per sponsorizzare la vendita di una marca d’occhiali, arrangiando e rielaborando la frase. La commercializzazione del nome di Peppino ha fatto scattare una raccolta di firme, per il ritiro dello spot, che è già arrivata a 65.000 adesioni, al punto che, gli autori, hanno deciso di ritirare la trovata pubblicitaria. In tal senso uno di loro sarà a Cinisi il 7 marzo, nel corso di un’iniziativa per fare il punto sull’antimafia sociale oggi e su quanto è commercializzabile al fine di creare un’economia diversa da quella mafiosa. Zingaretti ha usato la versione “commercializzata” e non quella originale.

E’ il caso di rileggere interamente il dialogo che Peppino e Salvo (cioè io), dall’alto di Monte Pecoraro, fanno, guardando l’aeroporto di Punta Raisi, dopo la costruzione della terza pista:

PEPPINO: Sai cosa penso?
SALVO : Cosa?
PEPPINO: Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi
SALVO [ride]: Ma che dici?!
PEPPINO: Vista così, dall’alto … [guardandosi intorno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre … che è ancora più forte dell’uomo. Invece non è così. .. in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte … poi trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno ‘ste case schifose, con le finestre di alluminio, i balconcini … mI segui?
SALVO: Ti sto seguendo
PEPPINO:… Senza intonaco, i muri di mattoni vivi … la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione … e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste … nessuno si ricorda più di com’era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza …
SALVO: E allora?
PEPPINO: E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?
SALVO: ( perplesso) La bellezza…
PEPPINO: Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella scende giù tutto il resto.
SALVO: Oh, ti sei innamorato anche tu, come tuo fratello?
A conclusione del dialogo:
PEPPINO: Io la invidio questa normalità. Io non ci riuscirei ad essere così…

Andiamo invece a leggere lo slogan elaborato da due imprenditori, per pubblicizzare la propria marca d’occhiali:

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Lo slogan si chiude con la postilla: da un’esortazione alla bellezza di Peppino Impastato.

La frase è ben costruita, recitata in modo aggressivo, all’interno di un video con immagini efficaci sul degrado causato dalla civiltà del cemento. La “furbata”, o, se si preferisce, il colpo d’ala, sta tutto in quel “da”, che giustifica la rielaborazione di quanto presente ne “I cento passi” e il suo libero riutilizzo. Va puntualizzato che, quella del film non è una “esortazione alla bellezza ” e non è, una poesia. Ma non è nemmeno una frase di Peppino Impastato o a lui attribuibile. Posso tranquillamente dichiarare di non avere mai avuto con Peppino alcun discorso di questo tipo. Si tratta di considerazioni che gli autori della sceneggiatura del film, cioè Marco Tullio Giordana, Claudio Fava e Monica Zapelli, mettono in bocca a Peppino e a Salvo nel contesto di un discorso che, nel film, ritorna anche nella scena famosa dei cento passi:

“Cento passi ci vogliono da casa nostra, cento passi. Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar…alla fine ti sembrano come te: salutamu don Tanu, salutamu Giuvanni, salutamu Pippinu…… Io voglio fottermene…..noi ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente”.

E’ un contesto in cui lotta alla mafia diventa lotta contro l’abitudine, contro l’assuefazione, contro l’omologazione, ovvero contro quella “normalità” in cui Peppino non riesce ad entrare. Nulla a che fare con il deformante messaggio comunicato dallo spot, secondo il quale un occhiale è lo strumento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, quella della bellezza: se si tratta di un occhiale da vista esso restituirà la visione, più o meno corretta, della bruttezza realizzata dagli uomini, se di un occhiale da sole, esso offrirà particolari caratteristiche, cromatiche o di prospettiva all’interno della visione: ma anche in tal caso non è detto che la colorazione si configuri come bellezza, anzi, sembra essere un veicolo dell’inganno.

‘Ste fesserie…”

“ E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?”
In questo passaggio Peppino, anzi, chi parla per lui, pone un problema di fondo, ovvero quello del primato della bellezza sulla politica e sulla lotta di classe. Era questo il suo pensiero? Non credo. Per dei marxisti ortodossi come lo eravamo, lo strumento fondamentale che muove la storia è l’economia con le sue spietate leggi, la struttura, rispetto alla quale le altre cose, a cominciare dalla bellezza, dalla morale, dalle leggi, dalla religione, dalla cultura, sono sovrastrutture, cioè conseguenze, spesso inevitabili, della struttura di fondo. Il conseguimento di una dimensione compiuta dell’uomo è la inevitabile conseguenza di un momento di rottura degli equilibri del sistema, la lotta di classe, la mitica rivoluzione. Dopo, all’interno di una palingenesi dell’umanità, di una nuova fase senza disuguaglianze, all’interno di una società “in comune”, cioè comunista, si potranno leggere sullo sfondo dimensioni di bellezza e di serenità. Anticipare la fruizione della bellezza all’interno di un sistema brutale, come quello capitalistico, significa avallare strategie e strumenti che tendono a giustificarlo, a legittimarlo, a salvarlo. Non si tratta, quindi, di “fesserie”.

Quindi non c’è la volontà di far veicolare, in qualsiasi modo, il messaggio sulla bellezza, ma di usare il nome di Peppino in modo distorto e surrettizio, per attribuirgli una cosa che non ha mai detto e sulla quale pensiamo avrebbe avanzato seri dubbi. Ben più grave l’atto di una panineria austriaca che, alcuni mesi fa, ha messo in commercio una serie di panini dedicati a mafiosi o a vittime della mafia: nel panino “Don Peppino” si leggeva: “Siciliano dalla bocca larga fu cotto in una bomba come un pollo nel barbecue”. Per il resto non è il caso di gridare allo scandalo: oggi la commercializzazione di una frase, dell’immagine di un uomo illustre, del luogo in cui è vissuto, di qualcosa che gli è appartenuto, è una delle tante aberrazioni di una civiltà che, pur di venderti qualcosa, pur di conquistare un mercato, pur di stupire, è capace di truccare qualsiasi realtà per riproporla nel modo più suadente possibile, sino all’iperbole. E del resto, a voler sottilizzare, diventerebbero elementi di commercializzazione anche il film “I cento passi”, anche il vino con lo stesso nome, messo in vendita dalla cooperativa “Placido Rizzotto” di Corleone, che ha dato il nome di questo sindacalista a un altro vino, addirittura anche i miei libri su Peppino. Il muro divisorio potrebbe essere soltanto nel voler fare antimafia, ove ci sia questa intenzione, o nel voler far solo soldi.

A proposito di consumo di suolo e scelte coraggiose

Paolo Maddalena propone un rovesciamento della cultura dello ius aedificandi per una legge quadro che sia veramente coraggiosa. L’articolo vale la pena di leggerlo tutto perché propone un percorso culturale e legislativo. Certo ci vorrebbe coraggio. E ci vuole una politica che faccia politica.

Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.

Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.

E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere delle norme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.

La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.

Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.

L’articolo completo è qui.

La figuraccia sui libri

Io non so se sia più appassionante il duello Letta-Renzi fatto sulla radura dei voti che avevano deciso di volere tutt’altro e non so nemmeno se possa interessare che la “ripresa” di cui parla il Presidente del Consiglio stia assomigliando sempre di più ai “ristoranti sempre pieni” di Silvio Berlusconi, certo è che tra le mille incertezze di questa politica la figuraccia rimediata dallo stravolgimento della legge sulla detraibilità dei libri ancora una volta ci dice quanto la cultura sia una pezza da piedi da citare solo in campagna elettorale o al massimo alla cerimonia di insediamento. Perché non penso che vi sia sfuggito che quella che poteva essere una buona legge sia diventata carta straccia. Se vi è sfuggito non fatevene un colpa: ne hanno parlato solo i soliti noti e se volete farvene un’idea potete leggere qui:

Sembrava, prima di Natale, che questo appello fosse stato accolto, che la lunga noncuranza della politica italiana verso la cultura si stesse incrinando: il ministro Zanonato aveva proposto una legge che permetteva di detrarre il 19% sui libri acquistati fino a un massimo di duemila euro all’anno, di cui mille per i libri in generale e mille per i testi scolastici, legge approvata dal Consiglio dei Ministri, annunciata dal Presidente del Consiglio e definita dal ministro Bray una “decisione storica”. Copertura, 50 milioni (di fondi europei).

Era un primo segno, e aveva oltre al valore economico e simbolico, anche quello di accomunare nel libro tutti quelli che lavorano per crearlo, produrlo, stamparlo e venderlo. Perché quando un libro si vende, se ne avvantaggiano il lettore, il libraio, l’editore, lo stampatore e l’autore, tutti uniti in una catena che in nessun punto si può spezzare (parliamo del libro cartaceo, cui questa legge si riferiva). I lettori hanno cominciato a tesaurizzare gli scontrini, i librai a organizzarsi. Ma…

Ma il decreto, che ieri è stato incardinato in commissione Cultura dalla Camera dei deputati, da ieri è al senato e deve diventare legge entro il 21 febbraio, è stato depauperato e stravolto: modificata la destinazione dal lettore generico allo studente delle scuole superiori, ridotta la copertura economica a circa 17 milioni e la detraibilità da 2000 a 1000 euro, e identificato il libro come strumento scolastico. Infine sostituite le persone fisiche (i lettori) con gli ‘esercizi commerciali’, cioè i librai (per la sola vendita di libri scolastici).

Ancora una volta lo Stato italiano ha mostrato la propria indifferenza alla cultura, ai cittadini, alla parola data. Tre cose, il rispetto delle quali, mi sembra, formerebbe l’onore di una classe dirigente.