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La mia prefazione per “Grande Raccordo Criminale”

romadi Giulio Cavalli – 6 febbraio 2014
C’è qualcosa di peggio dell’ignoranza sulle mafie: l’indifferenza. L’abbiamo letto e sentito mille volte nei libri, nelle campagne elettorali, nei convegni e, se siamo fortunati, nelle cerchie di amici anche tra i discorsi da aperitivo. Eppure l’indifferenza che sta sopra Roma e il Lazio in generale è un’indifferenza come la trovi solo qui: ostile, arrabbiata, confusa, infastidita. Proprio mentre al Nord gli arresti e la società civile aprono finalmente una lucida discussione sulle mafie senza fermarsi alle negazioni e agli allarmi, mentre nel Sud sono centinaia i focolai di rivoluzione e bellezza, Roma cova silenziosamente le proprie braci mafiose come se fosse stata saltata a piè pari dalla scossa della consapevolezza nazionale.
Ecco perché questo libro di Floriana Bulfon e di Pietro Orsatti abbiamo il dovere (noi, cittadini di questo centro d’Italia) di farlo diventare essenziale: non c’è bisogno di previsioni o di sospetti poiché le mafie della Capitale sono già tutte nelle cronache quotidiane, tra gli articoli che nessuno vuole prendersi la briga di mettere in fila o tra le storie che troppo in fretta abbiamo deciso che sono terminate.

Grande Raccordo Criminale collaziona finalmente le famiglie facendo i nomi e i cognomi, andando a riprendere i protagonisti della banda della Magliana che si sono riciclati in anelli di raccordo con la criminalità organizzata, reinserisce i Casamonica in un contesto più ampio e smette (finalmente) di considerare Ostia un’enclave criminale apolide così come le confische del centro città romano come piccoli “avvertimenti” da sbattere in prima pagina per un paio di giorni. Serve tirare le fila, serve mettersi con dovizia, intelligenza e amore (perché c’è tutto l’amore che si potrebbe trovare in un romanzo sulla difesa della propria terra, in questo libro) a studiare, scriverne e farne parlare. Quando le mafie si attorcigliano tra politica, estremismi e pezzi di istituzioni diventano qualcosa difficile da raccontare e descrivere, cominciano a contare su un’impunità culturale oltre che troppo spesso giudiziaria: così le sparatorie in giro per la città, la condanna di Carmine Fasciani posto al 41bis oppure la colonizzazione dei bagni al lido di Ostia (senza dimenticare l’emblematico caso Fondi) non riescono a scuotere le coscienze soprattutto grazie ad una mancata coesione sociale sul tema (quella politica facciamo che per ora non ce l’aspettiamo nemmeno). Roma e il Lazio hanno bisogno di un’evoluzione consapevole e veloce, devono tirare le fila di un’antimafia sociale, politica e culturale che decida per davvero di mettersi in gioco per strutturare un presidio antimafioso di studio e di racconto che spalanchi gli occhi su una città sommersa tra le slot machine, i compro oro pubblicizzati finanche all’interno degli ospedali, le discariche come percolato della legalità, i bingo e il gioco d’azzardo che tengono lati interi di strade al limite del raccordo, di ipermercati che non hanno giustificazione di mercato e un’edilizia selvaggia com’è selvaggia l’edilizia al soldo del riciclaggio; poi c’è la droga (e finalmente se ne parla) che per chissà quali strani percorsi dell’informazione sembra diventa roba calabrese e lombarda dimenticando quanto la capitale sia snodo fondamentale per i commerci: droga finalmente riportata anche qui, dove l’attività giudiziaria la racconta sempre in transito; poi le minacce: negozi bruciati, uomini gambizzati, usurai fuori dai bar come nei sottofondi di qualche città sudamericana e invece si è appena di qualche chilometro in periferia. Questo libro è un primo fondamentale avviso: le mafie ci sono, stanno bene, godono di ottima salute e continuano a saccheggiare Roma per riciclare soldi, fare soldi e costruire alleanza. Se le mafie in un territorio stanno bene quindi significa che lo Stato (in tutte le sue forme da quelle politiche a quelle civilissime e sociali) non le combatte abbastanza o addirittura ha trovato l’accordo.
Per questo la speranza di questo libro è che si accenda qualcosa dopo, appena sfogliata l’ultima pagina, per riappropriarsi della propria terra e tirarla fuori finalmente da questo alone di incompetente nebbia che è scesa (o salita) fino a qui.

Tratto da: granderaccordocriminale.wordpress.com

* La prefazione di Giulio Cavalli al libro “Grande Raccordo Criminale” di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti per Imprimatur editore (marchio Aliberti Editore) in uscita nella seconda metà di febbraio

I lager nascono facendo finta di nulla. La lezione di Primo Levi.

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuoldireaccampamento,vuoldireluogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi.
Biagi, grazie a lei.

Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014

Tre proposte per mangiare i libri

Alessio Aringoli ne parla sull’Huffington Post. Personalmente credo che siano semplici semplici e attuabili per parlarne:

Primo. Consentire e sostenere un rapporto diretto fra scuole ed editori. Non gli editori scolastici (che si rivolgono agli insegnanti), ma tutti gli editori: grandi, piccoli e medi. C’è spazio e lavoro per tutti, visto che, a proposito di spread con la Germania, abbiamo 34 punti di gap da recuperare sull’indice di lettura (46 contro 80). E li possiamo recuperare, se lo vogliamo davvero. I ragazzi dai 14 ai 19 anni (l’età decisiva per stabilire se sarai un lettore) devono poter accedere ai cataloghi e comprare i libri facilmente, scegliendoli con libertà, anche a prescindere dal programma, con sconti molto alti e condizioni di favore. Le scuole non solo possono essere uno spazio d’incontro tra libri e lettori, ma sono il solo luogo in cui si può dare ossigeno ed energia realmente nuova a tutta l’editoria, e di riflesso a tutta la cultura (chi legge poi di solito va anche a visitare i musei, a teatro, ecc.).

Secondo. Nelle periferie e nei quartieri popolari della grandi città si devono costruire Case della Lettura, che siano dei veri e propri centri sociali pubblici, in sinergia con associazioni, comitati, cittadini.

Terzo. Ogni Regione italiana dovrebbe organizzare annualmente una Festa della Lettura, coinvolgendo nell’organizzazione editori, librai, realtà culturali del territorio. Eventi di forte impatto, a costi bassissimi (che si potrebbero pagare con il contributo di sponsor e degli operatori).

Se queste proposte (tra cui quella sulle scuole è la più importante) non si discutono ancora (nonostante tutto il settore editoriale sia in una situazione per molti versi disastrosa, e nonostante nel Paese ci siano centinaia di migliaia di disoccupati o sotto-occupati intellettualmente qualificati per i quali l’editoria sarebbe uno sbocco naturale, se non l’unico possibile) è perché – va detto con franchezza – poche realtà relativamente più forti preferiscono mantenere in piedi un sistema vecchio, chiuso e inadeguato (che, peraltro, presto o tardi verrà travolto da Amazon), nel quadro di un Paese in cui si legge pochissimo, pur di esercitare una posizione di oligopolio.

Si preferisce, insomma, detta brutalmente, un Paese ignorante e un’editoria povera, ma in cui si conservano posizioni di rendita più o meno durature, rispetto ad un’apertura alle possibilità di sviluppo
esistenti.

L’articolo completo è qui.

Minacciato e picchiato a Librino

Ieri mattina intorno alle 10:30 a Librino, il grande quartiere-ghetto alla periferia di Catania,  un nostro collaboratore che stava scattando delle foto al Palazzo di Cemento è stato circondato da sei uomini, minacciato con un’arma e picchiato. Gli hanno rotto un dente. Hanno fatto i nomi dei suoi familiari, su cui sembravano molto bene informati.

Luciano Bruno (un suo articolo, due anni fa, ha aperto il primo numero di questa nuova serie dei Siciliani) è di Librino e più volte ha pubblicato articoli sulla drammatica situazione di questo quartiere, abbandonato e lasciato in mano alla mafia. E’ autore fra l’altro di un pezzo teatrale di denuncia sul dramma di Librino, che è stato portato in giro in varie città d’Italia.

Invitiamo tutti alla massima solidarietà verso Luciano e alla massima attenzione e vigilanza su Librino.

Riccardo Orioles

I Siciliani

Vale la pena anche buttare un occhio ai commenti sotto l’articolo. Per farsi un’idea.

Aspettando il grande capo Rocco Papalia

rocco-buccinasco-interna-nuovaViale del Buon Cammino, civico 19. Carcere di Cagliari. Le due del 23 aprile 2011. Un uomo ha appena varcato il portone d’ingresso. In strada respira il profumo dei pini marittimi. Il sole lo colpisce agli occhi. Abbassa lo sguardo. Lo rialza. Si stringe nella giacca. Poi gonfia il petto. Si sente libero come non lo era più stato dal 10 settembre 1992, quando iniziò la sua vita da carcerato. Diciannove anni dopo, il primo permesso e una sensazione che aveva imparato a dimenticare. Oggi la vita ricomincia, il sangue torna a scorrere, la mente a ingranare idee. Ancora, però, non è finita. Il rientro è fissato per le undici di sera. Meglio non pensarci. C’è la famiglia da riabbracciare, progetti da far ripartire.

Fino al blitz di questa mattina, quella data ha scavato come un tarlo nella testa dei carabinieri di Milano. Sì perché quel signore non alto, ma robusto, il volto indurito dagli anni di galera, lo sguardo che ghiaccia lo stomaco, non è uno qualsiasi, ma il boss dei boss, il padrino rispettato che assieme ai suoi due fratelli per oltre vent’anni ha giostrato gli affari della ‘ndrangheta all’ombra del Duomo. Questo, infatti, è Rocco Papalia nato a Platì il 24 ottobre 1950. Un supercapo che dal suo fortino diBuccinasco, comune dell’hinterland milanese, ha programmato sequestri e traffici di ogni genere. Erano gli anni Ottanta. All’alba dei Novanta, poi, lo Stato reagì. Centinaia di mafiosi finirono in carcere. Negli archivi giudiziari quel blitz fu classificato sotto il nome di Nord-sud. A dare la stura le parole del pentito Saverio Morabito, ascoltate e trascritte da un giudice coraggioso, Alberto Nobili, e da un sbirro eroico, Carmine Gallo. Il resto è una storia, quella che traghetta Milano verso il terzo millennio, fatta di dimenticanze politiche, smemoratezze istituzionali e voglia di cancellare l’assedio mosso all’epoca dalla mafia più potente del mondo.

Il brusco risveglio una mattina di luglio del 2008. Di nuovo la cosca Barbaro-Papalia, ancora l’incubo di un’ammissione che si può tradurre in un titolo: Milano provincia di ‘ndrangheta. L’operazione Cerberus fa saltare il tappo. In quattro anni la Procura mette a segno centinaia di arresti, narrando di una Lombardia che si è fatta mandamento mafioso con le sue regole e i suoi riti. Decine di informative raccontano di colletti bianchi e politici collusi. I giudici condannano senza sconti. Eppure tanta solerzia investigativa ha intaccato solo la superficie di una infiltrazione molto più profonda e devastante. Ecco perché questa storia non riguarda il passato, ma il presente e il futuro. Una storia sulla cosca Barbaro-Papalia, sui suoi nuovi assetti, sul suo tesoro (mai trovato), e sugli affari: dal traffico dei rifiuti agli appalti pubblici. Una storia che parte (o riparte) da Rocco Papalia e dai suoi fratelli (Antonio e Domenico), che, pur ergastolani, da anni ormai hanno abbandonato i rigori penitenziari del 41 bis. Ma anche da un gruppo di colonnelli, oggi tornati liberi, che negli anni Ottanta, stando alle parole di un pentito, componevano “il governo” della ‘ndrangheta a Corsico e Buccinasco.

Così, per capire quanto quel 23 aprile 2011 abbia tenuto gli investigatori inchiodati per oltre due anni sul territorio di Bucicnasco,  basta scorrere le oltre cento pagine di un’informativa del 17 giugno 2011. Nelle prime pagine dell’annotazione, che ha dato inizio all’indagine conclusa oggi, i militari, ricordando le ultime inchieste che hanno colpito la cosca Barbaro-Papalia (Cerberus nel 2008 eParco sud nel 2009), mettono nero su bianco un ragionamento che inquieta: “Non vi è alcun segnale che si sia verificato un vuoto di potere. Oggi, per di più, s’inizia a intravedere il giorno in cui Rocco Papalia potrà tornare a Milano e fruire dei permessi; il primo gli è stato concesso a Cagliari (…). Nel frattempo, sono tornati in libertà membri autorevoli dell’organizzazione (…) membri la cui fedeltà alla cosca e a Rocco Papalia, in particolare, è certificata nelle condanne passate in giudicato”. E ancora: “Le innumerevoli attività investigative che, dagli anni Ottanta a oggi, hanno riguardato la cosca insegnano che essa, nonostante gli arresti, le tante e pesantissime condanne, è caratterizzata da una solida continuità di comando. E da un rispetto assoluto delle gerarchie. E’ una cosca che, proprio in ragione di ciò, non ha mai subito né faide né scissioni”. Una data per capire: 1983. Scrive il brigadiere Giuseppe Furco della locale stazione di Platì: “In merito alla posizione di capo indiscusso, con ruolo di prestigio anche sugli altri capi non vi è dubbio, infatti, che Domenico Papalia, fratello di Antonio e Rocco, cugino dei Barbaro soprannominati I Nigri, è tenuto in ottima considerazione”. Ecco invece cosa annotano i carabinieri nel 2011: “Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Giuseppe Furco scrisse quell’informativa (…) e gli equilibri, in seno alla cosca Barbaro-Papalia restano immutati”.

Corsico oggi. Un bar di via Salma. La storia riprende da qui e da una telefonata del 2011. “Sei al bar?”, chiede Agostino. “Sì”, risponde Michele. Il nastro delle intercettazioni registra. Il contenuto non è decisivo. Ai carabinieri serve per fissare nomi e luoghi della nuova pattuglia della cosca. Agostino, infatti, è Agostino Catanzariti nato a Platì nel 1947. Michele, invece, è Michele Grillo, anche lui platiota, anche lui classe ’47. Oltre all’anno di nascita, i due condividono l’appartenenza “al nucleo storico di ‘ndranghetisti che, alla fine degli Anni ’70, diede il via alla terribile stagione dei sequestri di persona in Lombardia“. Il 18 giugno 1987 Michele Grillo viene condannato a 18 anni per il sequestro di Tullia Kauten. Espiata la pena, oggi Grillo ufficialmente fa il camionista e vive a Casorate Primo, uno dei tanti comuni, a metà strada tra Buccinasco e Pavia, che rappresentano l’ultimo avamposto della ‘ndrangheta lombarda.

Di rapimenti è esperto anche Agostino Catanzariti. Secondo la ricostruzione dei carabinieri viene condannato per i sequestri di Angelo GalliAlberto Campari (1977)Giuseppe Scalari (1977),Evelina Cattaneo (1979). Il 24 maggio 1981 viene arrestato. In carcere ci resta fino al 2009. Quindi rientra a Corsico nella sua casa di via IV novembre dove finisce di scontare gli ultimi due anni ai domiciliari. Il 6 ottobre 1981, quando Catanzariti è in carcere da pochi mesi, la sua cella viene perquisita. Salta fuori un pizzino che i carabinieri riproducono integralmente nella loro informativa del 2011. “In quel pezzetto di carta – scrivono – si riesce a leggere: “Agostino Catanzariti capo, Rocco Papalia Supercapo”. Anche per questo: “Si ha motivo di ritenere che, nonostante la lunghissima carcerazione, egli sia tutt’ora personaggio autorevole”.

I luoghi in questa storia sono decisivi per cogliere affinità e rapporti. Ci sono i bar come quello di via Salma e come il Lyons di via dei Mille a Buccinasco, veri e propri “uffici dei Papalia”. Ma ci sono anche altri posti dove, secondo i carabinieri, la sola presenza è sinonimo di appartenenza. Uno di questi è il sagrato della parrocchia di San Silvestro. Qui il 30 aprile 2011 si celebra il funerale di un parente dei Papalia. I carabinieri ci sono, filmano, fotografano e scrivono: “È noto che nella ‘ndrangheta le cerimonie religiose (battesimi, matrimoni, funerali) sono occasioni sociali alle quali non è ammesso sottrarsi”. E in effetti l’album fotografico che ne viene fuori resta un documento importante per individuare i pretoriani della cosca. Agostino e Michele ci sono. Con loro i militari immortalano anche Natale Trimboli. Classe ’56, originario di Platì, Trimboli oggi vive a Zelo Surrigone. In passato è stato condannato a otto anni per armi e droga. Ufficialmente si occupa di movimento terra. Uno dei suoi figli assieme al pronipote di Catanzariti ha aperto un bar a Corsico in via Fratelli di Dio.

Alla cerimonia funebre, poi, compaiono altri due personaggi che fanno drizzare le orecchie ai militari. Quel giorno si vede Antonio Musitano detto Totò Brustia. Pure lui della truppa dei platioti di Buccinasco, Musitano fa 17 anni di carcere per l’operazione Nord-sud. Dal 2007 è libero. Di lui ha parlato a lungo il pentito Saverio Morabito: “Papalia si faceva coadiuvare da Antonio Musitano (…) Tra la fine dell’83 e dell’84 (…) Rocco Papalia si avvaleva della collaborazione di Musitano che si era rivelato un ragazzo sveglio”. Per molto tempo, racconta un investigatore, “è stato l’uomo di riferimento su Milano di Giuseppe Barbaro detto u’ Nigru”. Confermano i carabinieri nella loro informativa: “Antonio Musitano può essere considerato una delle figure apicali in seno alla cosca Papalia”. La riprova? “Il 27 maggio 2010, lo stesso Musitano accompagnò Rosa Sergi al carcere di Padova per un colloquio con il marito Antonio Papalia, fratello di Rocco”.

Funerali, ma non solo. I legami di sangue cementano il sodalizio. E come nella più rigorosa tradizione nobiliare, ci si sposa per elevare il lignaggio. Succede con Giuseppe Pangallo nato a Platì nel 1980. I compari lo chiamano Peppone. Oggi vive in provincia di Como assieme alla moglie Rosanna Papalia, figlia di Rocco. Dirà lei, intercettata durante l’inchiesta Marine della procura di Reggio Calabria. “Io stavo tanto bene con l’altro e mi hanno fatto sposare a te”. Definito “personaggio degno di attenzione”, nel 2005 viene condannato a 3 anni per droga, ma andrà assolto in Appello.

Questi sono i personaggi che vengono monitorati dai carabinieri di Milano. Eppure la storia non finisce qua. Negli ultimi anni, infatti, molti protagonisti dei maxi-processi degli anni Novanta sono tornati in libertà. Attualmente non risultano indagati e vivono da liberi cittadini nei comuni a sud di Buccinasco. Un lungo elenco dal quale spicca il nome di Paolo Sergi, boss di rango e cognato di Antonio Papalia. Al termine del processo Nord-sud incassò diversi ergastoli. Dal luglio 2011 vive in una villetta di Zibido San Giacomo con la possibilità di uscire solo poche ore al giorno. Suo fratello Francesco, invece, sconta l’ergastolo in carcere. Per tutti gli anni Ottanta ha gestito droga e sequestri ai tavolini del bar Trevi di via Bramante a Corsico. Il terzo fratello Sergi, Giuseppe detto Peppone, vive da libero cittadino e gestisce un esercizio commerciale a Corsico. Altro grande frequentatore dei bar-uffici della ‘ndrangheta è Antonio Parisi. Anche lui coinvolto nei maxi-blitz degli anni Novanta (condannato a 30 anni in primo grado), oggi vive a Buccinasco. Stesso destino per Diego Rechichi, ex luogotenente di Rocco Papalia, arrestato nell’aprile 2013 per traffico di droga. L’elenco è lungo. Ne fanno parte i fratelli Trimboli. Oltre a loro anche l’omonimo Domenico Tromboli, detto u Murruni, è tornato in libertà. In passato ha sposato una Papalia. Insomma, questa è la geografia. Un risiko fitto di protagonisti e comparse. Tutti in attesa del ritorno di Rocco Papalia, “il supercapo”.

(Un pezzo del solito Davide Milosa e dell’antimafia con nomi e cognomi come piace a noi da stampare e tenere in tasca)

Accreditarsi con un libro

La seconda cosa che Luca dimentica nel suo post è che in moltissimi casi scrivere un libro, un saggio qualsiasi, qualcosa che a malapena arriverà negli scaffali e che venderà forse qualche centinaia di copie per scomparire dopo pochi mesi, è una forma di accreditamento indispensabile in un numero molto ampio di ambienti culturali e professionali. Moltissimi oggi scrivono libri con questo unico pensiero e tutto sommato fanno benissimo a farlo. C’è un provincialismo formidabile in questo, non tanto dello scrittore in sé ma dei moltissimi che ti accreditano in società in quanto scrittore pubblicato. Con un tomo. Di carta. Nessuna pagina digitale, nessun ebook anche magnifico ti darà accesso ai piani bassi (e talvolta a quelli medi e perfino in qualche caso a quelli alti) del palcoscenico culturale nostrano. Se poi sei uno di quei pazzi che si autopubblicano in formato digitale allora passi direttamente nel girone degli sfigati per definizione. La targhetta scrittore (anche se il tuo libro non l’ha mai letto nessuno), quella di una volta, la mano che regge il mento nella terza di copertina e lo sguardo pensoso, sono il bagaglio minimo per essere accettato in società. Forse anche questo non durerà per molto ma per ora di sicuro un po’ funziona.

Mantellini in un suo post dimostra di essere avanti in un argomento che l’editoria non ha ancora intravisto.

Pippo Fava non amerebbe questo Paese

Pippo_Fava30 anni fa moriva ammazzato Pippo Fava. Oggi sono da leggere le parole (come sempre bellissime) del figlio Claudio nella sua intervista per L’Unità (qui) e riprendendo un articolo memorabile scritto proprio per I Siciliani dopo la sua morte. Perché quei ragazzi di Fava oggi sono una lezione che sarebbe meglio perseguire piuttosto che commemorare:

Un uomo

da “I Siciliani”, gennaio 1984

Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.

Però Pippo Fava non è mica uno importante.

Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.

Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.

«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».

«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».

La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.

Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…

Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.

Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.

Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.

La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.

La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.

E questo a Fava non va bene, e lo scrive.

La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;

e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.

La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…

– ok, avvocato, niente nomi –

… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.

Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:

«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».

I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).

Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».

Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.

Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.

D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.

Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».

«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.

Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.

A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:

«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»

«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».

La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su

«I Siciliani».

Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.

A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.

Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?

«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).

«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).

E quel signore, come si chiama quel signore là?

«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).

«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).

 

E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».

«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»

 

E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?

«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»

«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.

Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».

Ed è passato un anno.

C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.

E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.

«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…

Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».

Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.

Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.

Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.

Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.

Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…

Ma forse non gliene hanno dato il tempo.

***

E questo è tutto.

Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.

Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.

Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.

Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,

tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?

Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.

Se chiude Charta

Ho appreso con ritardo della chiusura della casa editrice indipendente Charta di Giuseppe Liverani e Silvia Palombi. Charta è un pezzo di intelligenza e di eleganza dell’editoria made in Italy (ne racconta la storia Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano qui) che ancora una volta non riesce a galleggiare in un mercato (e, se concesso, in un Paese) che non sembra più capace a vendere qualità. E la notizia è pessima: se in crisi economica nemmeno la qualità riesce a vedere la luce allora le strade possibili si riducono drasticamente perché con la chiusura di Charta non si acutizza semplicemente il già difficile mercato dell’editoria ma soprattutto “perde” un modo di intendere il lavoro. Basta leggere la lettera aperta di Giuseppe Liverani sul sito per capirlo:

head_italianCHARTA CHIUDE

Lettera aperta dell’Editore

Alla fine di dicembre, dopo 21 anni e mezzo Charta, casa editrice indipendente, verrà messa in liquidazione.

Potevamo trovare un modo più delicato per dirlo, più diplomatico, metaforico, girarci un po’ intorno, forse, ma è la verità nuda e cruda o, se preferite, pura e semplice, né più né meno.

Siamo sereni perché abbiamo fatto bene il nostro lavoro, eticamente e professionalmente; malgrado la crisi abbiamo accettato con coraggio la sfida della concorrenza radicandoci sul mercato internazionale senza ritagliarci piccoli spazi in patria, andando controcorrente. Abbiamo capito fin dal primo giorno che pensare in piccolo non sarebbe servito a nessuno.

Fino all’ultimo abbiamo difeso e esportato in tutto il mondo un autentico Made in Italy, un mestiere prezioso, un’eccellenza tutta italiana, un prodotto fatto di idee e qualità che dura nel tempo senza inseguire le mode.

Tutto senza aiuti istituzionali, peraltro -è bene dirlo- mai richiesti, e con le banche sempre più impegnate a tagliare finanziamenti, essenziali per produrre e continuare a esportare. Non solo, ma applicando interessi a volte da usura, come ormai non è più un mistero per nessuno. Senza contare i livelli di tassazione ormai asfissianti.

In questi giorni il ‘fuori tutto’ (la vendita speciale di libri a prezzi imbattibili riservata alla community di Charta) sta rendendo più lieve un momento decisamente difficile: la gioia di centinaia di persone, dagli adolescenti agli ultraottantenni, che affollano il magazzino per scegliere e portarsi via pile di libri ci irradia di energia e conferma che il nostro catalogo è estremamente vitale e pieno di long sellers in ottima salute.

Siamo contenti come bambini, forse come solo ai tempi della prima donazione a Cuba (Centro Wifredo Lam di L’Avana, 2008) quando i nostri libri diventarono una mostra itinerante che attraversando tutta l’isola ha reso felici migliaia di giovani che li hanno sfogliati, ammirati e attentissimi.

Non vi sarà difficile immaginare quindi con quale stato d’animo andiamo verso la fine di quest’anno.

Non ci lamentiamo per partito preso, siamo però consapevoli che aver prodotto ostinatamente i nostri libri in Italia, e nel rispetto della legge, ha impoverito le casse di Charta.

Non ci riconosciamo più in un mondo dove trionfa la finanza invece del lavoro e la competizione sconfina sempre di più nella concorrenza sleale e nel conflitto di interesse, come sempre più spesso avviene in Italia.

Non ci piace questo mercato sempre più distorto, diseguale, ingiusto e corrotto, in un Paese dove vivere e lavorare nella legalità sembra quasi un lusso per pochi utopisti, una fissazione romantico-sentimentale.

Non siamo rassegnati, siamo rattristati perché lasciamo questo mestiere, un’arte, in una situazione a dir poco imbarazzante.

Oggi affermo, senza rischiare di essere considerato un demagogo, che la nostra serietà e la nostra etica ci hanno lentamente ma inesorabilmente buttato fuori dal mercato.

Quasi tutti quelli che costituiscono la community di Charta saranno dispiaciuti, chi non ha letto dentro e in mezzo alle righe che da tempo lanciamo da questa e-mail si sorprenderà. Eppure più di una volta ci è sembrato di essere stati fin troppo espliciti.

Dal 14 luglio 1992 sono un bel po’ di numeri: anni, mesi, giorni, ore, artisti, autori, redattori, grafici, traduttori, correttori, litografi, cartai, tipografi, legatori, magazzinieri, corrieri, camion, treni, aerei, navi che hanno contribuito alla bellezza dei nostri 917 titoli (il 90% dei quali in inglese!) per centinaia di migliaia di pagine tradotte in quasi tutte le lingue del mondo e distribuite in tutti i continenti, dall’Irlanda al Sudafrica, dalla Cina alla Nuova Zelanda, dagli USA al Cile.

Doveroso ringraziare tutti, dai soci attuali a quelli di un tempo, dai dipendenti ai collaboratori di Charta, quelli che si sono avvicendati in questi anni e quelli che hanno vissuto tutta la nostra avventura.

Doveroso ringraziare New York e gli americani tutti, che hanno creduto in noi, ci hanno accolto e riconosciuto per il nostro valore, mai come stranieri, in una terra piena di contraddizioni difficili da digerire ma con un’incessante voglia di fare e riuscire senza avere o pretendere santi protettori.

È la nostra buona reputazione, conquistata nel corso degli anni, che ha portato all’acquisizione entusiastica, da parte di svariate istituzioni culturali americane, delle donazioni di nostri libri, prima fra tutte la Library of Congress di Washington dove sta trovando casa l’intero nostro catalogo.

Charta Books non è stata una sigla di comodo ma una società sana e attiva che è cresciuta sui mercati internazionali fino ad approdare in Cina, lungo la via della seta… attirando, anno dopo anno, ingenti investimenti stranieri verso il nostro Paese.

Prima di salutarvi ci teniamo a dirvi due o tre cose: stiamo lavorando ad alcuni titoli nuovi che usciranno nel corso dei primi mesi del 2014; le donazioni a istituzioni culturali proseguiranno anche nell’anno nuovo; un container con diecimila volumi partirà alla volta di Cuba; il ‘fuori tutto’ proseguirà nella nostra libreria Charta Books di via della Moscova 27 fino a tutto febbraio.

Infine è di questi giorni un riconoscimento importantissimo che ci onora e riempie di orgoglio, e che forse ci siamo meritati col nostro impegno editoriale senza confini: l’acquisizione dell’intero catalogo da parte dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia.

Charta è una bella storia scritta a più mani che come tutte le storie ha un inizio e una fine, i nostri libri continueranno a raccontarla.

Giuseppe Liverani