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(da CAFFENEWS) “L’innocenza di Giulio”: con Cavalli va in scena lo spettacolo della verità

caffenews_header-e1324575753811E’ una storia di ombre calpestate, quella portata in scena da Giulio Cavalli al Teatro Civico di Caserta lo scorso lunedì 4 novembre. La storia fatta di verità soffocate, che i libri, ligi a una visione parziale e rassicurante, mettono educatamente a tacere. E’ la messa in scena “maleducata e rissosa” di un viaggio che percorre un ventesimo secolo tutto italiano, quella “favola strana” che narra un’eterna storia d’amore tra Stato e Mafia in una conseguente e paradossale inversione di ruoli, con “i cattivi che bussano al citofono di Andreotti e i buoni che muoiono ammazzati per terra”.

E il protagonista è proprio il Divo, Giulio Belzebù, il Papa Nero. Ma soprattutto Lo Zio, lo Zù Giulio del processo palermitano. Un “punciutu”, secondo il pentito Leonardo Messina, ossia un uomo d’onore sotto giuramento, un protetto, un “amico degli amici”.

Andreotti è stato indubbiamente una delle figure più influenti e, allo stesso tempo, più controverse dell’immaginario politico italiano degli ultimi sessant’anni. Sono innegabili i suoi rapporti “amichevoli” con elementi di spicco di Cosa Nostra, o con personaggi indirettamente legati all’ambiente, come nel caso dell’Onorevole Salvatore “Salvo” Lima o dei due imprenditori Ignazio e Antonino Salvo, opportunamente messi in condizione di non nuocere al momento giusto.

Cavalli analizza con cura meticolosa, quasi maniacale, la cronologia di delitti che la criminalità organizzata ha collezionato con il tacito consenso dello Stato, in un’ineluttabile relazione che affonda le sue radici in una realtà italiana ben precedente a quella che ha visto l’ascesa di Andreotti nel nostro panorama politico.

La prima vittima “eccellente” della mafia è il banchiere Emanuele Notabartolo, assassinato nel 1893 sul treno che percorre la tratta tra Termini Imerese e Trabia.

A lui seguiranno innumerevoli personaggi i cui omicidi hanno tinto di rosso le cronache dell’ultimo secolo. Il giornalista Mino Pecorelli, l’Onorevole Pio La Torre, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fino ai più tristemente famosi casi del Giudice Giovanni Falcone e del magistrato Paolo Borsellino.

Con rara sensibilità istrionica, Giulio Cavalli pone come intermezzo tra tratti prettamente cronachistici e video documentari accompagnati dalla piacevole musica di Stefano Bellotti, sentite e patetiche  interpretazioni di un Andreotti intento a proclamarsi innocente nonostante i fatti affermino nettamente il contrario, senza negare al pubblico quella malcelata e amara ironia che contraddistingue i suoi spettacoli. E ancora, in un impeccabile siciliano, si cala nei panni di un Tommaso Buscetta collaboratore di giustizia, intento a chiarire la natura dei rapporti tra il Divo e Salvo Lima, di Baldassare “Balduccio” di Maggio che descrive gli incontri avvenuti tra Andreotti e il Capo dei Capi Totò Riina.

La musica narra, descrive e accompagna lo spettatore, supportando la figura solitaria dell’attore sul palco. Il monologo incalzante, litigioso, caratterizzato da un tono che non ammette repliche, esprime la rabbia di chi è costretto a vivere sotto scorta per amore della verità, dinanzi a uno Stato che dovrebbe per definizione garantire protezione e sicurezza, in quanto sinonimo di collettività, e che invece “se ne lava le mani”.

Ed è proprio quando lo spettacolo si avvia alla chiusura, quando quella malinconia fatta di consapevolezza comincia a serpeggiare tra le file del pubblico, che Cavalli chiude, ancora una volta, con un testo di sua composizione, intitolato “Il sorriso di Bruno Caccia”. E’ un monologo che tiene vivo un esile filo di speranza. La memoria, il ricordo di chi è stato costretto a rinunciare alla propria vita, sopravvive, e senza censure.

Un ultimo saluto al pubblico, poi le luci si spengono, la sala si svuota, gli spettatori abbandonano i loro posti con la consapevolezza che l’innocenza senza sottintesi di chi ha combattuto per la verità non si cancella, ed è quella più autentica. Anche se, purtroppo, non è sempre quella che conta.

Da caffèNews

Le strane priorità e i conti che non si mangiano

L’industria culturale vale di più di quella automobilistica. Lo sostiene un nuovo studio di EY (ex Ernst&Young) commissionato dalla Saicem, la Siae francese. Per la prima volta è stato calcolato l’intero fatturato del settore, sommando tutte le varie attività, dall’arte alla musica, dal cinema al teatro, l’architettura, l’editoria e persino i videogiochi. E il risultato è sorprendente: ben 74 miliardi di euro di fatturato, il 4% della ricchezza nazionale prodotta. Contrariamente a quel che normalmente si pensa, la cultura insomma pesa nell’economia molto più di settori come le telecomunicazioni (66,2 miliardi), la chimica (68,7 miliardi) e la produzione di automobili (60,4 miliardi). Anche dal punto di vista occupazionale, è un comparto che crea non pochi posti di lavoro: 7,1 milioni di persone impiegate nel settore, il 5% della popolazione attiva.

E’ una galassia di attività e imprese che va dall’enternainment all’informazione, con forti disparità al suo interno. Il fatturato più alto (19,8 miliardi) è nelle cosiddette “arti visive e plastiche”: dal grafismo, alla foto, all’architettura e il design. Al secondo posto (14,9 miliardi) la televisione, al terzo (10,7 miliardi) l’informazione tra giornali e newsmagazine. Poi vengono la musica (8,6 miliardi), lo spettacolo dal vivo (8,4 miliardi), i libri (5,6 miliardi), i videogiochi (5 miliardi), il cinema (4.4 miliardi) e la radio (1,6 miliardi).

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Ti racconterò tutte le storie che potrò

ti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroIn quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.
Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta,  niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”.
Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.
* * * Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.
Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università».
Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.
Alle feste, guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco».
* * * Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”.
* * * Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido».
* * *L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.
* * * Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini  delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.
Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

Tratto da: “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo
(Editore Feltrinelli, € 18.00, pagine 224, IN USCITA IL 6 NOVEMBRE 2013)

Ciao Salvatore Coppola

coppolaE’ morto Salvatore Coppola, editore indipendente nell’accezione più pura. Ho avuto l’onore di essere pubblicato nei suoi “pizzini della legalità” anni fa, in quella sua collana che voleva rispondere ai pizzini di Provenzano con i pizzini che sanno di letteratura. Nel suo lavoro ci vedeva tutta la missione di un editore che vuole migliorare il proprio paese e in fondo, per la sua giusta parte, ci è anche riuscito.

Come gli scrive Pietro Orsatti:

Sei stato l’ultimo editore, pezzo di mondo freack e impegno civile. Figlio degli anni ’60, ma senza quella patina ideologica che ci ha rotto a tutti abbondantemente i coglioni. Hai amato i libri che hai pubblicato come figli, la carta su cui li hai stampati come pelle di un’amante, l’inchiostro come sangue che è possibile versare quando ne vale la pena.

 

Per il nostro bene

9788861903814_per_il_nostro_bene_3dbPER IL NOSTRO BENE è il libro sui beni confiscati di Ilaria Ramoni e Alessandra Coppola edito da Chiarelettere. Devo fare una precisazione importante: Ilaria è una delle persone più preparate, appassionata e appassionante sul tema antimafia che io conosca. Naturalmente scrivere un libro sui beni confiscati senza cadere nella retorica buonista dello scippo allo scippatore ma con la schiena diritta di chi sa e conosce un ideale antimafioso che stenta da troppi anni in Italia non è facile. Sulla questione dei beni confiscati abbiamo assistito in questi anni ad un lento e costante percorso di  mitizzazione che non rende giustizia alla realtà: basta una casetta minuscola di un insulso mafioso per fare del sindaco e o del prefetto di turno un eroe da fotografare con taglio del nastro, commozione e millanterie da intervista: roba da marchettari, cose così.

PER IL NOSTRO BENE entra invece a piedi uniti (e con preparazione giuridica, finalmente) sul ruolo mancante troppo spesso da parte dello Stato nella rivitalizzazione dei beni sottratti alla mafia e sulle tortuosità burocratiche di un cammino che troppo poco arriva a buon fine. Confiscare un bene non è solo sottrazione materiale alle mafie ma dovrebbe essere (e spesso non è) uno dei passaggi di un disegno globale di lotta al crimine e di crescita dell’economia legale del Paese. Per farlo avremmo dovuto avere una classe dirigente all’altezza del progetto che sventolava, e non è stato così. L’Agenzia Nazionale per la gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati non ha avuto (e non ha) i mezzi per diventare davvero il cuore e il cervello delle rinascite nei territori e troppo spesso alle associazioni o agli amministratori che hanno ricevuto il bene abbiamo chiesto di essere eroi senza nemmeno riuscire a guidarli e garantirli. Così oggi il tema del bene confiscato rimane buono sul piano ideale per le scolaresche ma fallisce sul piano imprenditoriale e ancora sentiamo dire che “la mafia almeno dava lavoro e pagava gli stipendi”, come ai tempi di Caselli con Andreotti.

Il libro è un manuale delle cose sbagliate che ha il coraggio e il cuore di non invitare al pessimismo ma alla consapevolezza costruttiva. E l’antimafia e questa Italia hanno bisogno come il pane di libri così.

Ecco un estratto del libro:

La villa di Tano Badalamenti a Cinisi, la reggia di “Sandokan” Schiavone a Casal di Principe, l’enclave dei Casamonica nella periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills, proprietà di Michele Zaza, ’o Pazzo, re del contrabbando. E poi cascine di ’ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli, alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi. L’inchiesta di Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni.

La serata è tersa, la brezza leggera. Capri è così nitida che quasi si distinguono i profili delle case. Ci fosse la luna, da qui, sopra Posillipo, si vedrebbero pure le onde del mare. Don Michele sorride: calma e buia, la notte ideale per un grosso carico.

Il terzo turno è il suo. Così è stato stabilito con i compari siciliani, e così racconterà il collaboratore Francesco Marino Mannoia: prima Tommaso Spadaro, poi Nunzio La Mattina, quindi gli scafi blu di don Michele, per ultimi gli uomini di Brancaccio. La «nave madre» attracca al largo, 35-40.000 casse per volta. Abbastanza per tutti, mafiosi e camorristi. In abbondanza per il più bravo, «’o Pazzo» che ha tenuto testa ai Marsigliesi e si è affiliato a Cosa nostra, ha venduto 5 milioni di chili di sigarette e fatturato 500 miliardi di lire. Il cuore matto perché malato, ma generoso per migliaia di dipendenti, sulle barche dipinte di blu come il mare o accanto alle cassette di frutta rovesciate a fare da tabaccherie clandestine. La testa fina, da guappo che capisce di commerci: «Usa ogni trucco per scaricare le sigarette nel proprio interesse, anziché in quello dei capi famiglia palermitani» racconta di lui, ridendo, Stefano Bontate a Tommaso Buscetta. Perché lo sanno tutti che nel settore è il numero uno, è lui «il re del contrabbando», don Michele Zaza, ’o Pazzo.

Questa villa è la sua. La terrazza sul mare, le piastrelle in cotto, le porte scorrevoli, la piscina. E poi, certo, anche il cancello blindato, le inferriate appuntite, gli appartamenti ricavati nel seminterrato per i suoi uomini, Attilio, Gennaro, Giuseppe «Biberon», le finestre strette e profonde che sembrano feritoie di un castello. Fortificato, ma chic: non per nulla si chiama La Gloriette. Gli altri rimanessero pure a Forcella o al Pallonetto. Don Michele ha orizzonti più ampi. Con i nipoti Mazzarella, controlla la costa da Santa Lucia a San Giovanni a Teduccio. Ma la moglie, Anne-Marie, è nata a Lione, e lui guarda alla Francia, a giri d’affari che varcano i confini. Una villa tra i ricchi napoletani, sulla collina di Posillipo, un’altra in Costa Azzurra, una terza su alture lontane, addirittura in California, a Beverly Hills.

Del resto, pensa don Michele, ha messo su un’impresa, ha rischiato e ha avuto successo. Se lo merita, pensa. L’ha spiegato anche alla tv: «Sono settecentomila le persone che vivono di contrabbando, che per Napoli è dunque come la Fiat per Torino. Qualcuno mi ha chiamato l’Agnelli di Napoli… Sì, certo, tutto potrebbe essere fermato nel giro di mezz’ora, ma per quelli che ci lavorano sarebbe la fine. Diventerebbero tutti ladri, rapinatori, borseggiatori. Napoli diventerebbe la città più invivibile al mondo. Invece questa città dovrebbe ringraziare i venti, trenta uomini che organizzano le operazioni di scarico delle navi di sigarette, quindi fermano la delinquenza». E si fanno ricchi.

Arriviamo a Posillipo dal Vomero, via Manzoni e poi via Petrarca, che su un lato sembra disabitata e invece nasconde un club esclusivo di ville, che nessuno vede ma qualcuno possiede, lungo le discese che portano al mare. Un’altra Napoli, verde e protetta. Alla portata di altre tasche.

L’appuntamento è al numero civico 50, accanto a un bar con terrazza e i sigilli di un sequestro, una vicenda diversa. Troppi soldi da queste parti perché siano tutti puliti. La guardiola del portiere con i vetri fumé, i parcheggi con le macchine di lusso, qualcuna provvisoriamente all’esterno, numerosi Suv, dicono ci sia anche una Bentley. Due ville del complesso sono ancora di proprietà dei figli di Zaza, convocati alle riunioni di condominio insieme alle associazioni che ora gestiscono la casa di papà.

Sono passati quarant’anni dalla stagione d’oro del contrabbando di sigarette, quando don Michele s’affacciava sul Golfo, quasi trenta dal sequestro, ma il fortino della Gloriette non ha ceduto: i mattoni di tufo sporgenti che simulano un bugnato, la terrazza che gira tutt’intorno con la vista perfetta da Punta Campanella a Coroglio, la piscina transennata ma in buono stato, il bassorilievo anni Settanta riemerso dietro un tramezzo, con figure di animali che sembrano simboli, un pavone, un boa, la sagoma di una donna senza volto. Ma anche una certa raffinatezza. In questo viaggio tra gli appartamenti e i gusti approssimativi dei mafiosi, un’eccezione.

Le chiavi le ha Aldo Cimmino: si è da poco laureato in giurisprudenza, con l’idea di preparare il concorso in magistratura, e collabora con l’associazione Libera. Entriamo dal garage nel seminterrato che alloggiava i «soldati» di Zaza, collegato al piano superiore da un cunicolo per le fughe improvvise. Stanze più piccole e buie, una dietro l’altra, le grate alle finestre, bagni, fornelli e il necessario per lunghi soggiorni.

Uomini armati e fidati sono indispensabili al boss. Col passare degli anni la faccenda del contrabbando si è fatta rischiosa. Sulle rotte delle «bionde» adesso s’innesta il più lucroso traffico di droga. E sulla scena criminale campana comincia a farsi strada la Nuova camorra organizzata di Cutolo. Zaza cerca una mediazione, ma nella sanguinosa stagione della lotta tra bande ha molto da temere. Il cuore malato gli regge a stento quando la polizia nell’81 lo blocca in auto, a Roma: immagina un agguato di cutoliani vestiti da agenti. È l’avvio di un decennio di arresti, ricoveri, evasioni e Costa Azzurra, ma con una salute sempre più incerta. Vincenzo Di Vincenzo, allora giovane cronista dell’Ansa, è l’ultimo a intervistarlo, nella villa di Villeneuve Loubet, nel ’91. Lo ricorda malconcio, in tuta da ginnastica, un’infermiera gli cala i calzoni per un’iniezione mentre lui parla: «Se rinasco un’altra volta – ride – mi metterei in politica». Intanto è ancora in affari, tra Nizza e Mentone ha fiutato il business dei casinò, lavanderie ideali per i suoi miliardi illeciti. Non farà in tempo. Catturato di nuovo ed estradato in Italia, morirà per un attacco di cuore nel tragitto tra il carcere e il Policlinico, a Roma, nel luglio del ’94, a cinquant’anni. Senza aver più fatto ritorno alla Gloriette.

Uno spreco. Quasi 140 metri quadrati seminterrati, più 200 del piano «nobile», più 800 di vialetti, terrazza, piscina e giardinetti. Ai quali si deve aggiungere un terreno di 11.000 metri quadrati pochi passi più in là, in uno dei posti più belli di Napoli, adesso occupato abusivamente da qualcuno nascosto nell’ombra. Una roulotte, degli stracci, un branco di cani che abbaiano rinchiusi in gabbie fatiscenti, quel che resta di una vigna, mangiata dalle erbacce, una traccia di pomodori. E ancora oltre, una selva incolta nella quale è difficile avanzare.

Diventerà un orto urbano, forse. Intanto, al piano di sotto della villa, Aldo ci fa immaginare una sala conferenze, una foresteria, uno studio di registrazione per Radio Siani, una sede di Legambiente e la segreteria di Libera, che dal dicembre 2010 ha la gestione del seminterrato. Sopra, dove ci sono terrazza e piscina, saranno montati gli scivoli per i disabili e sarà allestito un centro diurno «dedicato a persone con problemi di autonomia e integrazione sociale».

Confiscata in via definitiva nel 2001, La Gloriette in un primo tempo è stata mantenuta allo Stato (2005) per essere assegnata alla Questura di Napoli come sede del commissariato Posillipo. Trascorre un altro lustro, e non se ne fa nulla. Nel luglio 2010, la villa passa al Comune di Napoli, che affida il primo piano alla cooperativa L’Orsa Maggiore. Ci sono il progetto, i fondi per la ristrutturazione, già in parte avviata, l’idea di «una casa sociale in cui le persone si sentono accolte e riconosciute», ed è tutto spiegato in un sito web dettagliato. Navigando alla voce «eventi» nel pdf della brochure compare una nota a margine: «L’attivazione del Centro è attualmente sospesa per l’insorgenza di problemi tecnici relativi all’immobile».

Che tipo di problemi? «Di ogni tipo» sorride Fabio Giuliani. Già collaboratore dell’assessore alla Sicurezza Giuseppe Narducci (nella giunta de Magistris fino al giugno 2012), oggi nell’Ufficio nazionale per i beni confiscati di Libera, Giuliani conosce la questione da più punti di vista: «È il classico bene che non si sarebbe dovuto assegnare» ammette. Non prima di averlo liberato dai lacci, almeno. «Per il vincolo idrogeologico è intervenuto il Comune, che ha declassato l’immobile da R3 a R2», quindi l’ha sciolto. Resta l’abuso edilizio. Per il quale, a sorpresa, è venuta in aiuto la moglie di Zaza, Anne-Marie Liguori, in alcuni documenti italianizzata Anna Maria: «Per usufruire del condono si sarebbe dovuto fare richiesta entro 180 giorni dall’assegnazione da parte dell’Agenzia nazionale», possibilità sfumata. «C’era però la domanda di condono presentata dalla signora Zaza nell’89, che comprendeva un’oblazione pagata. L’amministrazione si è legata a quella e abbiamo risolto.» Manca il vincolo paesaggistico, «ma comunque abbiamo sbloccato l’ordinaria amministrazione».

«Due volte alla settimana si riunisce un gruppo di adolescenti con disabilità mentale» racconta la responsabile del progetto per L’Orsa Maggiore, Gabriella Bismuto. «E per i ragazzi che vengono da quartieri disagiati della periferia, abituati ad altri paesaggi, quella vista sul Golfo ha un potere terapeutico.» Nell’autunno del 2013 il centro dovrebbe avviare progetti più stabili. In futuro potrebbe addirittura nascere un’attività di catering e la villa potrebbe aprirsi a feste e banchetti organizzati dai «pazienti» dell’Orsa.

Finora resta, però, un recupero parziale. L’ex direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, Mario Morcone, che ha fatto la sua prima uscita pubblica proprio alla Gloriette (e si è dimesso nel giugno 2011 dopo aver perso le elezioni a sindaco di Napoli, battuto da Luigi de Magistris) dice apertamente che i lacci «erano tutte cose superabili velocemente dal Comune», che «c’era anche il finanziamento di Fondazione per il Sud» e che è «una vergogna» che, dopo le telecamere, i discorsi e gli applausi, la villa di Zaza sia rimasta per tre anni a prendere polvere e salsedine.

Alessandra Coppola è giornalista del “Corriere della Sera”.
Ilaria Ramoni è avvocata e amministratrice giudiziaria, esperta in legislazione antimafia.

 

Da IteNovas: A Macomer magistrale lezione di legalità con Giulio Cavalli

IMG_4284Giulio Cavalli ospite a Macomer per la XII edizione della Mostra del Libro, ha raccontato le mafie che logorano il nostro paese.

E’ stato un susseguirsi di nomi e cognomi, alcuni molto noti altri meno, altri ancora sconosciuti quelli attraverso i quali Giulio Cavalli, ospite ieri sera aMacomer per la XII edizione della Mostra del Libro, ha raccontato le mafie che logorano il nostro paese e si sono impadronite del Nord Italia.

E’ stato poi un susseguirsi di silenzi tragici e risate fragorose a fare da corollario al monologo di oltre un’ora che ha raccontato di “uomini di onore” e nuovi mafiosi in giacca e cravatta, di prefetti corrotti e politici indagati, ma anche e soprattutto dell’impegno costante di chi alle mafie non si arrende e le combatte quotidianamente. Uno fra tanti il magistrato Bruno Caccia, ucciso a Torino dalla ‘ndrangheta per le sue indagini ‘troppo concentrate’ sulle attività illegali sviluppatesi in Piemonte.

Come il giullare del ‘500, che incarna la verità del folle, che parla e diffonde verità occulte col rischio di finire impiccato, Giulio Cavalli percorre i teatri di tutt’Italia, scortato e minacciato di morte perché racconta verità scomode per tanti, con l’unica arma a sua disposizione: la forza della parola e del sorriso.

Dopo il lungo monologo, la serata dedicata alla “civiltà letteraria” si conclude con un breve dialogo tra Cavalli e lo scrittore Gianni Biondillo, dove l’attore con ironia racconta della sua esperienza di consigliere regionale di opposizione sotto la giunta Formigoni. A fine spettacolo un pubblico ammutolito, frastornato dalle risate amare ha lasciato la sala del padiglione Filigosa con molti spunti su cui riflettere.

Giulio Cavalli vive a Roma, nel 2009 è stato ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitanoche gli ha espresso solidarietà per la vita sottoscorta a causa delle minacce ricevute da cosche mafiose, che si sono ripetute anche di recente. Attore, regista, scrittore, le sue denunce da autore e da consigliere regionale (eletto come indipendente con Idv e poi passato a Sel) gli sono valse una minaccia costante alla sua vita e a quella dei suoi familiari, con gravi avvertimenti subiti anche di recente, da lui sempre puntualmente e coraggiosamente raccontati in pubblico.

Tra i suoi libri, Linate 2001: la strage, Nomi Cognomi e Infami e, nel 2012, “L’innocenza di Giulio”, sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia.

(da IteNovas.com)

Le intercettazioni dimenticate in traghetto

La ‘ndrangheta non ha bisogno di sparare, no. La ‘ndrangheta sarebbe solo un accolita di stronzi se non succedessero fatti che passano (troppo) in silenzio e che dipingono perfettamente il livello di collusione con ambienti altri che di mafioso non hanno nulla, ad occhi nudi.

Se il faldone delle intercettazioni di uno dei processi chiave in corso in questi giorni a Reggio Calabria viene “ritrovato” dimenticato su un traghetto, aperto, significa che tutto il lavoro della Procura è appeso ad un filo. Eppure il processo “Meta” è fondamentale per dimostrare che le grandi famiglie De Stefano, Tegano, Libri e Condello – messe da parte le rivalità della seconda guerra di mafia – hanno deciso di unirsi in una sorta di “direttorio” per controllare in maniera oppressiva ogni settore cittadino (e non solo).

Il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, all’apertura dell’udienza di ieri del processo “Meta” ne ha dato comunicazione: i quattro plichi “dimenticati” su un traghetto sarebbero stati trovati integri e solamente uno risulterebbe “aperto”. Quelle stesse intercettazioni, tra l’altro, guarda il caso, dovrebbero essere già state trascritte ma, guarda il caso, il compito non è ancora stato svolto nonostante l’incarico sia stato dato diversi mesi fa.

In un Paese curioso una notizia del genere rimbalzerebbe in ogni angolo. In ogni angolo.

Fare lo scrittore. Oltre che scrivere.

Ecco, vale la pena leggere il libro di Giuseppe Culicchia, E così vorresti fare lo scrittore. Ma sul serio e anche se non volete fare lo scrittore. Perché dentro c’è un modo di essere che può essere declinato in tutte le professioni.

Ora, dato che in Italia sono più quelli che scrivono che quelli che leggono, e ci mancherebbe visto che oggi come oggi siamo tutti creativi e non a caso in Toscana dedicano proprio alla creatività l’immancabile festival e sempre alla creatività è stato intitolato l’ultimo Salone del Libro, immagino dietro suggerimento di un creativo, forse anche tu stai per pubblicare il primo romanzo. O la prima raccolta di racconti. O la prima raccolta di poesie. O anche solo il primo racconto. O magari appena la prima poesia. Stai per farlo con la casa editrice Einaudi, firmando un contratto? Benissimo. Stai per farlo con un editore a pagamento, firmando un assegno? Malissimo. In ogni caso sappi che d’ora in poi, sia in privato sia in pubblico, potrai tirartela. Anzi no, dovrai tirartela. Se già te la tiravi prima, meglio: significa che sei naturalmente predisposto alla carriera intellettuale. Se invece non sei tipo da tirartela, vuol dire che dovrai imparare a farlo. Per come funzionano le cose nel dorato mondo delle Lettere italiane, infatti, ben presto imparerai a tue spese che solo e soltanto tirandotela verrai preso sul serio da critica, stampa, pubblico e dai famosi addetti ai lavori. Non a caso, chi pur pubblicando qualcosa non se la tira suscita sempre una grande diffidenza. Viene per così dire preso sottogamba, quando non del tutto ignorato anche da testate specializzate che in teoria dovrebbero almeno accorgersi della sua esistenza, magari recensendo il suo decimo romanzo. Chi non se la tira a dovere, peritandosi di usare non solo sulla pagina ma anche in occasione di interventi e interviste parole magari inutili e che però necessitano della consultazione del dizionario, suscita inevitabilmente commenti del tipo:

1. Ma come, ora pubblicano anche uno così?
2. Ma come si fa a pubblicare uno così?
3. Beh, se hanno pubblicato uno così, non vedo perché non dovrebbero pubblicare anche me.
4. Vorrei capire perché a uno così lo pubblicano, e a me no.
5. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza della società letteraria italiana.
6. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza del sistema Italia.
7. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza della civiltà occidentale.
8. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza del genere umano.
9. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la prova che Dio non esiste.
10. Certo che oggi in Italia pubblicano proprio tutti.

81sLpP+G+ZL._SL1423_Chi pubblicando qualcosa al contrario se la tira, non solo quando viene intervistato dai tiggì dopo aver vinto il Premio Strega o averlo perso per un voto ma anche mentre ordina un’insalata al ristorante, suscita immancabilmente un grande rispetto e una pari ammirazione, spesso accompagnati da una certa soggezione. E in genere provoca reazioni della serie:

1. E poi… scrive divinamente.
2. E poi… è così affascinante.
3. E poi… ha un gran carisma.
4. E poi… ha scritto tante di quelle frasi che a me piace sottolineare.
5. E poi… prima ha riscritto Omero, quindi ha rivisto Mozart, e infine dopo aver corretto Melville ha smontato Beethoven. Adesso, pare, dopo averci spiegato il mondo sta lavorando a un remix della Bibbia.
6. E poi… scrive editoriali lunghissimi occupandosi di pedofilia e globalizzazione e gite scolastiche e teatro molecolare e cinema quantistico e fisica coreana e meccanica napoletana e pizza sperimentale e arte della guerra e sindonologia comparata e.
7. E poi… ha detto che suo figlio di undici anni e Steve Jobs ragionano alla stessa maniera.
8. E poi… ha detto che anche se è tra i votanti del Premio Strega aveva comunque il diritto di votare se stesso al Premio Strega, e che se non ha vinto il Premio Strega per un solo voto, malgrado il suo voto, è solo perché il Premio Strega è in mano ai giochetti degli editori.
9. E poi… se n’è andato, così com’era venuto, senza salutare.
10. E poi… non ho capito bene che cosa volesse dire, ma avessi visto come lo diceva.

Per tirarsela come si deve basta aver scritto e se possibile pubblicato, meglio se non a pagamento, anche solo un romanzo, o una raccolta di racconti, o al limite un singolo racconto, o perfino una singola poesia. Riguardo alle vendite, che sono non di rado il primo pensiero di chiunque venga pubblicato, anche se di norma è più elegante assumere un atteggiamento di distacco riguardo all’argomento, è sufficiente attrezzarsi. Se si è venduto bene, benissimo: significa che finalmente anche il grande pubblico ha imparato ad apprezzare le opere di qualità. Se non si è venduto granché bene, bene lo stesso: significa che il grande pubblico non è ancora pronto per apprezzare le opere di qualità ma è sulla strada per farlo. Se non si è venduto per niente bene, male: ma l’Italia, si sa, è “un paese di merda”.
Tirarsela come si deve, tuttavia, non è cosa semplice. Bisogna essere profondamente insicuri di sé e allo stesso tempo prendersi molto sul serio, tanto da arrogarsi la libertà di spiegare il mondo dall’alto della propria intelligenza a lettori e commensali, dichiarando altresì la bontà della propria poetica e sentenziando l’irrilevanza di quelle altrui, se possibile in modo così lambiccato da escludere a priori ogni seria ipotesi di chiarezza. Inoltre occorre atteggiarsi a intellettuali, e perciò vestirsi prevalentemente di nero. Ma non basta. Per tirartela al meglio dovrai perciò tenere a mente alcune regole fondamentali e applicarle sia quando vai alla toilette sia quando vincerai il Premio Strega, o lo perderai per un voto.

1. Scegliere con cura i termini di paragone per quanto riguarda te stesso e la tua opera. I nomi migliori sono in assoluto quelli di Omero, Proust, Borges. Per darti un tono, cita Bolaño. Per fare sfoggio della tua cultura underground, cita Frank Miller. Per distinguerti ancora un po’ e fare sfoggio della tua trasversalità culturale, il collettivo Wu Ming. Cita sempre il compianto David Foster Wallace. Va da sé che per citare qualcuno non è necessario aver letto ciò che ha scritto.
2. A tavola con gli amici come sul palco dove stai presentando la tua opera, accenna come di sfuggita a tutta una serie di autori anche se non ti sei mai dato la pena di sfogliarli. Tra gli indispensabili: Baudrillard, Benjamin, Calvino, Deleuze, Foucault. Con Calvino in particolare si va sempre sul sicuro perché avendo scritto tra gli altri un libro intitolato Le città invisibili si presta a essere citato con grande facilità, a meno che non si sia autori di un romanzo, o una raccolta di racconti, o una raccolta di poesie, o anche solo un racconto, o appena una poesia, con ambientazione incontrovertibilmente agreste. Tra una parola e l’altra ricordati di ammiccare alla “leggerezza calviniana”. Ricordati altresì di citare il compianto David Foster Wallace.
3. Specie quando non sai che cosa dire, devi avere l’aria di soppesare con cura non solo le frasi ma anche le singole parole. In ogni caso, parla molto, molto, molto lentamente, anche per apprezzare fino in fondo il suono della tua voce. Cerca di imitare quella del compianto David Foster Wallace, anche se a dire il vero non l’hai mai sentita.
4. Ravvivati spesso i capelli. In assenza dei medesimi, punta tutto sullo sguardo. Uno sguardo alla David Foster Wallace.
5. Smetti di salutare. Chi? Tutti, tranne i critici che contano e i colleghi da cui ti aspetti una recensione positiva per l’ultimo libro che hai pubblicato visto che hai recensito positivamente il loro ultimo libro. Ricordati anche di salutare il tuo editore così da potergli telefonare a maggio per sollecitare il pagamento dei diritti eventualmente spettanti. Digli che comunque lo faceva anche il compianto David Foster Wallace.
6. Anche se stai cucinando una semplice pasta in bianco, approfittane per spiegare il mondo a partire da una semplice pasta in bianco a chiunque in quell’istante sia presente in veste di pubblico: mogli, figli, amici, gatti eccetera. Pare che anche il compianto David Foster Wallace amasse cucinare, del resto.
7. Accetta tutte le interviste, anche quelle sull’autenticità della Sindone o sugli ultimi sviluppi della politica siciliana, dando risposte a un tempo trasversali e apodittiche (avendo cura di accertarti, prima di darle, del significato del termine “apodittiche”). Nelle interviste, infila sempre il nome del compianto David Foster Wallace.
8. Partecipa a tutti i dibattiti di tutti i festival, da quello sulla spiritualità a quello sulla matematica, spiegando il mondo al pubblico. Ricordati di presenziare al dibattito vestito di nero da capo a piedi. Rammaricati per la scomparsa precoce del compianto David Foster Wallace.
9. Spara a zero sulla televisione. Ma fai di tutto per andarci, ovviamente a Che tempo che fa di Fazio ma anche a Ciao Darwin di Bonolis. Millanta di avere scoperto il compianto David Foster Wallace prima di chiunque altro.
10. Protesta con chi di dovere perché nella stanza all’Hotel Le Méridien, il cinque stelle del Lingotto, dove sei sceso in occasione del Salone del Libro non hai trovato i cioccolatini in omaggio visti nelle mani di altri autori anche meno famosi di te. Di sicuro comunque non se li è presi il compianto David Foster Wallace.

Poi certo devi tirartela, oltre che in privato davanti allo specchio magari provando e riprovando gli sguardi e le posture e i gesti più adatti, e in pubblico sopra un palco, anche in Rete, digitando su una tastiera, cosa che com’è noto si può fare anche in mutande. Prima di accendere il computer occorre però prendere atto che il Web è almeno in ambito letterario il regno assoluto del narcisismo, e che malgrado ivi abbondi il guano (lo sostiene Wu Ming 1 ed è obiettivamente difficile dargli torto), se vuoi passare per uno scrittore autorevole dovrai partecipare a più forum incentrati sul dorato mondo delle Lettere e sulle ricorrenti polemiche in merito a questa o quella presa di posizione di questo o quell’autore in merito a questo o quell’argomento, si tratti della possibilità di scrivere non più dopo Auschwitz ma dopo lo “spettacolare” attentato dell’11 settembre, di aderire o meno al manifesto letterario del momento, di sottoscrivere l’ultima raccolta di firme, ironizzando su chi usa a sproposito termini come “enallage” o “ipallage” e facendo notare en passant il fatto di aver discusso la propria tesi di laurea con Umberto Eco o comunque a Bologna. Non solo. Tieni a mente che occorre ribadire la propria esistenza approfittando di ogni occasione di visibilità digitale, si tratti di intrufolarsi in una discussione sul nazismo vero o presunto degli gnomi di Tolkien o di partecipare a un dibattito sul caso del fantomatico capitolo mancante di Petrolio di Pasolini o di esprimere solidarietà a Saviano malgrado l’invidia per il numero di copie vendute, medicata solo in parte dal fatto che Saviano vive sotto scorta da anni. Che si tratti di una discussione o di un dibattito, l’essenziale è rimarcare con ogni mezzo la propria superiore intelligenza e cultura ed erudizione, così da consolidare almeno virtualmente il proprio prestigio e quindi la propria carriera intellettuale senza badare al fatto che il fatturato di tutta l’editoria italiana è comunque inferiore a quello non della Ferrero ma di un singolo prodotto della Ferrero ossia della Nutella, anche se così facendo è facile trasformare il tutto in un litigio con gli altri partecipanti al dibattito o alla discussione, perché ciascuno è lì per rimarcare le proprie e consolidare eccetera. Salvo poi dirsi disgustati, a cena con gli amici o in veste di opinionisti su un qualche quotidiano, dalle risse televisive e dalla barbarie degli ultras.

Cavalli nel nome di Siani: “Le mafie patetiche come il potere, l’arte li combatte da 5 secoli”

1397417_10202324424539864_1842204189_o“Il Mattino”, 16 ottobre:

Ha ricordato Giancarlo Siani col sorriso, col volto luminoso «di tutti quelli che amano il proprio lavoro». «Ma – ha detto rivolto al fratello Paolo – ricordiamolo piuttosto, come tutte le vittime di mafie, nel giorno della sua nascita». Così Giulio Cavalli ha chiuso il ciclo di iniziative “In viaggio con la Mehari” al Pan alla presenza del sindaco Luigi de Magistris, di Paolo Siani, presidente della Fondazione Polis, del vice direttore del Mattino Federico Monga e del cronista Arnaldo Capezzuto. “Esercitare la memoria” è il recital con cui l’attore che vive sotto scorta dopo le continue minacce subite dalla ndrangheta, ha salutato il pubblico nel giorno del primo anniversario della morte di Lino Romano, vittima innocente della camorra ucciso un anno fa a Marianella. Cavalli, che una settimana fa ha dovuto sospendere lo spettacolo in programma al Nuovo Teatro Sanità perché qualcuno aveva nascosto una pistola nel suo giardino, ha ricordato tutte le vittime della criminalità: da Falcone e Borsellino ai magistrati meno noti come Bruno Caccia, alla testimone di giustizia Lea Garofalo, non trascurando con il suo inconfondibile stile satirico, figure chiave della storia politica e della mafia nel nostro paese. All’incontro anche il sindaco, che ha sottolineato la solidarietà del Comune di Napoli all’attore, che «oggi qui è libero di parlare col suo teatro. Ed è per questo che con Cavalli creeremo una grande mobilitazione contro le mafie, specie quelle più pericolose che sono all’interno dello Stato». La kermesse, che ha visto interventi, dibattiti e presentazioni di libri, è stata chiusa simbolicamente dalle note della canzone che il cantautore Nando Misuraca ha voluto dedicare a Giancarlo Siani, che «continuerà a camminare tra la gente con la sua Mehari verde». giu. co.

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Da IlDesk.it

NAPOLI – Ha calamitato l’attenzione della platea sin da quando ha deciso di rimanere in piedi, perché “qualcuno ha avuto la malaugurata idea di mettere un cuscino viola sotto la poltrona”. Ha cominciato così Giulio Cavalli, strappando un sorriso al pubblico del Pan, con il suo “Esercitare la memoria”, il recital che ha messo in scena nell’ultima sera di “In viaggio con la Mehari”. Intervenuto a chiusura del ciclo di iniziative in ricordo del cronista del “Mattino” ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, l’attore che vive sotto scorta per le ripetute minacce della mafia e della ndrangheta per il suo impegno civile ha snocciolato una serie di episodi e figure chiave che hanno segnato la storia del nostro paese negli ultimi trent’anni. “Una buona notizia è che la mafia si può combattere – ha esordito nella saletta del Pan – è una storia che ha 500 anni, che esiste da quando c’erano i giullari e i cantastorie della commedia dell’arte che parlavano della pateticità del potere”. Poi ha iniziato a parlare della sua odissea, di quella vita sotto scorta, che lo vede finire nel mirino della mafia nel 2005. “Erano gli anni in cui cominciavano ad apparire i primi gruppi di fans di Totò Riina, anni in cui andava in onda una fiction come “Il Capo dei Capi”, in cui si metteva in atto il reato di favoreggiamento culturale della mafia. Poi nel 2006 stanarono Bernardo Provenzano”, prosegue nel racconto fino a tirare in ballo uomini di potere come Giorgio Ambrosoli, Michele Sindona, Roberto Calvi. Tocca le corde del cuore Cavalli, quando ricorda Giancarlo Siani “col sorriso, col volto luminoso, quello tipico di tutti coloro che amano il proprio lavoro”, mentre a lato scorrono le immagini del giovane cronista e dei suoi articoli. Infine, un pensiero per i testimoni di giustizia, come Lea Garofalo, di cui sabato saranno celebrati i funerali a Milano, e di Lino Romano, vittima innocente un anno fa di un agguato di camorra a Marianella, a pochi passi da Scampia. Insieme a Giulio Cavalli sono intervenuti il sindaco Luigi de Magistris, il presidente della Fondazione Polis Paolo Siani, il vice direttore del Mattino Federico Monga e il giornalista Arnaldo Capezzuto. “Oggi Giulio è libero di parlare col suo teatro – ha detto de Magistris -. Ed è per questo che con lui creeremo una mobilitazione collettiva contro le mafie, specie quelle più pericolose che si insinuano all’interno delle istituzioni”. A chiudere la kermesse le note della canzone che Nando Misuraca ha dedicato a Siani.

 

Condannato Tagliavia per le stragi mafiose del 1993. Cosa vuol dire.

La corte d’assise d’appello di Firenze ha confermato l’ergastolo al boss Francesco Tagliavia, accusato di aver messo a disposizione il gruppo di fuoco per le stragi mafiose del 1993-1994 di Roma, Firenze e Milano. A differenza dei giudici di primo grado, in appello Tagliavia è stato assolto, così come fu per il boss Salvatore Riina, per il solo fallito attentato al pentito Totuccio Contorno, nell’aprile del 1994. Tagliavia, capofamiglia di Corso dei Mille, è in carcere dal 22 maggio ’93. Quando, nel 2010, la procura di Firenze ha ritenuto di aver acquisito nuove prove sul suo coinvolgimento nella stagione delle stragi, Tagliavia era già all’ergastolo per una serie di omicidi e per via D’Amelio. L

Ma c’è qualcosa di più interessante ancora in questa condanna: Francesco Tagliavia è stato indicato fra i presenti della “celebre” riunione di Santa Flavia (dove Cosa Nostra decise l’attentato a Firenze con gli scemi piegati su cartine e libri d’arte come in un film di Quentin Tarantino) dal pentito Spatuzza. Vi ricordate Spatuzza: quello che ci avevano detto che è un pentito che si inventa tutto, che non è credibile e tutto il resto?

Le accuse dei magistrati toscani hanno preso le mosse dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. “La sua attendibilità – ha commentato oggi il sostituto pg Giuseppe Nicolosi – è stata confermata”.

Spatuzza è una delle voci “chiave” sul Marcello Dell’Utri e la nascita di Forza Italia in Sicilia, per dire.