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Istanbul: a colpi di libri

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Istanbul. Un muro di libri a Taksim Gezi Park, contro la polizia. “Prendete un libro e leggetelo in faccia a un poliziotto”, questa è la consegna.

Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia

“Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia: scrivo per farvi sapere cosa sta succedendo a Istanbul da cinque giorni. Quattro giorni fa un gruppo di persone non appartenenti a nessuna specifica organizzazione o ideologia si sono ritrovate nel parco Gezi di Istanbul. Tra loro c’erano molti miei amici e miei studenti. Il loro obiettivo era semplice: evitare la demolizione del parco per la costruzione di un altro centro commerciale nel centro della città. Il taglio degli alberi sarebbe dovuto cominciare giovedì mattina. La gente è andata al parco con le coperte, i libri e i bambini. Hanno messo su delle tende e passato la notte sotto gli alberi. La mattina presto quando i bulldozer hanno iniziato a radere al suolo alberi secolari, la gente si e’ messa di mezzo per fermare l’operazione. Non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle macchine.Nessun giornale né emittente televisivaera lì per raccontare la protesta. Un blackout informativo totale. Ma la polizia è attivata con i cannoni d’acqua e lo spray al peperoncino. Hanno spinto la folla fuori dal parco. Nel pomeriggio il numero di manifestanti si è moltiplicato. Così anche il numero di poliziotti, mentre il governo locale di Istanbul chiudeva tutte le vie d’accesso a piazza Taksim, dove si trova il parco Gezi. La metro è stata chiusa, i treni cancellati, le strade bloccate. Ma sempre più gente ha raggiunto a piedi il centro della città. Sono arrivati da tutta Istanbul. Sono giunti da diversi background, da diverse ideologie, da diverse religioni. Queste persone sono miei amici. Sono i miei studenti, i miei familiari. Non hanno “un’agenda nascosta”, come dice lo Stato. La loro agenda è là fuori, è chiara. L’intero Paese viene venduto alle corporazioni dal governo, per la costruzione di centri commerciali, condomini di lusso, autostrade, dighe e impianti nucleari. Si sono ritrovati per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere dignitosamente come cittadini di questo Paese.”

Contare le donne

Conosciamo la loro storia cancellata, la raccontano i giornali solo quando è finita; le storie dei lividi sulla pelle e nel cuore ci sono sconosciute, spesso non riusciamo nemmeno ad intuirle negli occhi di chi ci sta accanto, eppure sono la maggioranza:  sono un abnorme 93% dei casi. Non è paura né condiscendenza, quella sostiene un silenzio così pesante. E’ sfiducia. Sfiducia nei mezzi di uno Stato che si sfalda, di uno stato sociale presentato come costo, pegola, palla al piede, nemico del deficit pubblico. Non c’è emancipazione possibile senza strutture di accoglienza per madri e figli, senza programmi specifici per l’occupazione delle donne, perchè libertà e dignità significa lavoro, che in questo Paese è un’altra vittima.

I sostenibili equilibri possibili tra costi, diritti, numeri e donne nel pezzo di Monica Bedana.

Franca Rame secondo Eugenio Barba

Ci sono maestri del teatro che si sanno raccontare così puntigliosamente solo tra di loro:

AMICIZIE DI UN ALTRO MILLENIO
DARIO FO E FRANCA RAME

Franca RameProprio perché non vuole e non può avere come bersaglio l’intimità e il mistero dell’individuo, ma la persona, l’uomo come animale sociale non può prescindere dalla posizione di coloro che ridono.
Il giullare che recita davanti agli uomini di potere, anche se li deride o li attacca, anche se non cambia nulla del suo repertorio, per il fatto stesso d’essere accolto o tollerato si trova in poco tempo trasformato dal contesto: non è più un giullare, diventa un buffone. Per mantenere la propria integrità è allora costretto a far scandalo.
L’arte dello scandalo (è infatti una vera e propria arte) ha un’escalation terribile, perché ogni vittoria è anche una sconfitta che obbliga a provocare nuovi scontri. Quindi conduce alla distruzione chi la pratica continuativamente. Dario Fo – come Grotowski – conosce molto bene l’arte e la tecnica dello scandalo. Per questo sa che dopo un colpo deve poter tornare nei propri territori, altrimenti si trova costretto o all’inefficacia divenendo accettabile, o a tirare un colpo dopo l’altro, fino ad esaurire i margini della tolleranza circostante.
Il comico riguarda la dimensione orizzontale della realtà, il che però non vuol dire che si limiti alla sua superficie. Non scava nell’individuo. Scava negli interstizi della società, nelle sue contraddizioni. Dario Fo ne era e ne è la dimostrazione vivente. Può esserlo, perché in termini professionali ha affrontato il problema dei contenuti e dello stile assieme al problema di piazzare il proprio teatro in ben precisi contesti, sfuggendo alla casualità che nel normale mercato teatrale regola l’incontro fra gli attori e gli spettatori.
Appena conclusa l’esperienza de La Signora è da buttare, Dario Fo e Franca Rame avevano abbandonato l’orizzonte dei grandi teatri, e cominciato a crearsi un proprio territorio teatrale indipendente. Volevano farsi capire, e quindi avevano scelto un contesto con il quale condividere, per lo meno in linea generale, l’orientamento politico. Avevano deciso di far spettacoli e tournées secondo le proprie regole, rinunciando agli agi e alle costrizioni dell’organizzazione teatrale predeterminata.
Il loro passare da un’orbita all’altra del teatro fu talmente mirato da apparire estremistico. Fu la scoperta che il teatro poteva vivere in condizioni assai lontane da quelle abituali. Erano quei mesi del 1968, ’69, ’70 che oggi vengono raccolti sotto l’etichetta generale del “Sessantotto”. Anche il teatro, è ovvio, ebbe il suo Sessantotto, a volte un terremoto profondo, dalle lunghe conseguenze, a volte solo una serie di vibrazioni velleitarie e superficiali. In quel panorama di mutamenti, la presa di posizione di Dario Fo e Franca Rame fu uno degli esempi più significativi, ebbe l’evidenza della concretezza, fu letteralmente un prendere posizione, uno spostarsi da un luogo all’altro. Recitavano nelle fabbriche, nei locali delle associazioni culturali e politiche, fondarono “La Comune”, che non era più una semplice compagnia, ma un gruppo che interveniva in appoggio alle fabbriche in sciopero e per la difesa dei perseguitati politici. […]

Ebbero coraggio. In seguito, quando Dario e soprattutto Franca subirono aggressioni e violenze da parte di neo-fascisti, quando furono sottoposti a controlli polizieschi e a minacce da parte delle autorità, il loro coraggio fu esemplare. Ma qui vorrei sottolineare, accanto al coraggio, l’intelligenza della loro presa di posizione. Chiaroveggenza da professionisti del teatro capaci di non restare prigionieri dei loro spettatori e di non lasciarsi incantare dai fiori di carta dei primi successi.
In fondo, è sempre una questione di ambizione: gli artisti coraggiosi e intelligenti sono tali perché hanno grandi ambizioni e non si soddisfano dell’ammirazione e del consenso che li saluta all’inizio della strada che hanno intrapreso. Non si accontentano di piacere. Vogliono incidere la memoria, la mente, le emozioni dei loro spettatori. Vogliono restare, non confondersi con la natura effimera degli spettacoli.
Talento e ambizione spesso non vanno d’accordo. Quando la seconda è sproporzionata la situazione non è così triste come quando si verifica l’inverso, ed un grande talento si unisce ad un’ambizione ristretta all’immediato. Allora si sente odore di tradimento. Tradimento di se stessi, spesso inconsapevole.
Per mostrare a quale destino Dario e Franca abbiano voltato le spalle, riuscendo a non tradire la propria lungimirante ambizione, debbo fare un passo indietro, tornare per un momento agli anni Cinquanta.
Ho detto d’aver incontrato per la prima volta Dario Fo a Ivrea, nel 1967. Ma non era quella la prima volta che lo vedevo. La prima volta fu Franca Rame, in realtà, a calamitare la mia attenzione e la mia ammirazione.
Nella primavera del 1954, avevo 17 anni e studiavo al collegio militare della Nunziatella a Napoli. Nelle vacanze di Pasqua stavo a Roma, dove abitava mia madre. Mio fratello volle invitarci ad uno spettacolo teatrale che i giornali definivano particolarmente raffinato. Era un cabaret francese in tournée, si chiamava “Contrescarpe”. Ci vestimmo eleganti. L’intero pubblico era elegante. Mentre aspettavamo l’inizio, un sussurro percorse la platea, tutte le teste si voltarono a guardare una coppia entrata all’ultimo momento: un giovane alto, dinoccolato, con il viso da ragazzo più buffo che bello, e una donna splendente di bellezza, dalla lunga chioma biondo platino, chiusa in un abito elegantissimo e ampiamente scollato. Sembravano sicuri di sé, lanciavano sorrisi e saluti, per nulla imbarazzati dalla curiosità che li circondava. Si muovevano in quell’ambiente come pesci nell’acqua. Chi era quella splendida giovane signora, così gentile e provocante? Gli spettatori eccitati e curiosi mormoravano due nomi: “Franca Rame e Dario Fo”. Non sapevo chi fossero. Mio fratello mi informò.
Avevano già salito i primi scalini della fama. Erano famosi nelle cronache del teatro, come molti altri il cui nome è svanito. La cronaca è molto lontana da ciò che fa storia.
Franca Rame era davvero una delle più belle fra le attrici che calcavano, in quegli anni, i palcoscenici del teatro cosiddetto “leggero”. Che faceva della sua bellezza, sulla scena? Il giovane regista e critico Flammio Bollini, che pochi anni dopo scrisse di lei sulla grande Enciclopedia dello Spettacolo italiana, nel decimo volume, quello degli “aggiornamenti” (il nome di Dario Fo in quell’Enciclopedia non c’era) notava l’intelligente contraddizione a cui Franca Rama sottoponeva la sua bella apparenza: “alta, procace, biondissima, la Rame sembra incarnare l’erotismo ottimista dei cartelloni pubblicitari, ma lo unisce ad un gusto sfrenato per la caricatura”. La definiva cosi: “un tipo, quasi una maschera, un Capitan Fracassa del sex appeal borghese”.
Sarà proprio lei, quel Capitan Fracassa, fra il ’68 ed il ’69, a trasformarsi in vera combattente, ed a spingere con particolare determinazione il teatro suo e di Dario fuori dal teatro “legittimo” e dalle sue cronache.
Quando Dario Fo ha ricevuto il premio Nobel, ha detto che premiava sia lui che Franca Rame. Non era gentilezza di marito e di compagno d’arte. Era, ancora una volta, desiderio di opporre alla storia superficiale del teatro la verità della sua storia sotterranea. […]

Sono passati più di 40 anni dalla prima volta che vidi, senza conoscerli, Dario Fo e Franca Rame. Dopo il Nobel del ’97 è scoppiata la letizia fra i teatri oscuri, quelli di cui non si scrive né cronaca né storia, che vivono fuori dell’orbita del teatro che Julian Beck chiamava, con un po’ di disprezzo, “rispettato”.
Benché Dario Fo sia uno dei vertici del teatro contemporaneo; benché venga insignito del Nobel per la letteratura, lui che non si considera certo un “letterato” e che molti non consideravano neppure meritevole dell’epiteto di “scrittore”; benché abbia ricevuto la nobilitazione più grande, molti attori dei teatri “senza nome” si sono sentiti implicati in prima persona, riconosciuti. Mentre dall’Odin Teatret spedivamo a Dario e Franca i nostri telegrammi esultanti, all’Odin arrivavano i fax di molti gruppi e di molte persone che abbiamo incontrato nei nostri giri, soprattutto dall’America Latina. Dicevano tutti più o meno la stessa cosa: è come se avessimo ricevuto il Nobel anche noi.
Dario Fo ha fondato una tradizione. Mistero buffo è uno dei testi contemporanei più rappresentato nel mondo. Compare a volte anche nei cartelloni dell’establishment teatrale, ma viene soprattutto rappresentato sulle piazze, tradotto in diverse lingue, adattato a diversi ambienti. È divenuto l’emblema di un modo di far teatro indipendente, colto e popolare allo stesso tempo, che permette all’attore di non asservirsi alle condizioni commerciali e di far teatro senza nessun altro strumento che il proprio bagaglio professionale. Il giullare, che fino ad alcuni decenni fa era una figura che si studiava nelle università e di cui si parlava nei libri, è divenuto uno dei punti di orientamento del teatro d’oggi, una potenzialità in vita.
Fondare una tradizione vuol dire lasciarsi “derubare”. Molti hanno “rubato” a Dario Fo l’invenzione di un teatro comico e pugnace che si sviluppa attraverso il racconto d’uno o di pochi attori e che non ha bisogno di niente, che si può fare dovunque, sui marciapiedi, in un’aiuola o in un grande edificio teatrale tradizionale. Molti gli hanno “rubato” il segreto di come mischiare clownerie e polemica, memoria storica e perorazione politica. E soprattutto hanno potuto servirsi della nobilitazione che la fama di Dario Fo ha conquistato per i generi di un teatro considerato “minore”.
Anche Dario Fo afferma di aver “rubato”. Confesso che questo verbo non mi piace applicato all’artigianato artistico. È un uso metaforico, ma mi sembra inutilmente denigratorio o autodenigratorio. Oppure venato di furberia, che è il peggior carattere della maschera dell’”italiano” in commedia.
Ma il verbo “rubare” Dario Fo lo usa molto frequentemente, non solo in quel titolo famoso Chi ruba un piede è fortunato in amore, ma soprattutto quando parla della sua esperienza e del suo apprendistato. Credo di intuire il perché: l’utilità del verbo “rubare” applicato al mestiere dell’attore consiste nel concentrare l’attenzione non sull’atto di sottrarre qualcosa a qualcuno (nell’arte, quando si prende da un altro non gli si toglie proprio nulla, di fatto), ma sull’azione di chi “ruba”. Come dire che l’attore deve saper scrutare i colleghi con maggiore esperienza non fermandosi alle apparenze, cercando di indovinarne le intenzioni e le ricchezze aldilà dei modi in cui esse si presentano, con la concentrazione, l’ansia, la tecnica e la profonda calma del pickpocket (come nel film con questo titolo di Robert Bresson), sapendo che dalla sua azione dipendono il suo sostentamento e la sua libertà.
Così, nell’orbita dell’arte, i risultati dell’azione del “rubare” non sono furti, ma invenzioni. È il connotato delle tradizioni “povere”, che non usufruiscono di scuole e di accademie e si basano sull’autoditattismo. […]

Ho incontrato molte altre volte Dario Fo, nel corso degli anni. È tornato ad Holstebro trionfalmente, e mentre una gran massa di spettatori applaudiva lui e noi dell’Odin che l’avevamo invitato, invece di godersi semplicemente gli applausi ha voluto ricordare al pubblico i primi tempi in cui ci aveva conosciuto, quando la maggioranza ci guardava con sospetto e ci rifiutava. È venuto alla sessione dell’ISTA nel 1981 a Volterra, in Toscana per spiegare e lasciarsi “rubare” i segreti dell’improvvisazione. Nell’84, quando è venuto a festeggiare con noi i 20 anni del nostro teatro, ha ricordato il valore della “resistenza”, di non cedere alla tentazione di smettere, quando tutte le mete che da giovani ci facevano sognare sembrano raggiunte. Ed altre, viste con occhi maturi, sembrano irragiungibili.
Ho potuto toccar con mano la forza della sua “resistenza” quando è venuto a Copenaghen, durante la sessione dell’ISTA, nel maggio del ’96, e doveva dire solo poche parole, non si doveva stancare, doveva aver cura del muscolo del cuore, che gli aveva dato recentemente avvisaglie di grave pericolo. Ma uno come Dario proprio non riesce a pensare al cuore come a un muscolo. Parlò, cominciò a spiegare, dalla spiegazione passò agli esempi, dagli esempi alla recitazione. Come al seminario di Holstebro vent’anni prima. Questa volta Franca ed io dovemmo salire in palcoscenico per fermalo. Alcuni dei presenti ci giudicarono male. Era impossibile vedere il dispendio di energie di quell’attore che sembrava lavorare in souplesse, come se recitare fosse per lui la cosa più facile, più naturale e riposante del mondo.
Sembrava il Dario Fo di vent’anni prima perché continuava ad inventare, a mutare. Ripeteva i suoi pezzi famosi e ripetendoli li variava. E passava a cose nuove, “fresche”, non ancora messe a punto del tutto.
Resistere significa non smettere di mutare.
La lunga carriera di Dario Fo è un lungo viaggio esemplare. Vediamo le tracce del punto di partenza, del teatro di “rivista”. E vediamo i punti di arrivo. Fra i due estremi vi è – circostanziata in azioni concrete, efficaci, sapienti di mestiere – la rivolta. In questo arco di storia ha eroso i confini fra il teatro scritto e il teatro orale, fra il teatro “minore” e il “maggiore”, fra il teatro “serio” e quello “buffo”, fra il pagliaccio e il testimone del proprio tempo. […]

Un numero vale l’altro, eppure non c’è niente da fare, l’imminenza dell’anno 2000 acquista un valore simbolico al quale è impossibile sottrarsi. In qualsiasi discorso sul futuro, in ogni programma per i prossimi anni, scivola fra le parole il termine “millennio” dove fino a poco tempo fa ci accontentavamo di “anno”. Quel numero 2000 spinge irresistibilmente a pensare in grande.
La storia del Novecento giustifica il fatto che pensando il teatro lo si pensi in grande. Mai come nel XX secolo, il teatro è stato così marginale fra gli spettacoli. Eppure questo secolo è una delle età dell’oro del teatro. L’oro in questo caso non è la bellezza, né la pace, ma il valore di una dissidenza. Mai, come nel XX secolo, il teatro è stato un luogo in cui nutrire la rivolta. Bisogna essere in grado di trasmettere la sete della rivolta e la tecnica della dissidenza nel prossimo millennio. Ne avranno bisogno. E come sempre accade agli assetati, sul principio non avranno la minima idea di come fare.
Programmo il lavoro del mio teatro come il lavoro di un fantasma. Cerco di fare in modo che il fantasma possa infiltrarsi in quel terzo millennio al quale non apparteniamo e che non possiamo immaginare. Il fantasma è il paradosso della presenza assente. Qualcosa di molto concreto, se si bada alle conseguenze.
C’è una tecnica, non solo una mitologia, del fantasma. Bisogna preservare il valore degli incontri che configurano la storia sotterranea del teatro.
Come fare in modo che altri possano ancora “rubare”? Si può “rubare” ai fantasmi?
Non era forse un fioco fantasma, quasi muto e trasparente, fino a poco tempo fa, la figura del giullare?

Eugenio Barba, 1997, DIDASKALIA

Intervista: Andreotti è vivo!

La mia intervista per Byoblu:

È morto Giulio Andreotti, e questo era prevedibile, perché la biologia è sicuramente l’arma più tagliente anche rispetto alla prescrizione giudiziaria. È morto Giulio Andreotti; io credo che però l’andreottismo in realtà sia in ottima saluta, a differenza di Giulio, e questa è una pessima notizia per l’Italia. Perché nella morte di Giulio Andreotti, in queste ore, in queste ultime 24 ore, si sta perpetuando quella macchina infernale che Andreotti è riuscito per primo a praticare, trovando degli ottimi allievi, in primis Silvio Berlusconi. Ovvero quello di dividere, fondamentalmente, l’aspetto dell’etica da quello giudiziario; e non solo: permettersi di mettere in discussione le carte giudiziarie manipolando la sentenza.

Cosa dice la legge italiana? Cosa dice la sentenza della corte d’appello [di Palermo] confermata poi in Cassazione? Che Giulio Andreotti ha dimostrato un’ampia disponibilità con la mafia fino alla primavera del 1980, cioè si è seduto con i più importanti uomini della Cupola mafiosa, ha ascoltato le loro richieste, e sicuramente ha preso delle decisioni – scientemente o no, questo lo deciderà la storia, e non la storia breve di questi giorni in cui Andreotti può permettersi di utilizzare anche da morto alcuni studi televisivi come suoi bidét, di questi suoi ululanti censori in continuazione – e ha preso delle decisioni che sicuramente sono state convergenti con gli interessi di alcuni uomini di Cosa Nostra. Questo cosa significa? Significa che noi in Italia, ancora oggi, non sappiamo che essere amico di un mafioso, non è un reato. E quindi se si riesce a spostare – come è riuscito Andreotti, come continuano a riuscire i suoi allievi – a spostare l’aspetto dell’opportunità sul campo giudiziario, be’, mai nessuno sarà condannato perché è amico dei mafiosi. Non sarà mai condannato perché – io credo – i nostri padri costituenti non avrebbero mai pensato che un popolo potesse sopportare e tollerare una classe del genere con amicizie del genere, provate. E poi perché la legge è stata, nel corso degli anni, sempre sfiancata da questo punto di vista per cercare di depenalizzare le amicizie, e per rendere sempre più difficile, dal punto di vista giudiziario, la prova certa di eventuali scambi di favore.

E allora cosa succede? Che noi abbiamo celebrato Giulio Andreotti come assolto, quando in realtà semplicemente è stato prescritto, cioè significa che dal punto di vista giudiziario il suo reato, che risulta commesso, non è punibile, perché è passato il periodo che lo rende, dal punto di vista giudiziario, punibile. In un Paese normale sarebbe stato punito dalla memoria; in questo Paese che di normale ha poco, invece, è stato premiato con il ruolo di senatore a vita. E oggi si piange un amico dei mafiosi come se fosse uno statista. Dimenticando, secondo, tutte quelle che sono le sue mediocrità: che non sono solo quelle di essere profondamente bugiardo – questo, diciamo, noi Italiani siamo abbastanza abituati a una classe dirigente che, per difesa, racconta delle enormi palle, rendendole assolutamente credibili soprattutto perché sparate dai cannoni  delle trasmissioni in prima serata e molto spesso da una stampa compiacente.

La cosa che a me colpisce più di tutte è che Andreotti ad esempio è ritenuto un buon cattolico, quando ha bestemmiato in realtà Dio nel suo agire politico, tradendo la fiducia del bene comune, del bene pubblico, anzi molto spesso si è interessato a un bene che interessava tre o più persone, e che danneggiava nei suoi risultatati amministrativi il bene pubblico. Abbiamo premiato come cattolico – e in questi giorni basta leggere i giornali di oggi, i coccodrilli, viene addirittura celebrato come uomo di Chiesa – un uomo che si è permesso di infangare la memoria del generale Dalla Chiesa, raccontando e giustificando la sua assenza al funerale, dicendo che aveva sempre preferito i matrimoni ai funerali. Oppure l’Andreotti che sull’avvocato Ambrosoli, disse che era uno che, in romanesco, se l’andava a cercare. Oppure l’Andreotti che tiene un atteggiamento, perlomeno con qualche ombra su Aldo Moro, e che da Aldo Moro viene raccontato, secondo me in una delle descrizioni letterarie più belle, come un uomo grigio, ma di quel grigiore che viene scambiato ogni tanto per una virtù politica, cioè nel sapere stare in mezzo, e invece è in realtà un grigiore che è figlio di mediocrità. Quando Aldo Moro dice: “Si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni”, dice: “Le manca proprio il fervore umano”. E, visto che è una delle ultime lettere scritte da Aldo Moro nella sua prigionia, penso che sia davvero difficile pensare che ci possa essere un dibattito politico dietro, e non un semplicemente giudizio profondamente umano.

La cosa che mi preoccupa più di tutte è che c’è una generazione intera in questo Paese – ho letto anche una dichiarazione di un deputato del Movimento 5 Stelle che diceva, appunto. “Io sono molto giovane, quindi non ho potuto conoscere la vita di Andreotti, però mi è stato passato, diciamo così, come statista” – insomma un Paese che ha sempre premiato i mediocri. Cioè che crede che quella capacità di star nel mezzo, cioè di non prendere posizione, sia una virtù politica. E mi fa molto paura, perché se Pericle diceva che gli indifferenti sono pericolosi per la politica, e sono i cittadini che stanno nel mezzo che sono dannosi per la democrazia, be’, Giulio Andreotti è stato quello che lì, in mezzo al guado, s’è permesso e ha potuto usufruire di quell’ombra che gli ha garantito degli incontri che non sono proprio leciti e nemmeno opportuni, e soprattutto è quello che riuscito a convincerci che la mediazione ad ogni costo, anche se puzza di compromesso, in realtà è un intelligente agire politico.

Del resto Andreotti muore sotto un governo che vuole raccontarsi, con una letteratura, il grande governo delle grandi intese, e invece non è nient’altro che un enorme compromesso che ci viene rivenduto, nel nome della responsabilità, come negli ultimi anni sta succedendo in questo Paese. E allora io credo che se non si capisce che mentre noi, ogni tanto, ci stupiamo o rabbrividiamo leggendo di questi sindaci di alcuni paesi del Sud, ma anche del Nord ultimamente, che si siedono al tavolo della mafia e stringono accordi, ecco non si capisce perché un amministratore di Andreotti che ha dimostrato di non essere capace di amministrare secondo le regole, ma in modo molto patetico ha avuto bisogno, molto spesso, di governare fuori dalle regole, o con rapporti fuori dalle regole, invece non debba meritare gli stessi brividi, lo stesso disgusto.

Poi secondo me Andreotti è un grande inventore di una nuova formula di comunicazione, cioè della pubblicità applicata alla politica. Cioè del riuscire sa rivendere solo gli stimoli ottimi di un prodotto, nascondendone i difetti in una sorta di comunicazione comparativa per cui si urla cercando di raccontare i difetti degli altri, per poter godere di un’impunità dei propri:è il berlusconismo. Non è nient’altro che la figura del berlusconismo, e ovviamente il berlusconismo ha modernizzato questo modo di fare, però se ci pensiamo Andreotti è stato il primo che ci ha detto che alcuni rapporti, anche abbastanza scuri, sono inevitabili per chi fa politica anche a grandi livelli. Ed è il modo migliore per riuscire a creare quel fossato tra i politici e i cittadini, che è quello che poi oggi è diventato, secondo un certo stile narrativo, la Casta, o, secondo un altro stile narrativo, l’incomprensibilità di certe di alcune dinamiche politiche. Dipende poi dalle accezioni di ognuno. Ecco, Andreotti è quello che ha convinto le nostre nonne che il voto dovesse essere una delega totale, e per cui che il politico non dovesse dare delle spiegazioni: questo è un passaggio che, in questi giorni, è molto poco analizzato, ma la lontananza della politica è stata creata proprio nel momento in cui la Democrazia Cristiana ha raccontato, ad esempio, che le alleanze non dovessero avere per forza un principio di idealità e idealismo comune, ma dovessero rispondere anche a dei termini algebrici. Non vedo grandi differenze con il governo Letta, in questo momento.

E allora io ero certo che i coccodrilli di Andreotti oggi avessero questo tono. Ero certo che il servilismo su Andreotti si è sempre dimostrato veramente apicale, e ancora oggi venisse esercitato in modo così intenso. Mi preoccupa non tanto Giulio Andreotti: oggi muore un amico dei mafiosi, tra l’altro molto mediocre anche nelle sue amicizie; muore una persona assolutamente anaffettiva, che viene a sapere della morte programmata di Piersanti Mattarella e decide di non salvarlo, per cercare di salvare gli equilibri di corrente del proprio partito; non muore neanche, se ci pensiamo, una persona che ha raccolto enormi consensi, perché in realtà la corrente andreottiana, all’interno della Democrazia Cristiana era piccola, assolutamente minoritaria, semplicemente era una di quelle correnti che era disposta a svendersi al miglior offerente, e quindi che più di tutte ha fatto in modo che i valori della politica fossero una questione di somma, piuttosto invece che una comunione d’intenti. La cosa che mi preoccupa è che l’andreottismo, invece, parlo dell’andreottismo di Formigoni, che si rivende paracattolico con Comunione e Liberazione, e in realtà è solidale tra sodali, che è quello che Andreotti aveva fatto per primo, e quindi una solidarietà che non è più cattolica, ma essendo ristrette ad una cerchia ben definita, in realtà ha le dinamiche del clan; mi preoccupa un Parlamento che onora, da destra a sinistra, un uomo semplicemente perché morto. Ecco, io credo che noi, se ogni volta decidiamo che, in nome di non so quale buonismo, mi sembra un’enorme irresponsabilità, di premiare un defunto indipendentemente da quello che ha compiuto in vita, be’ allora siamo un Paese che non crescerà mai, e che non avrà nemmeno quel briciolo di memoria per riconoscere la ciclicità dell’andreottismo e per dare delle chiavi di lettura collettive per riconoscere i nuovi Andreotti, oggi.

La strategia dei due forni, cioè quando Andreotti diceva: “Andiamo alle elezioni, poi decidiamo se allearci col centrodestra dei suoi tempi, o col centrosinistra”, ecco la strategia dei due forni, se non viene passata di generazione in generazione, non ci può fare capire le dinamiche politiche che sono avvenute oggi.

Poi qualcuno dice: “Sì, be’, Andreotti è sopravvissuto a tutte le repubbliche”. Lui diceva, tra l’altro con questo suo modo molto sardonico: “I miei amici che facevano sport sono morti da tempo. Ho visto la prima repubblica, forse anche la seconda, e mi auguro di vedere anche la terza”. Be’, io credo che il fatto che Andreotti sia sopravvissuto così a lungo come personaggio politico dimostra che i veri colpevoli del processo Andreotti, di tutti i processi Andreotti – ma in primis quello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa – sono gli elettori, che ancora una volta dimostrano di godere di quell’indignazione passeggera che dura un battito d’ali di farfalla e di non andare mai sull’analisi. E soprattutto di non avere voglia di costruire una chiave di lettura collettiva delle inopportunità. Ricordare oggi, in questo modo, Andreotti, sui maggiori quotidiani italiani, significa uccidere ancora una volta Ambrosoli, uccidere ancora una volta, da morto, il generale Dalla Chiesa, ma soprattutto significa uccidere Pio La Torre, o tutti quei politici, mi viene in mente Borsellino, quegli uomini della magistratura, che hanno provato ad urlare che l’opportunità è un confine molto più largo di quelle che sono le responsabilità giuridiche, e non sono state definite dal punto di vista giudiziario perché un popolo maturo, una democrazia matura, deve esser in grado di riconoscere ciò che è opportuno o inopportuno. Ecco, a tarpare e narcotizzare l’opportunità, Andreotti c’è riuscito benissimo. Oggi, secondo me, laggiù – perché non credo proprio che sia andato in alto, seco0ndo me sta ridendo, sempre sardonico, vedendo come il suo meccanismo perverso stia continuando a funzionare.

Sulla questione dell’assoluzione di Andreotti, semplicemente è stato coltivato un analfabetismo di base che fa in modo che in questo Paese le opinioni si creino sulle diversi tesi e opinioni delle sentenze. E questi si sono creati questi due gradi di separazione, che chissà perché fanno in modo che i magistrati debbano improvvisamente diventare degli intellettuali, anche, esponendosi tra l’altro – come abbiamo visto – al cannibalismo politico, perché gli intellettuali, non si sa perché, oltre a Pirandello, ultimamente, sembrano poco interessati a cercare di creare una coscienza comune. E quindi l’analfabetismo è quello che ci dice che Andreotti è stato assolto perché l’ha detto Vespa. Ma attenzione: anche che Andreotti è colpevole perché l’ha detto Travaglio. L’errore di fondo è identico. Perché nel momento in cui noi per delega costruiamo delle opinioni, in realtà pecchiamo nello stesso modo. Poi possiamo avere il 50% delle possibilità di imboccare la strada giusta dal punto di vista giudiziario.

Il farlo per il bene del Pese … è proprio questo: il passaggio culturale di cui cercavo di parlare prima è proprio … quando Craxi dice: “Sì, abbiamo preso tangenti ma le metropolitane a Milano le abbiamo costruite molto più velocemente”, riesce proprio a far passare questo diritto, se non addirittura dovere, della politica, di percorrere non sempre strade lecite, per riuscire ad ottenere un risultato migliore. È quello che nelle regioni del Nord è accaduto da sempre. Questa Lombardia ce lo racconta benissimo: per essere locomotiva dell’Italia è inevitabile che la spericolatezza politica e la spericolatezza imprenditoriale insomma vadano sopportate. Andreotti dice: “Per difendersi dal Comunismo, e per difendersi dall’avanzata coloniale, quasi, degli Stati Uniti, noi abbiamo bisogno di stringere rapporti che non possiamo raccontarvi perché altrimenti si corrompono, e rendono la trattativa politica del tutto molto più difficile. Andreotti, in realtà, è quello che legittima la politica oscena. Andreotti è un uomo fondamentalmente osceno. Un uomo che ha chiesto di essere giudicato per i risultati, risultati politici che giustamente, come dicevi tu, sono preservazione del potere: Andreotti non è un riformista, dal punto di vista – se ci pensiamo anche – politico, non ha attuato nessun progresso, a meno che non intendiamo il progresso nell’accezione ormai medievale delle grandi infrastrutture. Però per chi non crede al Ponte di Messina come progresso del Paese, non è riuscito a portare avanti questa cavalcata dei diritti. Addirittura, quando si ritrova a firmare la legge sull’aborto, lo fa perché la forza spintanea del popolo non gli permetteva di fare altro. È osceno perché decide di prendere delle decisioni fuori scena insieme a due o tre persone. E semplicemente si preoccupa di costruirne, direbbe Vendola, una narrazione democraticamente accettabile, e quindi fare in modo che si potabile la decisione raccontando quelli che sono i passaggi. È come se fosse un trovarobe, che vive soprattutto in camerino, e che in realtà viene scambiato per un grande drammaturgo, quando in realtà si preoccupa di avere solo qualche pupo che entra in scena per rendere digeribile le conclusioni a cui bisogna arrivare. Però non è molto diverso da oggi: cioè oggi capita ancora molto spesso, ma anche nei piccoli comuni, in generale nel percorso politico e di lettura dei fatti politici, capita molto spesso che qualcuno che sia classe dirigente ci dica: “Voi preoccupatevi del risultato. Non è un vostro diritto sapere come ci arriviamo”. E quindi come venga vissuto addirittura come un appetito di pornografia il volere sapere quali sono i passaggi che portano a qualcosa. È identico, se ci pensiamo, a quello che sta succedendo oggi. Cioè, che Andreotti muoia mentre c’è un governo in cui Miccichè viene riciclato e può permettersi di raccontare di essere fiero delle sue amicizie di uomini condannati per mafia, significa in realtà che l’andreottismo sta benissimo. E indipendentemente dalla mediocrità umana, di sensibilità politica, di intellighenzia dei suoi interpreti, è un meccanismo assolutamente rodato.

La domanda vera è: perché tutti incensano Andreotti? Perché Andreotti ha costruito rapporti politici basati molto spesso sul ricatto. Cioè Andreotti comincia ad affondare, nel processo di Palermo, quando ad un certo punto non erano più ricattabili i suoi referenti mafiosi, che avevano deciso di non essere più ricattabili perché avevano invertito – avrebbero voluto invertire: forse ci sono riusciti e non ce ne siamo ancora accorti – il rapporto di forza e quindi hanno detto: “Noi, Cosa Nostra, non siamo più camerieri della politica; noi, Cosa Nostra, vogliamo che la politica sia nostra cameriera”. A quel punto Andreotti decide di ritirarsi e decide di utilizzare i suoi compagni di partito come scudo. E quindi, io penso che Andreotti si in realtà colpevole anche di un concorso esterno anche in omicidi politici, dal punto di vista intellettuale.

Il problema qual è? L’andreottismo, se ci pensi, è un po’ come Via d’Amelio, è un po’ come Capaci, un po’ come la trattativa: oggi è raccontato per fazioni politiche. Se sei di centrodestra Andreotti è uno statista, se sei di centrosinistra Andreotti è un colpevole. Non ci sono motivazioni reali perché sia uno statista, ma in realtà anche chi lo ritiene colpevole non ha contezza e coscienza di quali siano le motivazioni reali. Nel momento in cui diventa una diatribe prettamente partitica – neanche politica, perché in realtà di politica c’è molto poco – diventa poco interessante per tutte le generazioni che vengono, soprattutto per i più giovani. Cioè, a un giovane non interessa sapere perché quel comunista di cavalli dice che Andreotti è un mafioso; perché per Cavalli Andreotti è mafioso perché è comunista. Riuscire a spostare il confronto politico nella questione di tifo di diverse fazioni, be’ penso che anche qua un grande interprete ultimamente l’abbiamo avuto.

E il livellamento, il nutrire la superficialità del dibattito, anche questo l’ha fatto Andreotti ma l’aveva teorizzato Licio Gelli. E il problema vero qual è? Che Andreotti, comunque sia, io da drammaturgo, non da politico, direi: “è uno troppo sfigato per aver fatto tutto quello che ha fatto”. Troppo sfigato perché, se ci pensi, in tutte le favole dell’orrore che abbiamo avuto in questi ultimi decenni, i cattivi di tutte le storie d’Italia prima o poi son stati fotografati mentre citofonavano a casa sua. E quindi è un po’ come se dentro Biancaneve, o tutti le Biancanevi raccontate a tutti i bambini del mondo, ci fosse un personaggio unico che era sempre parente alla lontana che era amico del lupo. Quindi il vero problema qual è? Che lui è riuscito in modo molto pop, molto popolare, a raccontarsi come perseguitato; dall’altra parte gli avversari di Andreotti, secondo me sono semplicemente i coltivatori della verità, ancora una volta – e questa è una cosa tutta della sinistra italiana – hanno deciso di affrontare in modo molto intellettualoide, pensando di essere intellettuali, i principi di colpevolezza. Quindi lui andava a Porta a Porta e sullo sfondo era scritto “ASSOLTO” e noi continuavamo a fare, più i nostri padri che noi, i nostri convegni nelle sezioni di partito, in cui dicevamo che i compagni dovevano essere consapevoli … Non siamo riusciti a far venire l’appetito alle casalinghe sulla storia di Andreotti; cioè la storia di Andreotti non è stata considerata interessante, e ancora una volta, secondo me, abbiamo perso l’occasione – io c’ho provato con il libro, ci provo con lo spettacolo, direi che ci stiamo provando in tanti in questo momento – oggi mi sento un ambientalista. Cioè cerco di preservare l’ecologia dell’etica di questo Pese: cioè sto cercando di raccogliere veramente tutte le erbacce, le erbe di cani, in quel giardino pubblico che dovrebbe essere il Paese Italia. E oggi invece non solo nessuno ha la paletta per raccogliere le defecazioni di questi giornalisti leccaculo, ma addirittura in queste ultime 24 ore stanno arrivando le badilate. E quindi noi siamo gli spazzini: sai quegli uccelli sulla schiena dell’ippopotamo, che cercano di tenerlo pulito? Ecco, oggi l’ippopotamo è questa prostituta che sta facendo quest’enorme popmpino alla memoria di Andreotti e noi solleviamo il becco molto fino e cerchiamo di spulciare, facendo molto fatica.

Io Andreotti e i nuovi Andreotti che cercano di fermare il Comunismo riesco anche a sopportarli per i prossimi 50 anni. È questo Comunismo così flebile, che sembra un ruttino di un neonato, che sembra un rigurgito di prima mattina, che mi lascia un po’ perplesso. Perché il problema vero è che lì la battaglia ad Andreotti si faceva fermando le ruspe insieme agli agricoltori per cercare di salvare il salvabile, oggi questo neo-Comunismo che è così andreottiano invece in alcuni suoi spigoli, fa dei grandi convegni sul consumo di suolo, e poi nelle Commissioni vota insieme ai consumatori di suolo. Io credo che la differenza rispetto ad allora è che la sinistra sia molto meno appuntita, e sia molto meno appuntita perché viene il dubbio che sia stata ben pagata nel suo ruolo di moderata opposizione. E quindi oggi fare un’opposizione fare opposizione convinta … oggi Pio La Torre sarebbe un terrorista; oggi Peppino Impastato sarebbe un visionario. Io mi auguro che se si incrociano, e se si incrociano si incrociano solo sul ballatoio, sicuramente, perché non vanno nello stesso posto, però almeno Agnese Borsellino una sberla ad Andreotti gliela possa dare, in questo momento in cui deve più tenere quella forma delle celebrazioni di Stato. E quindi la differenza vera qual è? Prima si occupavano di tenere fuori le forze politiche più spigolose dal Parlamento, oggi invece hanno imparato ad ammaestrarle. O forse la sinistra di oggi ha una classe dirigente che è molto più facilmente ammaestrabile.

Come si esce dall’andreottismo? Pretendendo l’esatta conoscenza di tutti i processi politici che stanno dietro a qualsiasi decisione, e rifiutando, anche nel caso in cui i risultati siano buoni, una classe dirigente che si prende il lusso di non raccontare queste dinamiche. Esercitando il diritto e il dovere dell’opportunità, e quindi decidere che ci sono delle leggi che non state scritte perché probabilmente nessuno avrebbe pensato che avremmo avuto bisogno di una legge che vietasse ad un politico di essere amico dei mafiosi. E poi, secondo me, cercando di raccontare come la politica sia una cosa molto semplice, molto leggibile, e che dovemmo preoccuparci un po’ meno, secondo me, dell’IMU, e rincominciare invece a leggere le mozioni del nostro Consiglio Comunale, cominciare a capire che quegli strumenti – che sono degli strumenti meravigliosi per me che faccio teatro, perché sono la drammaturgia del vivere insieme, se ci pensi, di una comunità, che sia una provincia, un comune, una regione, o a livelli più alti una nazione o l’Europa – ecco, pretendere che dentro la drammaturgia siano considerate anche le nostre parti, e quindi qual è il nostro ruolo, quali sono le battute che dobbiamo portare in scena, qual è la nostra responsabilità in scena. È un percorso che, secondo me, bene o male, si sta avviando. Poi con alcune caratteristiche che io non amo molto, con alcuni grillismi esasperati, ma secondo me il Movimento 5 Stelle, ad esempio, da questo punto di vista ha aperto una ferita di coscienza che può essere assolutamente sana. Insieme e a loro anche alcune forze politiche, poche, che stanno cercando di portare avanti un lavoro politico.

Gli schiavi cuciono i libri?

Bisognerebbe, secondo l’ultima lavoratrice, “cominciare a dire di no”. Ma nelle testimonianze raccolte sembra piuttosto prevalere il senso di frustrazione, l’avvilimento, la mancanza di “coraggio di denunciare” le condizioni di lavoro, in cui si trovano ad operare i precari del settore, e la paura di “esporsi individualmente” per il timore di non essere riconfermati. Precarietà che erode i diritti, che rende tutti più ricattabili, e disposti a sottostare alle richieste di sempre maggiore disponibilità avanzata da tanti committenti e datori di lavoro. In diverse testimonianze, sembra, purtroppo, prendere il sopravvento – come già emerso in altri studi e ricerche – una sorta di accettazione dello “stato di cose presente” (Ires Emilia-Romagna, 2010), ripiegando su soluzioni di tipo individuale, con il venire meno progressivamente del senso di appartenenza alla dimensione collettiva. Bisogni individuali di tutela che appaiono, dunque, difficilmente trasformabili in istanze collettive, anche perché sembra spesso mancare, in molte considerazioni degli intervistati, un tassello fondamentale affinché le singole domande possano essere rappresentate collettivamente: il passaggio, cioè, dalla delega – in questo caso alle organizzazioni sindacali – alla disponibilità “in prima persona” ad impegnarsi, mobilitarsi e partecipare attivamente per la difesa e l’estensione dei propri diritti. Ritengo che attualmente ci siano pochi strumenti di tutela per i giovani – e non solo – che fanno questo mestiere e vengono

L’IRES pubblica i risultati di un’inchiesta su editoria e precarietà e i risultati sono chiari in tutto il loro disagio sociale oltre che lavorativo. È che di solito lo schiavo lo immagini che cuce un pallone in un paese lontano mentre invece sta nel libro che vorrebbe insegnarti l’etica e la bellezza. Per dire.

Speriamo che prima di allora le biblioteche non siano vuote.

Una cultura che si subordina agli indici d’ascolto, quindi al successo di pubblico, è una cultura persa. Si può fare cultura solo in opposizione agli indici d’ascolto o a dispetto di un indice basso. Quando la tanto decantata varietà dell’informazione si sarà definitivamente svelata come varietà propagandistica, allora si ritornerà con desiderio ai libri. Speriamo che prima di allora le biblioteche non siano vuote.

(Heinrich Böll)

Pedoni, pedali e pendolari per una mobilità nuova

mobilita-nuovaProgettare la mobilità significa avere in mente già l’Italia del futuro. Mica quella che ci capita ma quella che vogliamo: la differenza sembra piccola ma è sostanziale. Per questo il manifesto di #mobilitànuova è sostanzialmente un manifesto politico su un tema che dal Parlamento viene troppo spesso comodamente relegato alle Regioni che a loro volta con una certa inedia scaricano agli amministratori locali che (guarda il caso) hanno pochissimo margine di manovra. E alla fine succede che sia “normale” associare il pendolare ai disservizi, il ciclista al rischio su strada e il pedone ad un infiltrato indesiderato in una mobilità in cui non ha un suo posto. E per questo aderisco e rilancio:

L’Italia ha ipotecato il futuro delle opere pubbliche e della mobilità approvando progetti per nuove autostrade e nuove linee ad alta velocità ferroviaria che costeranno complessivamente oltre 130 miliardi di euro, offriranno ulteriori occasioni di business alla malapolitica e alla criminalità organizzata, sottrarranno al Paese territorio e bellezza spesso senza offrire un servizio migliore alla collettività.

Per soddisfare la domanda di mobilità del 2,8% delle persone e delle merci (è questa la quota di spostamenti quotidiani superiori ai 50 chilometri) si impegna il 75% dei fondi pubblici destinati alle infrastrutture del settore, mentre all’insieme degli interventi per le aree urbane e per il pendolarismo (dove si muove il 97,2% della popolazione) lo Stato destina solo il 25% delle risorse, puntando spesso e ancora una volta su nuove strade, tangenziali e circonvallazioni piuttosto che sul trasporto collettivo o su quello non motorizzato.

C’è un’urgente necessità di riorientare le risorse pubbliche concentrando la spesa laddove si concentra la domanda di mobilità e nello stesso tempo va avviato un radicale ripensamento del settore dei trasporti, sostenendo attraverso scelte strategiche le persone che quotidianamente si muovono usando i treni locali, i bus, i tram e le metropolitane, la bici e le proprie gambe e dando l’opportunità a chi usa l’automobile di scegliere un’alternativa più efficiente, più sicura, più economica.

La #MobilitàNuova si propone di avviare una trasformazione e una rigenerazione della società che va molto al di là della semplice trasformazione degli stili di mobilità individuale e punta a un deciso ridimensionamento del binomio auto+altavelocità. Una scelta, quest’ultima, egoista, dispendiosa, vecchia e inefficiente, che produce inquinamento, incidentalità stradale, danni sanitari, congestione, consumo di suolo e sprawling, aggressione al patrimonio storico, artistico e paesaggistico, iniquità sociale, alienazione e inaridimento delle relazioni sociali.

Al contrario una #MobilitàNuova che ruota attorno a quattro perni – l’uso delle gambe; l’uso delle bici; l’uso del trasporto pubblico locale e della rete ferroviaria; l’uso occasionale dell’auto privata (sostituita in tutti i casi in cui è possibile da car sharing, car pooling, taxi) – modifica lo spazio pubblico e la sua destinazione d’uso, rafforza i legami comunitari tra le persone e tra le persone e il luogo dove vivono, studiano e lavorano, stimola un’economia agroalimentare basata sul km0, crea lavoro stabile, contribuisce a far crescere la percezione di sicurezza attraverso strade e piazze più vissute e frequentate. In altre parole rende le città e il territorio più bello e migliora la qualità della vita.

E’ per questo che ti chiediamo di entrare nella Rete per la #MobilitàNuova, illustrando come questa nuova mobilità può incidere positivamente sui temi che ti stanno a cuore e indicando le tue priorità programmatiche sul tema da indirizzare ai decisori politici.

Insieme daremo vita a questa campagna collettiva e individuale, orizzontale e partecipata, che si articola in due momenti diversi.

Sabato 4 maggio a Milano manifestiamo per imporre ai decisori politici una rivoluzione della mobilità che parta proprio da un riequilibrio delle scelte politiche e delle risorse pubbliche destinate al settore dei trasporti, dando insieme visibilità e sostegno alle vertenze nazionali e locali contro quelle opere pubbliche stradali, autostradali e ferroviarie inutili e dannose per il Paese.

Mentre a partire dal 4 maggio lanceremo insieme una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare (obiettivo un milione di adesioni) che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato.

 

La lettura è come il maiale

No, consigli non ne do proprio, se non uno: leggere, leggere, leggere. La lettura è come un salvadanaio, oppure come il maiale. Il salvadanaio, se lo riempi, al momento di romperlo ci trovi dentro qualcosa. Ugualmente il maiale, se lo tratti bene, quando lo ammazzi è buono. Purtroppo oggi si legge pochissimo. Addirittura chiudono le biblioteche per mancanza di fondi. Certo, parlo bene io, che leggo per passione e divertimento mentre per altri, magari, è una fatica, tempo rubato alla vita. Però questo è l’unico consiglio che mi sento di dare.

(Francesco Guccini intervistato da Fabio Marchioni)

Tre poli opposti e gli argomenti comuni

Un’analisi di Openpolis:

Quando il 15 Marzo 2013 i due rami del Parlamento hanno avviato i lavori della nuova Legislatura, il primo riscontro è stato che nelle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama i protagonisti erano cambiati. Fra le fila di Deputati e Senatori c’è stato un evidente rinnovamento.

Il 64% dei Parlamentari non ha preso parte alla Legislatura precedente e il 39% è al suo primo incarico pubblico. Gli stessi Presidenti della Camera dei Deputi e del Senato della Repubblica sono alla prima esperienza come rappresentanti dei cittadini. Altri elementi di novità sono l’abbassamento dell’età media dei Parlamentari e il forte aumento della presenza femminile, nella storia Repubblicana mai erano state elette così tante donne alla Camera (31,3%) e al Senato (28,6%).

A tale composizione del Parlamento i partiti hanno contributo in modo diverso. Ad esempio risaltano, il ruolo innovatore del M5S, la scelta conservativa del Pdl o la totale mancanza di donne fra gli eletti della Lega. Diverse sono le similitudini con un altro periodo della storia politica del Paese, la XII Legislatura che nel 1994 segnò l’inizio della “Seconda Repubblica”. Infatti, non sono cambiati solo molti volti della politica italiana ma anche e soprattutto gli equilibri e i rapporti di forza. Se negli ultimi 20 anni si sono fronteggiati due schieramenti all’interno del bipolarismo fra centro-sinistra e centro-destra, che per alcuni anni sembrava volgere verso un bipartitismo fra Pd e Pdl, l’affermazione del M5S ha ora imposto un sistema politico a Tre Poli.

L’attuale Legislatura, limitata dalla mancanza di una riforma elettorale, probabilmente sarà insufficente per un passaggio completo ad una “Terza Repubblica” ma il percorso sembra avviato. Nell’attuale fase di incertezza parlamentare occorre comunque che i partiti rispondano alle esigenze del Paese, verificando innanzitutto possibili convergenze sui provvedimenti la cui urgenza è maggiore. Confrontando le posizioni che i partiti hanno dichiarato in campagna elettorale per partecipare a Voi siete qui con la consistenza degli attuali gruppi parlamentari ci si rende conto come la strada del dialogo, se intrapresa, può portare a risultati concreti. Infatti, affrontando singolarmente i 25 temi chiave individuati su ben 21 ci sarebbe una maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Mentre, solo su 4 la posizione predominante risulterebbe differente fra i due rami del Parlamento. Può essere anche questa una base di interlocuzione fra le forze politiche per evitare una fase di inerzia e stallo istituzionale.

Il mini dossier è scaricabile qui.