Carissimi amici della Rete, il vescovo di S. Marco Argentano-Scalea vuol querelarmi perché in una mia recente inchiesta sull’Abbazia florense ho pubblicato notizie su di lui, prese da atti pubblici. Su Infiltrato.it ci sono vari articoli a riguardo. Io ho agito secondo coscienza. Dalla parrocchia sono spariti 2 milioni di euro e i silenzi e le complicità diffuse hanno prodotto danni enormi. La vicenda è collegata anche al restauro del monumento. Nessuno, in Calabria, ha speso una parola in mio sostegno. Vi segnalo il caso perché è l’ennesima ferita alla nostra terra e al coraggio della giustizia. Vi abbraccio forte.
Inizia così la richiesta di aiuto di Emiliano Morrone. E la storia vale davvero la pena leggerla per capire le dinamiche che contribuiscono all’isolamento delle notizie e, se possibile, delle persone.
Qui l’inchiesta completa da Infiltrato.it:
Un prete incapace di tenere cassa, un geometra che lo rappresenta in vendite gonfiate e un sodalizio per smerciare opere sacre, sottratte alla chiesa. Il sacerdote s’indebita. Compra regali costosi, dicono i fedeli, incrociandolo in ristoranti, bar e pasticcerie. Apostolato e gola, mormorano le comari, che ridacchiano d’una presunta omosessualità del personaggio, rimproverandogli il vizio del whisky …
Al religioso servono soldi, quindi cede abusivamente loculi che la parrocchia dovrebbe donare ai poveri. Dopo manda in restauro confessionali, reliquari e candelabri. Tutto alla buona, sulla fiducia. Lo riferisce in una telefonata a un vecchio amico.
Colpevole, poi il prete patteggia: per le opere sparite, i loculi e dei terreni venduti a prezzo doppio rispetto all’autorizzazione della curia. Un anno con pena sospesa e via, esce di scena. Gli altri del giro, tra cui commercianti e restauratori, sono a processo. Imputato anche un vescovo, per aver informato il prelato, da vicario dell’arcidiocesi, delle indagini a suo carico. Ma c’è molto altro…
L’apparenza inganna
Messa così, sembra una storia di spiccioli, di complici che corrono per arrotondare. Come il geometra, che per l’allegra provvigione viaggia in su e giù a piazzare immobili parrocchiali, tra compromessi congelati e nuovi acquirenti; guarda caso funzionari comunali, pronti a trasformarne la destinazione: da suoli agricoli a edificabili.
La vicenda saprebbe di classico dell’Italia in miniatura; quella riunita intorno al campanile, in cui i bravi praticanti ricevono umane ricompense: un aiuto, una spinta, un incarico. Parrebbe l’altra faccia del presepe di borghi, lentezza e calore sociale, quella col mito della «roba»; tutto sommato fisiologico in provincia, dove si mangia sano, l’aria è pura e la crisi ancora astratta.
Invece no, la storia è molto più complessa e articolata, sporca.
Un giro da due milioni di euro
Tanto per cominciare, non si sa che fine abbiano fatto i quattrini incassati dal prete, don Franco Spadafora, allora parroco di S. Maria delle Grazie-Abbazia florense, a San Giovanni in Fiore (Cosenza). «Parliamo – riferisce l’attuale abate, don Germano Anastasio – di qualcosa come due milioni di euro». Tanto sarebbe il valore dei beni alienati.
Dall’altare don Anastasio denuncia i traffici, durante la messa domenicale; brusio e stupore tra i banchi.
Il benedettino padre Santo Canonico, che sostituì don Spadafora, descrisse la situazione trovata al vescovo di Cosenza, Salvatore Nunnari: «i conti correnti postale e bancario privi di qualsivoglia minima liquidità» e «debiti artatamente sottaciuti nel verbale di consegna». Nel documento riservato, di cui Infiltrato.it è entrato in possesso, troviamo, tra i debiti prodotti da don Spadafora: un decreto ingiuntivo di 1.310,37 euro, per libri dalle Edizioni Paoline di Torino; 5.602,31 euro di bollette gas non pagate per l’asilo parrocchiale; 4.694,87 euro di scoperto per il riscaldamento della canonica e 511,31 euro per il metano dell’Ufficio parrocchiale; circa mille euro per la fornitura dell’acqua, ignorata dal 1997 al 2006.
Più sotto, padre Canonico precisa al vescovo Nunnari gravi irregolarità amministrative della gestione Spadafora: «mancata restituzione di un confessionale antico che don Spadafora dice di aver dato per restauro a un falegname di San Giovanni in Fiore»; «mancata consegna della cappella cimiteriale di pertinenza della parrocchia con i loculi impropriamente ceduti a terzi». Ancora, il monaco benedettino segnala la sparizione di due candelieri e di cornici antiche.
La Chiesa sapeva da tempo
In una successiva lettera al vescovo Nunnari, padre Canonico espone le irregolarità riscontrate nella vendita di terreni parrocchiali: don Spadafora ha percepito somme aggiuntive, alzato il prezzo autorizzato dalla Curia di Cosenza. A riguardo, Canonico informa Nunnari d’aver edotto, «senza alcun riscontro», sia Spadafora che il vicario generale della diocesi, monsignor Leonardo Bonanno, il quale poi diventerà vescovo di San Marco Argentano (Cosenza), ordinato da Nunnari.
Canonico riferisce che, per dei terreni, 51.670 euro sarebbero stati consegnati direttamente a Spadafora, senza un rogito notarile. Tutti i passaggi di denaro, mostrano le carte, avvengono a mano, con annotazioni simboliche. Quasi una concessione del don, che, col factotum della parrocchia, il geometra Tommaso De Marco, incassa migliaia di euro a botta. In scioltezza, per loculi e immobili.
Di seguito, Canonico, riferendosi a suoli donati alla parrocchia, interroga l’arcivescovo Nunnari: «l’enorme ricavato della vendita come è stato investito?». Lo stesso mittente osserva che, secondo una prescrizione ribadita dal Ministro dell’Interno, «la vendita ritraibile dagli immobili sarà destinata all’Ospizio San Vincenzo, conformemente alla volontà del testatore», il dottor Alfredo Antonio Oliverio.
Il giallo della casa di riposo
E qui cominciano i problemi, proprio con l’Ospizio San Vincenzo, ubicato nel complesso dell’Abbazia florense, monumento del XIII secolo. L’opera di carità, nata per beneficienza e da sempre gestita dalla Chiesa, viene ceduta con scrittura privata dalla parrocchia Santa Maria delle Grazie, di San Giovanni in Fiore, alla società San Vincenzo de’ Paoli. L’atto, del 3 maggio 2006, è registrato il 23 maggio dello stesso anno, all’Agenzia delle Entrate; in concomitanza con il trasferimento di don Spadafora, dovuto alla durata del mandato. Il 3 maggio 2006 è, coincidenza, la data dell’atto di costituzione della srl San Vincenzo de’ Paoli, i cui soci sono Antonio, Gianfranco e Giuseppe Atteritano, insieme a Domenico Ferrarelli.
La società assume gli oneri debitori della casa di riposo e ottiene da parrocchia e curia eventuali diritti disponibili, l’uso dei locali e tutti i beni destinati all’esercizio dell’attività, che in breve diventa di lucro: una residenza sanitaria assistita, accreditata presso la Regione Calabria. Oltre a quella di don Spadafora, nella scrittura privata c’è la firma di monsignor Bonanno, «che garantisce, con la sua sottoscrizione, che la Diocesi approva l’atto» fra le parti.
Quei debiti “tutelati”
Nel testo si legge di un elenco dei debiti della casa di riposo, la cui entità non è nota. Neppure ai carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale (Ntpc), che dicono di non ricordare. Il punto sta proprio nell’importo sconosciuto, anche perché i locali dell’ex ospizio (della Chiesa) sono proprietà del Comune di San Giovanni in Fiore. Lo confermano al Nucleo, con assoluta certezza. E parlano le carte, le leggi, le risultanze di una commissione paritetica Comune-Chiesa e un vecchio inventario in municipio. Benché, come vedremo, presso il Tribunale di Cosenza stia andando in scena un processo per la determinazione in giudizio del legittimo proprietario.
Incassa un monte ma cede per debiti. E quei soldi?
Don Spadafora racconta agli inquirenti d’aver destinato all’ospizio tutti i ricavi delle vendite illecite; che, secondo una stima, s’aggirano, con le opere trafugate, intorno ai due milioni di euro. Tuttavia, il prete cede l’ospizio per debiti, con l’avallo della Curia arcivescovile di Cosenza, il cui vertice, Nunnari, dichiarerà più avanti di non sapere. L’ospizio dei poveri, cha dal Comune aveva in comodato gratuito i locali, diventa una rsa, la cui proprietà non paga un centesimo al municipio, obiettando l’accordo privato con la Curia di Cosenza.
Conversazioni strane
I carabinieri ricostruiscono gli stretti rapporti fra don Spadafora e monsignor Bonanno, che si sentono spesso per telefono, a volte ogni giorno. In un’intercettazione, Spadafora narra a un amico d’essere stato una sera dal Bonanno, «che gli ha fatto vedere cose belle e importanti e che sta mostrando il meglio di sé in questo periodo». Nonostante che Bonanno sia il vice di Nunnari, né lui né il vescovo assumono provvedimenti nei riguardi di Spadafora. Anche dopo la condanna, Spadafora non riceve sanzioni da Nunnari. Perché?
Procura senza proteine?
Al Ntpc sostengono che la cessione dell’opera di carità presenta profili di rilievo penale. La Procura di Cosenza è di altro parere, e, su denuncia di don Anastasio, incrimina solo gli autori del traffico di opere sacre, a partire da don Spadafora; il quale, peraltro, è tra i protagonisti della grave vicenda del restauro dell’Abbazia florense, avviato con fondi europei e sospeso per problemi amministrativi e un processo penale.
Finanziato dall’UE per 1.750.000 euro, i progettisti (Domenico Marra, Giovanni Belcastro e Salvatore Marazita) furono nominati da don Spadafora, che chiese loro di predisporre degli elaborati. Guidata da Riccardo Succurro (allora Ds), la giunta comunale di San Giovanni in Fiore, recepì con la delibera 883/1996 la scelta del prete, mentre l’amministrazione del socialista Antonio Nicoletti affidò ai medesimi la direzione dei lavori. Sempre con delibera di giunta: la 112/2006.
Abuso d’ufficio perduto negli uffici
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici considerò gravissime queste irregolarità, compiute dal Comune, secondo l’organo centrale, per aggirare la normativa sulle gare. Il Ncpc fece lo stesso ragionamento alla Procura di Cosenza, insistendo almeno due volte, ma senza ascolto, per l’ipotesi di abuso d’ufficio in capo agli assessori delle due giunte, Succurro e Nicoletti.
Ora Marra, Belcastro e Marazita sono sotto processo, insieme al rup Pasquale Tiano, per lavori ordinati senza l’autorizzazione delle soprintendenze. Mentre l’Abbazia florense, legata al profeta e teologo della storia Gioacchino da Fiore, rischia enormi danni per l’iter del restauro, che secondo la Soprintendenza per i Beni Archeologici e per il Paesaggio ha causato lesioni e modificazioni importanti. Tanto che al Ntpc dicono che con una minima scossa l’edificio religioso può crollare, malgrado le rassicurazioni del deputato Pd Franco Laratta, per il quale tecnici di sua fiducia ne garantiscono la staticità.
Le antiche ruberie: quando sparirono i quadri di Mattia Preti
In questa città della Calabria – quasi sconosciuta, se non fosse per l’assistenzialismo, il clientelismo e, anzitutto, l’abate Gioacchino da Fiore – troppi sono i rapporti ambigui fra Chiesa, politica e imprenditoria, parati da un’estetica di provincia che annebbia gli occhi e la mente. Iniziative filantropiche per scaricare le tasse, processioni religiose che diventano laiche e inaugurazioni civili con l’angolo del sacro. Politici a braccetto con vescovi e giornali che cantano le gesta dell’alleanza, senza un cenno a responsabilità morali e di ruolo.
Qui si stanno dividendo l’Abbazia florense, distruggendone la memoria e il messaggio di Gioacchino. Con silenzi o complicità nascoste, specie se la magistratura è troppo ingolfata o forse troppo pressata. Qui gli appetiti sono molti e pochi i controlli, il senso del bene pubblico.
Già nella seconda metà del Novecento, tra spinte dalla Chiesa e astuzia in municipio, sparirono dall’Abbazia florense dei quadri di Mattia Preti. Poi il complesso badiale fu sfregiato per ignoranza, approssimazione, indifferenza; per le commesse agli amici. Lo racconta con rabbia Peppino Gentile, ex consigliere comunale missino, che descrive il patrimonio perduto, osservando il ripetersi delle antiche ruberie, dell’affarismo intorno alla sacrestia.
Il male non si può ridurre alla fattispecie penale. Era la lezione di Paolo Borsellino. E la stessa fattispecie dipende dal giudizio e dalla coscienza di uomini.
La rete degli Atteritano
La San Vincenzo De’ Paoli srl è, in maggioranza, della famiglia Atteritano. Antonio, figlio di Giuseppe, già segretario di sottosegretario di Stato, è il rappresentante comune. Nel tempo libero fa anche il presidente d’una società sportiva che vinse una gara della Provincia di Cosenza per la gestione del palazzo comunale dello sport. La procedura, per quanto a bandire dovesse essere il Comune di San Giovanni in Fiore, proprietario, fu ratificata dal commissario prefettizio Maria Carolina Ippolito, a ridosso delle nuove elezioni.
La fisiologia è identica alla vicenda della casa di riposo: la proprietà, dei locali di cura o del palazzo, è una sorta di entità deducibile e protettiva in un tempo. Il possesso (da parte di Atteritano) è una garanzia, in entrambe le situazioni. Perché la giustizia ha tempi biblici e, comunque, tutti sono convinti che, nel dubbio, è meglio condurre delle attività: dai viceprefetti ai giuristi, dai vescovi ai deputati, Mario Oliverio (Pd), presidente della Provincia di Cosenza, e Laratta.
In questo unisono, in questa corrispondenza di amorosi sensi, quando l’Abbazia florense rimase ingabbiata per tre anni a causa di errori tecnici finiti nel penale, la politica accusò i movimenti che denunciarono le irregolarità e manifestarono per il monumento. La Chiesa tacque. Il vescovo Nunnari, che oggi ci racconta di don Anastasio come l’unico difensore della povera abbazia, non rispose all’invito, per telegramma, alla catena umana del 5 gennaio 2010. Manco per una benedizione. Allora cittadini e associazioni cinsero l’edificio religioso con un abbraccio simbolico, per portare il caso alla ribalta nazionale. Partecipò via web Salvatore Borsellino.
La causa per il rilascio della casa di riposo e il bonifico da 7mila euro rifiutato da Anastasio
Nunnari fece incontrare Anastasio con Giuseppe Atteritano e Domenico Ferrarelli, a sua insaputa. Convocazione urgente per la vicenda della casa di riposo dentro l’Abbazia florense e richiesta, ad Anastasio, di nominare lo stesso avvocato, Carlo d’Ippolito, nel procedimento civile contro il Comune di San Giovanni in Fiore. «Un procedimento obbligato – racconta Filomena Bafaro, legale del Comune – perché c’erano pressioni troppo forti dell’opinione pubblica (alimentate dall’allora consigliere comunale Angelo Gentile, dei socialisti di Zavettieri, nda) e fu necessario costituirsi contro Atteritano e la Curia; anche se la citazione, confesso, è stata così, senza troppo approfondimento, giusto per». Difatti, come osservato in via preliminare nella comparsa di costituzione da D’Ippolito, legale della Curia, «il Comune di San Giovanni in Fiore dichiara di essere proprietario dell’immobile per cui è causa ma della circostanza non fornisce alcuna prova».
D’Ippolito ottiene d’inserire la parrocchia di Santa Maria delle Grazie nel procedimento. La causa va avanti. Anastasio racconta che il compenso professionale pagato dalla Curia è, da sue notizie, di 7mila euro. Il 4 maggio 2012 arriva sul conto della parrocchia un bonifico di 7mila euro, senza causale, da parte della S. Vincenzo de’ Paoli srl. Anastasio lo restituisce (copia dell’ordine bancario in foto, nda).
Vescovo protegge vescovo. Si recita a soggetto
Il vescovo Nunnari, in una lettera di risposta alla richiesta di autorizzazione per costituirsi parte civile nel processo per la sparizione delle opere sacre, informa don Anastasio di un’udienza a fine maggio 2012. Nello stesso processo c’è il vescovo Bonanno, accusato di rivelazione di segreto istruttorio. L’udienza, invece, si tiene l’otto maggio, ma Anastasio viene a saperlo dopo. Bonanno avrebbe tentato il patteggiamento, come Spadafora. Ma il giudice avrebbe respinto, con successivo ricorso dell’imputato in Cassazione. L’uso del condizionale è obbligatorio. Qui nessuno ti fornisce notizie, nessuno parla. La cappa del silenzio e la cappa dell’ipocrisia.
Certi, però, i rapporti politici e bilaterali. Nella rsa di Atteritano lavora come medico Luigi Astorino (Pdl), presidente del consiglio comunale di San Giovanni in Fiore, mentre il socio Ferrarelli è del Pd, vicino al governatore provinciale di Cosenza, Oliverio.
In questo angolo di Calabria, regione di confine, il teatro della politica e la politica del teatro spesso coincidono. I ruoli si mescolano, confondono, svaniscono, per ritornare nei riti. Che siano parate o processioni non importa. Di là dai colori di partito, ciascuno ha una posizione nello scacchiere del potere, e c’è da guadagnare con il silenzio, l’obbedienza, l’accettazione del sistema.
Fuori dal sistema, ricordando don Diana
A noi restano delle domande, che forse la procura scarterà per motivi suoi, di ermeneutica giuridica. In primo luogo vorremmo sapere che fine hanno fatto i soldi intascati da don Franco Spadafora. Poi vorremmo, di là dal diritto, che i vescovi Nunnari e Bonanno rispondessero alla coscienza pubblica, che non è solo quella di San Giovanni in Fiore, immersa nel paganesimo politico. Vorremmo che spiegassero in rete, qui dove il controllo è l’argomentazione, la logica, che ne sarà dell’Abbazia florense, bene dell’umanità, e dell’abate Anastasio, uomo e sacerdote che, in solitudine, ha denunciato reati, omissioni e pericoli. Con lo stesso coraggio e animo di don Peppe Diana.
LA REPLICA
La Chiesa sapeva da tempo dello scandalo dell’abbazia di San Giovanni in Fiore. Tutti sapevano ma in pochi hanno commentato a caldo la nostra inchiesta esclusiva sui due milioni spariti in silenzio. Nonostante l’attuale abate, don Germano Anastasio, abbia denunciato anche dall’altare ciò che è accaduto con don Franco Spadafora. A questo si aggiunge la nostra controreplica, in attesa di pungolare il Vescovo.
di Viviana Pizzi
È stato il vicensindaco di San Giovanni in Fiore (Cosenza), Battista Benincasa (Pdl), a rompere il muro del silenzio e a dirci per primo la sua opinione su quanto avvenuto a San Giovanni in Fiore. Chiarendo innanzitutto la posizione del presidente del consiglio comunale Luigi Astorino (Pdl), medico presso la casa di riposo.
“Ci tengo a chiarire – ha detto Benincasa – che non c’è nessuna connivenza politica tra il presidente del consiglio comunale e l’incarico che aveva alla casa di riposo. Non aveva nessun legame con chi gestiva la casa dove lavorava come medico. Pensare questo mi sembra ingiustificato e ingeneroso. Per quanto riguarda l’inchiesta c’è la magistratura che farà luce sulla cosa. I soldi sono stati presi e qualcuno dovrà pur pagare”.
Antonio Barile (Pdl), primo cittadino di San Giovanni in Fiore, ha preferito non commentare, passando la palla all’assessore comunale alla cultura, Giovanni Iaquinta. Il quale ha puntato tutto sulle bellezze artistiche dell’Abbazia e sulla sua storia.
“Considerato lo sviluppo e il decollo della nostra città – ha dichiarato Iaquinta – non si può questo complesso è la parte più prestigiosa della nostra comunità. Di conseguenza, senza entrare nel merito della vicenda, ritengo che i tempi siano maturi per affrontare l’argomento e per mettere in luce il valore universale dell’Abbazia. Colgo l’occasione per rendere omaggio a don Vincenzo Mascaro, che nel 1989 ha permesso la riapertura del sito. A me le polemiche sterili non interessano, posso solo dire che l’Abbazia è un buon esempio di civiltà per i calabresi nel mondo. Trattare la questione in modo strumentale non serve a nessuno. Parlare di Abbazia equivale al giorno d’oggi a quattro variabili importanti: cultura, civiltà, storia e futuro”.
“Più in generale – ha proseguito Iaquinta – significa un attaccamento a una forma sempre viva e vincente di civiltà, una nuova forma di umanesimo che è ancora importante e fondamentale nel ventunesimo secolo”.
Un parere arriva anche da Franco Laratta, deputato Pd e segretario cittadino del partito di San Giovanni in Fiore.
“Non entro nel merito dell’inchiesta”, ha dichiarato il parlamentare democratico, aggiungendo: “L’Abbazia in quel periodo ha conosciuto una delle migliori gestioni in assoluto. In quegli anni il turismo ha avuto davvero un’impennata. Nelle questioni personali di don Franco Spadafora non voglio entrare. C’è stato un processo ed è stato condannato. È al centro di una vendita di beni. Si trova lì e non si sa bene come. Non sappiamo se è stato costretto a subire un ricatto”.
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di Emiliano Morrone
A bon entendeur salut, dicono i francesi. Reputo interessanti i commenti alla nostra Viviana Pizzi di rappresentanti istituzionali di San Giovanni in Fiore (Cosenza), la città di Gioacchino da Fiore e della sua Abbazia florense, monumento del XIII secolo sfruttato, svenduto, spartito e abbandonato.
Ieri abbiamo raccontato, carte alla mano, come da reati commessi da un prete, don Franco Spadafora, si siano create le condizioni per un ignobile mercato intorno all’Abbazia florense, la cui architettura esprime la verità di un’antica tradizione spirituale, utopistica, attualissima nell’odierno capitalismo finanziario.
Il Vangelo parla, sappiamo, della cacciata dei mercanti dal tempio. Ciò è esattamente quanto la Chiesa, che è istituzione, deve fare per tutelare se stessa, la memoria e la santità viva di Gioacchino, anche in senso laico-rivoluzionario.
Gioacchino da Fiore è il precursore del francescanesimo ed è il profeta della «Terza Età», un tempo di emancipazione spirituale.
Ma scendiamo nel concreto. La Chiesa è chiamata ad agire, dopo i gravi e inquietanti episodi accaduti: sparizione e commercio di opere sacre, vendita illegittima di loculi e terreni parrocchiali, abusi su proprietà pubbliche, complicità in violazioni amministrative accertate, oltraggio al testamento di un benefattore (il dottore Alfredo Antonio Oliverio) e mancanza di trasparenza nella gestione di beni della comunità religiosa, con appropriazione di suoi valori da parte di ignoti, ad oggi impuniti.
Questo elenco di scempi e razzie è la causa dell’imperdonabile degrado dell’Abbazia florense, per le ragioni che abbiamo esposto nella nostra inchiesta di ieri. La politica doveva entrare nel merito, doveva dirci se è vero o falso quanto ha scritto Infiltrato; magari accusandoci di mistificazione, di stoltezza, d’invenzione suggestiva, di sciacallaggio, di opportunismo all’ennesima potenza. Doveva assumersi la responsabilità della parola, perché, al di là della storia profonda della Calabria, che sempre abbiamo difeso, siamo in una regione di silenzi, omertà e paura di schierarci.
Noi una posizione l’abbiamo presa, assumendocene ogni onere. Non abbiamo affatto accusato di «connivenza» il presidente del consiglio comunale Luigi Astorino, né crediamo che don Spadafora sia un mostro di cui liberarsi. Al contrario, ma qui mi pare pleonastica un’interpretazione autentica, abbiamo espresso un concetto semplicissimo: i soldi che il prete ha intascato sono spariti. Si parla di due milioni di euro. Sono andati alla casa di riposo, prima che fosse ceduta per debiti, o, come il deputato Laratta ha ipotizzato, sono valsi a fermare qualche ricatto ai danni di don Spadafora?
Per ultimo, basta con le difese d’ufficio, detto con rispetto. E basta con i discorsi generici, astratti. Qui dobbiamo abituarci a ragionare sui problemi e, di là dagli accertamenti della magistratura, che interessano solo il penale, dobbiamo fornire risposte rapide, coraggiose e vere.