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Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi

Roberta scrive una lettera. E vale la pena lasciare perdere i vecchi contro i giovani e leggerla con attenzione perché dentro ci sono le domande a cui dovremo rispondere. Con chiarezza. Prima delle elezioni.

Il mio nome è Roberta, ma potrebbe essere Lucia, Francesca, Samanta, Teresa, Michela o qualunque altro nome di donna. Ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è non lo so.  Il mio sogno è sempre stato uno: fare la scrittrice.
Avrei voluto studiare in una grande città, laurearmi, conoscere qualcuno che mi desse la possibilità di crescere e diventare brava, poi lavorare e rendere fieri di me prima i miei genitori, poi me stessa. Chiudo il libro delle favole e torno sulla terraferma, dove i sogni restano sogni e più che vivere bisogna sopravvivere. 

Qualche anno fa mi sono iscritta alla facoltà di lettere di Bari, non la migliore, ma la più accessibile almeno per le mie tasche. Ho frequentato il primo anno e non è andata male. Avevo una media alta, studiava, studiavo. Lo facevo per me.

L’anno successivo ho interrotto gli studi. Mio padre è un operaio, mia madre una casalinga. Una casa in affitto, tre figli sulle spalle. Mio padre ha perso il lavoro e allora ‘Arrivederci Università’. Facevamo la spesa con 15 euro al giorno, dove avrei potuto trovare 500 euro per la nuova iscrizione? Per il libri? Per fare la pendolare? I sogni restano nel cassetto e io sopravvivo.

Ho passato un anno in bilico su un filo pronto a farmi cadere. Non sapere cosa fare da grande a 20 anni era il problema più stupido, io volevo sapere se ce l’avremmo fatta. Volevo sapere se avrei mai più visto mio padre sorridere piuttosto che in depressione piangere senza un lavoro, avrei voluto vedere mia madre smettere di contare gli ultimi spiccioli per arrivare alla fine del mese.

Ho passato un anno ad osservare il mondo e capire che tanto non sarà mai come vorremmo, che la fatica è sempre per chi non se la merita e che l’ingiustizia sarà sempre sovrana. Ho capito che il futuro è il mio e la fortuna non è per tutti, allora se io non sono nata ”fortunata” come tutti i figli di papà del mondo, la fortuna me la creo da sola.

Ho fatto tre lavori al giorno: ho dato ripetizioni private, ho fatto la babysitter, ho lavorato in un bar, in un ristorante, ho distribuito volantini per le strade sotto la neve e con le mani prive di sensibilità a causa del freddo. 5 euro al giorno, a volte 8, al massimo 20.
Non mi interessavano i vestiti nuovi, le serate nei bar, la vita mondana e le cene. Io volevo il secondo anno di facoltà, io volevo la laurea.
”Roberta, qual è stata la tua più grande soddisfazione sino ad ora?” Se dovessero farmi questa domanda io risponderei: Aver lavorato, sacrificato me stessa, il mio sudore e la mia fatica.

Mi sono iscritta al secondo anno e l’ho anche terminato. Ho pagato la mia iscrizione, tutta da sola. Compro libri fotocopiati, per pagarli meno, a volta riesco anche a farmeli prestare. Vado a Bari solo quando è necessario, solo per dare gli esami. Anche il treno costa. Lavoro 12 ore al giorno per 35 euro, faccio la cameriera ed ho i calli alla mano destra perché spesso i piatti sono bollenti e una cicatrice sulla sinistra perché un bicchiere di vetro mi si è rotto tra le mani. Spesso studio di notte e lavoro di giorno. All’università ho chiesto una borsa di studio, ma non credo possa mai essere accettata a causa del mio anno di stop. Per l’università, quindi, sono una comunissima fuoricorso. Una fuoricorso come tante, ma con una vita che nessuno prova a considerare. Ho pagato quasi 400 euro per una Terza Rata ingiusta. Glielo spiegate voi ai Dottori che anche frequentare ha un prezzo, e la media del 30 ce l’ha chi nella vita riesce solo a studiare?
Troppe inutili domande che non avranno mai una risposta o una considerazione. La verità è soltanto una: la vita è ciò che ne facciamo, è il sudore e il sacrificio. I regali, le raccomandazioni, i soldi caduti dal cielo.. li lascio a voi.

Il mio nome è Roberta, ho quasi 22 anni e se dovessero chiedermi cosa farò da grande, la mia risposta è ancora non lo so. Non so se avrò una casa, uno stipendio, una pensione, una famiglia e una carriera. Lavoro 12 ore al giorno e sono felice. Felice di essermi sacrificata per la mia vita e per la mia famiglia. Felice perché io conto più di ogni politico, più di ogni avvocato figlio di avvocati, più di uno qualunque laureato in una università privata. Io valgo perché avevo un sogno e continuo a scottarmi, a tagliarmi le mani e sudare affinché possa avverarsi.

Roberta

#cosaseria e l’assemblea

Ho voluto aspettare qualche giorno dopo l’assemblea nazionale di SEL perché mi interessava leggere cosa sarebbe uscito sui giornali: già in altre occasioni ero rimasto stupito dalla differenza tra la sostanza ce ci ritrovavamo a discutere e la forma della notizia nei giorni successivi. E ho voluto aspettare che fossero pubblici i documenti perché finalmente si potesse discutere sulle parole scritte e votate e non sulle interviste: la politica fatta come un vespaio che rumoreggia di fondo alle interviste del leader mi sa sempre di fanatismo e il fanatismo, si sa, ama poco le votazioni.

Abbiamo chiesto che SEL (e non solo, ma noi siamo qui) si prendesse la responsabilità di Fare la Cosa Seria e diventare motore per un’alleanza che guardasse convintamente a sinistra e soprattutto ad un’agenda di riforme ben lontana da quella di Monti (sul lavoro, sulla politica economica, sui rapporti con l’Europa e tutto il resto). Abbiamo chiesto che IDV fosse coinvolto nella coalizione insieme alle forze di sinistra e ai tanti movimenti. Insomma che si andasse in mare aperto. Ma sul serio.

Nel documento finale (che potete leggere per intero qui) si legge:

Provare a costruire un’alleanza che competa realmente per il governo del paese ci pare lo strumento in questo momento più efficace per dare rappresentanza e forza a tante persone e soggetti sociali che non hanno voce né potere. Dobbiamo investire nella democrazia e nella partecipazione: tanto più riusciremo a realizzare una vera e propria “invasione democratica” dei soggetti del cambiamento , a partire dalle donne e dai giovani, italiani e migranti, tanto più potremo cambiare il paese. Per questo ci rivolgiamo all’Idv, poiché la sentiamo come parte importante di tante esperienze che già esistono nel nostro paese e, quindi, una risorsa fondamentale anche per il governo nazionale affinché condivida il percorso di costruzione del centrosinistra, e con lo stesso spirito alle forze della sinistra e dei movimenti politici e sociali.

Le nostre scelte politiche devono precedere l’esito della trattativa in corso sulla legge elettorale. In primo luogo ribadiamo la nostra preferenza per il sistema elettorale “mattarellum” che, solo un anno fa, raccolse oltre un milione di firme. Quanto alle voci sulla prossima legge, per noi è fondamentale

che i cittadini possano scegliere gli eletti e decidere la coalizione prima delle elezioni. Ne consegue la nostra ferma contrarietà alle ipotesi paventate che prevedono l’assegnazione del premio di maggioranza al primo partito. La valutazione compiuta della legge elettorale, anche per la peculiarietà di questa materia, si potrà fare solo, e se, una riforma verrà approvata dal Parlamento. 

Allora forse chi ci accusava di velleità potrà ricredersi almeno un poco: la discussione è stata riaperta, la posizione è stata scritta e sono arrivate (finalmente) anche le parole chiare sull’UDC:

Nel corso del mese di agosto si è alimentata una discussione che ha messo insieme legittime preoccupazioni, reazioni emotive e palesi strumentalità. Non faremo nessun accordo elettorale e di governo con l’Udc. Se non fossero bastati i chiarimenti forniti tanto da Vendola che da Bersani, riteniamo utile ribadire che l’Udc è un partito che non appartiene al campo del centrosinistra e che per motivi politici, e quindi non astrattamente pregiudiziali, non farà parte del progetto di governo che intendiamo portare alla guida del paese. L’Udc si è distinta in questi mesi per i suoi fallimenti, dal “terzo polo” alla “cosa bianca”, e per i suoi richiami a proseguire l’esperienza di Monti, magari anche riproponendo una grande coalizione.

E’ un passo in avanti, certo. Ma la discussione è solo all’inizio. Perché il documento di Fulvia Bandoli, Alfonso Gianni, Giorgio Parisi e Bia Sarasini apre una discussione che non si può ritenere chiusa: la capacità e la voglia di dichiarare la propria contrarietà e indisponibilità all’apertura della coalizione di centrosinistra alle forze moderate, che hanno condiviso interamente l’operato del governo Monti e ne predicano la continuità, sia prima che dopo l’esito elettorale, rifiutando con nettezza e in modo esplicito qualunque ipotesi, come quella emersa nelle dichiarazioni e nella carta di intenti del Pd, di un patto di legislatura con forze politiche, quali l’Udc, che porterebbe inevitabilmente a uno snaturamento del programma politico, sociale e economico di governo.

Insomma, il punto vero (non nascondiamocelo) è la legge elettorale e quanto si riesca a spostare l’asse e preoccuparsi di essere chiari, semplici, e attuali perché in grado di attuare i programmi.

E che diventi una questione di equilibri e non di equilibrismi.

 

 

Guarda guarda cosa succede in Lombardia: l’indigeribile contenitore, anche qui

Il segretario regionale del Partito Democratico Maurizio Martina in un’intervista parla in modo articolato e condivisibile di primarie, di tempi certi e di coalizione (la potete leggere qui). Fin qui tutto bene se non fosse per la ritrita proposizione del “patto civico” che da qualche mese veleggia alla grande come spot tra le stanze del Pirellone e nessuno ha capito bene cosa sia. Ma noi avevamo chiesto le primarie e quindi c’è tutta la buona notizia.

Poi, tra le righe ma non troppo, Martina dice rispondendo al giornalista che chiede chi siano gli interlocutori: le faccio solo un esempio: stiamo già interloquendo anche il movimento “Verso Nord” rappresentato da nomi come Alessandro Cè. Per me è interessante capire se sia possibile trovare punti di convergenza con diverse realtà. Alessandro Cè per chi non lo sapesse è un ex assessore leghista distintosi per una campagna contro CL e per questo cacciato dalla Giunta Formigoni (dicono). Oggi il suo movimento “Verso Nord” è il cordone ombelicale lombardo di Italia Futura. Montezemolo. Per intendersi. Qui siamo oltre all’immaginabile UDC nazionale. Da fuoriclasse.

Ma non è finita. Alessandro Cè oggi rilascia un’intervista sbrodolante nei confronti del PD e delle parole di Martina ad Affari Italiani in cui risponde a due domande precise (testuale, eh):

Voi che cosa c’entrereste, ad esempio, con Sel?
Infatti il ragionamento è un altro. Noi vogliamo mettere insieme un gruppo di persone diverse che condividano un progetto di forte riformismo. Un progetto che ha poco o nulla a che vedere con le posizioni massimaliste di una parte della sinistra.

Di fatto, in un asse con il Pd il punto di equilibrio sarebbe più spostato verso il centro…
Senza ombra di dubbio. C’è una parte del Pd che sta facendo questi ragionamenti ed è la parte che io considero migliore, più avanzata, che vuole rinnovare dall’interno i democratici. In Lombardia bisognerebbe creare un rassemblement di carattere nuovo, più trasversale, che dovrebbe includere anche Italia Futura. Si possono trovare temi e punti di contatto tra il riformismo di sinistra più moderno e tutte le altre forze che si pongono come alternative al centrodestra conservatore di Berlusconi e Formigoni. Guardo con molto interesse alla prospettiva di Pippo Civati, ad esempio.

Cerchiamo di capire i confini di questo rassemblement: un’alleanza che vada da Verso Nord a Italia Futura, al Terzo Polo, all’esperienza di Tabacci, al Pd potrebbe estendersi anche a Sel, movimento arancione e sinistra critica?
Penso che possa arrivare al Pd. Se i democratici non riescono in qualche modo ad appoggiare questo progetto senza spezzare i legami con l’estrema sinistra, è chiaro che il processo non può funzionare. C’è un limite da quella parte, bisogna saperlo. Devo dire peraltro che il centro in questo periodo è molto vitale. Ci sono forze interessanti che si stanno muovendo. Ne cito una per tutte: Italiani Liberi e Forti è un movimento che si ispira a don Sturzo, ed è realmente riformista. Mi interessa anche la nuova iniziativa di Oscar Giannino…

Sembra che ci sia questa voglia di stare insieme tralasciando le compatibilità politiche. La rincorsa all’ammucchiata a tutti i costi (che ricorda un po’ la Sicilia di questi tempi, per dire) senza provare ad interrogarsi sulle compatiblità politiche. Perché ha ragione Cè nel dire che il suo progetto e la sinistra non sono compatibili. E ha ragione nel dire al PD che deve decidere da che parte stare. Sul serio, però. E con chiarezza.

Anche qui in Lombardia il PD ancora una volta apre le porte al civismo e sembra una sottana per coprire gli spifferi centristi (o peggio). Si pronuncia la parola partecipazione e cedono gli argini dei programmi ancora da scrivere.

Ogni tanto mi viene il dubbio che sia populismo non avere le idee chiare o che peggio sia furfante averle e concedersi il lusso di non chiarirle. La partenza, certo, è già poco entusiasmante.

Tenere la barra diritta, ultimamente, sta diventando la nostra passione. In Lombardia, ancora meglio. Va a finire che ce la prepareranno loro, la Cosa Seria.

Nonostante il cocomero democratico in corsia.

Paola Natalicchio è una giornalista. E mamma di un bambino intrappolato nel regno di Op, che non è un magico mondo incantato ma un reparto di oncologia pediatrica. Ha scritto un libro, Il Regno di Op, perché come scrive lei stessa “spero sinceramente che sia un libro “di servizio”, utile ad accendere un po’ di attenzione sulla nostra realtà di genitori di bambini oncologici. Senza paura e senza fare paura”. Il libro lo potete acquistare qui. E farebbe bene a tutti.
Sul suo blog a ferragosto Paola ha scritto de La democrazia del cocomero:

Poi arrivò un’esponente piuttosto nota di un sindacato nazionale. La conoscevo abbastanza bene, me la vidi entrare in stanza e saltai sulla sedia. La invitavo sempre nel salotto di una trasmissione per cui lavoravo, in Rai. E siccome non lavoravo da mesi e tutta la vita precedente mi sembrava ormai insensata e lontana quando la vidi entrare nella mia stanza, senza preavviso e senza che io capissi bene il perché della sua visita lo trovai assurdo e comico insieme. Poi un’infermiera le disse che malattia aveva Angelo, lei mi strinse la mano e mi disse che il suo sindacato era molto vicino ai malati e che ogni ferragosto portavano alcuni regali in corsia: matite, colori, macchinine e Barbie, libri da sfogliare. “Pero’ signora io non pensavo proprio che un bambino così piccolo potesse stare in questo reparto, un regalo per un bambino così piccolo non ce l’abbiamo”, aggiunse. E da brava persona quale è sempre stata ed è si scusò abbassando lo sguardo. “Prenderemo il libro di Tarzan, va benissimo, sta imparando a sfogliarli proprio in questi giorni”, tagliò corto Marco, rassicurandola e togliendola dall’imbarazzo. E a quel punto l’infermiera che l’accompagnava ci fece l’occhiolino e la accompagno’ alla porta.

Ricordo che tutta la mia famiglia arrivo’ dalla Puglia e che siccome era ferragosto li fecero entrare in stanza un’oretta prima dell’orario delle visite. Ricordo mia madre che mi porto’ una teglia di pasta al forno calda e mi disse “vai a mangiarla in terrazzo, che prendi aria, al bambino ci pensiamo noi” e poi fece gli occhi lucidi e rossi e mi disse che doveva andare solo un momento in bagno. Ricordo che in via del tutto eccezionale sul terrazzo a un certo punto ci fecero venire anche Angelo, purché come i vampiri non prendesse sole per nessuna ragione al mondo, visti i farmaci che aveva in corpo. E ricordo che lo bardammo e gli infilammo in testa un enorme cappellino verde militare da Sampei e alla vista del sole, anche sotto il suo cono d’ombra, in quel minuscolo terrazzo che ci sembrava una foresta incantata, socchiudeva gli occhi e girava la testa da una parte e dell’altra come a chiedersi cosa fossero l’aria, l’ossigeno, le piante e l’orizzonte. Il suo mondo era molto più piccolo di quel terrazzo di pochi metri e quello strappo alla regola, improvvisamente, glie lo aveva fatto capire.

Ricordo che a ferragosto io e Marco decidemmo che da lì a due settimane ci saremmo sposati. La nostra famiglia andava celebrata e non bisognava consentire alla malattia di fermare i sogni, i progetti, la vita. Bisognava opporre tutta la resistenza possibile, bisognava rilanciare, bisognava provare a puntellare la nostra unione e riempirla di promesse e di rose. Forse avremmo dovuto celebrare le nozze senza Angelo, che non poteva lasciare l’ospedale di quei tempi nemmeno per cinque minuti. Ma avremmo fatto in fretta e saremmo tornati presto da lui. E così fu, due settimane dopo. E fu una cosa bella e giusta. E per ora ci ha portato fortuna.

Ricordo la fine, di quel ferragosto. Il tramonto infuocato davanti alla grande vetrata della stanza, il sollievo assoluto che anche quella festa in ospedale fosse finita. Ricordo che arrivarono le pizze e che giocammo tutto il tempo con il libro di Tarzan e che quando fu il momento di provare un po’ a dormire il sonno arrivo’ un istante dopo.

Quest’anno, a ferragosto, sono al mare. E qualcuno direbbe che ho da dimenticare quel ferragosto di piombo e ombra di un anno fa. Invece no.Bisogna ricordarseli bene i bambini che oggi mangiano il cocomero in ospedale. Famiglie che portano le lasagne nel contenitore d’alluminio. Infermiere che fanno il ca ffè nella moka per tutti perché il bar chiude prima ma senza caffè come si fa. Medici che chiamano dalle ferie per sapere se i bambini stanno bene e se è tutto nella norma.

No che non è niente nella norma. Perché i bambini a ferragosto dovrebbero stare a fare i castelli di sabbia con la paletta e il rastrello. Non dovrebbero saltare nemmeno un ferragosto della loro vita. Però pazienza. Qualche volta il mondo sottosopra si riesce a mettere in piedi e, nonostante i ricordi, il dolore lo lava via il mare. Qualche altra resta al contrario. Nonostante il cocomero democratico in corsia. Nonostante i libri di Tarzan, i clown, le psicologhe, gli assistenti sociali, i pennarelli per colorare. E allora bisogna solo aspettare che ferragosto con il suo rumore di fuochi d’artificio e tormentoni d’estate passi anche stavolta. Pensare che è questione di ore e questo evidenziatore giallo fluorescente della differenza tra chi sta bene e chi sta male si sbiadirà. Si asciugherà come acqua sulla pelle. 

Fatelo voi. Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti.

La conversazione con Giambattista vira su altro, sull’ oggetto dei suoi studi, sulla politica, su temi specifici che interessano entrambi, sul suo prossimo libro, dedicato al gruppo parlamentare della sinistra indipendente. Non finiremmo mai di parlare e siamo come i clerici vagantes medievali, certi del valore della conoscenza e del sapere oggi come allora, quando quel sapere creò l’Europa che tutti inseguono senza saperne granché. Ci sentiamo però come degli anarchici, quando anarchici non siamo.  Siamo quelli che son tornati per rimanere. Io ho mollato, non faccio più ricerca, insegno a Palermo. Lui combatte a Catania e ha tutto il mio appoggio e sostegno. Forse nel mio caso il paese ci ha guadagnato un insegnante motivata, soddisfatta e fiera di quello che fa, piuttosto che un’esperta di arte barocca, ma quando guardo, come in questo istante, i libri della mia vita, nello scaffale accanto alla mia scrivania, subisco per intero il fallimento e il dolore di una vita che poteva essere diversa, perché la mia vita è quei libri. Anche se del fallimento ne ho fatto un’opportunità.

Oggi compio 45 anni e sono la Generazione Perduta, arrabbiata tanto da non volerne sentire parlare in modo inutile. Dico adesso a chi ha vent’anni, ascoltate Giambattista: denunciateli quando vi rubano il futuro in modo illecito. E’ inutile aspettare una legge che controlli,  punisca o verifichi in modo serio le irregolarità ovunque siano, non ve la faranno, non costoro. Fatelo voi.  Fatelo per l’Italia non per voi stessi. Non perché siete ribelli, ma perché siete onesti. 

L’amica Mila Spicola intervista Giambattista Scirè, il giovane storico catanese che ha denunciato l’irregolarità di un concorso universitario per un posto da ricercatore a tempo indeterminato. E la generazione perduta di cui con molta superficialità ha parlato Monti si rivela con le idee chiare sul tema del sistema di reclutamento universitario, sull mondo politico, quello della sanità, quello delle imprese, quello, più in generale, del lavoro in Italia. Da leggere. Qui.

La peggiore legge elettorale possibile

E’ quella di cui si sente parlare in questi giorni. Per sapere di cosa stiamo parlando torna utile l’articolo de Gli Altri:

La riforma elettorale sembra dietro l’angolo. Certo, non si può escludere l’intoppo all’ultimo momento. Non è affatto detto che Berlusconi non ci ripensi decidendo di non concedere un vantaggio troppo cospicuo al Pd. I bookmaker, però, sono unanimi nel dare per fatta la legge e nell’indicare il 25 e il 26 novembre come data delle elezioni.

La legge, si sa, sarebbe un proporzionale coretto da robusto premio di maggioranza del 15%, da attribuirsi al primo partito, con soglia di sbarramento del 5% e probabilmente dell’8% al Senato. Garantita comunque la clausola salva Lega (i partiti che vanno oltre una certa soglia in tre regioni entrano anche senza il 5% a livello nazionale). I parlamentari verrebbero eletti con un mix di collegi e sistema proporzionale.

Mancano ovviamente le limature, che spesso sono tali da alterare profondamente l’equilibrio iniziale. Però, pur con tutto il beneficio d’inventario possibile, si può azzardare una valutazione su chi vince e chi perde con questa legge. Non profetizzando il responso delle urne ma solo valutando chi uscirebbe politicamente premiato e chi punito oggi.

Chi vince e chi perde (su questa ipotesi) è raccontato nell’articolo. Intanto il porcellum sembra piacere proprio a quasi tutti.

Morto precario. Precario morto.

La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature.
(Franklin Delano Roosevelt)

Angelo Di Carlo è morto. Non è un nome famoso. Non ha riempito le cronache estive: l’11 agosto si era dato fuoco davanti a Montecitorio. Non è sopravvissuto alla propria precarietà. Non ha trovato un senso alla disoccupazione e, probabilmente, non vedeva una possibilità. La disperazione come sta scritto nella parola, tutta nel non riuscire a sperare. E senza speranza e senza lavoro forse diventa difficile sentirsi persona. Compiuta.

C’è da chiedersi se questo è un uomo. Se qualcuno riuscirà a trovare un nome al genocidio della speranza e del lavoro. Se ci sarà qualcuno della nostra classe dirigente che oggi si dedica (proprio oggi) ai meeting delle corporazioni così vicine (dicono) alla pietà cristiana. Come si coniuga la pietà di chi si è bruciato prima di essere cucinato da un paese sordo alle difficoltà che chiama “esodati” quelli che dovrebbero mettersi in pausa dalla propria socialità e dalla propria famiglia per non disturbare gli equilibri economici scritti a forza di sottrazioni e addizioni a tavolino; se non è sordo alle difficoltà un paese che chiede di avere fiducia alla disperazione ma la fiducia non riesce nemmeno a immaginarla, non sa dirci che colore ha, quando arriva, che forme.

Angelo Di Carlo è morto per non farsi ammazzare dalla vergogna che l’ha ustionato prima dell’11 agosto.

Quest’estate la torcia italiana non è per niente olimpica. E finirà in qualche trafiletto.

Peccato. Condoglianze. E tutti ad ascoltare l’orchestrina. Via, che si balla: com’è elegante questo Titanic sotto la bandiera della sobrietà.

 

O politico o scrittore

O il politico o lo scrittore. Me lo diceva (e me lo dice ancora) un vecchio democristiano (vecchio nel senso di appartenenza tanto che si inalbera se viene definito “ex”) con mi capita di parlare di politica e di scrittura (maggiori convergenze sulla seconda, a dire la verità).

O il politico o lo scrittore. Era nata una polemica anche su Gianrico Carofiglio che, secondo alcuni, non poteva essere senatore e concorrere al premio Strega. Conflitto di interessi dicevano: nell’Italia dei corrotti, mafiosi, corruttori e monopolisti dell’informazione al Governo, un libro è un pericolo. È normale forse nella rablaisiana illogicità degli ultimi 20 anni.
Mettici poi ogni tanto il gioco purista (e che non ho mai amato) di chi dice che la letteratura è poesia e la politica sempre e comunque infamia. Citano Gramsci sugli indifferenti ma gli scritti in cui Gramsci dice che il buon politico deve essere un buon drammaturgo, quello no, quello lo dimenticano. Anche Roberto Saviano è caduto ogni tanto in qualche osservazione spericolata, ricordo un giorno in cui disse “la politica è ormai una cosa buia”; chissà cosa ne avrebbe pensato il Sindaco di Pollica Angelo Vassallo o La Torre o Placido Rizzotto o appunto Gramsci o perfino Pericle. Dario Fo dice spesso che se si dimostra che tutti sono ladri più nessuno è ladro ed è un “liberi tutti!”.

Però in pochi parlano di questa tentazione (molto internazionale, a dire la verità) dei politici di scrivere libri. Ogni tanto sono libri che nascono come manifesti politici (penso al bel libro delle 10 cose da fare subito di Pippo) ma ogni tanto qualcuno si lancia proprio nel mare aperto della letteratura. Presunta.

Claudio Giunta ha letto l’ultimo libro di Matteo Renzi, il giudizio non è tenero. No.

Stil novo contiene i pensieri di un italiano come tanti, articolati nel modo in cui tanti li articolerebbero, e non ci sarebbe niente di male, in questa media sociologica, se Matteo Renzi non aspirasse a dirigere il maggiore partito italiano e, coll’occasione, l’Italia. Se l’impresa gli riuscirà, si realizzerà questo interessante paradosso: andrà al governo, sotto le insegne di un partito di sinistra, un uomo che – come la tradizione della sinistra vuole – fa della cultura uno dei pilastri del suo programma politico, ma che, per le cose che scrive e per il modo in cui le scrive, non sembra avere alcuna dimestichezza coi libri, né con ciò che i libri insegnano veramente. Ben scavato, vecchia talpa.

Qui la sua idea.

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Una brutta storia calabrese

Carissimi amici della Rete, il vescovo di S. Marco Argentano-Scalea vuol querelarmi perché in una mia recente inchiesta sull’Abbazia florense ho pubblicato notizie su di lui, prese da atti pubblici. Su Infiltrato.it ci sono vari articoli a riguardo. Io ho agito secondo coscienza. Dalla parrocchia sono spariti 2 milioni di euro e i silenzi e le complicità diffuse hanno prodotto danni enormi. La vicenda è collegata anche al restauro del monumento. Nessuno, in Calabria, ha speso una parola in mio sostegno. Vi segnalo il caso perché è l’ennesima ferita alla nostra terra e al coraggio della giustizia. Vi abbraccio forte.

Inizia così la richiesta di aiuto di Emiliano Morrone. E la storia vale davvero la pena leggerla per capire le dinamiche che contribuiscono all’isolamento delle notizie e, se possibile, delle persone.

Qui l’inchiesta completa da Infiltrato.it:

Un prete incapace di tenere cassa, un geometra che lo rappresenta in vendite gonfiate e un sodalizio per smerciare opere sacre, sottratte alla chiesa. Il sacerdote s’indebita. Compra regali costosi, dicono i fedeli, incrociandolo in ristoranti, bar e pasticcerie. Apostolato e gola, mormorano le comari, che ridacchiano d’una presunta omosessualità del personaggio, rimproverandogli il vizio del whisky …
Al religioso servono soldi, quindi cede abusivamente loculi che la parrocchia dovrebbe donare ai poveri. Dopo manda in restauro confessionali, reliquari e candelabri. Tutto alla buona, sulla fiducia. Lo riferisce in una telefonata a un vecchio amico.
Colpevole, poi il prete patteggia: per le opere sparite, i loculi e dei terreni venduti a prezzo doppio rispetto all’autorizzazione della curia. Un anno con pena sospesa e via, esce di scena. Gli altri del giro, tra cui commercianti e restauratori, sono a processo. Imputato anche un vescovo, per aver informato il prelato, da vicario dell’arcidiocesi, delle indagini a suo carico. Ma c’è molto altro…

L’apparenza inganna
Messa così, sembra una storia di spiccioli, di complici che corrono per arrotondare. Come il geometra, che per l’allegra provvigione viaggia in su e giù a piazzare immobili parrocchiali, tra compromessi congelati e nuovi acquirenti; guarda caso funzionari comunali, pronti a trasformarne la destinazione: da suoli agricoli a edificabili.
La vicenda saprebbe di classico dell’Italia in miniatura; quella riunita intorno al campanile, in cui i bravi praticanti ricevono umane ricompense: un aiuto, una spinta, un incarico. Parrebbe l’altra faccia del presepe di borghi, lentezza e calore sociale, quella col mito della «roba»; tutto sommato fisiologico in provincia, dove si mangia sano, l’aria è pura e la crisi ancora astratta.
Invece no, la storia è molto più complessa e articolata, sporca.

Un giro da due milioni di euro
Tanto per cominciare, non si sa che fine abbiano fatto i quattrini incassati dal prete, don Franco Spadafora, allora parroco di S. Maria delle Grazie-Abbazia florense, a San Giovanni in Fiore (Cosenza). «Parliamo – riferisce l’attuale abate, don Germano Anastasio – di qualcosa come due milioni di euro». Tanto sarebbe il valore dei beni alienati.
Dall’altare don Anastasio denuncia i traffici, durante la messa domenicale; brusio e stupore tra i banchi.
Il benedettino padre Santo Canonico, che sostituì don Spadafora, descrisse la situazione trovata al vescovo di Cosenza, Salvatore Nunnari: «i conti correnti postale e bancario privi di qualsivoglia minima liquidità» e «debiti artatamente sottaciuti nel verbale di consegna». Nel documento riservato, di cui Infiltrato.it è entrato in possesso, troviamo, tra i debiti prodotti da don Spadafora: un decreto ingiuntivo di 1.310,37 euro, per libri dalle Edizioni Paoline di Torino; 5.602,31 euro di bollette gas non pagate per l’asilo parrocchiale; 4.694,87 euro di scoperto per il riscaldamento della canonica e 511,31 euro per il metano dell’Ufficio parrocchiale; circa mille euro per la fornitura dell’acqua, ignorata dal 1997 al 2006.
Più sotto, padre Canonico precisa al vescovo Nunnari gravi irregolarità amministrative della gestione Spadafora: «mancata restituzione di un confessionale antico che don Spadafora dice di aver dato per restauro a un falegname di San Giovanni in Fiore»; «mancata consegna della cappella cimiteriale di pertinenza della parrocchia con i loculi impropriamente ceduti a terzi». Ancora, il monaco benedettino segnala la sparizione di due candelieri e di cornici antiche.

La Chiesa sapeva da tempo
In una successiva lettera al vescovo Nunnari, padre Canonico espone le irregolarità riscontrate nella vendita di terreni parrocchiali: don Spadafora ha percepito somme aggiuntive, alzato il prezzo autorizzato dalla Curia di Cosenza. A riguardo, Canonico informa Nunnari d’aver edotto, «senza alcun riscontro», sia Spadafora che il vicario generale della diocesi, monsignor Leonardo Bonanno, il quale poi diventerà vescovo di San Marco Argentano (Cosenza), ordinato da Nunnari.
Canonico riferisce che, per dei terreni, 51.670 euro sarebbero stati consegnati direttamente a Spadafora, senza un rogito notarile. Tutti i passaggi di denaro, mostrano le carte, avvengono a mano, con annotazioni simboliche. Quasi una concessione del don, che, col factotum della parrocchia, il geometra Tommaso De Marco, incassa migliaia di euro a botta. In scioltezza, per loculi e immobili.
Di seguito, Canonico, riferendosi a suoli donati alla parrocchia, interroga l’arcivescovo Nunnari: «l’enorme ricavato della vendita come è stato investito?». Lo stesso mittente osserva che, secondo una prescrizione ribadita dal Ministro dell’Interno, «la vendita ritraibile dagli immobili sarà destinata all’Ospizio San Vincenzo, conformemente alla volontà del testatore», il dottor Alfredo Antonio Oliverio.

Il giallo della casa di riposo
E qui cominciano i problemi, proprio con l’Ospizio San Vincenzo, ubicato nel complesso dell’Abbazia florense, monumento del XIII secolo. L’opera di carità, nata per beneficienza e da sempre gestita dalla Chiesa, viene ceduta con scrittura privata dalla parrocchia Santa Maria delle Grazie, di San Giovanni in Fiore, alla società San Vincenzo de’ Paoli. L’atto, del 3 maggio 2006, è registrato il 23 maggio dello stesso anno, all’Agenzia delle Entrate; in concomitanza con il trasferimento di don Spadafora, dovuto alla durata del mandato. Il 3 maggio 2006 è, coincidenza, la data dell’atto di costituzione della srl San Vincenzo de’ Paoli, i cui soci sono Antonio, Gianfranco e Giuseppe Atteritano, insieme a Domenico Ferrarelli.
La società assume gli oneri debitori della casa di riposo e ottiene da parrocchia e curia eventuali diritti disponibili, l’uso dei locali e tutti i beni destinati all’esercizio dell’attività, che in breve diventa di lucro: una residenza sanitaria assistita, accreditata presso la Regione Calabria. Oltre a quella di don Spadafora, nella scrittura privata c’è la firma di monsignor Bonanno, «che garantisce, con la sua sottoscrizione, che la Diocesi approva l’atto» fra le parti.

Quei debiti “tutelati”
Nel testo si legge di un elenco dei debiti della casa di riposo, la cui entità non è nota. Neppure ai carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale (Ntpc), che dicono di non ricordare. Il punto sta proprio nell’importo sconosciuto, anche perché i locali dell’ex ospizio (della Chiesa) sono proprietà del Comune di San Giovanni in Fiore. Lo confermano al Nucleo, con assoluta certezza. E parlano le carte, le leggi, le risultanze di una commissione paritetica Comune-Chiesa e un vecchio inventario in municipio. Benché, come vedremo, presso il Tribunale di Cosenza stia andando in scena un processo per la determinazione in giudizio del legittimo proprietario.

Incassa un monte ma cede per debiti. E quei soldi?
Don Spadafora racconta agli inquirenti d’aver destinato all’ospizio tutti i ricavi delle vendite illecite; che, secondo una stima, s’aggirano, con le opere trafugate, intorno ai due milioni di euro. Tuttavia, il prete cede l’ospizio per debiti, con l’avallo della Curia arcivescovile di Cosenza, il cui vertice, Nunnari, dichiarerà più avanti di non sapere. L’ospizio dei poveri, cha dal Comune aveva in comodato gratuito i locali, diventa una rsa, la cui proprietà non paga un centesimo al municipio, obiettando l’accordo privato con la Curia di Cosenza.

Conversazioni strane
I carabinieri ricostruiscono gli stretti rapporti fra don Spadafora e monsignor Bonanno, che si sentono spesso per telefono, a volte ogni giorno. In un’intercettazione, Spadafora narra a un amico d’essere stato una sera dal Bonanno, «che gli ha fatto vedere cose belle e importanti e che sta mostrando il meglio di sé in questo periodo». Nonostante che Bonanno sia il vice di Nunnari, né lui né il vescovo assumono provvedimenti nei riguardi di Spadafora. Anche dopo la condanna, Spadafora non riceve sanzioni da Nunnari. Perché?

Procura senza proteine?
Al Ntpc sostengono che la cessione dell’opera di carità presenta profili di rilievo penale. La Procura di Cosenza è di altro parere, e, su denuncia di don Anastasio, incrimina solo gli autori del traffico di opere sacre, a partire da don Spadafora; il quale, peraltro, è tra i protagonisti della grave vicenda del restauro dell’Abbazia florense, avviato con fondi europei e sospeso per problemi amministrativi e un processo penale.
Finanziato dall’UE per 1.750.000 euro, i progettisti (Domenico Marra, Giovanni Belcastro e Salvatore Marazita) furono nominati da don Spadafora, che chiese loro di predisporre degli elaborati. Guidata da Riccardo Succurro (allora Ds), la giunta comunale di San Giovanni in Fiore, recepì con la delibera 883/1996 la scelta del prete, mentre l’amministrazione del socialista Antonio Nicoletti affidò ai medesimi la direzione dei lavori. Sempre con delibera di giunta: la 112/2006.

Abuso d’ufficio perduto negli uffici
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici considerò gravissime queste irregolarità, compiute dal Comune, secondo l’organo centrale, per aggirare la normativa sulle gare. Il Ncpc fece lo stesso ragionamento alla Procura di Cosenza, insistendo almeno due volte, ma senza ascolto, per l’ipotesi di abuso d’ufficio in capo agli assessori delle due giunte, Succurro e Nicoletti.
Ora Marra, Belcastro e Marazita sono sotto processo, insieme al rup Pasquale Tiano, per lavori ordinati senza l’autorizzazione delle soprintendenze. Mentre l’Abbazia florense, legata al profeta e teologo della storia Gioacchino da Fiore, rischia enormi danni per l’iter del restauro, che secondo la Soprintendenza per i Beni Archeologici e per il Paesaggio ha causato lesioni e modificazioni importanti. Tanto che al Ntpc dicono che con una minima scossa l’edificio religioso può crollare, malgrado le rassicurazioni del deputato Pd Franco Laratta, per il quale tecnici di sua fiducia ne garantiscono la staticità.

Le antiche ruberie: quando sparirono i quadri di Mattia Preti
In questa città della Calabria – quasi sconosciuta, se non fosse per l’assistenzialismo, il clientelismo e, anzitutto, l’abate Gioacchino da Fiore – troppi sono i rapporti ambigui fra Chiesa, politica e imprenditoria, parati da un’estetica di provincia che annebbia gli occhi e la mente. Iniziative filantropiche per scaricare le tasse, processioni religiose che diventano laiche e inaugurazioni civili con l’angolo del sacro. Politici a braccetto con vescovi e giornali che cantano le gesta dell’alleanza, senza un cenno a responsabilità morali e di ruolo.
Qui si stanno dividendo l’Abbazia florense, distruggendone la memoria e il messaggio di Gioacchino. Con silenzi o complicità nascoste, specie se la magistratura è troppo ingolfata o forse troppo pressata. Qui gli appetiti sono molti e pochi i controlli, il senso del bene pubblico.
Già nella seconda metà del Novecento, tra spinte dalla Chiesa e astuzia in municipio, sparirono dall’Abbazia florense dei quadri di Mattia Preti. Poi il complesso badiale fu sfregiato per ignoranza, approssimazione, indifferenza; per le commesse agli amici. Lo racconta con rabbia Peppino Gentile, ex consigliere comunale missino, che descrive il patrimonio perduto, osservando il ripetersi delle antiche ruberie, dell’affarismo intorno alla sacrestia.
Il male non si può ridurre alla fattispecie penale. Era la lezione di Paolo Borsellino. E la stessa fattispecie dipende dal giudizio e dalla coscienza di uomini.

La rete degli Atteritano
La San Vincenzo De’ Paoli srl è, in maggioranza, della famiglia Atteritano. Antonio, figlio di Giuseppe, già segretario di sottosegretario di Stato, è il rappresentante comune. Nel tempo libero fa anche il presidente d’una società sportiva che vinse una gara della Provincia di Cosenza per la gestione del palazzo comunale dello sport. La procedura, per quanto a bandire dovesse essere il Comune di San Giovanni in Fiore, proprietario, fu ratificata dal commissario prefettizio Maria Carolina Ippolito, a ridosso delle nuove elezioni.
La fisiologia è identica alla vicenda della casa di riposo: la proprietà, dei locali di cura o del palazzo, è una sorta di entità deducibile e protettiva in un tempo. Il possesso (da parte di Atteritano) è una garanzia, in entrambe le situazioni. Perché la giustizia ha tempi biblici e, comunque, tutti sono convinti che, nel dubbio, è meglio condurre delle attività: dai viceprefetti ai giuristi, dai vescovi ai deputati, Mario Oliverio (Pd), presidente della Provincia di Cosenza, e Laratta.
In questo unisono, in questa corrispondenza di amorosi sensi, quando l’Abbazia florense rimase ingabbiata per tre anni a causa di errori tecnici finiti nel penale, la politica accusò i movimenti che denunciarono le irregolarità e manifestarono per il monumento. La Chiesa tacque. Il vescovo Nunnari, che oggi ci racconta di don Anastasio come l’unico difensore della povera abbazia, non rispose all’invito, per telegramma, alla catena umana del 5 gennaio 2010. Manco per una benedizione. Allora cittadini e associazioni cinsero l’edificio religioso con un abbraccio simbolico, per portare il caso alla ribalta nazionale. Partecipò via web Salvatore Borsellino.

La causa per il rilascio della casa di riposo e il bonifico da 7mila euro rifiutato da Anastasio
Nunnari fece incontrare Anastasio con Giuseppe Atteritano e Domenico Ferrarelli, a sua insaputa. Convocazione urgente per la vicenda della casa di riposo dentro l’Abbazia florense e richiesta, ad Anastasio, di nominare lo stesso avvocato, Carlo d’Ippolito, nel procedimento civile contro il Comune di San Giovanni in Fiore. «Un procedimento obbligato – racconta Filomena Bafaro, legale del Comune – perché c’erano pressioni troppo forti dell’opinione pubblica (alimentate dall’allora consigliere comunale Angelo Gentile, dei socialisti di Zavettieri, nda) e fu necessario costituirsi contro Atteritano e la Curia; anche se la citazione, confesso, è stata così, senza troppo approfondimento, giusto per». Difatti, come osservato in via preliminare nella comparsa di costituzione da D’Ippolito, legale della Curia, «il Comune di San Giovanni in Fiore dichiara di essere proprietario dell’immobile per cui è causa ma della circostanza non fornisce alcuna prova».
D’Ippolito ottiene d’inserire la parrocchia di Santa Maria delle Grazie nel procedimento. La causa va avanti. Anastasio racconta che il compenso professionale pagato dalla Curia è, da sue notizie, di 7mila euro. Il 4 maggio 2012 arriva sul conto della parrocchia un bonifico di 7mila euro, senza causale, da parte della S. Vincenzo de’ Paoli srl. Anastasio lo restituisce (copia dell’ordine bancario in foto, nda).

Vescovo protegge vescovo. Si recita a soggetto
Il vescovo Nunnari, in una lettera di risposta alla richiesta di autorizzazione per costituirsi parte civile nel processo per la sparizione delle opere sacre, informa don Anastasio di un’udienza a fine maggio 2012. Nello stesso processo c’è il vescovo Bonanno, accusato di rivelazione di segreto istruttorio. L’udienza, invece, si tiene l’otto maggio, ma Anastasio viene a saperlo dopo. Bonanno avrebbe tentato il patteggiamento, come Spadafora. Ma il giudice avrebbe respinto, con successivo ricorso dell’imputato in Cassazione. L’uso del condizionale è obbligatorio. Qui nessuno ti fornisce notizie, nessuno parla. La cappa del silenzio e la cappa dell’ipocrisia.
Certi, però, i rapporti politici e bilaterali. Nella rsa di Atteritano lavora come medico Luigi Astorino (Pdl), presidente del consiglio comunale di San Giovanni in Fiore, mentre il socio Ferrarelli è del Pd, vicino al governatore provinciale di Cosenza, Oliverio.
In questo angolo di Calabria, regione di confine, il teatro della politica e la politica del teatro spesso coincidono. I ruoli si mescolano, confondono, svaniscono, per ritornare nei riti. Che siano parate o processioni non importa. Di là dai colori di partito, ciascuno ha una posizione nello scacchiere del potere, e c’è da guadagnare con il silenzio, l’obbedienza, l’accettazione del sistema.

Fuori dal sistema, ricordando don Diana
A noi restano delle domande, che forse la procura scarterà per motivi suoi, di ermeneutica giuridica. In primo luogo vorremmo sapere che fine hanno fatto i soldi intascati da don Franco Spadafora. Poi vorremmo, di là dal diritto, che i vescovi Nunnari e Bonanno rispondessero alla coscienza pubblica, che non è solo quella di San Giovanni in Fiore, immersa nel paganesimo politico. Vorremmo che spiegassero in rete, qui dove il controllo è l’argomentazione, la logica, che ne sarà dell’Abbazia florense, bene dell’umanità, e dell’abate Anastasio, uomo e sacerdote che, in solitudine, ha denunciato reati, omissioni e pericoli. Con lo stesso coraggio e animo di don Peppe Diana.

LA REPLICA
La Chiesa sapeva da tempo dello scandalo dell’abbazia di San Giovanni in Fiore. Tutti sapevano ma in pochi hanno commentato a caldo la nostra inchiesta esclusiva sui due milioni spariti in silenzio. Nonostante l’attuale abate, don Germano Anastasio, abbia denunciato anche dall’altare ciò che è accaduto con don Franco Spadafora. A questo si aggiunge la nostra controreplica, in attesa di pungolare il Vescovo.
di Viviana Pizzi

È stato il vicensindaco di San Giovanni in Fiore (Cosenza), Battista Benincasa (Pdl), a rompere il muro del silenzio e a dirci per primo la sua opinione su quanto avvenuto a San Giovanni in Fiore. Chiarendo innanzitutto la posizione del presidente del consiglio comunale Luigi Astorino (Pdl), medico presso la casa di riposo.
“Ci tengo a chiarire – ha detto Benincasa – che non c’è nessuna connivenza politica tra il presidente del consiglio comunale e l’incarico che aveva alla casa di riposo. Non aveva nessun legame con chi gestiva la casa dove lavorava come medico. Pensare questo mi sembra ingiustificato e ingeneroso. Per quanto riguarda l’inchiesta c’è la magistratura che farà luce sulla cosa. I soldi sono stati presi e qualcuno dovrà pur pagare”.
Antonio Barile (Pdl), primo cittadino di San Giovanni in Fiore, ha preferito non commentare, passando la palla all’assessore comunale alla cultura, Giovanni Iaquinta. Il quale ha puntato tutto sulle bellezze artistiche dell’Abbazia e sulla sua storia.
“Considerato lo sviluppo e il decollo della nostra città – ha dichiarato Iaquinta – non si può questo complesso è la parte più prestigiosa della nostra comunità. Di conseguenza, senza entrare nel merito della vicenda, ritengo che i tempi siano maturi per affrontare l’argomento e per mettere in luce il valore universale dell’Abbazia. Colgo l’occasione per rendere omaggio a don Vincenzo Mascaro, che nel 1989 ha permesso la riapertura del sito. A me le polemiche sterili non interessano, posso solo dire che l’Abbazia è un buon esempio di civiltà per i calabresi nel mondo. Trattare la questione in modo strumentale non serve a nessuno. Parlare di Abbazia equivale al giorno d’oggi a quattro variabili importanti: cultura, civiltà, storia e futuro”.
“Più in generale – ha proseguito Iaquinta – significa un attaccamento a una forma sempre viva e vincente di civiltà, una nuova forma di umanesimo che è ancora importante e fondamentale nel ventunesimo secolo”.
Un parere arriva anche da Franco Laratta, deputato Pd e segretario cittadino del partito di San Giovanni in Fiore.
“Non entro nel merito dell’inchiesta”, ha dichiarato il parlamentare democratico, aggiungendo: “L’Abbazia in quel periodo ha conosciuto una delle migliori gestioni in assoluto. In quegli anni il turismo ha avuto davvero un’impennata. Nelle questioni personali di don Franco Spadafora non voglio entrare. C’è stato un processo ed è stato condannato. È al centro di una vendita di beni. Si trova lì e non si sa bene come. Non sappiamo se è stato costretto a subire un ricatto”.
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di Emiliano Morrone
A bon entendeur salut, dicono i francesi. Reputo interessanti i commenti alla nostra Viviana Pizzi di rappresentanti istituzionali di San Giovanni in Fiore (Cosenza), la città di Gioacchino da Fiore e della sua Abbazia florense, monumento del XIII secolo sfruttato, svenduto, spartito e abbandonato.
Ieri abbiamo raccontato, carte alla mano, come da reati commessi da un prete, don Franco Spadafora, si siano create le condizioni per un ignobile mercato intorno all’Abbazia florense, la cui architettura esprime la verità di un’antica tradizione spirituale, utopistica, attualissima nell’odierno capitalismo finanziario.
Il Vangelo parla, sappiamo, della cacciata dei mercanti dal tempio. Ciò è esattamente quanto la Chiesa, che è istituzione, deve fare per tutelare se stessa, la memoria e la santità viva di Gioacchino, anche in senso laico-rivoluzionario.
Gioacchino da Fiore è il precursore del francescanesimo ed è il profeta della «Terza Età», un tempo di emancipazione spirituale.
Ma scendiamo nel concreto. La Chiesa è chiamata ad agire, dopo i gravi e inquietanti episodi accaduti: sparizione e commercio di opere sacre, vendita illegittima di loculi e terreni parrocchiali, abusi su proprietà pubbliche, complicità in violazioni amministrative accertate, oltraggio al testamento di un benefattore (il dottore Alfredo Antonio Oliverio) e mancanza di trasparenza nella gestione di beni della comunità religiosa, con appropriazione di suoi valori da parte di ignoti, ad oggi impuniti.
Questo elenco di scempi e razzie è la causa dell’imperdonabile degrado dell’Abbazia florense, per le ragioni che abbiamo esposto nella nostra inchiesta di ieri. La politica doveva entrare nel merito, doveva dirci se è vero o falso quanto ha scritto Infiltrato; magari accusandoci di mistificazione, di stoltezza, d’invenzione suggestiva, di sciacallaggio, di opportunismo all’ennesima potenza. Doveva assumersi la responsabilità della parola, perché, al di là della storia profonda della Calabria, che sempre abbiamo difeso, siamo in una regione di silenzi, omertà e paura di schierarci.
Noi una posizione l’abbiamo presa, assumendocene ogni onere. Non abbiamo affatto accusato di «connivenza» il presidente del consiglio comunale Luigi Astorino, né crediamo che don Spadafora sia un mostro di cui liberarsi. Al contrario, ma qui mi pare pleonastica un’interpretazione autentica, abbiamo espresso un concetto semplicissimo: i soldi che il prete ha intascato sono spariti. Si parla di due milioni di euro. Sono andati alla casa di riposo, prima che fosse ceduta per debiti, o, come il deputato Laratta ha ipotizzato, sono valsi a fermare qualche ricatto ai danni di don Spadafora?
Per ultimo, basta con le difese d’ufficio, detto con rispetto. E basta con i discorsi generici, astratti. Qui dobbiamo abituarci a ragionare sui problemi e, di là dagli accertamenti della magistratura, che interessano solo il penale, dobbiamo fornire risposte rapide, coraggiose e vere.

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Cos’è la bellezza? Mag Magazine intervista Giulio Cavalli

Pubblicata su Mag Magazine

Cos’è la bellezza?
Un campo in cui non si possono comprare le mediazioni, in cui non è concesso il servilismo e nemmeno la prostituzione. Davanti alla bellezza chi non è intellettualmente onesto e pulito di cuore non è credibile.

Quando ti senti veramente libero?
Sul palcoscenico, è il mio naturale momento di liberazione. Il recupero di un rapporto visivo e tattile con la gente. La celebrazione del rito laico dell’esercizio collettivo della memoria. In scena entro in uno stato confusionale creativo che è solo parola. Non esiste altro. La parola e il respiro e le reazioni del pubblico.

Negli anni è cambiato il tuo concetto di libertà?
Sicuramente. Ho sempre urlato – e continuerò a farlo – contro la censura in generale ma mi sono ritrovato troppo spesso a contatto con persone che si autocensurano, che ritengono più comodo dire una frase in meno o un cognome in meno. Ecco, la libertà è non paventare in nessun modo la possibilità dell’autocensura.

Guardando al passato cosa è rimasto come prima e cosa è totalmente cambiato?
È rimasta intatta la voglia di non scendere a compromessi nella stesura e nella visione degli spettacoli e dei libri. Sono nato “di parte” (dove per parte si intende la responsabilità di prendere una posizione all’interno della storia che racconto) e continuo ad impegnarmi e a non prendermi troppo sul serio (altrimenti il rischio sarebbe quello di piegarsi sulla narrazione di me piuttosto che raccontare i fatti). Oggi sicuramente la responsabilità che sento è esponenzialmente maggiore. Ma è un dazio dolce da pagare: significa che il mio pubblico e i miei lettori hanno deciso di affidarmi un compito che mi onora.

Perché vivi sotto scorta?
Perché siamo nel Paese in cui cinquecento anni fa i miei colleghi cantastorie venivano impiccati. E addirittura sepolti da indegni fuori dalle mura della città insieme alle prostitute (e pensare che oggi un giullare e una prostituta sono nella stessa assemblea legislativa). Il potere non sopporta di essere raccontato nella sua pateticità quando ha bisogno di diventare prepotente per governare perché non è in grado di farlo secondo le regole.

Qual è il tuo rapporto con la paura?
Molto privato e molto combattuto. La vera paura è il ritrovarsi solo.

Ti senti solo?
Spesso. Più a causa degli amici falsi cortesi che dei miei nemici dichiarati.

Se potessi tornare indietro rifaresti tutto?
Assolutamente si , perché mi ritengo un privilegiato, una persona che ha la fortuna di lavorare con gente straordinaria. Ho un pubblico che mi ascolta e questo è il sogno di qualsiasi attore e di qualsiasi scrittore; ho la fortuna di riconoscermi nella battaglia che porto avanti e in qualsiasi cosa faccio. Sono molto contento.

Ti alzi mai la mattina chiedendoti “ma ne valeva la pena”?
Sì, perché non farei mai tutto questo se non sapessi che un giorno i miei figli potranno goderne i frutti e perché c’è un articolo della Costituzione, che è l’articolo 4, che dice che ognuno di noi nella propria professione deve concorrere e ha il dovere di farlo alla crescita materiale e spirituale di questo Paese e, quindi, stare in silenzio è anticostituzionale.

Come vivi sotto scorta?
Normalmente, perché ci sono 670 persone sotto scorta in Italia, perché ci sono persone che rinunciano nei quartieri più difficili di Palermo di pagare il pizzo, magari dei panettieri, e non hanno la visibilità che tutela, invece, un personaggio come me. Io ho sempre sentito l’obbligo di utilizzare il mio aspetto pubblico non per fare ombra a queste persone, ma per illuminare storie che forse sono meno spendibili di quelle dell’attore o dello scrittore.

Quali sono stati i tuoi maestri?
Nel teatro penso a Paolo Rossi. È stato il mio primo incontro e sicuramente ha segnato una svolta. Poi negli anni penso all’incontro con Dario Fo e alla collaborazione su un suo testo. È stata l’unica volta che ho portato in scena un testo non mio. Poi penso a Renato Sarti, un esempio di teatro applicato alla cittadinanza che tanto mi ha insegnato e continua ad essere per me un riferimento non solo sulla scena, ma anche e soprattutto nella vita.

Perché, nell’ultimo tuo libro e spettacolo teatrale, hai deciso di raccontare la storia di Andreotti?
Perché è ancora attuale. Non mi interessa la sua storia in quanto tale, ma l’Andreottismo e i nuovi Andreotti. Per riconoscere i politici che fanno politiche convergenti con le mafie bisogna prima capire come funzionava l’originale.

Chi sono i nuovi Andreotti?
La vicenda di Dell’Utri è molto vicina a quella di Andreotti. I nuovi Andreotti sono tutti i politici che decidono di fare delle scelte politiche consultandosi non negli organi istituzionali ma nell’ombra, che potremmo definire osceno, ovvero fuori scena. Dove non possono essere visti da nessuno. Abbiamo migliaia di esempi.

C’è un collegamento tra il tuo essere scrittore e, allo stesso tempo, consigliere regionale di “Sel”?
Sì, nella scrittura teatrale ho sempre trattato temi fortemente politici. I miei spettacoli o libri hanno una chiara presa di posizione politica. Gramsci diceva che il buon politico deve essere un ottimo drammaturgo, perché deve riuscire ad immaginare il riflesso di qualsiasi scelta politica nella drammaturgia dei cittadini. Il teatro e i libri sono luoghi in cui si cerca di dare delle chiavi collettive su alcune problematiche, che è una cosa che dovrebbe fare la politica.