Vai al contenuto

libri

E se?

E se non fosse più il tempo delle blandizie centriste? Se non fosse più il momento dell’equilibrismo autoreferenziale, dei salotti, dei caminetti? Se non avessero più senso né la sicumera catastrofista di certi economisti dell’alta finanza né l’egocentrismo mediatico di lillipuziani segretari di partito? Se non fosse più il tempo della favola liberista (e liberticida)?

Se il mantra della crescita fosse solo un abbaglio? Se non servisse più accettare supinamente patti di stabilità, strette del credito, svendite, privatizzazioni? Se non fosse più eticamente accettabile dimenticare non solo i nomi dei morti ammazzati, ma anche quelli dei responsabili; i nomi e i cognomi di chi con ostinazione ancora infligge a questo Paese la pena più grave, quella dell’incoscienza? Se non volessimo chiedere consigli a oracoli ottuagenari, figli (se non padri) di una classe dirigente grigia e vergognosamente colpevole?

Se fosse giunto il momento della resa dei conti? Se fosse l’ora di parlar chiaro e parlarci, magari dando le spalle all’ombroso miraggio di confusi papocchi? Se provassimo a unire anziché dividere; a difendere un’idea invece di tramortirla e vivisezionarla per poi seppellirne le spoglie in qualche cimitero del diritto castale?

Per favore leggete qui Claudio oggi su Non Mi Fermo. Perché non è così difficile.

Nulla (e Marcello Fois)

Ho conosciuto Marcello di fretta a Bologna. In un salone tutto affreschi e statue di un’epoca che si voleva scrollare da un salone in cui si leggevano libri ad alta voce. Abbiamo parlato. Sotto voce per non disturbare quelli che recitavano. Poi sono passati anni, ci siamo rincontrati a Gavoi, per il Festival Letterario. Lì invece l’epoca è coerente con la gente, le case e il sole tutto intorno. Abbiamo parlato a lungo. Questa volta come parlano gli amici che sono contenti di potere fare chiasso senza remore. Disinibiti per amicizia.

Oggi viaggiavo seduto sul sedile posteriore. Mi sono ripreso un libro di Marcello. Un libro del 1997. Volevo andare a curiosare come un archeologo il suo lavoro, la scrittura, la strada che c’è dietro quel bicchiere di mirto che abbiamo bevuto in quella sera che ci ha fatto stare così bene. Ho letto Nulla (1997, edito dalla casa editrice sarda «Il Maestrale», 130 pagine) perché sapevo che c’era tanto dei suoi posti. Di quei posti.  E ci ho trovato dentro tutto il sapore di quel vento che si alzava quella sera. Ma dentro c’è anche un pezzo di disperazione che è di questo tempo. Di questo tempo di suicidi indecifrabili e brevi. E’ un libro di solitudini che non trovano parole per raccontarsi, paesi dove potere abitare e per fortuna hanno almeno un libro in cui trovare un po’ di pace.

E, insomma, fossi in voi, lo leggerei. Sul serio.

17 anni
A guardarti dormire, così disarticolato, nelle poche ore della tua notte che concedevi al sonno, potevi sembrare un povero corpo precipitato da un cavalcavia. Uno straccetto umido caduto da un balcone.
La mattina. E la notte. In mezzo: pomeriggio e sera. Certezze da poco. Ma facevano sembrare la vita una serie ininterrotta di fatti.
Magari era abbastanza. Certo, all’inizio, era abbastanza.
A nulla, proprio al centro del nulla, ci sono dei quartieri dove è indispensabile essere prosaici. Ci sono case, che non significano nient’altro che spazi su spazi. Esasperazioni del possibile abitabile. Quartieri dove è indispensabile essere paradossali: rappresentano un approdo. Il sogno che si avvera. La fuga. Fa sorridere messa in questo modo: che si debba fuggire a furia di blocchetti di cemento.
Che si debba cercare nel chiuso una via d’uscita. Altre volte si viveva nei cortili, con vecchie sedute all’uscio su sgabelli che sparivano sotto le gonne. A sbucciare bacelli, i semi per la zuppa i gusci per i porci, o a mondare il grano. Con giovanette timide intente a ricamare corredi. Con bambini selvaggi impegnati nella caccia fra le ortensie grasse. Non è che fosse meglio, ma era un abito perfetto, un paio di scarpe comode…
Per te pareva che potesse funzionare: tre quarti della giornata a resistere; poi arrivava la notte. La notte dei poeti r delle poesie. La notte in cui si riusciva ad immaginare la vita.

Dove eravamo? Adesso siamo qui

Giro l’Italia per incontri, presentazioni di libri, spettacoli e conferenza. Sono molto fortunato. Sono molto fortunato perché mi ha insegnato ad ascoltare. E non è facile come sembra: richiede curiosità e fatica. Poi ogni tanto trovo l’eco di una presentazione su qualche frammento sul web. E penso sempre di più che ne valga la pena, sul serio. E che sono tantissime le occasioni in cui avrei bisogno di qualche minuto in più per fermarmi e ascoltare, discutere, parlare. Valeria Grimaldi scrive della presentazione del libro Dove eravamo (Caracò editore) e infonde bellezza e forza:

Una parola usata da Giulio Cavalli mi ha colpito molto: la parola lutto. “Il lutto è già passato” riferendosi alle stragi. Ho sentito un bruciore al cuore, la rabbia che saliva: forse perchè ho vent’anni, forse per un rimorso non dipeso da me ma solo dal tempo, perchè non ho un ricordo personale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Perchè non sono potuta essere lì a sostenerli quando ancora erano in vita. Il mio lutto non è passato, credo non passerà mai: ogni giorno saranno il 23 maggio e il 19 luglio. Ogni giorno mi farò la stessa domanda: dove sono? A combattere. Per loro, per me, per tutti.

Il post completo è qui.

La sinistra è come mia zia

Francesco Piccolo per il Corriere della Sera scrive del film The Artist ma, soprattutto, di coloro erano stati chiamati al mondo per spingerlo in avanti e non per tenere premuto il freno:

Tutti, tutti almeno una volta alla settimana sentono di dover comunicare al mondo di sentirsi estranei al presente. Tutti, insomma, hanno una gran voglia di sentirsi incompresi e isolati come The Artist. Ovviamente in questo elenco disordinato e parziale ci sono valori oggettivi (e non parlo solo di Platini). Però poi se si ragiona così si finisce per fare film sulla bellezza del passato, e per giunta per farli come si facevano in passato. E poi questo film fa sciogliere in lacrime chi va a vederlo. Ed è proprio questa la novità — mi sembra: finora, abbiamo assistito a una pressione logica delle idee reazionarie; più spesso, a una veste irrazionale, poco comprensibile ma di cui bisognava prendere atto. Questo film fa un passo ulteriore: è costruito per coinvolgere lo spettatore complice sul piano emotivo. È la prima opera-manifesto che seduce i reazionari emotivamente, che li fa commuovere al pensiero di se stessi e delle proprie lotte.

Tutti (o quasi tutti) quelli che pensano e riflettono e vanno ai festival culturali e scrivono libri e li leggono, in questi anni, credono sia loro dovere fare resistenza al nuovo. Il ceto medio riflessivo, sul quale abbiamo fatto affidamento per la ricostruzione di un Paese civile e innovato, pensa che la soluzione sia semplice: opporsi alle tecnologie, non concedere al nemico (il progresso) nemmeno un centimetro del territorio (la conservazione del passato). Del resto, a dirla tutta, anche Franzen scrive romanzi bellissimi, il cui unico difetto sta nel fatto che tendono (consapevolmente) a sembrare dei romanzi alla Zola. Ma pare che questo sia proprio il suo pregio. Tutto bene, tranne per due cose: il fatto che il ceto medio riflessivo, gli intellettuali che lo rappresentano, mia zia e Franzen erano stati chiamati al mondo per spingerlo in avanti e non per tenere premuto il freno. E la seconda: ma noi tutti, qui, nel presente, allora, cosa ci stiamo a fare?

Stavolta facciamo sul serio, Lucinda

Si incontrano al museo per farla finita. Negli austeri saloni pieni di arte concettuale, soli di giovedì pomeriggio, Lucinda Hoekke e Matthew Plangent erano sicuri di poter parlare al riparo da ogni tentazione. E poi, il viaggio in macchina nei canyon delle piazze deserte del centro di Los Angeles aveva la giusta magnificenza e irrevocabilità. L’idea era smettere non di essere amici, o membri della stessa band, ma di esse amanti.

Lucinda lo vide per la prima volta. Matthew, un vegetariano alto e mal nutrito, era di una bellezza inconsapevole, una bellezza da cantante. Era vestito come per lavorare allo zoo o provare con la band, dolcevita nero, jeans e immacolati scarponi scamosciati da lavoro che, come sapeva Lucinda, riponeva nell’armadietto quando entrava nell’habitat degli animali. Doveva aver chiesto un permesso per il turno pomeridiano di assistente veterinario, o forse ara il suo giorno libero. Per quattro anni Lucinda aveva preparato il caffè e sparecchiato i tavoli al Coffee Chairs, ma si era licenziata il giorno prima, in base a quel programma di cambiamenti di cui faceva parte la rottura definitiva con Matthew. Per pagarsi l’affitto aveva accettato un’occupazione nella galleria del suo amico Falmouth Strand. Entrando nel museo Lucinda si era fermata davanti a due eroici pilastri di neon montati ai lati del vano di una porta, e vi aveva scorto soltanto un’altra versione di sé e di Matthew: separati, sigillati, rilucenti. Ora vedendo Matthew, sentì che i sensi le si accendevano, l’equilibrio si spostava sulla punta dei piedi. Lui stava sbirciando con diffidenza un monitor installato su un frontone bianco, una specie di video arte. Forse per lui, come per lei, tutto quanto nel museo si riduceva a un’allegoria del loro dilemma. Sfinita dal vecchio richiamo della sua bellezza, dalla sua intensità trasandata, dai suoi arti snelli, Lucinda era pronta per lasciare che Matthew e la sua allure se ne sloggiassero altrove.

Gli si mise accanto in silenzio, la peluria sulle loro braccia si sollevò elettrizzata. vagarono per le sale come zombie, esitando a lungo davanti a un paio di palloni da basket che galleggiavano perfettamente sospesi al centro di una cisterna di acqua di vetro.

“Il problema è che l’abbiamo fatto tante di quelle volte che siamo diventati troppo bravi.”

Lo sguardo di Matthew rimase fisso sulla cisterna. “Vuoi dire che non c’e’ niente da aggiungere.”

“Si, ma anche che non ci crediamo davvero perchè siamo tornati insieme tante volte. Questa deve essere diversa dalle altre.”

“Stavolta facciamo sul serio, Lucinda”

“D’altra parte, il vantaggio di tutte queste prove di rottura è che sappiamo di piacerci ancora, quindi non c’e’ da temere di non riuscire a rimanere amici.”

(Non mi ami ancora, Jonathan Lethem, Il Saggiatore Editore, ed 2011)

Sono orfano e non so cosa dire sulla ‘ruota’ alla Mangiagalli

Questo dovrebbe essere uno di quegli articoli che uno li legge e pensa, wow, pensa da solo con il suo essere solo, wow, che bell’articolo. Pubblicato così tardi, quasi notte, perché si è sicuri che giri comunque. Virale nonostante l’orario. Insomma.

E’ che ci sono rimasto due giorni, due, duegiornidue, su questa storia di Mario, che hanno lasciato nella ruota degli orfani della Mangiagalli a Milano. Depositato come un figlio spurio in contrassegno. Una cosa del genere. E voi già pensate che questo articolo è un articolo irrispettoso e duro, sono sicuro, che lo pensate. Ma adesso ci arriviamo. E vedete.

Il bambino dentro la ruota nel Medioevo (ce lo insegnano i libri del Medioevo, quelli scritti di quegli anni lì, mica sappiamo se sono stati i servi dell’informazione dell’epoca e allora li riprendiamo subito per buoni) è una pratica che dobbiamo storicamente accettare. Ci dicono che bisogna “storicamente” accettare quando ci presentano un vassoio impresentabile ma con cent’anni di motivazioni dietro. Abitudini, mica valori. Ma cent’anni di valori. Mica noccioline.

E’ che mi chiedo come si possa raccontare una storia di un orfano lasciato sulla ruota degli orfani. Perchè poi anche i giornali ci hanno messo del loro e hanno affilato le penne. Scrive il Corriere che: L’ultimo gesto d’amore della mamma in difficoltà è un biberon di latte materno e qualche vestitino lasciati al suo fianco. Prima di abbandonarlo. Sono le sei e mezza del pomeriggio di ieri quando una donna, probabilmente europea, schiaccia il pulsante rosso della «Culla per la vita» della clinica Mangiagalli, la saracinesca si alza per chiudersi quindici secondi dopo, dentro rimane il neonato, un ciuffo di capelli scuri e una tutina azzurra.

Sotto c’è una canzone soul troppo ubriaca per essere musicalmente credibile. Troppo.

E ora, per essere pronti allo sprint sempiterno delle primarie in tutti questi penultimatum politici, bisognerebbe anche capire bene come declinarla questa cosa. Del bambino lasciato solo come si lasciano soli i bambini lasciati.

Trovare un senso per scrivere il pretesto di un ordine del giorno, una mozione o un progetto di legge se sei un geniale legislatore del marketing politico.

Invece è solo dolore. Inadeguatezza. Senza parole senza, senza nemmeno una parola da dire.

E’ che sono stato adottato. Incredibile, direte voi, adottato. Lui. Giulio Cavalli che combatte la mafia. Pure adottato. Scortato e adottato. Che tristezza buona per farci la fascetta di un libro. Urrà, dicono  distributori di malinconia da scaffale.

E un po’ mi stupisce (mica io, mi stupisco, anche se sarebbe una bella frase ad effetto), mi stupisce che sono stato adottato e credo che la legge 194 sia da conservare, custodire e difendere a mani giunte come si giungono le mani laiche pronte a immolarsi per una valore con religioso coraggio.

E non so proprio cosa dire su Mario lasciato nella ruota. Un silenzio con dentro tutto un mondo di bene. Mica solidale. Inadeguato come ci si sente inadeguati davanti all’amore che si ha paura di perdere e di solito è l’amore della vita.

Però almeno sulla storia di Mario ho deciso di scrivere e confessare questo pezzo del mito da sgretolare. Anche perché sono finito a chiedere l’amicizia su facebook a mio fratello Giuseppe che non sa nemmeno di essere mio fratello. Perché il cognome è diverso e mi ha scritto “chi sei?”, così mi ha scritto. E io non gli ho risposto mai. Mai.

Buona notte Mario. Domani ti sveglierai e capirai (un pezzo, non troppo, con parsimonia) che tutto è terribilmente complicato da essere troppo affascinante per lasciare perdere.

Anche senza sofismi e conclusioni come quelle che ci si aspetterebbe da un aspirante statista.

Se l’albero è parte lesa

Una riflessione (che sembra così ardita di questi tempi in cui già il consumo di suolo è eversivo nel suo significato politico) di Corman Cullinan sul Corriere della Sera che apre uno scenario di pensiero che può solo portare buoni frutti. Appunto.

C’è una Magna Carta universale che gli umani faticano a riconoscere e però sovrasta qualsiasi Costituzione scritta dagli umani stessi. Cormac Cullinan, socio fondatore della Cullinan&Associates Inc., studio legale di Città del Capo, in Sud Africa, la chiama Wild Law (guarda i dieci punti caldi del pianeta), o legge della natura: «Siamo così abituati a conformarci a un diritto che punta al controllo e allo sfruttamento della natura, che la sola idea che la legge debba piuttosto essere al servizio delle forze naturali ci pare assurda, una contraddizione. Invece, dovremmo riflettere sul fatto che gran parte delle nostre leggi contribuisce alla soppressione della wildness, l’ambiente incontaminato». Insomma, è tempo di ribaltare la filosofia antropocentrica che ha forgiato la giurisprudenza moderna e recuperare quei principi universali che governano l’esistenza di tutti i membri della comunità terrestre.

E per chi già pensa che si uno squilibrio troppo laico rispetto al liberismo che deve crescere senza moralismi Cullinan mostra di avere pesato con attenzione e intelligenza la misura:

Negli ultimi anni, anche grazie alla spinta delle convenzioni internazionali, si è ampliato il campo della cosiddetta «giurisprudenza ambientale». Eppure Cormac mette subito in chiaro che la Wild Law è un’altra cosa: «Le leggi ambientali modificano i sistemi legali esistenti proibendo o limitando la possibilità di danni all’ambiente, per esempio attraverso l’introduzione di permessi per l’attività mineraria, il disboscamento, l’edilizia, l’inquinamento ». Leggi che non contrastano, però, la concezione di base della nostra giurisprudenza, e cioè che il mondo è una collezione di «oggetti» (o risorse naturali) a disposizione dell’uomo. «Le leggi ambientali impongono alcune restrizioni al diritto di proprietà ma continuano a considerare il mondo naturale come una proprietà. In base alla Wild Law, invece, lo scopo del sistema legale non è di permettere agli uomini di dominare e sfruttare gli altri membri della comunità terrestre, con un’attitudine coloniale, ma di mantenere un equilibrio fra gli interessi degli uni e degli altri, garantendo l’integrità dell’intero ecosistema. «Le leggi ambientali sono l’equivalente delle leggi che limitavano il diritto di punizione di un possidente sul proprio schiavo, mentre la Wild Law vuole abolire la schiavitù, cioè impedire all’uomo di trattare la Natura come uno schiavo», sostiene Cormac. Un passo in più anche rispetto ai cosiddetti «diritti animali», perché secondo la Wild Law sono soggetti legali, e quindi detentori di diritti, anche fiumi, montagne, mari, piante… «Il diritto umano alla vita, all’acqua, al cibo, perde ogni significato se l’ecosistema che produce quell’acqua e quel cibo non ha diritti e se la popolazione non può far causa contro chi quei diritti non rispetta». Realtà o utopia? La maggior parte delle attività umane emette CO2. Nel mondo ideale di Cormac, sarebbero tutte illecite? «L’intenzione non è di proibire qualsiasi attività umana che impatti sulla natura. Significherebbe che non potremmo neppure mangiare. Il punto è come impedire agli umani di danneggiare la natura per motivi futili o egoistici. Se riusciamo a costruire auto che non impattano sui sistemi ecologici, non è necessario rinunciare alla guida. Se invece l’industria automobilistica mette a repentaglio la vita delle generazioni future, è meglio spegnere i motori».

 


Magari con le figure funziona

Vediamo se si riesce con le figure. Perché a parole lo ripetiamo da anni nelle scuole, nei libri, nelle piazze e negli spettacoli che i centri commerciali (e, soprattutto qui in Lombardia) stanno così tanti e così vicini da non avere abbastanza clienti. Mentre la politica e le associazioni di categoria non sanno mai trovarci una giustificazione credibile. Che l’ipermercato vicino a casa spesso è il monumento di pezzi di imprenditoria che hanno bisogno di spendere piuttosto di guadagnare. Soldi che devono assumere una forma qualsiasi l’importante è che non puzzino più di soldi, che non abbiano la forma riconoscibile dei soldi: come le case costruite nei nostri paesi che non vengono vendute, le zone industriali nuove di fianco a quelle vecchie tutte disabitate. Legambiente ne parla, con le figure. Magari così è più chiaro.

Le mafie fanno shopping

View more PowerPoint from Legambiente Onlus

Grazie a Paolo Pinzuti per la segnalazione. Qui la sua riflessione su ipermercati e mobilità.

E alla fine sarà colpa nostra anche via D’Amelio

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Siamo cresciuti con Falcone e Borsellino nelle orecchie come un mantra per farci addormentare. Sembrava semplice, anche, a vederlo da fuori o da lontano, arrampicati quassù a Milano dove le bombe al massimo erano un incidente di percorso ma senza rischio. Chi erano i buoni e chi erano i cattivi: era semplice. Loro, ci dicevano, li hanno uccisi perché erano buoni, Falcone perché combatteva la mafia. E allora così piccolo e sprovveduto pensavi sempre che era una battaglia a perdere, quella contro la mafia, come la bottiglia da restituire quando ci hai bevuto tutta l’acqua dentro. Borsellino l’hanno ucciso perché era l’amico di Falcone, il suo erede. E ce l’hanno raccontato con quelle facce che hanno gli adulti quando sanno di raccontare una storia che è così chiara da sembrare banale, con le certezze dei dogmi da passare ai figli con la solennità che si addice ai padri sempre un po’ di fretta di ritorno dal lavoro.

Era la stessa faccia che si ingrugniva su Andreotti, che forse sì, non era stato sempre trasparente ma “la mafia è un’altra cosa”. Forse Andreotti l’aveva incrociata a qualche fermata del tram o l’aveva salutata seduta al tavolo di fianco durante la pausa pranzo. Ma “la mafia è un’altra cosa”. Oppure le facce con il mezzo sorriso dei cretini mentre scuotevano la testa quando si diceva di odore di mafia con Raul Gardini, che da noi, qui giù al nord, era l’abbronzato più nordico che si potesse immaginare. Insomma sì, la politica e qualche imprenditore saranno stati un po’ spericolati in quegli anni ma “la mafia è un’altra cosa” e l’importante è santificare i morti. Ricordandosi e ricordandoci tutti che la mafia è sporca e cattiva, tutti insieme nella santa messa dei morti ammazzati saltati in aria quell’anno lì, quell’anno di Falconeeborsellino scritto tutto attaccato come si mischiano le cose quando perdono la memoria e il senso.

Poi ci è toccato di andare a studiare Andreotti com’era Andreotti dentro le carte del processo, cosa diceva Dalla Chiesa al figlio e alla moglie, abbiamo frugato nei cassonetti della memoria superficiale e deteriorabile in fretta per ripescare gli articoli che si incaponivano, che non volevano semplificare. Che non era tutto bianco e nero e che in mezzo al brodo di tutto quel grigio ci stava la forza buia degli ultimi vent’anni. Non è nemmeno stato facile trovare le memorie di quel tempo: gli articoli stavano annichiliti dietro alla lavagna, dove si castigano gli allarmisti per professione e per eversione professionale.

Ora quel 1992 e quella bomba esplosa sotto le scarpe di Paolo Borsellino forse non è più così semplice. Ora le indagini e le Procure dicono che c’era qualcosa in più. Forse, ci dicono, forse non è vero “che la mafia è un’altra cosa”. Forse il filo rosso che sta dietro gli ultimi venti anni ha un padre che viene da molto lontano e dei figli che sono la seconda generazione di quel buco in via D’Amelio. Figli dallo stesso utero del tritolo di Capaci. Altro che buoni e cattivi, bianco o nero, e i complotti che stanno a zero. Altro che le farneticazioni dei figli, dei fratelli e dei parenti che non riescono a sopravvivere tranuquilli ai familiari morti ammazzati.

Qualcuno balbetta, sì forse abbiamo dato per scontato e invece c’è qualche scheggia impazzita. Provano a tranquillizzarci così. Un’educazione antimafiosa di errori, banalizzazioni e falsità e provano a discolparsi accusando pochi personaggi minori della storia. Poi ci diranno che bisogna aspettare i riscontri. Sicuro. E che comunque queste sono le settimane della memoria: mani giunte, sguardo umido e poche domande. Non si bisbiglia durante la messa. E’ un peccato mortale.

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Pubblicato su I Siciliani Giovani – giugno 2012

Per scaricare il nuovo numero: www.isiciliani.it

Nell’uscita di questo mese:

Margherita Ingoglia e Michela Mancini  Giovani: Telejato e Siciliani Gian Carlo Caselli Illusioni e verità Nando dalla ChiesaNdrangheta e sanità Giulio Cavalli Via D’Amelio Riccardo Orioles Maledetta antimafia Norma Ferrara / Sabina Longhitano Gaetano Liardo Un’estate libera Emanuele Midolo Terre bruciate Giovanni Caruso Terre bruciate Pietro Orsatti Beni confiscati Rino GiacaloneBeni confiscati Rino Giacalone Il mancato arresto di Messina Denaro Francesco Feola Rewind-Forward Salvo Vitale Muoiono 40 tv, si salva Telejato Maria Visconti e Salvo Ognibene Telejato e le scuole di Bologna Studenti di Bologna Lettera al Presidente Nadia Furnari Rita Atria vent’anni dopo Luciano Mirone Il caso Manca Antonio Mazzeo I droni di Sigonella Sara Spartà Niscemi: NoMuos e antimafia Arnaldo Capezzuto L’azzardo di Laboccetta Arnaldo Capezzuto L’editto di Nick ‘o ‘Mericano Ester Castano Perego e ‘ndrangheta Desirée Miranda e Leandro Perrotta Catania/ “Vuoi parlare? Paga!” Salvo Vitale L’affare dela distilleria BertolinoMargherita Ingroglia Partinico/ Elezioni in cosca Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Pantelleria/ Un sindaco in mezzo al mareCarlo Gubitosa, Kanjano e Mauro Biani Mamma Jack Daniel Satira/ Vergine again Luca Salici e Luca Ferrara Grafic Novel/ Caponnetto Antonello Oliva Musica/ I nuovi cantautori Elio Camilleri Storia/ Portella delle Ginestre Alessandro Romeo Altri Sud/ Pausa indiana Giuseppe Giustolisi Medici catanesi Daniela Sammitto Chi vuol chiudere la comunità Rossana Spadaro Vittoria/ Volti e storie Lorenzo Baldo Interviste/ Alfredo Morvillo Giovanni Abbagnato Palermo fra passato e futuro Irene Di Nora Antimafia in IrlandaAntonio Cimino Da Chinnici a Borsellino Salvo Vitale Antimafie, Istruzioni per l’uso Rossomando Campania/ Il triangolo del lavoroPietro Orsatti Fare libri Fabio Vita Apple vs Bitcoin Pino Finocchiaro Lettere al Quirinale Riccardo De Gennaro “Fondata sul lavoro”Gapa I bambini, la resistenza, i perseguitati Piero Cimaglia e Daniela Siciliano Uomini e no Giovanni Caruso Periferie/ La fossa Dino Frisullo Periferie/ Malli Gullu Fabio D’Urso e Luciano Bruno Ballata della città dimenticata Giuseppe Fava Sicilia, miseria e miliardi

Lìberos.

Domenica sarò a Gavoi, in Sardegna, per il IX festival della Letteratura. Ma non è questo il punto. In Sardegna l’infaticabile Michela Murgia ha deciso di uscire dalla penna e costruire relazioni che pensino a un mercato più etico, più responsabilizzante e sicuramente più consono alle parole che ci stanno dentro ai libri, piuttosto che intorno. Ed è un passo che parte dalla scrittura (da dove altrimenti, se non nella piazza dei narratori?) ma sicuramente si allargherà (e in molti si stanno già ripensando). La crisi in tutte le sue forme non sarà passeggera. Non solo quella finanziaria e lavorativa. La crisi nella cultura dà l’occasione di accendere la fantasia. E provare ad osare sul serio, perché quello che credevamo certo e vero forse non lo è. Qui un estratto del pezzo di Michela Murgia per Repubblica:

Il festival di Gavoi, che in questi giorni celebra nel cuore dell’isola la sua nona edizione con nomi come Chiara Valerio, Giulio Cavalli e David Riondino, è l’esempio di come in Sardegna il movimento culturale intorno ai libri non accenni a fermarsi, nemmeno ora che i rivoli del denaro pubblico vanno assottigliandosi fino all’aridità.

Il salto di qualità non può che essere quello di prendersi sul serio, riconoscendo le proprie sane condizioni relazionali e provando a farle diventare un sistema; la Sardegna lo ha fatto e il nome di questo sistema è Lìberos, parola sarda che significa sia libri che liberi. Lìberos è un network che mette insieme i lettori e tutti gli attori della filiera editoriale: dai librai ai bibliotecari, dagli editori agli scrittori, fino alle associazioni culturali e agli agenti letterari. L’atto fondativo di Lìberos è un codice etico, espressione di decine di confronti con tutte le categorie coinvolte, limato fino a trovare l’equilibrio che garantisse condizioni di vantaggio sia sociale

che commerciale, ma comunque collettivo. Il patto è fatto di pochi, chiari punti: gli editori che non smettono di investire sulle scritture giovani, rischiose per definizione, potranno contare sugli autori affermati, che garantiscono azioni di maternage nei confronti degli esordi. I librai che offrono iniziative dedicate ad autori ed editori del circuito ottengono speciali condizioni economiche e presenze autoriali più frequenti. I bibliotecari che aprono ancora di più le porte al territorio beneficiano delle stesse dinamiche, diventando riferimento per i movimenti che ruotano intorno alla lettura, ma che finora hanno faticato a riconoscere nelle biblioteche il loro crocevia naturale. I lettori, vero cardine del sistema Lìberos, attraverso un apposito social network ricevono un riconoscimento ogni volta che movimentano il circuito, collezionando non punti da supermercato, ma “crediti di relazione” che possono essere escussi in forma di esperienza (e mai di sconto): posti riservati agli incontri più ambiti, anteprime dei libri, giornate in casa editrice per vederne il backstage e contatti diretti con gli autori. Se funziona, potrebbe essere una piccola controrivoluzione relazionale in un momento in cui i grossi soggetti del sistema editoriale vanno in direzione contraria e cercano in ogni modo la disintermediazione. Esperienze come Lìberos dimostrano che le relazioni non sono il problema, ma la soluzione. Perché sia chiaro, il social network di Lìberos viene presentato oggi per la prima volta proprio al  festival di Gavoi (e dove altro?).