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«Leggete Carnaio, apprezzatelo, aprite gli occhi.»: la recensione di ‘Libri, amore e fantasia’

(L’articolo originale è qui)

Trama: Tutto si svolge a DF un paesino imprecisato dell’Italia, che dà sulla costa. Un piccolo paesino di mare, dove prevalentemente di vive di pesca e ipocrisia ( un prete che predica ma va a puttane, ne è il chiaro esempio). Un giorno, però, un vecchio pescatore – Giovanni Ventimiglia -, mentre tira le sue reti, trova un cadavere. Già da principio, questo cadavere viene spersonalizzato, e si pensa solo ai problemi che porterà a Giovanni l’aver fatto questo ritrovamento. Purtroppo, però, questo cadavere sarà il primo di una lunghissima serie – ondate di cadaveri, tutti uguali tra loro – che affliggerà DF. Da qui si cerca subito aiuto ai ministri a Roma, dove però si tergiversa senza fare nulla (vi suona familiare?). Sarà quindi DF a chiedere l’indipendenza e cercare di far fronte a questi cumuli di cadaveri. Come? Nel modo più incredibile possibile.

Recensione umile: vorrei poter definire questo libro un romanzo “distopico“, ma la cosa che fa male di Carnaio, è che non si sa davvero quanto il racconto possa essere distante dalla realtà che già stiamo vivendo. A pensarci bene, non è diverso poi così tanto. Carnaio è uno schiaffo in faccia. Ci fa aprire gli occhi. La gente ipocrita che finge di non vedere, siamo proprio noi. Noi, che in una situazione politica così particolare, dove vengono chiusi i porti a dei poveri disgraziati che cercano solo un rifugio e una vita nuova, noi tacciamo, voltiamo il capo dall’altra parte, ci fingiamo indignati… ma in realtà non facciamo niente.

All’immobilità di del governo a Roma, DF decide di ribellarsi, ma lo fa nella maniera più macabra e inquietante possibile.

Fin da subito, l’attenzione non viene mai posta sui cadaveri: chi siano, da dove vengano, come mai siano morti, chi abbiano lasciato, come si chiamavano. No. Sono solo corpi, carne morta senza nome, senza passato, senza futuro. Sono i diversi, quelli lì, qualcosa che non ci riguarda, solo perché non hanno il nostro stesso colore di pelle. Solo perché magari non parlano la nostra stessa lingua, perché non sono nati nel nostro stesso paese. Sono così spersonalizzati, che vengono descritti tutti allo stesso modo, tutti alti ugualmente, tutti con lo stesso peso, con la stessa corporatura. Non sono persone, sono solo un disturbo, un problema di cui bisogna liberarsi. E a DF lo si trova il modo per poter approfittare, per darsi da fare e ricavare benefici dalla sfortuna di avere avuto le coste invase da cumuli di cadaveri: si crea lavoro, si aprono fabbriche, si incrementa la mano d’opera, si creano prodotti. Come? Sulla pelle (con la pelle, la carne, le ossa, tutto) dei morti. Si lucra sulla sfortuna altrui, per ricavarne vantaggio. Vi sembra familiare come cosa? A me sì, ed è spaventoso.

Credo che Carnaio serva a far riflettere su quello che stiamo vivendo, e serva a far aprire gli occhi. E noi amanti dei libri, che ci vantiamo sempre di avere una marcia in più, una sensibilità in più, cultura in più, intelligenza in più, rispetto a chi non legge, dovremmo essere i primi a smuoverci per fare qualcosa di concreto. Forse non saremmo arrivati al punto di creare borse con la pelle degli immigrati, o di mangiare la loro carne, ma non credevo che saremmo mai arrivati nemmeno al punto di sbatter loro le porte in faccia, sapendo che potrebbero morirci, lì fuori. Non siete un problema nostro. E’ questo il messaggio che passa con questa politica.

Dov’è finita l’umanità? Ma ancor più grave, senza l’umanità, dove andremo a finire?

Leggete Carnaio di Giulio Cavalli, apprezzatelo, aprite gli occhi.

Brì.

«Per favore salvate i miei libri dalle ruspe»

Anche a Gallarate c’è un sindaco leghista che (come capita spesso, sempre di più, purtroppo non solo tra i leghisti) sa fare politica solo rovistando tra le macerie. È quel sindaco, per chi se lo fosse perso, che si fece fotografare tutto satollo mentre pagava il biglietto ad alcuni migranti a cui non era stata accettata la richiesta d’asilo per “mandarli al Milano al sindaco Sala”. So che sembra incredibile ma è accaduto davvero. Del resto dal ministro dell’inferno in giù anche i rimpatri (come la sicurezza, i porti chiusi e la voce grossa contro l’Europa) sono solo slogan privi di senso: fingono di risolvere le emergenze spostando pattume da un angolo all’altro per mostrarsi operosi, indifferenti del fatto che nei loro pacchi ci siano anche delle persone.

C’è da scommettere che il sindaco Andrea Cassani in queste ore starà festeggiando quel Decreto Sicurezza che crea emergenza per incutere paura e proporsi poi di nuovo come unica soluzione. Un trucco da prestigiatori dilettanti che contribuirà a mungere la bomba sociale determinando un enorme spreco di risorse umane e materiali per cancellare di fatto qualsiasi tentativo di integrazione e marginalizzare ancora di più (attenzione: mica risolvere, marginalizzare) gli indifesi. Creare macerie chiamandole pulizia. Come le ruspe, appunto.

Non potendo aspirare a azioni di governo il sindaco di Gallarate ultimamente si è dedicato anima e corpo allo smantellamento di un campo sinti in città. Ha cominciato con la rimozione di un container che ospitava il doposcuola per i ragazzi del campo (il binomio “straniero+cultura” effettivamente è qualcosa che fa esplodere il cervello, ai leghisti) e ha continuato sgomberando il tutto, con ruspe ovviamente in bella vista, ovviamente senza preoccuparsi di trovare nessuna soluzione. Al solito: fanno deserto e la chiamano pace, com’è nel costume degli inetti. Tra l’altro l’azione di propaganda è costata (per ora) 49mila euro che sono stati tolti alla “manutenzione ordinaria degli immobili comunali”, contravvenendo totalmente l’antico adagio del “prima gli italiani”.

Ieri mentre le ruspe continuavano la loro opera di demolizione una volontaria è uscita con uno scatolone in mano e gli occhi lucidi. Aveva appena preso in consegna un pacco preparato da una ragazzina del campo, che frequenta con ottimi risultati le scuole medie in città. Temendo lo sgombero ha recuperato tutti i libri di scuola e li ha ordinatamente rinchiusi in una scatola. «Salvate i miei libri per favore, non voglio vengano distrutti dalle ruspe», ha detto ai volontari che cercano di salvare il salvabile.

Ed è un gesto piccolo, un evento minimo, che risuona più delle lamiere che si accartocciano intorno: in un tempo di frastuoni e di azioni che durano il tempo di essere strillate in un tweet lei, una ragazzina, ha ancora uno sguardo lunghissimo, così diverso dalla miopia fessa delle persone che ne governano la vita, e vede nei libri il suo riscatto possibile al di là delle macerie. Ed è un bel mondo, in futuro, immaginato così.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/11/29/per-favore-salvate-i-miei-libri-dalle-ruspe/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Carnaio: la recensione di Libriattraversolospecchio

Carnaio di Giulio Cavalli è un romanzo devastante, crudo e potentissimo, ambientato in un paesino del Mediterraneo dove il mare consegna cadaveri, tutti dalla pelle scurissima, che vengono da lontano, non importa neanche da dove.
E’ una storia di uomini che non cercano giustizia per gli altri, ma solo sicurezza per loro stessi. È una storia di corpi che divengono fonte di profitto. E’ una storia sulla perdita dell’umanità, e sul nostro presente.
Specchiandomi tra le sue parole ho guardato con dolore alla realtà che stiamo scrivendo e ho ricordato che non c’è nulla di più pericoloso di chi ci vuole indifferenti all’orrore.

Grazie a @giuliocavalli perché in un mondo di persone ormai “impermeabili” alle ingiustizie, lui ha il coraggio di alzare la voce.

#dietroillibro Sotto il coltello e la forbice, alcune citazioni prese dal libro:
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“Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.”
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“Quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa un lusso: non è per ignoranza, come potrebbe sembrare, ma per un rimescolamento avvelenato delle priorità.”
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“La barca mi ha insegnato che non è vero che domani andrà meglio, no, domani potrebbe piovere, potrebbe alzarsi il vento di Ponente, i pesci potrebbero decidere di schifare l’esca che si sono sempre mangiati, loro e i loro padri e i loro nonni, potrebbe sbiellarsi il motore, potrebbe incagliarsi la rete e magari ti tocca anche tagliare l’ancora.”
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“Quello che voglio è non diventare come loro, con tutte le mie forze. Mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia.”
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#Carnaio la recensione di Libridimarmo

Vivere in Italia è bellissimo. I panorami sono mozzafiato, la storia e la cultura palpabili, la spontaneità e la passione parte integrante dell’essere italiani.
Vivere in Italia è bellissimo. La campagna elettorale non finisce mai, il razzismo dilaga, essere considerato un fascista è cosa migliore dell’essere chiamato “buonista”.
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“Carnaio”, ultima fatica di Giulio Cavalli (edito da Fandango Libri), è ambientato a DF, cittadina a ridosso sul mare che cerca di arrivare a fine mese tramite la pesca, anche se i pesci che un tempo affollavano l’acqua sembrano schifare ormai da tempo le esche e si tengono ben lontani dalle reti. 
La relativa quiete dei suoi abitanti è fatta a pezzi dall’arrivo di alcuni corpi senza vita portati dalle onde. Se il ritrovamento di un cadavere può essere attribuito ad un incidente in mare – forse uno dei poveri disgraziati che cerca di attraversare il mare su un traballante barcone –, quell’unico corpo è seguito da un altro, poi da altri quattro, poi ventimila, poi troppi da contare, tutti identici o quasi.
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L’intera DF, capitanata dall’impavido sindaco, cercherà di trovare aiuto nello Stato, ma, non ricevendo la risposta che vuole sentire, decide di fare da sé, alla sua maniera. Perché che ne sanno quelli di Roma come si vive con le strade inondate da cadaveri? Cosa ne possono sapere, quei professoroni, dove sta la linea che deve dividere il rispetto nei confronti di quei morti da quello per i loro vivi?
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Cavalli è abilissimo nel mimetizzare la propria voce, nel far parlare i suoi personaggi; costringe noi lettori a ragionare su quel che stiamo leggendo, a tracciare le linee che uniscono la finzione all’attualità, per comprendere meglio il tempo (e la nazione) in cui viviamo. Come un moderno Verga, Cavalli attua alla perfezione la poetica dell’impersonalità, tacendo anche quando vorrebbe zittire i suoi personaggi.
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DF è l’estremizzazione che ci serve per aprire gli occhi e guardare, con un occhio critico più allenato, la realtà che ci circonda per cercare di cambiarla.

Fonte: Libridimarmo

Temono i libri come l’aglio. Sono vampiri

I libri puzzano per i prepotenti. Collane di libri che spaventano, inorridiscono e spingono i potenti di turno a controbattere mica con la parola, i fatti o i pensieri ma affidandosi alle reazioni scomposte di chi non ha nemmeno il vocabolario della dignità. In fondo si potrebbe dire che è un bel momento per la letteratura italiana, benché questi odino la cultura come i vampiri una giornata di sole. Del resto anche questi vivono solo del sangue degli altri, incapaci di coagulare pensieri.

Accade che il ministro dell’interno, per l’ennesima volta, aizzi la sua ciurma sguaiata contro una scrittrice (Michela Murgia) colpevole di scrivere di un preoccupante ritorno del fascismo (nei modi e nei pensieri addirittura più che nei simboli) nel suo ultimo libro. L’ha sempre fatto: il suo goffo tentativo di additare la cultura e l’intelligenza come nemici del popolo è un volo su cui si lancia quasi quotidianamente, librando convinto di essere un falco in difesa della Patria e risultando sempre come un panciuto pollo convinto di volare. Questa volta però Salvini riesce a occuparsi di Michela Murgia nel bel mezzo dell’Italia martoriata dal dissesto idrogeologico e nel bel mezzo delle 48 ore che hanno visto ben 6 donne uccise, sequestrate e torturate dai loro compagni e dagli ex (sempre a proposito dell’uso pornografico del femminicidio solo quando torna utile). Le notizie che contano scompaiono e l’orda incattivita ha potuto sfogarsi contro la scrittrice di turno. Non è un caso che poco dopo il ministro dell’interno invece rilanci il profondo pensiero di Facchinetti che accusa il buonismo di avere cancellato in Italia il senso del rispetto. Tutto secondo copione: leggere costa fatica e richiede di fare i conti anche con se stessi quindi meglio un bel video di qualche secondo di un cantante (cantante?) che spiccia qualche luogo comune a mo’ di spot.

Ieri invece è successo che il giornalista Paolo Borrometi sia stato accusato di rimestare nel fango per avere pubblicato una foto del sindaco di Noto che si intrattiene con il boss di Noto Rino Albergo. Il circolo cittadino del Pd ha emesso un (pessimo) comunicato in cui accusa Borrometi di pubblicizzare il suo libro “deformando la realtà”. Risposte nel merito: nessuna. Il solito attacco frontale, questa volta semplicemente travestito da vittimismo, senza le faccine sorridenti e bacini di quell’altro. Nessuna risposta in merito al mafioso Giuseppe Crispino che finanziò la campagna elettorale del sindaco con un bel bonifico recapitato al suo autista, ad esempio.

E sono solo due esempi recenti di chi sa usare i libri solo come oggetti contundenti contro coloro che li hanno scritti, incapaci di aprirli, di leggerli, di contestarli nel merito con un ragionamento strutturato (non si richiede un contro-libro ma almeno un’accozzaglia di frasi che sostengano una parvenza di tesi personale) e così alla fine ne diventano involontari testimonial.

E ha ragione Michela Murgia quando scrive “sono lieta di vivere ancora in un tempo in cui un intellettuale può dar fastidio a un manovratore”: è una bellissima notizia che i libri funzionino ancora e chissà che un giorno prima o poi (perché la ruota gira eccome se gira) non torni di moda la serietà e allora questi finiranno sbriciolati senza nessun bisogno di un palo appuntito conficcato nel cuore. E chissà come ci rimarranno di stucco scoprendo che gli elettori sono volatili, i lettori no.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/11/07/temono-i-libri-come-laglio-sono-vampiri/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Vecchi comici stantii

«Chi siamo? Siamo pieni di malattie nevrotiche, siamo pieni di autistici, l’autismo è la malattia del secolo. L’autismo non lo riconosci, per esempio è la sindrome di Aspengher (sic) c’è pieno di questi filosofi in televisione che hanno la sindrome di Asperger. Che è quella sindrome di quelli che parlano in quel modo e non capiscono che l’altro non sta capendo. E vanno avanti e fanno magari esempi che non c’entrano un cazzo con quello che sta dicendo, (risate) hanno quel tono sempre uguale. C’è pieno di psicopatici…».

Parole, opere e omissioni di Beppe Grillo che sul palco della festa del Movimento 5 stelle al Circo Massimo ha deciso di fare satira nel modo più banale, un po’ come Salvini è abituato a fare politica: facendo il bullo usando le fragilità come vergogna da deridere.

«Silvio! More o bionde?» «Entrambe, basta che la diano».

Parole, opere e omissioni di Silvio Berlusconi, sorretto dalle sue guardie del corpo che ormai sono badanti travestiti da Men in black mentre sfoggia un sorriso bianchissimo che gli sbriciola il cerone seccato sugli spigoli della bocca.

Sono gli stessi comici da vent’anni, sempre loro, che non fanno più ridere nessuno e ancora credono di essere esilaranti come quegli anziani zii che ci tocca sorbire alle cene di Natale, quando tutti ridono perché ormai è così e non lo cambia più nessuno. Sul primo (Grillo) almeno ci pensano Conte e Di Maio a smentirlo subito dopo il suo intervento, trattandolo come il vecchietto svoltolato che fa ridere tutti giù in osteria. Sul secondo (Berlusconi) invece addirittura resiste tutta una gerarchia di servitori: potere del soldo.

È la comicità degli incapaci, quella che non riesce a puntare al sorriso senza bisogno di calpestare qualcuno. Per loro la stoccata deve avere per forza il rumore del bastone e del cranio, più lievi non riescono. Così ogni giorno si irride qualcuno trascinando tutta una categoria (autistici, malati, donne, eccetera) sentendosi fighi perché sani, perché maschi, perché bianchi, perché forti.

Le stesse disgustose battute stantie per tutti questi anni, tanto che ti aspetteresti a questo punto vedere rispuntare persino una Cuccarini a comiziare con la leggerezza di una televendita. E la Cuccarini, infatti, due giorni fa ha dichiarato:

«Foa mi ha aperto gli occhi su quanto l’informazione sia manipolata» e poi «l’economista Bagnai ha il dono della chiarezza» e poi «Savona? Uno dei pochi di spessore internazionale».

Oddio. Ci manca solo Umberto Smaila. Eccolo:

«Noi abbiamo le Ferrari, Dolce e Gabbana, Ronaldo, il Sassicaia e Moody’s ci declassa. L’India dove milioni di individui vivono tra escrementi di vacca ai limiti della sopravvivenza ha un’economia in grande considerazione per i mercati! Continuano a prenderci per il culo».

Che sapore di nuovo, questo futuro. E poi ci stupiamo che temano i libri.

Buon martedì.

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Perché il potere odia la complessità (più che la stampa)

Non è solo l’ultima uscita di Di Maio, che gongola per la chiusura del Gruppo Espresso (che già come definizione è una mezza bufala): certe interpretazioni del potere hanno sempre avuto di traverso certa stampa. Accade ora, è sempre accaduto e continuerà a succedere. Il vicepremier quindi se ne faccia una ragione: anche in questo non c’è nulla di nuovo sotto al sole, tutto visto, stravisto, nessun cenno di cambiamento.

Ma il potere non ha nel mirino la stampa: il potere odia la complessità, in tutte le sue forme, che sia un settimanale, una trasmissione video, un podcast, satira, un libro o addirittura un blog ben fatto perché sogna da sempre di dividere le persone in tifosi per tifosi contro, senza nessuna scala di grigi, due fazioni contrapposte: l’acritica venerazione dei seguaci (più che elettori) che si alzano ogni mattina per scontrarsi pregiudizialmente contro gli oppositori che molto spesso fanno della propria opposizione l’unico contenuto degno di nota. Sarebbe perfetto per i potenti se nessuno toccasse questo equilibrio; se davvero non intervenisse la narrazione dei fatti si potrebbe continuare così a lungo senza troppe complicazioni. I poteri aspirano all’immutabilità del contesto per riuscire a garantirsi l’auto preservazione.

E invece il mondo, fortunatamente, cambia: cambiano le persone, cambiano le sensibilità, cambiano le priorità, le paure e quindi inevitabilmente non reggono troppo a lungo le stesse soluzioni (o meglio: la stessa propaganda) e così il potere (come accade a tutti noi nei nostri diversi e più piccoli mondi sociali e lavorativi) deve reinventarsi, studiare, capire e sottoporsi ogni giorno alla verifica dei suoi elettori. E siccome il sogno dei governanti è quello di congelare per sempre l’apice del proprio successo temono ogni pur piccolo cambiamento temendo (o essendo consapevoli) di non riuscire ad esserne all’altezza.

Così ogni tanto se ne escono, ciclicamente che siano di destra o di sinistra, con questa lagna dei giornali  contro che sembra un atto di forza e invece è solo una paura fottuta. I fatti (e quelli che li raccontano) sopravviveranno a tutti, inevitabilmente. E ridono della banalità del potere già pochi anni dopo.

Buon lunedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/10/08/perche-il-potere-odia-la-complessita-piu-che-la-stampa/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Sono un po’ sparpagliato. Mi sono accorto.

Mi sono accorto che con il tempo ho sparpagliato la mia comunicazione un po’ dappertutto. Oltre agli articoli (soprattutto da Left, Fanpage e Linkiesta) che più o meno vengono condivisi sui miei social (e ripresi anche qui nel mio blog con qualche giorno di ritardo) ormai ho affidato molta della mia comunicazione diretta (verrebbe da scrivere intima ma pare un po’ esagerato) al mio profilo Instagram (https://www.instagram.com/giuliocavalli/) su cui anche in occasione della scrittura del mio nuovo romanzo mi capita spesso di svelare il dietro alle quinte (mi capita anche per la scelta dei temi dei buongiorno). Di Instagram amo i toni solitamente più rilassati rispetto al merda e sangue con cui mi capita di avere a che fare in giro. Se avete voglia, insomma, per queste cose ci si ritrova lì.

Qualche settimana fa (guardo la produzione e già mi spavento del lavorone che abbiamo fatto) abbiamo deciso di mettere in video i miei buongiorno giornalieri. L’accoglienza è stata impressionante. Non posso che ringraziarvi, davvero. A proposito dei video: sul canale youtube (https://www.youtube.com/user/giuliocavalli) li trovate qualche ora prima rispetto a Facebook e in alta definizione. Se avete voglia potete iscrivervi per seguirmi.

Su Twitter (https://twitter.com/giuliocavalli) mi accorgo di parlare molto di più di politica. 

E poi c’è questo piccolo blog (www.giuliocavalli.net) in cui trovate anche le mie date, i miei spettacoli e i miei libri.

Insomma, alla fine è come se ogni canale abbia maturato la sua specializzazione. Se avete voglia mi ritrovate, spezzettato, qui in giro.

Oltre ai palchi e ai miei libri, ovviamente, che sono il mio cuore.

L’epoca del “tutti giudici”

Nazione Indiana pubblica un’intervista a Michel Foucault che parla di libri e di presente (come succede spesso quando si tratta di letteratura). Merita di essere letta perché affronta lo spasmo del voler giudicare (o forse sarebbe meglio scrivere: seppellire) come urgenza personale. Dice Foucault:

Sembra che Courbet avesse un amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco, si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste.

La trovate qui.