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Linguaggio

Ignoranti muscolari

imageDa qualche giorno sto girando intorno al decadimento non solo del dibattito politico ma più vastamente dell’espressione delle proprie opinioni. Credo sia arrivata l’ora di non accettare la normalizzazione di un’ignoranza e di una maleducazione opprimenti e sfoggiate come valore aggiunto da questo o quel politico e da qualche giornalista polemista  (greve) di professione. E mentre buttavo giù un po’ di appunti (ne abbiamo parlato a lungo anche in redazione) ho trovato questo Mantellini in lucida salute:

Programmi che mediamente quasi nessuno segue (i numeri dei talk show italiani sono in costante peggioramento da tempo) aumentano scientificamente di mese in mese la dose di cialtronaggine proposta ai propri clienti: nella speranza di cosa? Di vendere più pubblicità aumentando il sangue versato nell’arena? Qualcuno di voi ha guardato la faccia di Tahar Ben Jelloun qualche sera fa invitato a discutere di ISIS insieme a Daniela Santanché (!) e Andrea Scanzi (!) che hanno passato la puntata ad insultarsi a vicenda? A quando le sediate in faccia fra esperti del nulla con il conduttore che minaccia flebilmente una censura che non arriva mai?

Il giorno successivo i siparietti deprimenti di Caio che sputa in faccia a Tizio riempiono gli streaming dei siti web editoriali (completezza dell’informazione) e già alle nove del mattino chiunque di noi può navigare velocemente attraverso le risse TV della sera prima (sempre uguali e sempre diverse, stessi protagonisti, medesime scenette fatte apposta per farci vergognare di loro). L’illusione è ovviamente che un simile voyeurismo da incidente in autostrada riempia le tasche di tutti con buona pace di qualsiasi aspirazione (il giornalismo! l’informazione! la democrazia!) che non sia quella di vincere a quasiasi costo la battaglia per l’attenzione degli spettatori.

Eppure basterebbe poco per avvicinarsi a quanto accade in paesi meno deprimenti del nostro: offendi qualcuno in TV? Sei fuori per sempre, non verrai invitato più in nessun programma da nessuna rete: questioni elementari di rispetto. La scelta italiana va in direzione opposta: ci serve un MALEDUCATO, non importa che non sappia niente di niente e che ripeta da anni la solita scenetta. Ci serve un lama che sputi forte e che sputi lontano. Se gli schizzi non arrivano minimo nel tinello di Voghera dovremo inventarci qualcosa d’altro.

(Il post intero è qui)

Per l’8 marzo scriviamo alle donne un’altra storia

rectangleL’uomo è cacciatore. 
È da quando ho le orecchie per sentire che questo modo di dire ritorna inesorabile in ogni discorso in cui si voglia giustificare in un uomo l’attitudine all’incostanza sentimentale, l’insistenza ottusa nel corteggiamento o la frustrazione di chi si è visto sfuggire di mano la preda perché lei, rompendo le regole del gioco di ruolo, gli ha imposto un rifiuto netto e non previsto. Lo dicono i padri ai figli e le madri alle figlie; se lo ripetono tra loro gli amici ammiccanti con una pacca sulle spalle e lo mormorano le donne alle amiche con un’alzata di occhi al cielo, tutti con la stessa leggerezza: “he, che ci vuoi fare… L’uomo è cacciatore e la donna è preda”. 
Magari dopo averla detta sorridono. 
Non realizzano di avere dentro alla testa l’associazione micidiale tra seduzione e morte
Fanno finta di non ricordarsi che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla.

Le donne in quella frase ascoltano una storia dove si dice loro che essere desiderate implica il rischio di essere uccise. 
Ogni volta che quella frase viene ripetuta, si consolida inconsapevolmente in chi ascolta la convinzione che quello che viene messo in scena a parole sia non solo accettabile, ma faccia addirittura parte della natura della cose: l’uomo insegue, la donna scappa, l’uomo spara, la donna muore, amico: che ci vuoi fare? Il linguaggio comune è pieno di espressioni simili. Chi le usa non pensa ai loro sottotesti, ma questi passano anche se chi li veicola non ne è perfettamente consapevole, perché le parole hanno un grande potere: confermano immaginari, consolidano visioni e generano realtà.

Il numero di donne uccise dagli uomini ogni anno in questo paese parla chiaro: per quanto si cerchi ancora di rubricarli come casi singoli di follia circoscritta, i femminicidi appaiono sempre più chiaramente come un fenomeno culturale, la radiografia di una società maschilista in crisi dove il prezzo della vita delle donne è messo in conto come danno collaterale alla perdita degli equilibri di ruolo. In questo processo di minimizzazione le parole che usiamo per raccontare gli uomini, le donne e le loro relazioni hanno un peso enorme e ancora troppo poco considerato da chi pratica parola pubblica e ha la responsabilità di renderne conto.

Una splendida e appuntita Michela Murgia, come sempre, da leggere piuttosto della mimosa.

Le parole sono importanti

Ma chi è parla così? Ma perché i politici parlan così? Ma come si fa, oggi, non dico a credere, ma a leggere, o ad ascoltare, seriamente, delle cose del genere? E, per tornare al documento Italia. Bene comune, come si fa a credere a un documento scritto dai dirigenti di un partito che dice che «va approvata una riforma dei partiti che alla riduzione del finanziamento pubblico affianchi una legge di attuazione dell’articolo 49 della costituzione»? Che bisogna «rimettere il mezzogiorno al centro dell’agenda»? Che bisogna «combattere sprechi e inefficienze»? Che bisogna «avviare il tempo di una società della formazione lunga e permanente che non abbandoni nessuno lungo la via della crescita»? Non sono tanto le cose, che le cose, i valori, bisogna esser più bravi, siam tutti d’accordo, e, per me, nella mia semplicità, è anche un progetto politico che io ci farei sotto la firma, solo che è il modo, in cui sono dette, le cose, che non ci si crede.

Paolo Nori (che di Russia e di parole se ne intende) fa notare giustamente come perestrojka e glasnost’, che sarebbero ricostruzione e trasparenza, sono ormai le parole più in voga in politica. La messa in pratica sembra un po’ accidentata, in effetti. Ma ci si riempie la bocca di trasparenza e ricostruzione. E se proprio non sai cosa dire per cercare di accendere la platea in un comizio post salamella di una festa qualsiasi in giro per la provincia basta che ripieghi sul bene comune che sortisce sempre un mezzo applauso anche nelle serate più tiepide.
Eppure il primo bene comune sarebbe capirsi. Non solo avere idee trascendentali, intuizioni geniali, moralità talmente candide da potere risultare veramente candidabili: capirsi. Capirsi è il bene comune necessario per confrontarsi su tutti i beni comuni di questo mondo.
E invece il gioco è affidarsi a perifrasi sdrucciolevoli in cui ci sta dentro tutto e il contrario di tutto. È stato il mio primo trauma, qualche anno fa, quando ho avuto l’onore di occuparmi di politica e leggere e scrivere mozioni, ordini del giorno e progetti di legge: frasi che non hanno cuore, che non hanno anima e che si sono specializzate nell’essere ampie. Come se il fine sia confezionare un abbraccio importante per quantità, più che qualità. Una prostituzione al consenso che finisce per essere tiepida in tutto: posizioni, obbiettivi, programmi, finalità.
Francesca Fornario mi faceva notare qualche giorno fa come servirebbe in Italia una “legge contro i giri di parole” (qui la discussione) e ha ragione: tra i fanatismi e i tecnicismi c’è in mezzo un torrente di acqua fresca, potabile e facilmente percorribile. Ecco, in tempi di confusione di idee almeno pratichiamo il dovere di essere chiari con le parole. Almeno questo.

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Un linguaggio comune

Un gran pezzo di Ugo Mattei. Almeno per tornare a parlare di cose serie e per leggere in questo momento politico persone, sigle e informazioni.Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall’acqua all’Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall’opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un’idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l’essenza del reale. La visione opposta, fondata su un’idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l’ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L’insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello. 

Chi parla male, pensa male

Scrivevano i filosofi della politica che caratteristica propria dell’essere umano, e segnatamente del cittadino, è la capacità di esprimere attraverso il linguaggio non soltanto le sensazioni di dolore o di piacere, ma anche ragionamenti morali, politici, estetici, filosofici. Un popolo rozzo può essere dominato. Partecipare alle deliberazioni pubbliche è un’attività che esige la capacità di intendere il significato di concetti complessi e di cogliere bene le distinzioni, per esempio fra libertà e servitù, fra democrazia e populismo, fra governo della legge e dominio degli uomini, e così via. E non è argomento banale e da poco quello che scrive Maurizio Viroli su Il Fatto, perché guai a chiedersi come possano assolvere i loro doveri di cittadini degli individui che hanno impoverito il proprio linguaggio, perso la capacità e il gusto di indicare cose diverse con nomi diversi, e non sanno riconoscere e rispettare   le diseguaglianze che meritano di essere riconosciute e rispettate.