(di Lucia Annunziata, per Huffington Post, qui)
Nel novembre 2011, in nome della stabilità del paese, viene buttato alle ortiche Silvio Berlusconi, a favore di Mario Monti, senza elezioni. Nell’aprile 2013 si va alle elezioni e Mario Monti non supera l’esame elettorale, senza che però l’incarico di premier vada a nessuno dei due quasi vincitori, né a Bersani né a Grillo. Entra invece Enrico Letta, che non è il campione uscito dalle urne, ma appare più adatto degli altri due ad assicurare la stabilità. La stabilità però è una Musa Inquieta e nel febbraio 2014 butta alle ortiche anche Letta. Entra Matteo Renzi, un politico che al voto parlamentare nazionale non si è mai sottoposto, che passa direttamente da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. In 5 anni 4 premier, di cui 3 mai votati. Cifra da Prima Repubblica.
Se era Stabilità che volevamo abbiamo in realtà prodotto il suo contrario.
Né meglio è andata negli stessi anni in paesi ben più strutturati del nostro. La stabilità invocata, richiesta, organizzata dalle classi dirigenti dell’Occidente come risposta alla crisi montante delle democrazienon ha avuto nessun successo. Lo tsunami di una gigantesca disaffezione e rivolta che attraversa l’Europa, la Brexit Inglese e la vittoria di Trump ne sono la prova inconfutabile. Eppure nessun paese, nessun leader, nessuna classe dirigente ne ha preso finora atto. Men che meno l’Italia.
Al referendum sulla riforma Costituzionale voterò No.
Per spiegare le ragioni di questo No evito di proposito di entrare nel merito delle questioni costituzionali, perché questo voto è innanzitutto un passaggio politico, e non solo italiano. E io sono contraria alle soluzioni che ci vengono proposte. Deboli perché inefficaci.
Alla crisi fra classi dirigenti e cittadini, che serpeggia da anni nelle nostre democrazie, la ricetta che i governi propongono è quella di tentare di limitare le aree dello scontento, di stringere un cordone intorno al dissenso, usando il peso delle relazioni di classe, il peso degli interessi economici, la forza delle strutture pubbliche e, infine, a volte, anche la limitazione del ricorso al voto o, quando è il caso, al referendum, come in Inghilterra e, prima, in Grecia. Nel nome di una bandiera: la stabilità innanzitutto.
Finora la esperienza ci ha detto che questa soluzione non funziona. Eppure, ora che tocca al nostro paese, l’Italia in maniera ostinata e per me sorprendente si è incamminata sulla stessa strada: al No è stato attribuito il solito valore distruttivo, al Sì la funzione positiva, della continuità e della forza istituzionale. In questo senso, come ormai anche chi sostiene il Sì ammette, il referendum è un passaggio squisitamente politico – a dispetto di tutte le discussioni sul contenuto della riforma costituzionale, su cui appunto è quasi inutile a questo punto entrare – il risultato delle urne sarà un giudizio a favore o contro il governo. Una “deviazione” dell’istituto referendario su cui non si può essere d’accordo. Ma che era quasi inevitabile, vista la nostra storia recente.
Nella battaglia contro il “populismo” l’Italia ha, come ricordavo all’inizio, una storia ormai di qualche anno. Dalla caduta di Berlusconi, la classe dirigente del nostro paese ha giocato con il fuoco delle crisi risolte sul filo della soluzioni non istituzionali. Il voto popolare, e la scelta dei premier, come dicevo, sono dal 2011 fuori dalle mani dei cittadini. Questa gestione delle istituzioni non solo ha però aumentato il risentimento popolare contro la politica, ha anche indebolito tutti i premier. Incluso il più forte, il più abile, e spregiudicato dei suoi predecessori, Matteo Renzi, che per arrivare a Palazzo Chigi ha accettato comunque il compromesso di arrivarci senza voto popolare.
All’inizio si è probabilmente illuso che quell’entrata fatta per vie brevi sarebbe stata dimenticata presto a fronte dei suoi successi; e invece, a riprova che le istituzioni contano, la mancanza di elezione popolare ha viceversa intaccato i suoi successi. Quel condizionamento iniziale ha pesato sulle condizioni generali del suo governo: Renzi si è trovato a lavorare con un Parlamento e un potere centrale non scelti insieme a lui, e di conseguenza ha fatto in una maniera esponenziale scelte sempre più irregolari. Ha fatto ricorso a maggioranze occasionali, costruite di volta in volta. Ha dovuto forzare e personalizzare quasi tutti gli appuntamenti più tradizionali, dalle molte fiducie alle scadenze elettorali, dal Jobs Act alle elezioni europee o amministrative, ogni appuntamento ribaltato in un referendum sulla sua persona e sulla forza del suo governo, fino all’ultimo referendum in cui con lui si gioca la testa anche l’Italia.
La debolezza del mancato passaggio elettorale si è riversata infine sulla riforma Costituzionale che giudicheremo. I dubbi di chi dice No oggi in Italia sono fondati nella dinamica delle cose: davvero un lavoro così rilevante come la riscrittura di parte rilevante della nostra Carta può essere fatta nelle condizioni che conosciamo, con maggioranze variabili, forzature, trattative di scambio, in un Parlamento in cui i partiti si sono sgretolati e il cambiamento di casacca è stato sfacciato? Di sicuro si può dire che far fare una riforma Costituzionale a un premier eletto avrebbe assicurato un percorso di scrittura della riforma più trasparente, più corretto, e sicuramente più solido. Evitando il sospetto che essa serva solo a rafforzare qui ed ora il futuro elettorale dello stesso premier.
In altre parole, viviamo da cinque anni in un profondo squilibrio istituzionale, ma invece di affrontarlo, si preferisce, oggi soprattutto per volontà del premier, andare avanti con successive forzature. Nella convinzione, o la speranza, che le prove di forza prima o poi possano piegare lo scontento dei cittadini, o il dissenso.
La formula di questi anni, appunto. Al fianco del Premier infatti è tornata a scendere la classe dirigente di sempre sollevando la paura di sempre – l’instabilità. Juncker e Schaeuble, due che amano Renzi come i bambini le vaccinazioni e che comunque lo difendono, i grandi giornali finanziari, Financial Times e Wall Street Journal, e se una voce sola, l’Economist, dissente si grida al complotto delle forze oscure europee. Quella stessa Europa che però ha aperto una nuova linea di credito all’Italia pur di aiutare il governo. Arrivano, poi, insieme ai mercati, i manager – con Marchionne il 95 per cento dei manager del nostro paese. Per finire con Romano Prodi, che per non mancare all’appello dell’Europa infine si schiera con un premier che pure critica. A proposito di Casta ed Elite, intorno a Matteo Renzi non manca nessuno. È uno schieramento imponente che probabilmente regalerà al Sì la vittoria. Ma aiuterà il paese a fare un passo avanti davvero, come si promette?
La vittoria del Sì darà sicuramente un premier più forte, ma non un paese più solido. Non solo perché la battaglia prima delle urne è stata lacerante, ma soprattutto perché una vittoria ottenuta sulla paura e sulle forzature, come si diceva, aggrava la distanza fra classi dirigenti ed elettori. La vittoria del Sì assicurerà dunque un Renzi più forte, ma non una maggiore stabilità. È questo il “meraviglioso” paradosso che spiega come mai la formula non abbia finora funzionato, in nessun paese dove è stata applicata.
C’è bisogno invece di fermare questa deriva, risettare le priorità e riportare l’Italia a una discussione seria, partecipata, e comunemente accettata, sul suo futuro.
C’è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No.