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luigi bonaventura

Chiedere qualcosa di normale

Francesco spiega in due parole. Non avrei potuto farlo meglio:

Quando una petizione online può essere utile?
Secondo me quando non si insegue una chimera, ma si ha un obiettivo normale.
L’obiettivo è quello di pensare di vivere in un Paese dove se un boss pentito e collaboratore di Giustizia rilascia ben due interviste dove dice che le cosche ‘ndranghetiste, con la complicità anche di una parte di politica lombarda, tramano per l’annullamento della scorta e l’eliminazione di un uomo di Cultura, le istituzioni diano una risposta immediata.
Le parole di Bonaventura vanno verificate, questo dovrebbe essere normale e penso che sia normale chiederlo.

La petizione è qui:

http://www.avaaz.org/it/petition/Risposte_immediate_sulla_sicurezza_di_Giulio_Cavalli/

Basta parole: ora salvatemi

Il mio intervento per L’Espresso:

Questa mattina mi sono svegliato leggendomi nelle parole del pentito Luigi Bonaventura che parla di politici lombardi informati del piano che avrebbe dovuto uccidermi.

Un’altra volta: un mese fa sempre l’ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone aveva descritto minuziosamente il piano che avrebbe dovuto uccidermi.

Un mese fa mi era scoppiata in mano la paura, pensavo di esserci abituato e invece no: la paura ti scoppia in faccia ogni volta con una forma diversa e non riesci proprio ad abituartici, forse meglio così.

Ma leggendo le parole di Bonaventura oggi (e ascoltandolo) mi si accende la rabbia. Rabbia vera, rabbia da scassaminchia nella rilettura di questo ultimo mese di solidarietà come popcorn mentre si proietta il nulla.

Luigi Bonaventura è un collaboratore di giustizia ritenuto “altamente affidabile” dalle Procure di mezza Italia. Ora decide di svelare un disegno che è mafioso ma anche politico per l’eliminazione di qualcuno (lasciamo perdere che sia io, non è importante, ora) e richiama dati, persone e luoghi che sono facilmente riscontrabili davanti ad un magistrato.

Oggi Bonaventura ha anche dichiarato di essere pronto a giocarsi la propria credibilità con queste sue affermazioni e si dichiara disponibile ad uscire dal programma di protezione nel caso in cui non siano riconosciute veritiere.

In un Paese normale (ma noi non siamo un Paese normale) in questo ultimo mese l’ex boss sarebbe stato trascinato davanti ad un magistrato per dire tutto quello che sa (e tutto in un colpo solo, magari) e ci avrebbero già detto se è folle, sincero, manovrato o coraggiosissimo. In un Paese normale, certo: in questo ultimo mese ho incassato solidarietà, tanta, come se piovesse, e più di qualcuno mi dice che dovrebbe bastarmi così.

E invece no, grazie, grazie no, la solidarietà non è affar di Stato ma è movimento di società civile che pretende risposte: rivendermela come una risposta che mi dovrebbe bastare è un gioco da pacchisti di altri tempi.

Non me ne frega più niente a questo punto della solidarietà, non mi serve più avere le pacche sulla spalla come un frate missionario che ha fatto voto di ‘pericolo’ e va rispettato anche solo per questo, basta, no, grazie: ora voglio sapere se il ministro Alfano, la destra, la sinistra, il Movimento 5 Stelle, il governatore Maroni, il ‘lombardo’ Ambrosoli e tutti quelli che hanno ruolo politico in terre interessate da questa storia hanno intenzione di fare qualcosa.

Qualcosa di più di una telefonata perché quella no, non mi protegge dagli attentati.

Vorrei capire se ancora non abbiamo capito che il silenzio è il foyer perfetto per la tragedia e davvero non abbiamo imparato che il silenzio è complice.

Se succederà qualcosa sarà colpa dei silenti. Se Bonaventura arriverà in ritardo con l’appuntamento dei riscontri dovuti o se dovrò perderci la testa dietro a questa paura.

Ditemi che rischio e mi difendete o che il pentito è un bugiardo: il resto è per i ciarlatani.

Non mi interessa essere un eroe, mi interessa riconoscere uno Stato organizzato, non solo organizzata la criminalità.

E’ troppo?

Per me, i miei famigliari e i miei figli è il minimo indispensabile. “Agibilità sociale”, direi, se serve un buon titolo per i giornali.

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Da LINKIESTA: Giulio Cavalli e gli «amici politici» delle cosche

L’articolo di Luca Rinaldi per LINKIESTA:

Le parole dei collaboratori di giustizia, per quanto dichiarati affidabili dalla magistratura, sono sempre da prendere con le molle. Il passo da fare è quello di verificarle e di chiedere conto a coloro che sono tirati in ballo dalla dichiarazioni dei cosiddetti “pentiti”. Ecco, appurato che verificare i riscontri alle parole dei collaboratori è in primis un compito che spetta a magistratura e investigatori, chissà cosa avrà da dire la politica lombarda sulle ultime dichiarazioni del collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura.

Bonaventura non si è mai fatto mancare l’aspetto mediatico sulla sua vita da pentito “usato, abbandonato e sotto tiro” e l’attendibilità delle sue dichiarazioni è stata più volte riscontrata. Nelle ultime settimane il collaboratore di giustizia affiliato alla cosca Vrenna di Crotone ha rilasciato più di una intervista al sito Fanpage in cui la ‘ndrangheta avrebbe progettato di far tacere in qualche modo l’attore, regista e autore teatrale, nonchè ex consigliere regionale della Lombardia Giulio Cavalli. Uno che di mafia in Lombardia parlava nei suoi spettacoli quando il tema era ancora tabù e che per questo motivo finì sotto scorta nel 2009.

Insomma, Giulio Cavalli, come ripete anche Bonaventura era uno “scassaminchia” e come tale minacce e intimidazioni erano per lui diventate compagne terribili. Nel 2010 si candida alla Regione Lombardia e viene eletto come consigliere regionale, negli stessi periodi in cui i cittadini lombardi (ri)scoprono di avere la mafia in casa e anche in politica. Una politica che non disdegna di elemosinare voti agli appartenenti alle organizzazioni criminali, che di certo non ce l’hanno scritti in fronte, ma che, per citare Ilda Boccassini, basterebbe fare una ricerca su Internet per avere notizie sul loro conto.

Nelle intervista rilasciate a Fanpage Bonaventura parla prima di un progetto per mettere Cavalli a tacere da parte del clan dei De Stefano, tra i clan che comandano in Calabria e anche in Lombardia, e in ultimo lo stesso collaboratore di giustizia aggiunge che «la politica lombarda sosteneva la ‘Ndrangheta». Frase un po’ ad effetto, che non condita da nomi e cognomi dice tutto e niente. «Questa qui è anche la volontà di amici nostri politici», riferisce Bonaventura usando le parole dei De Stefano.

Circostanze dunque tutte da verificare, ma che non stupirebbero nemmeno poi più di tanto: il pentito glissa su nomi e area politica «su questa domanda preferisco non rispondere perché la mia posizione non è molto sicura. Preferisco riferire ai magistrati». Ancora nessuno però si è fatto vivo alla porta di Bonaventura da quando ha rilasciato queste dichiarazioni su Giulio Cavalli. Lo stesso si dice scioccato: «dal fatto che nessuno sia venuto a raccogliere queste informazioni che sto rivelando nessuno mi ha sentito su questa vicenda, dovrebbe essere il minimo ascoltarmi, mettere sotto protezione me e le informazioni. Sembra che mi stiano lasciando qua, aspettando cosa? Che io muoia e con me le informazioni? Oppure che venga spinto a ritrattare?».

L’augurio è quello che qualcuno tra i magistrati e gli investigatori si premuri di verificare le dichiarazioni di Bonaventura, e allo stesso modo, che se qualcuno al Pirellone, o tra gli ex del Pirellone ne sa qualcosa parli. Perché se «gli amici politici» dei De Stefano avevano intenzione di mettere a tacere Giulio Cavalli con l’aiuto della ‘ndrangheta sarebbe bene saperlo. Hanno qualcosa da dire in proposito? Qualcuno che è saltato sulla sedia credo ci sarà, altrimenti non avrei potuto raccogliere inchieste e reportage sulla mafia in Lombardia in questo eBook. Inutile dire intanto della vicinanza che va a Giulio Cavalli, anche e soprattutto, per non aver mai accettato quel comodo ruolo della vittima con i riflettori puntati addosso.

Il pentito Bonaventura: “Giulio Cavalli doveva tacere: la politica lombarda sosteneva la ‘Ndrangheta”

Ecco l’articolo uscito oggi su Fanpage.it:

“Dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli – rivela l’ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura – c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali. Quando venni avvicinato dai De Stefano, loro mi dissero: “Questa qui è anche la volontà di amici nostri politici”.

Dietro la ‘Ndrangheta, la politica. Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura che nell’intervista rilasciata a Fanpage due settimane fa ha rivelato i piani della criminalità organizzata per uccidere l’attore e scrittore Giulio Cavalli, questa volta aggiunge qualcosa in più. Alza il tiro. Di fronte al silenzio delle istituzioni, lui che ha portato all’arresto di oltre 130 membri della più importante cosca di Crotone nel corso dell’operazione Heracles coordinata dal procuratore Pierpaolo Bruni della Dda di Catanzaro, pronuncia la parola “politica”. Accanto a politica, Bonaventura aggiunge un dettaglio: “lombarda”.

Proprio così: “Dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli  – rivela a Fanpage.it – c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali, nel senso che le azioni erano fortemente volute anche da qualche politico, nello specifico lombardo. Quando venni avvicinato dai De Stefano, loro mi dissero: “Questa qui è anche la volontà di amici nostri politici”. Qualcuno, spiega il collaboratore di giustizia, fa parte anche della politica nazionale. Personaggi pesanti, insomma. E perché dava fastidio, Giulio Cavalli? “Perché parlare di ‘Ndrangheta, nel 2011, in Lombardia era tabù. Era considerato uno ‘scassaminchia’. Oggi è nota la sua presenza al Nord”. Sull’area politica, il partito o i partiti dietro queste “volontà” Bonaventura si ferma: “Su questa domanda preferisco non rispondere perché la mia posizione non è molto sicura. Preferisco riferire ai magistrati”.

Su queste scottanti rivelazioni, però, nessuno ancora ha bussato alla sua porta. E il collaboratore di giustizia da sette anni, giudicato altamente attendibile e per questo collaboratore di nove procura, la Dna e una procura straniera, e tuttavia senza scorta da sempre, è qui che usa un termine particolare: “scioccato”. Da cosa è scioccato? “Dal fatto che nessuno sia venuto a raccogliere queste informazioni che sto rivelando – risponde – nessuno mi ha sentito su questa vicenda, dovrebbe essere il minimo ascoltarmi, mettere sotto protezione me e le informazioni. Sembra che mi stiano lasciando qua, aspettando cosa? Che io muoia e con me le informazioni? Oppure che venga spinto a ritrattare?”.

E poi, preoccupazione per Giulio Cavalli: “Potrebbero togliergli la scorta – dice – Ma Giulio è un patrimonio da proteggere. Se ci fosse attenzione da parte della politica, se ci fosse qualcuno che alzasse la voce insieme ad associazioni dell’antimafia sociale, insieme un risultato si potrebbe raggiungere”.

Infine, l’appello alle istituzioni, fino ad ora silenti: “Mi rivolgo ad Alfano: si impegni a fare qualcosa per assicurare la giusta protezione a Giulio Cavalli e me. Mi rivolgo al premier Letta, non sottovaluti questa situazione. Non vorrei essere spavaldo né arrogante – aggiunge – Ma a questo punto dico: se Bonaventura è attendibile che si mettesse in protezione, se non lo è che si dichiarasse subito la sua inattendibilità  e venga escluso dal programma di protezione”.

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Eppure “ammazzare” è una parola di uso fin troppo frequente.

Scrive Enrico Colaiacovo nel suo blog:

Non so se la intenda così, ma a me sembra che tutti noi possiamo dare un duplice contributo alla sua sicurezza (e spero anche alla sua serenità) e alla continuazione del prezioso lavoro che sta facendo. Da una parte far capire a chi deve capire che colpire lui significa colpire un’intera comunità. Dall’altra propagare e amplificare lo spirito di #scassaminchia che anima la sua arte e la sua passione civile, cioè la ragione dell’odio che la criminalità gli riversa contro.

Sì la intendo proprio così, Enrico.

Non dire mai grazie

Stamattina mi sono alzato con la voglia di ringraziarvi. Non si usa, anzi si usa poco, di solito a fine serata per gli sponsor o qualcosa del genere ma quando questa mattina ho aperto gli occhi, nel letto, pensando a quanto sono riuscito a stare leggero (per niente a galla, ma con il timone saldo, direi, piuttosto) in questi giorni, ecco, ho pensato che di solito non mi prendo mai il tempo e il modo di ringraziare. È una deformazione professionale, forse, che mi fa rincorrere i “cattivi” e vorrebbe convincermi a sospettare anche di tutti i “buoni”. Ho sempre fatto fatica a togliermelo il vizio, del resto. Voglio ringraziare quelli che mi stanno scrivendo, voglio ringraziare amici che mi hanno sostenuto con preoccupazione e azione, soprattutto facendo quello che per ora si può fare aspettando i riscontri, la magistratura e tutto il resto. Voglio ringraziare le associazioni, i comitati e i politici (sì i politici, tu pensa, eh) che stanno interrogando le istituzioni e voglio ringraziare i ragazzi della mia scorta che dividono questa aria pesante che non si affetta ma purtroppo si moltiplica per le persone che la devono respirare in giro. Voglio ringraziare il mio lavoro (il palco e la penna) che sono il mio porto con le sponde sempre alte e voglio ringraziare chi mi sta vicino che mi divide (lei sì, senza moltiplicazioni) il peso. Ed è più facile.
Sarebbe bello che tornasse di moda la gratitudine, sarebbe un mondo terribilmente solidale, con meno isole, meno solitudini e molto più forte. Anche contro le mafie.

‘Ecco come mi uccideranno’: il mio pezzo per L’Espresso

da L’ESPRESSO

All’inizio arriva lo straniamento. E’ questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava.

Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me.

Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente.

Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che “quello lì deve finire mascariato” quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo.

Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell’antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali.

Un’esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno.

Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli.

Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c’è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L’ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono.

Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un’alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli.

E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più.

Poi c’è l’omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L’omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell’aria.

Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno “scassaminchia”, pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l’immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi.

Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d’identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: prefessare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l’hanno capito ancora in troppo pochi.

Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura.

E quindi? Quindi c’è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l’articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.