da L’ESPRESSO
All’inizio arriva lo straniamento. E’ questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava.
Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me.
Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente.
Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che “quello lì deve finire mascariato” quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo.
Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell’antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali.
Un’esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno.
Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli.
Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c’è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L’ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono.
Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un’alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli.
E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più.
Poi c’è l’omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L’omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell’aria.
Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno “scassaminchia”, pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l’immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi.
Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d’identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: prefessare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l’hanno capito ancora in troppo pochi.
Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura.
E quindi? Quindi c’è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l’articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.