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Fedeltà e fiducia #governoletta

Attenzione: questo non è un post di analisi politica. Per fare un’analisi politica bisognerebbe avere lo stomaco a posto e non essere disgustati da una giornata che sacrifica le parole tra le più belle di questa nostra lingua: fedeltà e fiducia. Oggi Silvio Berlusconi ha provato ad esercitare il dovere alla fedeltà dei suoi accoliti e ha scoperto di avere sbagliato qualcosa nella sua pratica di allevamento; così qualcuno (Alfano & co.) ha cominciato a pensare e la cosa non era prevista. Intanto la parola fedeltà si stacca una volta per tutte dalla meravigliosa aderenza comune a valori comuni e diventa ufficialmente l’esecuzione di un ordine. Ne abbiamo letto e studiato sugli sterminati prati di battaglie ma questi ultimi vent’anni ci hanno insegnato che il servilismo paga anche in altre aule. Eppure questa legge elettorale implica perfidamente una gratitudine insana che è un po’ homo faber fortunae tuae, oltre che suae. Così Silvio si innervosisce come un padre schiaffeggiato dal figlio ma lo stesso Grillo tiene lo stesso comportamento da qualche mese (e oggi al Senato). Similitudini.

In un contesto in cui l’aspetto valoriale è ripieno buono solo per la propaganda diventa ancora più difficile capire la natura della fiducia che si è votata oggi: l’Europa, la nuova (e la vecchia) DC, il Presidente Napolitano e l’ostinato asse PD-PDL hanno parlato (nelle vesti di Letta) di un programma che ha obiettivi talmente ampi (e fumosi) da lasciare il dubbio che l’obiettivo vero sia sopravvivere e (l’unico aspetto che un po’ ci ingolosiva) tagliare finalmente fuori dalla scena politica un condannato in via definitiva. Il primo intento è riuscito, certo, il secondo molto meno quasi niente. Perché vorrebbero farci credere che sia cambiato qualcosa ma in fondo nei numeri è lo stesso governo di prima, con più tensioni, più divisioni e altro tempo perso in un balletto completamente distaccato dalla realtà del Paese. Niente di più di giochi di palazzo di un palazzo che ha potuto permettersi di non dirci niente sull’aumento dell’IVA o su cosa succederà per quanto riguarda l’IMU.

Intanto il PD (o meglio, soprattutto un’ala del PD) è sempre più felice di assomigliare alla faccia “pulita” del PDL che si intravede all’orizzonte e tutti festeggiano questa somiglianza sempre maggiore che è uno strabismo della democrazia. Qui un giorno sarà “tutto centro” e monumenti “storici” e ci diranno che è una bella fortuna.

I congressi sono depotenziati da una ritrovata stabilità che sembra così promiscua da fare arrossire anche i più seriali adulteri da week-end a Cortina.

Tutto va bene, ci dicono. Loro hanno danzato sulle macerie e vorrebbero anche che battessimo le mani.

 

I soloni strateghi

Insomma è già crisi. O forse no, come succede, e alla fine magari ci diranno che hanno trovato un’intesa. Certamente oggi l’affidabilità di Berlusconi e i suoi è evidente in tutte le sue molteplici forme. Sono dovuto passare 150 giorni per capire quello che tutti già sapevano: l’agenda politica di questo centrodestra qui è solo la risoluzione dei guai giudiziari di Berlusconi e un po’ di propaganda. Nient’altro. In compenso il PD è riuscito (nel governo dei rinvii su tutto) a fare realizzare l’unico spot elettorale del centrodestra abolendo l’IMU, per poi essere talmente stupido da farsi incolpare per qualsiasi altra forma di rientro economico (basta guardare la prima pagina de Il Giornale di oggi, per intendersi).

Chissà dove sono i soloni e gli strateghi che ci hanno detto in tutte le salse che questo sarebbe stato un governo responsabile e di scopo (tra l’altro, scusate, che scopo?) e dove sono tutti coloro che vedevano fantascienza nel mettere in piedi un governo guardando altrove (e guarda guarda che forse oggi, si bisbiglia, potrebbero anche esserci i numeri).

Si è riusciti in un miracolo: logorare il PD, deresponsabilizzare il M5S e infilarsi ancora una volta nelle mutande di Silvio. Chapeu, eh.

Patria senza padri

Un estratto da Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati, libro-intervista curato da Christian Raimo. (via)

In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.

Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.

Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.

Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza. Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?

Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise. Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta? In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?

Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.

Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide.

Una luce in vigilanza Rai

Il Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico (M5s), ha dichiarato la sua contrarietà alla svendita dell’ente radio televisivo di stato sostenendo, giustamente:

  • che oggi non si tratterebbe di vendere qualche canale ma di svendere tutto (ed a favore dei soliti noti, aggiungiamo noi).
  • che se questo si deve fare, prima occorre definire la legge sul conflitto di interessi.
  • che la cifra che lo Stato ricaverebbe (2 miliardi di euro) è la metà di quello che ci costano gli F35 (di cui non si capisce quale bisogno ci sia, aggiungiamo ancora noi).

Partendo dalla Rai c’è bisogno di comunicare cosa si nasconde dietro questa rincorsa alle “privatizzazioni” che non sono altro che le solite spartizioni oligarchiche dei gioielli italiani troppo spesso decretandone la fine. Le parole di Roberto Fico tra l’altro sarebbero anche l’occasione per mettere alla prova la benedetta “maggioranza che avrebbe dovuto essere” che ha l’occasione di costruire cambiamento sulla Rai e più in generale sull’informazione. Magari raccogliendo lavoro che da anni stanno facendo gli amici di Move On Italia.

Meno male che Grillo c’è /2

Mi dicono che non vedo le battaglie di Beppe Grillo e mi soffermo su resto. La battaglia (e il sondaggio, viva la rete!) di oggi è una presa per il culo (che non fa nemmeno ridere) contro Pippo Civati.

Fate vobis.

Per cacciare la cittadina Realtà

Gramellini, oggi, su La Stampa:

«Salve, cittadino Cinquestelle, sono un disoccupato senza casa e pieno di debiti, deluso dai partiti che pensano soltanto ai fatti loro. Voi invece siete qui per aiutarmi, giusto?». «Puoi dirlo forte, cittadino disoccupato senza casa e pieno di debiti. Noi ci occupiamo dei problemi veri del Paese. Oggi per esempio stiamo decidendo se mettere ai voti la diretta streaming della riunione in cui si deciderà se sottoporre al voto della Rete la decisione di cacciare dal movimento una cittadina senatrice infetta che ha osato dire che Grillo ogni tanto sbaglia».

«Capisco le esigenze della democrazia diretta, cittadino Cinquestelle. I miei problemi possono aspettare fino a domattina». «Domattina abbiamo un’altra emergenza, cittadino. Dovremo rendicontare in diretta streaming gli scontrini dei cornetti del bar di Montecitorio, dividendo i cornetti alla crema da quelli al cioccolato e i cornetti dei buoni cittadini dai cornetti dei cittadini infetti». «Potrei avere un cornetto, cittadino? Anche infetto». «Per darti un cornetto devo fare lo scontrino e per fare lo scontrino devo chiedere il permesso alla Rete in diretta streaming. Il problema è che per chiedere la diretta streaming è necessario convocare una riunione del gruppo». «Convocala, cittadino: sto morendo di fame». «Impossibile, cittadino, il gruppo è già riunito». «Per fare che?». «Te l’ho già detto: per decidere se cacciare o no la senatrice infetta». «Ma quando comincerete a occuparvi della realtà?». «La cittadina Realtà? Va disinfettata, cittadino. E se oppone resistenza, va cacciata. A meno che abbia richiesto lo scontrino».

Chapeau

Il Movimento 5 Stelle ha deciso di votare come Presidente della Repubblica Stefano Rodotà. Non ho lesinato critiche al Movimento sull’immobilismo dei giorni scorsi e su alcune meccaniche comunicative sulle Quirinarie ma oggi loro sono arrivati dove avremmo dovuto arrivare noi, da qualche giorno. E concedono al centrosinistra un’occasione d’oro per il “governo di cambiamento” di cui Bersani (e noi) ha parlato un minuto dopo le elezioni. Oggi un centrosinistra che non vota Rodotà alla Presidenza della Repubblica sarebbe il fallimento degli elettori, degli eletti e di un progetto a quel punto nemmeno potabile. Punto.

Quello che penso su Rodotà l’avevo scritto in tempi non sospetti qui.